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A Lawrence quel fatto non piacque. Sulla Luna, s’imparava a diffidare di tutto ciò che si presentava misterioso e anormale; in genere voleva dire che qualcosa non andava… oppure che c’erano guai in vista.
«Meglio tenersi alla larga» avvertì. «Qui c’è qualcosa di strano, che non capisco.» Descrisse il fenomeno a Lawson che ci pensò su e rispose quasi subito: «Dite che sembra una fontana nella polvere? Ma lo è. Sappiamo già che lì sotto c’è una fonte di calore… si vede che è abbastanza forte da provocare una corrente di convezione.»
«Cosa può essere? Il Selene? Non credo.»
«Un momento… Un veicolo con ventidue passeggeri e parecchi macchinari… Be’, dovrebbe produrre una discreta quantità di calore. Tre o quattro kilowatts, come minimo. Se la polvere sta in equilibrio, potrebbero essere sufficienti a provocare una fontana.»
A Lawrence l’idea sembrava infondata, ma ormai era disposto ad aggrapparsi anche al filo più tenue. Prese la sottile sonda telescopica di metallo e la conficcò nella polvere. Dapprima lo strumento penetrò senza incontrare resistenza, ma via via che si allungava, l’operazione divenne sempre più ardua. Prima che la sonda fosse spiegata fino alla lunghezza massima di venti metri, si trovarono a doverla spingere con tutte le forze.
Infine l’estremità superiore sparì sotto la polvere; Lawrence non aveva incontrato nulla… ma non si aspettava certo di riuscire al primo tentativo. Avrebbe dovuto ripetere l’operazione scientificamente, seguendo uno schema ordinato.
A bordo della slitta percorsero la zona avanti e indietro, tracciando una rete di linee incrociate con strisce parallele di nastro bianco distanti cinque metri l’una dall’altra. Poi, come un antico piantatore di patate, Lawrence cominciò ad avanzare lungo la prima striscia, saggiando la polvere con la sonda. Era un lavoro lento, perché andava fatto scrupolosamente. Lawrence si sentiva come un cieco che scandagli le tenebre con una bacchetta sottile e flessibile. Se ciò che cercava si trovava oltre la portata della sua bacchetta, avrebbe dovuto studiare un altro sistema. Ma per adesso era inutile pensarci.
I sondaggi continuavano da una decina di minuti, quando avvenne un incidente. La resistenza della polvere costringeva Lawrence a far forza con le mani, specie quando la sonda giungeva al limite della sua estensione. Stava spingendo con ogni energia e si era sporto oltre il bordo della slitta: tutt’a un tratto perse l’equilibrio e finì lungo disteso nella polvere.
Appena uscì dal compartimento stagno, Pat si accorse che l’atmosfera era cambiata. La lettura di L’arancia e la mela era finita da qualche minuto, ed era in corso una discussione molto accesa. Le voci tacquero al suo apparire, e nel silenzio carico d’imbarazzo che seguì Pat fece correre lo sguardo lungo la cabina. Qualcuno dei passeggeri lo stava scrutando con la coda dell’occhio, altri fingevano di non badare a lui.
«Allora, commodoro» domandò Pat. «Che cosa succede?»
«Qualcuno afferma» spiegò il commodoro «che qui non si faccia tutto il possibile per uscire da questa situazione. Ho detto che non possiamo fare altro e che dobbiamo aspettare che ci trovino… ma non tutti sono d’accordo.»
Prima o poi doveva succedere, pensò Pat. Il tempo passava, non accadeva nulla e i nervi cominciavano a cedere. Nasceva la smania di agire, di fare qualcosa, qualunque cosa… La nostra natura non ci consente di restare a braccia conserte di fronte alla morte imminente.
«Abbiamo già detto e ridetto queste cose» replicò in tono stanco. «Siamo a dieci metri almeno di profondità, e anche se aprissimo il portello stagno nessuno potrebbe arrivare alla superficie vincendo la resistenza della polvere.»
«Ne siete proprio sicuro?» domandò qualcuno.
«Sicurissimo. Avete mai provato a nuotare attraverso la polvere? Non si fa molta strada.»
«E se tentassimo con i motori?»
«Non ci muoveremmo di un centimetro. E in ogni caso ci sposteremmo in avanti, non all’insù.»
«Potremmo radunarci tutti sul fondo; il peso a poppa farebbe sollevare la prua.»
«È la pressione contro lo scafo che mi preoccupa» spiegò Pat. «Ammettiamo che facessi girare al massimo i motori: sarebbe come picchiare contro una muraglia di mattoni. Lo sa il Cielo il danno che potrebbe derivarne allo scafo.»
