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«Oh, diceva che non era dignitoso. E credo che avesse ragione, dato il tipo di ballo che facevo io.»
Era troppo per l’avvocato Schuster, che balzò in piedi e, ignorando completamente la corte, protestò: «Ma andiamo, Myra! Che bisogno c’era di…»
«Oh, smettila, Irv! Che importanza ha, ormai? Smettiamola di fare la commedia e siamo noi stessi! Non m’importa affatto che questa gente sappia che un tempo ballavo all’Asteroide, o che tu mi aiutasti a tagliare la corda quando la polizia fece irruzione nel locale.»
Irving si afflosciò, annaspando, mentre il pubblico scoppiava in una risata omerica che Suo Onore non fece nulla per arrestare. Quell’allentamento di tensione era proprio l’obiettivo che Hansteen perseguiva: quando la gente ride, non può avere paura. Poi Hansteen cominciò a riflettere più attentamente sul signor Harding, il cui interrogatorio logico e arguto aveva suscitato tanta allegria. Per essere un funzionario di banca, se la cavava molto bene. Sarebbe stato interessante vedere come se la sarebbe cavata sul banco dei testimoni, quando fosse venuto il suo turno.
Finalmente i picchi delle Montagne Inaccessibili si profilarono all’orizzonte, interrompendo la piatta uniformità del Mare della Sete.
Come al solito, non c’era modo di giudicare la distanza; potevano essere piccoli sassi a pochi metri… o non fare nemmeno parte della Luna, ma appartenere a un gigantesco mondo frastagliato, lontano milioni di chilometri. In realtà, distavano cinquanta chilometri; le slitte avrebbero coperto il percorso in mezz’ora.
Tom Lawson guardava le Montagne Inaccessibili con sollievo. Finalmente qualcosa su cui posare lo sguardo; sentiva che sarebbe impazzito, se avesse dovuto fissare quella distesa apparentemente infinita ancora per molto. Mise a fuoco il rivelatore puntandolo verso quelle cime e ottenne una reazione fortissima. Come si era aspettato, la parte di roccia già illuminata dal sole era quasi al punto di ebollizione; sebbene la giornata lunare fosse appena iniziata, le montagne scottavano già. Era molto più freddo quaggiù, a livello del «mare». La superficie di polvere avrebbe raggiunto la sua temperatura massima solo a mezzogiorno, ossia tra sette ore. Questa era una delle carte migliori che Tom avesse in mano: sebbene il giorno fosse già cominciato, gli restava ancora un buon margine per captare qualsiasi fonte di calore prima che la torrida temperatura diurna cancellasse tutto.
Venti minuti dopo, le montagne dominavano il cielo e le slitte dimezzavano la velocità.
«Non dobbiamo oltrepassare le tracce del Selene» spiegò Lawrence. «Se guardate proprio sotto quei due picchi a destra, vedrete una linea verticale scura. Ci siete?»
«Sì.»
«È la gola che conduce al Lago del Cratere. La chiazza di calore che avete rilevato 8 a tre chilometri a est di quel punto, e di qua non possiamo ancora vederla, perché resta al di sotto del nostro orizzonte. Da quale direzione preferite accostarla?»
Lawson rifletté. Bisognava accostarla da nord o da sud. Accostandola da ovest, quelle rocce ardenti avrebbero dominato il campo visivo; l’avvicinamento da est era ancor meno indicato, perché avrebbero avuto il sole nascente proprio di fronte.
«Portiamoci a nord» disse «e avvertitemi quando siamo a due chilometri dalla chiazza.»
Le slitte accelerarono di nuovo. Sebbene fosse ancora troppo presto, Tom cominciò a sondare col suo apparecchio la superficie del mare. L’intera missione era basata sul presupposto che gli strati superiori della polvere fossero normalmente a temperatura uniforme, e che ogni variazione termica fosse dovuta all’uomo. Se quell’ipotesi era sbagliata…
Era sbagliata. Tom era andato completamente fuori strada. Sullo schermo visivo, il Mare della Sete appariva come un’incessante successione di luce e di ombra, o meglio di punti caldi e freddi. Le differenze di temperatura erano appena di qualche frazione di grado, ma il quadro risultava spaventosamente confuso. Non era possibile localizzare una fonte di calore in quel labirinto termico.
