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«Ah, vedo. Già, è un bel pasticcio. Ma come mai era uniforme quando avete scattato le foto?»
«Dipenderà dal sorgere del sole. Il mare si riscalda, e per qualche ragione non si riscalda in modo uniforme.»
«Bisognerebbe capire se c’è un senso coerente nella disposizione delle macchie. Ho notato che qua e là ci sono zone quasi completamente fredde. Una spiegazione logica deve esserci.»
Lawson fece forza a se stesso per seguire il ragionamento dell’altro. Era molto stanco, e quell’improvvisa complicazione l’aveva svuotato d’ogni energia. Da due giorni non aveva un attimo di respiro.
«Spiegazioni possono essercene mille» sospirò. «La polvere sembra uniforme, ma forse non è uniforme il suo grado di conduttività. E inoltre dev’essere più profonda in alcuni punti che in altri, il che probabilmente altera il flusso del calore.»
Lawrence continuava a fissare lo schermo, cercando di stabilire un nesso tra l’immagine e il paesaggio che lo circondava.
«Un momento» disse. «Forse ci siamo.» Parlò al pilota. «Quanto è profonda la polvere qua intorno?»
«Non sì sa con esattezza, ma comunque pochi centimetri, perché siamo vicini alla costa settentrionale. A volte le eliche si rompono contro la Ì scogliera.»
«Pochi centimetri? Ma allora dev’essere questa la ragione! Se a ‘‘ due dita sotto di noi c’è la roccia, è evidente ‘che le onde di calore possono fare le cose più strane. Scommetto quello che volete che appena saremo di nuovo al largo, la vostra immagine tornerà uniforme.»
«Forse avete ragione» disse Tom rincuorato. «Certo, se il Selene è affondato, dev’essere affondato in un’area dove la polvere era piuttosto profonda.»
«Naturale. Bene, partiamo subito. Direi di fare una puntata verso il canyon; secondo me quella gola continua anche in profondità, e in quel punto la polvere è certamente più fonda che dove siamo ora.»
Le slitte procedevano lentamente, per dar tempo a Lawson di analizzare l’immagine. Dopo circa due chilometri, Tom dovette ammettere che Lawrence aveva perfettamente ragione.
Il labirinto di macchie chiare e scure stava fondendosi in una uniformità quasi costante; quel grigiore stava a indicare che la polvere sotto di loro diventava sempre più profonda.
Tom avrebbe dovuto sentire un senso di conforto all’idea che la sua ingegnosa apparecchiatura era veramente efficace, ma il risultato fu tutto l’opposto. L’astronomo riusciva a pensare solo agli insondati abissi sui quali stava galleggiando, affidato al più instabile e al più traditore degli elementi. Sotto la slitta passavano forse in quello stesso istante voragini profonde fino al centro della Luna; da un momento all’altro potevano spalancarsi e inghiottirlo come avevano inghiottito il Selene.
Si sentiva come un funambulo che cammina su una corda sospesa nel vuoto, o come un individuo costretto a percorrere uno strettissimo sentiero tra le sabbie mobili. Tom non aveva mai saputo in vita sua che cosa fosse la fiducia, in se stessi o negli altri e aveva trovato sicurezza e stabilità solo per il tramite delle sue notevoli capacità tecniche, mai attraverso il contatto umano e personale. Ora la precarietà della sua situazione attuale ridestava tutti i suoi segreti timori, gli dava un bisogno disperato di aggrapparsi a qualcosa di solido.
Laggiù c’erano le montagne a soli tre chilometri di distanza, imponenti, eterne, saldamente ancorate al suolo. Con tutto il cuore, Tom si augurò che Lawrence desse ordine di lasciare quell’oceano infido e incorporeo per dirigersi verso la salvezza della terraferma. «Verso le montagne!» bisbigliava tra sé, senza accorgersene. «Verso quelle montagne!»
Non c’è segretezza in una tuta spaziale, specie quando il contatto radio è aperto. A cinquanta metri da lui, Lawrence senti quel bisbiglio e subito capì cosa significava.
