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Titolo originale: Placet is a Crazy Place

Traduzione di Gian Paolo Cossato e Sandro Sandrelli

Tratto da Le grandi storie della fantascienza 8

© 1946 Astounding Science Fiction

Persino quando ci siete abituati, la faccenda continua a deprimervi. Come quella mattina… sempre che possiate chiamarla mattina. In realtà era notte. Ma su Placet andiamo avanti col tempo terrestre, perché l’ora locale di Placet vi farebbe ammattire come qualunque altra cosa su quell’imbecille di pianeta. Voglio dire, qui avete un giorno di sei ore, poi una notte di due, e poi un giorno di quindici ore e una notte di un’ora e… be’ com’è possibile batter giusto il tempo d’un pianeta che descrive un’orbita a otto intorno a due soli dissimili, passandogli intorno e in mezzo come un pipistrello sbucato dall’inferno, mentre i soli girano l’uno intorno all’altro così in fretta e così vicini che gli astronomi della Terra avevano sempre creduto che fosse un unico sole fino al giorno in cui vent’anni fa atterrò qui la spedizione Blakeslee?

Capite, la rotazione di Placet non è neanche una frazione approssimata del periodo di rivoluzione e nel bel mezzo tra i due soli c’è un “campo di Blakeslee” — una porzione di spazio in cui i raggi luminosi rallentano fino a strisciare e rimangono indietro e… be’… Se non vi siete già letti i rapporti di Blakeslee su Placet, tenetevi forte mentre vi dico questo:

Placet è l’unico pianeta conosciuto in grado di eclissare se stesso due volte nello stesso tempo, precipitarsi su se stesso ogni quaranta ore e poi darsi la caccia fino a vedersi scomparire.

Non vi biasimo.

Non ci avevo creduto neppure io, e mi presi una fifa dannata la prima volta che mi trovai su Placet e vidi Placet precipitare dritto su di noi. Eppure avevo letto i rapporti di Blakeslee, e sapevo ciò che stava realmente accadendo, e perché. È un po’ come quei primi film, quando la macchina da presa veniva messa davanti a un treno e gli spettatori vedevano la locomotiva precipitarsi verso di loro e provavano l’irresistibile impulso a scappar via malgrado sapessero che la locomotiva, in realtà, non si trovava là.

Ma avevo cominciato a dire come, quel mattino, me ne stessi seduto alla mia scrivania, il cui ripiano era coperto d’erba. I miei piedi erano — o sembravano essere — appoggiati sopra una distesa d’acqua increspata. Ma non erano bagnati.

Sopra l’erba della mia scrivania c’era un vaso da fiori rosa, sul quale era piantata, col muso, una grossa lucertola saturniana. Si trattava in realtà — ma me lo diceva la ragione, non la vista — del mio calamaio e della mia penna. C’era anche un ricamo a punto croce, ottimamente eseguito, che diceva: «Dio Benedica la Nostra Casa». In realtà si trattava d’un messaggio del Centro Terrestre appena arrivato per telescrivente. Non sapevo cosa dicesse, perché ero arrivato in ufficio dopo che l’effetto C.B. era cominciato. In ogni caso, non credevo proprio che dicesse «Dio Benedica la Nostra Casa» soltanto perché così appariva. E poi, cosa cavolo m’importava di ciò che realmente diceva? Ero arrabbiato, stufo marcio fino al collo di tutto.

Vedete — forse sarà meglio che vi spieghi — l’effetto del Campo Blakeslee si manifesta quando Placet si trova giusto in posizione mediana tra Argyle I e Argyle II, i due soli intorno ai quali descrive i suoi otto. Esiste una spiegazione scientifica del fenomeno, che dovrebbe essere espressa in formule, non in parole, ma che in sostanza si riduce a questo: Argyle I è fatto di materia terrena e Argyle II è invece di materia controterrena, o materia negativa. A metà strada fra le due stelle, e per una considerevole estensione di spazio, esiste un campo all’interno del quale i raggi luminosi vengono rallentati, e di parecchio. Si riducono a muoversi all’incirca alla velocità del suono. Come risultato, se qualcosa si muove, dentro il campo, più veloce del suono — e Placet fa appunto così — potete ancora vederlo arrivare dopo che vi è già passato davanti.

L’immagine visiva di Placet impiega ventisei ore ad attraversare il campo. Per quell’ora, Placet ha compiuto il giro completo di uno dei soli e incontra la propria immagine sulla via del ritorno. Dentro il campo c’è, dunque, un’immagine che va e una che viene, e Placet eclissa se stesso due volte, occultando entrambi i soli nello stesso tempo. Un po’ più lontano, corre incontro a se stesso in arrivo dalla direzione opposta — e vi spaventa a morte se state guardando, anche se sapete che in realtà non sta accadendo niente di simile.

