125722.fb2 Placet ? una gabbia di matti - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 3

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— Fagli pure vedere i sorci verdi, — replicai. — Però, aspetta un minuto. Faccio vedere a Winn dov’è il suo alloggio, poi vorrei parlarti un momento.

Condussi Winifred al miglior cubicolo da notte disponibile del gruppo intorno al quartier generale. Mi ringraziò di nuovo per averle promesso di cercare un lavoro per Will là sul pianeta, e tornai in ufficio col morale più sottoterra della tana d’un uccello scavatore.

— Sì, capo? — fece Reagan.

— A proposito di quel messaggio per la Terra, — gli dissi. — Voglio dire, quello che ho spedito stamattina. Non voglio che Winifred sappia niente.

Ridacchiò. — Vuol esser lei a dirglielo, eh? D’accordo. Terrò la bocca chiusa.

Commentai, con uno sforzo: — Forse sono stato sciocco a spedirlo.

— Uh? — esclamò. — Ma no. Io sono proprio contento che l’abbia spedito. Magnifica idea.

Uscì, ed io solo a prezzo d’un duro sforzo riuscii a non tirargli dietro qualcosa.

Il giorno seguente era un giovedì, sempre che il fatto abbia importanza. Lo ricordo perché fu il giorno in cui risolsi uno dei due maggiori problemi di Placet. Un momento piuttosto ironico per farlo, forse.

Stavo dettando degli appunti su certe colture indigene… Placet è importante per la Terra perché certe sue piante native, che non crescono in nessun altro luogo, producono sostanze assai importanti per la nostra farmacopea. I concetti continuavano a scivolarmi via dalla testa perché stavo osservando Winifred che prendeva appunti; aveva insistito per cominciare a lavorare già al suo secondo giorno su Placet.

E, d’un tratto, da un cielo sereno e una niente stracotta, ecco balzarmi fuori un’idea. Smisi di dettare e suonai per chiamare Reagan. Entrò.

— Reagan, — dissi, — ordina cinquemila fiale di quel condizionatore… il J-17. Digli che facciano una spedizione espresso.

— Capo, non ricorda? Abbiamo già provato quella roba. Pensavamo che potesse condizionarci a veder tutto normale anche dentro il Campo Blakeslee… ma non aveva nessun effetto sui nervi ottici. Continuavamo a vedere tutte quelle balordaggini. Va benissimo per condizionare la gente alle alte o alle basse temperature, oppure a…

— A periodi di sonno e di veglia più lunghi o più corti, — completai. — È di questo che sto parlando, Reagan. Senti, Placet, poiché ruota intorno a due soli, ha dei periodi irregolari di buio e di luce così brevi che noi non li abbiamo mai presi seriamente. Giusto?

— Certo. Ma…

— Ma dal momento che su Placet non esistono un giorno e una notte logici che noi possiamo usare, ci siamo resi schiavi di un sole così lontano che da qui non possiamo neppure vederlo. Noi usiamo un giorno di ventiquattro ore. Ma il periodo del Campo si manifesta regolarmente ogni venti ore. Possiamo usare il condizionatore per adattarci a un giorno di venti ore: otto ore di sonno e dodici svegli, con tutti pacificamente addormentati durante il periodo in cui i nostri occhi ci fanno tutti quegli scherzi. E in una stanza da letto buia così da non veder niente, neppure se ci si dovesse svegliare. Più giorni in un anno, e più brevi… e nessuno diventa più psicopatico. Dimmi cosa c’è di sbagliato in quest’idea.

Sgrana gli occhi, poi il suo sguardo diventa vacuo e si dà una gran botta in testa col palmo della mano.

— Troppo semplice, — dice, — ecco il guaio. Così maledettamente semplice che soltanto un genio poteva pensarci. Per due anni sono scivolato lentamente nella pazzia, e la risposta era così facile che nessuno riusciva a vederla. Spedirò subito l’ordine.

Fece per uscire, poi tornò a voltarsi: — E come facciamo a tener su gli edifici? Presto, finché ha ancora quelle sue facoltà divinatorie!

Scoppiai a ridere. — Perché non provi con quell’acciaio invisibile nelle casse vuote?

— Al diavolo, — esclamò, e sbatté la porta.

Il giorno dopo era mercoledì. Piantai il lavoro e accompagnai Winifred in una passeggiata turistica intorno a Placet. Un giro completo è una bella passeggiata d’un giorno intero. Ma con Winifred Aksho qualunque gita d’un giorno avrebbe significato uno splendido giorno per una gita. Salvo, naturalmente, il fatto che io sapevo che mi restava soltanto un giorno intero da passare con lei. Il mondo sarebbe finito venerdì.

Domani l’Ark avrebbe lasciato la Terra, con il carico di condizionatori che avrebbe risolto uno dei nostri più grossi problemi, e col tizio, chiunque fosse, che il Centro Terrestre avrebbe mandato a sostituirmi. Sarebbe giunta distorcendo lo spazio fino a un punto a distanza di sicurezza fuori dal sistema di Argyle I-II e da lì avrebbe compiuto l’ultimo balzo coi razzi. Venerdì sarebbe stata da noi, ed io sarei ripartito con essa. Ma mi sforzai di non pensarci.