Non si diventa ingegnere capo di mezzo mondo senza conoscere altrettanto bene gli uomini che le macchine. «Ho corso un rischio calcolato» pensò Lawrence, «e forse ho sbagliato. Ma non mi arrenderò senza lottare; forse posso ancora disinnescare questa bomba psicologica prima che scoppi.»
Tom Lawson non si accorse nemmeno che l’altra slitta accostava alla sua; era ormai completamente smarrito, in preda al proprio incubo. Ma all’improvviso si rese conto che qualcosa lo scuoteva con violenza, tanto da fargli battere la fronte contro l’orlo inferiore del casco. Per un attimo rimase accecato da lacrime di dolore. Poi si trovò a fissare con ira, ma anche con infinito sollievo, lo sguardo deciso e autoritario dell’ingegnere capo, e ad ascoltarne la voce che gli veniva rimandata dagli altoparlanti interni.
«Basta con queste sciocchezze» disse l’ingegnere capo. «E guai a voi se vi fate venire il mal di mare. Ogni volta che succede un incidente del genere ci costa cinquecento dollari per rimettere la tuta in ordine… e dopo non è più la stessa.»
«Ma non ho il mal di mare…» riuscì a mormorare Lawson. Poi si accorse che, in verità, le cose stavano molto peggio, e fu grato a Lawrence del tatto dimostrato.
Prima che potesse aggiungere altro, Lawrence riprese a parlare, sempre in tono fermo, ma più cordiale. «Tom, nessun altro può sentirci, stiamo comunicando sul circuito delle tute. Perciò statemi a sentire e non offendetevi per quello che dirò. So molte cose sul conto vostro, e so che la vita non è stata troppo generosa con voi. Ma avete un cervello, anzi un cervello di prim’ordine, e quindi non sprecatelo comportandovi come un bambino spaventato. Lo so, tutti siamo bambini spaventati in certi momenti, ma questo non è il momento adatto. Ventidue vite umane dipendono da voi. Tra cinque minuti, sapremo se possiamo salvarle o no, quindi tenete gli occhi su quello schermo e dimenticate tutto il resto. Vi porterò fuori di qua sano e salvo, su questo potete contarci.»
Lawrence dette un colpetto sulla tuta di Tom, affettuoso, stavolta, senza staccare gli occhi dalla faccia stravolta del giovane scienziato. Poi, con suo grande sollievo, vide che Lawson accennava a calmarsi.
Era una strana scena: le due slitte galleggiavano fianco a fianco sulle levigata distesa tra le Montagne Inaccessibili e il sole nascente. Sembravano velieri fermi su un mare troppo calmo, con i piloti immobili al loro posto, indifferenti, o ignari. Nessuno avrebbe potuto immaginare che in quella bonaccia, in quel grande silenzio, il destino di ventidue esseri umani era stato appeso al filo di uno scontro di due volontà, di due personalità, né, dal canto loro, Lawrence e Lawson avrebbero mai più parlato di quella crisi. Anzi, si stavano già occupando di tutt’altro: nello stesso istante, si erano accorti entrambi di una situazione quanto mai comica.
Lo schermo, infatti, mentre loro due dibattevano le loro questioni personali, aveva continuato a inquadrare pazientemente l’immagine tanto cercata.
Quando Pat e Sue, terminato l’inventario, uscirono dalla cucina stagna, i passeggeri erano ancora immersi in piena Restaurazione inglese. La breve conferenza di fisica di Sir Isaac Newton era stata seguita «secondo il previsto» da una lezione molto più lunga di Nell Gwynn sull’anatomia umana. Gli ascoltatori si divertivano un mondo, grazie anche all’accento purissimo ed enfatico del signor Barrett. Il signor Barrett era arrivato a un punto culminante.
««Avete dedicato la vostra vita alle cose della mente», disse arrossendo Nell Gwynn. «Ma avete dimenticato, Sir Isaac, che anche il corpo ha le sue leggi». «Chiamami «Ike»», disse con voce roca il sapiente, mentre con dita maldestre cercava di slacciarle il vestito. «Non qui… nel palazzo!» protestò Nell, senza far nulla per tenerlo a bada. «Tra poco tornerà il Re…»»
«Se mai usciremo vivi di qui» pensò Pat «dobbiamo mandare una lettera di ringraziamento alla scrittrice diciassettenne che si dice abbia escogitato tutte queste idiozie. È riuscita a farci divertire, e al momento è quello che conta.»