Lasciate che ve lo spieghi in questo modo, prima che vi vengano le vertigini. Immaginiamoci una di quelle vecchie locomotive che vi sta venendo incontro, soltanto che lo fa a una velocità assai maggiore di quella del suono. A un miglio di distanza, fischia. Vi sorpassa, e poi udite il fischio, proveniente da un punto un miglio più indietro, là dove la locomotiva non c’è più. È l’effetto sonoro di un oggetto che viaggia più veloce del suono, mentre ciò che ho descritto poco più sopra è l’effetto ottico di un oggetto che viaggia — in un’orbita a forma di otto — più veloce della propria immagine visuale.

Ma questa non è la parte peggiore; potreste sempre starvene tappati in casa, evitando le eclissi e le collisioni frontali. Ma non potete evitare gli effetti psico-fisiologici del Campo Blakeslee.

E questi, gli effetti psico-fisiologici, sono un’altra cosa ancora. Il Campo agisce in qualche modo sui centri del nervo ottico, oppure su quella parte del cervello con cui i nervi ottici sono collegati, qualcosa di simile agli effetti di certe droghe. Si hanno… ma non si può definirle esattamente allucinazioni, poiché di solito non si vedono cose inesistenti, ma cose che senz’altro esistono, ma non si trovano là.

Sapevo benissimo d’essere seduto a una scrivania il cui ripiano era di vetro e non d’erba; il pavimento sotto i miei piedi era di comune plastica e non una superficie d’acqua increspata; gli oggetti sopra la scrivania non erano un vaso da fiori rosa con una lucertola saturniana piantata dentro, bensì un calamaio antico, del ventesimo secolo, e una penna — e quel ricamo «Dio Benedica la Nostra Casa» era in realtà un messaggio telescritto su un comune foglio di carta. Potevo controllare ognuna di queste cose col mio senso del tatto, sul quale il Campo Blakeslee non ha alcuna influenza.

Se chiudete gli occhi, naturalmente, ma non lo fate mai… poiché, anche al colmo dell’effetto, la vista continua a darvi le dimensioni e le distanze reciproche delle cose, e se rimanete in un ambiente familiare, la vostra memoria e la vostra ragione vi dicono ciò che esse sono in realtà.

Così, quando si aprì la porta ed entrò un mostro a due teste, seppi che era Reagan. Reagan non è un mostro a due teste, ma riconobbi il tipico rumore dei suoi passi.

— Sì, Reagan? — chiesi.

Il mostro a due teste disse: — Capo, l’officina traballa. Dovremo violare la regola di non lavorare mentre siamo dentro il Campo.

— Gli uccelli? — chiesi.

Tutte e due le teste annuirono. — Le fondamenta devono esser ridotte un colabrodo, con tutti gli uccelli che ci volano attraverso, e sarà meglio versarci subito del cemento. Le sbarre di rinforzo di quella nuova lega che l’Ark ci sta portando riusciranno a fermarli?

— Sicuro, — mentii. Scordandomi del campo, mi voltai a guardare l’orologio, ma c’era una corona da morto di lillà bianchi sulla parete, dove avrebbe dovuto esserci il quadrante. Aggiunsi: — Speravo che non saremmo stati costretti a rinforzare quelle pareti fino a quando non avessimo avuto le sbarre da affondarci dentro. L’Ark dovrebbe arrivare da un momento all’altro… anzi, è probabile che stia galleggiando là fuori nello spazio in attesa che usciamo dal campo. Pensi che possiamo aspettare fino a quando…

Si udì uno schianto.

— Sì, possiamo aspettare, — disse Reagan. — L’officina è partita, così, adesso, non c’è più fretta… Proprio non ce n’è più.

— Non c’era nessuno dentro?

— No, ma vado a controllare. — Si precipitò fuori della porta.

Questa è la vita su Placet. Ne avevo abbastanza; ne avevo le scatole piene. Presi la decisione mentre Reagan era fuori.

Quando rientrò era uno scheletro articolato d’un vivace azzurro.

Disse: — Tutto a posto, capo. Non c’era nessuno dentro.

— Qualcuna delle macchine… si è sfasciata?

Scoppiò a ridere. — Ce la fa a guardare un cavallo di gomma di quelli che usano sulle spiagge, a pois scarlatti, e a dirmi se è un tornio intero oppure a pezzi? Ehi, capo, lo sa che aspetto ha, adesso?

Sbottai: — Se me lo dici, sei licenziato.

Non so se stessi scherzando oppure no; avevo i nervi a fior di pelle. Aprii il cassetto della scrivania e ci ficcai dentro il ricamo del — Dio Benedica la Nostra Casa, — e tornai a chiuderlo sbattendolo. Ero stufo: Placet è una gabbia di matti, e se vi ci fermate a lungo, finite per ammattire anche voi. In media, uno ogni dieci impiegati del Centro Terrestre su Placet deve tornarsene a casa per cure psichiatriche dopo essere rimasto un anno o due su questo maledetto pianeta. Ed io ci sono da quasi tre anni. Il mio contratto era scaduto, e ormai ero deciso.

— Reagan, — dissi.

Si era diretto verso la porta. Si voltò. — Sì, capo?

Gli ordinai: — Voglio che tu spedisca un messaggio con la telescrivente al Centro Terrestre. Niente di complicato, due sole parole: Vi lascio.