«Ma può anche darsi che funzioni. Non vi pare che valga la pena di correre il rischio?»
Pat guardò il commodoro, un po’ seccato perché l’altro non si decideva a venirgli in aiuto. Hansteen lo fissò bene in faccia, come per dire: «Me la sono cavata fin qua… ora tocca a te». Be’, era giusto… specie alla luce di quello che gli aveva detto Sue. Era tempo di prendere posizione, o di dimostrare che era in grado di farlo.
«È un rischio troppo grande» dichiarò in tono perentorio. «Qui stiamo perfettamente al sicuro per almeno altri quattro giorni, e molto prima di quel termine ci avranno trovati. Quindi non c’è motivo di tentare un’operazione che ha una probabilità su un milione di riuscire. Se fosse la nostra ultima risorsa direi di sì… ma non lo è.»
Si guardò attorno, sfidando chiunque a contraddirlo: non poteva fare a meno di incontrare lo sguardo della signorina Morley, né tentò di evitarlo. Tuttavia, con sua grande sorpresa e imbarazzo, la sentì dichiarare: «Forse il capitano non ha troppa fretta di andarsene. Ho notato che ultimamente non l’abbiamo visto molto… e nemmeno la signorina Wilkins.»
«Brutta strega della malora» pensò Pat. «Solo perché non c’è mai stato un cane che…»
«Calma, Harris!» disse il commodoro, appena in tempo. «Questa me la sbrigo io.»
Era la prima volta che Hansteen faceva valere tutta la sua autorità; finora aveva sempre condotto le cose con calma e bonarietà, o si era tenuto nell’ombra lasciando che Pat desse lui le disposizioni. Ma ora la sua voce era quella del comando e squillò come una tromba su un campo di battaglia. Non era più un astronauta a riposo che parlava; era il commodoro dello Spazio.
«Signorina Morley» tuonò «questa osservazione è molto sciocca e assolutamente gratuita. Soltanto il fatto che ci troviamo tutti in preda a una grande tensione può almeno in parte giustificarla. Ritengo che dobbiate fare le vostre scuse al capitano…»
«Quello che ho detto è la pura verità» replicò ostinata la donna. «Che provi a negarlo, se osa.»
In trent’anni di servizio, il commodoro Hansteen non aveva mai perso il controllo di sé e non aveva nessuna intenzione di perderlo adesso. Ma sapeva come fingere d’averlo perso, e in questo caso la simulazione non gli sarebbe costata una gran fatica. Non solo era irritato con la Morley, ma anche con Pat. Certo, l’accusa della Morley poteva essere completamente infondata, ma non si poteva negare che Pat e Sue fossero rimasti per un bel pezzo chiusi in quel maledetto compartimento. Ci sono occasioni in cui sembrare innocenti è più importante che esserlo davvero; Hansteen ricordò un antico proverbio cinese: «Non chinarti ad allacciarti le scarpe nel campo di meloni del tuo vicino».
«Non me ne importa un corno» disse in tono sferzante «dei rapporti, ammesso che ce ne siano, tra la signorina Wilkins e il capitano… ammettiamolo pure! Sono affari loro, e finché continuano a fare il loro dovere noi non abbiamo nessun diritto di immischiarcene. Volete forse insinuare che il capitano Harris non fa il suo dovere?»
«Be’… non ho detto questo.»
«E allora non dite niente, che sarà meglio. Nella nostra situazione, non abbiamo davvero bisogno di crearci ulteriori problemi.»
Gli altri passeggeri avevano ascoltato con un misto di imbarazzo e di divertimento, come capita spesso a chi è semplice spettatore di un litigio. Eppure, in realtà, quello scontro riguardava tutti i passeggeri del Selene, perché era la prima sfida contro l’autorità costituita, il primo segno che la disciplina scricchiolava. Fino a quel momento, il gruppo era stato compatto e concorde; ma ora si era levata una voce contro gli Anziani della Tribù.
La signorina Morley era forse una zitellona nevrastenica, ma era anche una donna decisa e battagliera. Il commodoro capì, con comprensibile allarme, che l’altra si preparava a rispondergli.
Nessuno seppe mai che cosa la Morley avesse intenzione di ribattere; in quel preciso istante, la signora Schuster mandò un grido perfettamente proporzionato alle sue generose dimensioni.
Quando un uomo cade sulla Luna, di solito ha il tempo di aiutarsi in qualche modo, perché ha i nervi e i muscoli fatti per lottare contro una gravità sei volte maggiore. Ma quando l’ingegnere capo Lawrence precipitò dalla slitta, la distanza era così breve che il poveretto non ebbe tempo di reagire. Un attimo dopo toccava la polvere… e sprofondava nell’oscurità.
Non si vedeva nulla; salvo il lieve chiarore dei quadranti luminosi sistemati all’interno della tuta. Con estrema cautela, cominciò a brancolare nella sostanza semifluida e semiresistente in cui era piombato, cercando un appiglio al quale aggrapparsi. Non c’era nulla; Lawrence non sapeva più da che parte fosse la superficie.
Quasi subito la disperazione si impadronì di lui, annebbiandogli la mente e svuotandolo di tutte le sue forze. Il cuore gli martellava a colpi disordinati, annunciando il panico totale e la perdita di ogni capacità di ragionare. Aveva visto altri uomini trasformarsi in animali capaci solo di dibattersi urlando e sapeva che stava per diventare come loro. Riusciva ancora a ricordare che solo pochi minuti prima aveva salvato Lawson da una sorte analoga, ma non era certo in grado di apprezzare l’ironia della cosa. Doveva concentrare le poche forze che gli restavano per riprendere il dominio di sé e calmare i battiti frenetici del suo cuore. Poi, alto e chiaro, dagli altoparlanti del suo casco venne un suono così inaspettato che l’ondata di panico si smorzò di colpo. Era Tom Lawson che rideva a crepapelle.
La risata fu breve e seguita immediatamente da qualche parola di scusa. «Perdonate, ingegnere… non ho saputo trattenermi. Siete così buffo! Non fate altro che agitare le gambe in aria.»
In Lawrence la collera sostituì di colpo il panico. Ce l’aveva con Lawson, ma soprattutto ce l’aveva con se stesso.
Chissà perché si era agitato tanto: non correva proprio nessun pericolo. Dentro la tuta gonfia d’aria, era come un pallone galleggiante sull’acqua. Impossibile che affondasse. Ora che aveva capito com’era andata, era in grado di cavarsela da sé. Scalciò con decisione, remigò con le mani, roteò attorno al proprio centro di gravità, e subito il suo campo visivo tornò sgombro, mentre la polvere pioveva via dal casco. Era sprofondato di dieci centimetri al massimo, e la slitta era sempre lì a portata di mano.
Chiamando a raccolta tutta la sua dignità, Lawrence si aggrappò all’imbarcazione e si issò a bordo. Non si fidava di parlare, perché ansava ancora dopo tutti quegli sforzi inutili, e la voce poteva tradire lo spavento preso.
Tornato al suo posto, ricominciò a usare la sonda, e intanto la collera e i residui di terrore lasciavano lentamente il posto a una serie di riflessioni. Lawrence si rendeva conto che. gli piacesse o no, gli eventi dell’ultima mezz’ora l’avevano legato a Tom Lawson con vincoli d’amicizia. D’accordo, l’astronomo aveva riso vedendolo brancolare nella polvere, ma certo lui doveva aver offerto uno spettacolo buffo. E Lawson gli aveva fatto le sue scuse per quell’accesso di ilarità. Soltanto qualche ora prima, risata e scuse sarebbero state addirittura inconcepibili.
Poi Lawrence si dimenticò di tutto e di tutti. La sonda aveva urtato contro un ostacolo, a quindici metri di profondità.
Quando la signora Schuster gridò, la prima reazione del commodoro Hansteen fu: «Misericordia, ha un attacco isterico!». Mezzo secondo dopo, doveva fare appello a tutte le sue forze per non unire le sue grida a quelle della donna.
Dall’esterno dello scafo, dove da tre giorni non c’era stato altro suono che il fruscio lievissimo della polvere, era finalmente arrivato un rumore. Era inconfondibile, come natura e come significato. Qualcosa di metallico aveva urtato contro lo scafo.
«Ci hanno trovati» disse «ma forse non lo sanno ancora. Se ci mettiamo al lavoro tutti insieme, forse avranno maggiori probabilità di individuarci. Pat… voi alla radio. Il resto di noi batterà contro lo scafo usando il vecchio alfabeto Morse. Tre colpi brevi, uno lungo, e uno breve: ti ti ti ta ti, che significa: «Ho capito»… Forza, tutti insieme!»
Il Selene cominciò a echeggiare di una serie confusa di punti e di linee, che lentamente si fusero in un solo ritmo ordinato.
«Alt!» ordinò il commodoro dopo un minuto. «Ascoltiamo tutti attentamente!»