Al colmo dell’avvilimento, Tom Lawson alzò gli occhi dallo schermo e fissò incredulo la polvere. A occhio nudo, si presentava perfettamente uniforme, del solito grigiore monotono. Ma vista ai raggi infrarossi, era variegata e striata come il mare durante una giornata nuvolosa sulla Terra, quando le acque sono coperte da continui giochi di luce e ombra.
Eppure, qui non c’erano nuvole; quelle lievi chiazze di calore e di freddo dovevano avere un’altra causa. Tom si sentiva troppo disorientato per cercare così su due piedi una spiegazione scientifica.
Un capriccio della natura aveva rovinato tutto il suo esperimento preparato con tanta cura. Era Sfortuna con la «esse» maiuscola, e Tom provò una profonda compassione per se stesso.
Parecchi minuti dopo, arrivò finalmente a sentire un po’ di compassione anche per la gente che si trovava a bordo del Selene!
«Dunque, voi» replicò il Comandante dell’Auriga con esagerata calma «vorreste atterrare sulle Montagne Inaccessibili. Un’idea molto interessante, non c’è che dire.»
Spenser capì che il capitano Anson non lo prendeva molto sul serio; forse pensava d’avere a che fare con un giornalista fanatico che non aveva nessuna idea dei problemi impliciti nel progetto. Dodici ore prima, Anson sarebbe stato nel giusto, quando il piano era ancora un sogno vago nel cervello di Spenser. Ma ora il giornalista aveva tutte le informazioni necessarie e sapeva esattamente che cosa doveva fare.
«Vi ho sentito dire, capitano, che sareste capace di atterrare con la vostra astronave entro un metro da un qualsiasi punto prestabilito. È vero?»
«Be’… se la calcolatrice mi dà una mano, credo di sì.»
«Benissimo. E allora guardate questa fotografia.»
«Cos’è… Glasgow vista in una piovosa sera di sabato?»
«È un ingrandimento mal riuscito, forse, ma ci dice tutto quello che vogliamo sapere. Rappresenta un punto che si trova sotto la cima occidentale. Tra qualche ora avremo una copia molto più chiara e una carta particolareggiata della zona. Quello che voglio mostrarvi è che qui c’è una cornice larga abbastanza per farci atterrare una dozzina di astronavi. Quindi l’atterraggio non sarà un problema, almeno dal punto di vista della manovra.»
«Non sarà un problema tecnico, d’accordo. Ma avete idea di quanto costerà?»
«Questi sono affari miei, capitano, o meglio della catena di giornali per cui lavoro. Noi pensiamo che ne valga la pena, se le mie previsioni sono esatte.»
Poteva essere un servizio sensazionale, addirittura senza precedenti: il primo salvataggio spaziale ripreso direttamente dalle telecamere. C’erano stati fin troppi incidenti e disastri, nello spazio, ma quello che era sempre mancato a tutti era l’elemento di dramma, di suspense. Le vittime erano morte all’istante, o si era saputo soltanto molto più tardi della tragica situazione in cui si erano trovate. Le più gravi catastrofi cosmiche erano state riportate in prima pagina con titoli cubitali, d’accordo, ma non avevano mai offerto materia per servizi «dal vivo», appassionanti e «umani» come quello che Spenser fiutava nel caso in questione.
«Non c’è solo il problema economico. Anche ammesso che i proprietari siano d’accordo, dovrete procurarvi il permesso del Controllo Traffico di Lato Terra.»
«Lo so… c’è già chi se ne sta occupando. Si può ottenere.»
«E il rischio? Le nostre polizze d’assicurazione non coprono le bravate di questo genere.»
Spenser si protese attraverso il tavolino e si preparò a dare una botta decisiva.
«Capitano, la «Interplanet News» è disposta a depositare una somma per il valore assicurato dell’astronave… Dalle mie informazioni, si tratta, e lo trovo un po’ esagerato, di sei milioni quattrocentoventicinquemila dollaristerline.»
Il capitano Anson batté la palpebre, e tutto il suo atteggiamento cambiò di punto in bianco. Poi, con aria pensosa, si versò un altro whisky.
«Non avrei mai immaginato di fare l’alpinista alla mia età» disse. «Ma se siete tanto pazzi da buttarci in grembo sei milioni di dollari… allora il mio cuore è sugli altipiani.»
Con grande sollievo del marito, la deposizione della signora Schuster era stata interrotta dall’arrivo della colazione. La grassona chiacchierava volentieri, ed era evidente che aveva accolto con gioia quell’occasione di sfogarsi un po’, dopo tanti anni di contegnoso riserbo. La carriera di danzatrice della signora Schuster non era stata certo quella di una stella di prima grandezza, quando il destino e la polizia di Chicago l’avevano troncata bruscamente, ma la donna aveva vissuto nell’ambiente artistico e aveva conosciuto molte celebrità dell’inizio del secolo. Alla maggior parte dei passeggeri più anziani, le reminiscenze della Schuster avevano riportato ricordi di gioventù, e l’eco di canzoni in voga verso il millenovecentonovanta. A un certo punto, senza alcuna obiezione da parte della corte, la signora aveva trascinato l’intera compagnia a cantare in coro un famoso successo: Spacesuit Blues. «Come animatrice dell’atmosfera» pensava il commodoro, «la signora Schuster vale tanto oro quanto pesa… e non è poco.»
Dopo colazione venne ripresa la lettura, e stavolta i fautori di L’arancia e la mela riuscirono a spuntarla. Poiché l’argomento era ambientato in Inghilterra, venne deciso all’unanimità che il lettore più adatto era il signor Barrett. Barrett protestò energicamente, ma alla fine dovette arrendersi.
«E va bene» si rassegnò, a malincuore. «Coraggio, allora. Capitolo primo. Drury Lane, milleseicentosessantacinque…»
L’autore non sprecava tempo in preamboli. Dopo tre pagine, Sir Isaac Newton stava già spiegando la legge di gravità alla signora Gwynn, la quale aveva già lasciato capire d’essere più che disposta a offrire qualcosa in cambio. Pat Harris immaginava già di che cosa potesse trattarsi, ma il dovere lo chiamava. Quella distrazione era per i passeggeri: l’equipaggio aveva da lavorare.
«C’è un armadietto di emergenza che non ho ancora aperto» disse Sue Wilkins, mentre la porta interna del compartimento stagno si chiudeva silenziosamente dietro di loro, tagliando fuori la voce e l’accento purissimo del signor Barrett. «Gallette e marmellata cominciano a scarseggiare, ma la carne compressa è sempre abbondante.»
«Lo credo» disse Pat. «Nessuno la può soffrire. Vediamo un po’ questi elenchi, allora.»
La hostess gli porse l’inventario, ora tutto coperto di segni a matita. «Cominciamo da questa scatola. Cosa c’è dentro?»
«Sapone e asciugamani di carta.»
«Roba che non si mangia; e in questa?»
«Dolci; li tenevo da parte per i festeggiamenti… quando ci troveranno.»
«Ottima idea, ma penso che si possa sacrificarne una parte stasera. Uno a testa, prima che vadano a letto. E in questa?»
«Mille sigarette.»
«Fa’ in modo che nessuno le veda. Preferirei che non me l’avessi detto.» Le sorrise e passò alla scatola seguente. I viveri non sarebbero stati il problema principale, ma bisognava tenere in ordine l’inventario. Pat conosceva bene la pignoleria dell’amministrazione; una volta che fossero stati tratti in salvo, qualche contabile umano o elettronico avrebbe presto o tardi preteso di sapere quale uso era stato fatto delle provviste di bordo.