Annuì: — Va bene, capo. — Uscì e chiuse la porta.

Mi afflosciai sulla poltroncina e chiusi gli occhi per pensare. L’avevo fatto. A meno che non fossi corso dietro a Reagan, ordinandogli di non spedire il messaggio, era fatta, finita e irrevocabile. In quelle cose, il Centro Terrestre è strano: per quasi tutto è di manica molto larga, ma una volta che avete dato le dimissioni, il comitato non vi lascia più cambiare idea. È una regola ferrea, e novantanove volte su cento è giustificata, quando si tratta di progetti interplanetari o intragalattici. Un uomo dev’essere entusiasta al cento per cento del suo lavoro, per poterlo fare, ma quando il lavoro gli esce dagli occhi, non ha più mordente o peggio ancora.

Sapevo che Placet stava ormai per uscire dal Campo Blakeslee, ma preferii restarmene lì con gli occhi chiusi. Non volevo aprirli e guardare l’orologio fino a quando non avessi potuto vedere l’orologio come un orologio, e non come un’altra cosa qualunque, ripugnante o anche soltanto strana. Per cui, me ne restai seduto a pensare.

Mi sentivo un po’ ferito dall’indifferenza con cui Reagan aveva accolto il mio messaggio; era stato mio buon amico per dieci anni; avrebbe potuto almeno dire che gli dispiaceva che me ne andassi. Certo, c’era una buona possibilità che lui ne ottenesse una promozione, ma anche se aveva questo, in testa, avrebbe potuto mostrarsi un po’ più diplomatico. O almeno provarci…

Oh, smettila di sentirti dispiaciuto per te stesso, mi rimproverai. Ormai l’hai fatta finita con Placet e col Centro Terrestre, e adesso tornerai presto sulla Terra, non appena ti daranno il cambio, là avrai un altro lavoro, e forse potrai rimetterti a insegnare.

Ma ugualmente, dannazione a Reagan. Era stato mio allievo al Politecnico di Terra City, e gli avevo fatto avere quel posto su Placet, un buon posto per la sua età, primo assistente dell’amministratore di un pianeta con una popolazione di quasi mille persone. Ma del resto, questo mio lavoro era anch’esso buono per uno della mia età — anch’io ne ho soltanto trentuno. Un lavoro eccellente, solo che non si poteva continuare a innalzare edifici che sarebbero subito crollati, e… Piantala di denigrarti, m’intimai. Adesso ne sei fuori. Torna sulla Terra e ricomincia a insegnare. Dimenticatene.

Ero stanco. Appoggiai la testa sulle braccia adagiate sul piano della scrivania… e mi appisolai per un paio di minuti.

Alzai gli occhi a un rumore di passi, alla porta; non erano i passi di Reagan. Sì, la qualità delle illusioni stava senz’altro migliorando. Era — o sembrava essere — una splendida testarossa. Ma non poteva esserlo, naturalmente. C’è qualche donna, su Placet, per la maggior parte mogli di tecnici, ma…

Disse: — Non si ricorda di me, signor Rand? — Sì, era una donna; la sua era una voce di donna… una voce bellissima. E mi suonava anche familiare.

— Non sia sciocca, — replicai. — Come potrei riconoscerla proprio adesso, mentre siamo nel bel mezzo del… — D’un tratto, colsi con la coda dell’occhio l’orologio dietro le sue spalle, ed era un orologio e non una corona da morto o un nido di cuculo, e d’improvviso mi resi conto che ogni altra cosa nella stanza era ritornata normale. Ciò significava che eravamo usciti dal Campo ed io non vedevo più le cose…

Il mio sguardo tornò alla testarossa. Mi resi conto che era vera. E d’un tratto la riconobbi, anche se era cambiata… cambiata in abbondanza, s’intende. Tutti i cambiamenti erano in meglio, anche se Winifred Aksho era stata una ragazza già molto graziosa quando faceva parte della mia terza classe di botanica extraterrestre al Politecnico di Terra City, quattro… no, cinque anni prima.

Allora era stata graziosa; adesso era uno splendore. Era sbalorditiva. Come mai le telechiacchiere l’avevano trascurata? Ma l’avevano trascurata, poi? Cosa ci faceva, qui? Doveva essere appena scesa dall’Ark, ma… mi resi conto che la stavo ancora fissando a bocca aperta. Mi alzai così in fretta che quasi caddi lungo disteso sopra la scrivania.

— Certo che mi ricordo di lei, signorina Aksho, — tartagliai. — Non vuole sedersi? Com’è arrivata qui? Hanno per caso mitigato i regolamenti che proibiscono i visitatori?

Lei scosse la testa, sorridendo. — Non sono un visitatore, signor Rand. Il Centro ha diffuso un annuncio in cui cercava una segretaria-tecnica per lei, io ho risposto, e hanno scelto me per questo lavoro… se lei approverà, naturalmente. Vale a dire, sono in prova per un mese.

— Magnifico, — esclamai. Ma era troppo inadeguato. Cominciai a ricamarci su: — Splendido…