Si sbagliava; c’era chi non si divertiva affatto. Pat si accorse, con un certo disagio, che la signorina Morley stava cercando di incontrare il suo sguardo. Ricordandosi dei suoi doveri di comandante, la guardò e le rivolse un sorriso rassicurante ma un po’ forzato.
Lei non lo ricambiò; ai contrario, la sua espressione divenne ancora più severa. Lentamente, malignamente, spostò lo sguardo da lui a Sue Wilkins, poi tornò a fissare lui. Poi disse, con voce scandita e furente. «So benissimo cosa stavate facendo, voi due, chiusi nella cucina.»
Pat si senti salire le fiamme al viso per l’indignazione, tanto più che sapeva d’essere accusato ingiustamente. Per un attinto rimase inchiodato sul sedile, poi mormorò quasi tra sé: «Brutta strega, ti faccio vedere io!»
Si alzò in piedi, rivolse alla signorina Morley un sorriso carico di veleno, poi disse, a voce abbastanza forte perché la donna lo sentisse: «Signorina Wilkins! Mi pare che abbiamo dimenticato qualcosa. Volete, tornare in cucina con me, per favore?»
Come il portello si richiuse alle loro spalle, interrompendo la narrazione di un episodio che gettava forti dubbi sulla paternità del Duca di St. Alban, Sue Wilkins guardò Pat con aria sorpresa e perplessa.
«Hai sentito?» fece lui.
«Sentito cosa?»
«La Morley…»
«Ah» lo interruppe Susan. «Ma lasciala dire, povera diavola. Non ti ha mai staccato gli occhi di dosso da quando siamo partiti. Lo so io cos’ha.»
«Cos’ha?»
«È afflitta dal complesso della zitella. È un male abbastanza comune, e i sintomi sono sempre gli stessi. C’è un modo solo di curarlo.»
Le vie dell’amore sono strane e tortuose. Solo dieci minuti prima, Pat e Sue erano usciti insieme dalla cucinetta con l’intesa di restare buoni amici e basta. Ma adesso l’improbabile combinazione della signorina Morley e di Nell Gwynn, il pensiero dell’ingiustizia patita, ma soprattutto, forse, la certezza istintiva, fisiologica, che l’amore è in definitiva l’unica difesa contro la morte, si erano uniti per sopraffarli. Per un attimo rimasero immobili nel piccolo spazio del compartimento stagno; poi, senza sapere chi dei due si fosse mosso per primo, si trovarono l’uno nelle braccia dell’altra.
Sue ebbe tempo di mormorare solo una frase prima che Pat la baciasse.
«Non qui» bisbigliò. «Nel palazzo!»
Lawrence fissava lo schermo e cercava di decifrare il significato dell’immagine. A duecento metri di distanza, secondo il rivelatore a infrarossi, la superficie polverosa e deserta mostrava una zona lievemente più calda. La zona era di forma pressoché circolare, e assolutamente isolata; non c’era nessun’altra fonte di calore in tutta l’area circostante. Sebbene fosse più piccola rispetto alla macchia che Lawson aveva fotografato dal Lagrange, la posizione corrispondeva. Non c’era dubbio, quindi, che si trattasse della stessa.
Ma non era per nulla dimostrato che avesse origine dal Selene. Potevano esserci tante spiegazioni diverse; forse la chiazza indicava la presenza di un picco isolato che saliva dalle profondità fino a sfiorare la superficie del mare. C’era un solo modo di scoprirlo.
«Restate qui» disse Lawrence. «Io vado avanti con la Slitta Uno. Avvertitemi quando saremo al centro esatto della chiazza.»
«Pensate che sia pericoloso?»
«Veramente non credo, ma è inutile correre dei rischi in quattro.»
Lentamente la slitta dell’ingegnere si portò verso l’enigmatica zona luminosa… così appariscente sullo schermo del rivelatore, eppure completamente invisibile a occhio nudo.
«Un po’ a sinistra» ordinò Tom. «Ancora qualche metro… quasi ci siete… Là!»