Mi riuscì benissimo di dimenticarlo finché non fummo di ritorno al quartier generale e Reagan mi venne incontro con un sogghigno così largo che gli spaccava quel suo muso da vecchia ciabatta in due metà. Esclamò: — Capo, c’è riuscito!

— Magnifico, — risposi. — A far cosa?

— Mi ha dato la risposta su cosa usare per rinforzare le fondamenta. Ha risolto il problema.

— Sì? — dissi.

— Sì. Non è vero, Winn?

Winifred pareva perplessa quanto me. — Stava scherzando, — disse. — Ha detto di usare la roba delle casse vuote, no?

Reagan tornò a sogghignare: — Credeva di scherzare. Ma è proprio questo che useremo d’ora in poi. Niente. Senta, capo, è come la faccenda del condizionatore… cosi semplice che non ci avevamo mai pensato. Fino al momento in cui mi ha detto di usare quello che c’era nelle casse vuote, e io ci ho pensato su.

Restai lì a bocca aperta, a pensarci un attimo anch’io, e poi feci lo stesso gesto di Reagan, il giorno prima — mi diedi una pacca sulla fronte col palmo della mano.

Winifred era ancora perplessa.

— Le fondamenta vuote, — le dissi. — C’è una cosa attraverso la quale quei maledetti uccelli non volerebbero mai… è l’aria. Adesso, finalmente, potremo costruire degli edifici grandi quanto ci servono. Affonderemo nel terreno, come fondamenta, dei muri doppi, con un ampio spazio pieno d’aria in mezzo. Potremo…

M’interruppi; non era più il caso di adoperare il — noi. — L’avrebbero fatto loro, dopo che io fossi ripartito per la Terra alla ricerca d’un nuovo lavoro.

Passò giovedì e arrivò venerdì.

Avevo lavorato fino all’ultimo, perché era la cosa più semplice da fare. Con l’aiuto di Reagan e Winifred stavo completando gli elenchi dei materiali per i nostri nuovi progetti costruttivi. Per prima cosa, un edificio di tre piani con quaranta stanze come nuovo quartier generale.

Lavoravamo in fretta, poiché mancava poco al periodo del Campo, e non si possono fare lavori burocratici quando non si può né leggere, né scrivere, ma soltanto udire e toccare.

Ma la mia mente ormai era fissa sull’Ark. Presi su il telefono e chiamai la saletta della telescrivente per chiedere notizie.

— Ci hanno appena chiamato, — m’informò l’operatore. — Sono usciti dalla distorsione, ma non sono abbastanza vicini per atterrare prima del periodo del Campo. Atterreranno subito dopo.

— D’accordo, — risposi, abbandonando ogni speranza che potessero arrivare con un giorno di ritardo.

Mi alzai in piedi e mi avvicinai alla finestra. Ci stavamo proprio avvicinando al punto di mezzo tra le due stelle. Su nel cielo, verso nord, potevo vedere Placet che stava piombandoci addosso.

— Winn, — gridai. — Vieni qui.

Lei mi raggiunse alla finestra e restammo lì a guardare. L’avevo cinta con un braccio. Non ricordavo d’avercelo messo, ma non lo tolsi e lei non si scostò.

Dietro di noi Reagan si schiarì la gola. Disse: — Darò intanto questa parte della lista all’operatore. Potrà trasmetterla subito dopo il periodo del Campo. — Uscì e si chiuse la porta alle spalle.

Winifred parve accostarsi un po’ di più a me. Stavamo entrambi guardando Placet che si precipitava verso di noi. Winifred disse: — È bello, non è vero, Phil?

— Sì, — dissi. Mi voltai, dicendolo, e la guardai in viso. Poi — non avevo avuto intenzione di farlo — la baciai.

Tornai indietro e mi sedetti di nuovo alla scrivania. Winifred disse: — Phil, cosa c’è? Non avrai mica una moglie e sei figli nascosti da qualche parte, o qualcosa di simile, non è vero? Eri scapolo, quando mi son presa una cotta per te al Politecnico… ho aspettato cinque anni per superarla, ma non ci sono riuscita, e adesso che ho potuto finalmente procurarmi questo lavoro su Placet, così da esser… insomma, devo essere io a farti la dichiarazione?

Cacciai un gemito, evitando di guardarla. Esclamai: — Winn, sono pazzo di te. Ma… proprio prima che tu arrivassi, ho mandato un telex di due parole alla Terra. Diceva: “Vi lascio”. Perciò, appunto, devo lasciare Placet con questa nave-traghetto dell’Ark, e dubito che riuscirò mai a trovare un lavoro d’insegnante, adesso che mi sono messo contro il Centro Terrestre, e…

Lei disse: — Ma, Phil! — e fece un passo verso di me.

Qualcuno bussò alla porta. Era il modo di bussare di Reagan. Per una volta fui contento dell’interruzione. Gli gridai di entrare, e lui si affacciò: