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«Restate dove siete» disse Graham. «Vi raggiungo subito.»
«Ma io ho fame!» protestò Tom.
«Ordinate pure la colazione, e fatecela mettere in conto, naturalmente. Ma non lasciate la camera per nessun motivo.»
Con grande disappunto di Tom, Mike Graham arrivò prima della colazione.
Era un astronomo molto affermato quello che fissava la telecamera in miniatura di Mike e si sforzava di spiegare, a beneficio di almeno duecento milioni di spettatori, com’era avvenuto esattamente il ritrovamento del Selene.
Comunque Tom se la cavò benissimo. Qualche giorno prima, se qualcuno lo avesse trascinato dinanzi a una telecamera per fargli spiegare la tecnica della ricerca con i raggi infrarossi, si sarebbe lasciato ottenebrare dalle cognizioni scientifiche e avrebbe tenuto una noiosissima conferenza a base di dati tecnici.
Ora, invece, ignorando le proteste del suo stomaco, si sforzò di rispondere con precisione e pazienza alle domande di Mike Graham, usando un linguaggio alla portata di tutti. Per la vasta comunità astronomica, che Tom in varie occasioni aveva trattato dall’alto in basso, fu una vera rivelazione. Su Lagrange II, il professor Kotelnikov riassunse il parere di tutti i colleghi quando, al termine della trasmissione, fece su Tom Lawson un apprezzamento veramente lusinghiero. «Francamente» dichiarò il professore, in tono quasi incredulo «mi pareva quasi di non riconoscerlo. Non è più lui!»
Era stata un’impresa far entrare sette uomini nel compartimento stagno del Selene, ma come Pat aveva già dimostrato, quello era l’unico posto dove si poteva parlare in privato. Gli altri passeggeri si domandavano certamente che cosa stesse accadendo: tra poco lo avrebbero saputo.
Quando Hansteen ebbe finito, cinque passeggeri si guardarono con espressione preoccupata, ma non eccessivamente sorpresa; erano persone intelligenti, e da tempo avevano sospettato la verità.
«L’ho detto prima a voi» concluse il commodoro «perché il capitano e io vi riteniamo all’altezza della situazione e abbastanza decisi da venirci in aiuto, se ce ne sarà bisogno. Spero di no, ma potrebbero nascere guai quando avvertirò gli altri.»
«E se nascessero?» domandò Harris.
«Se qualcuno fa storie, saltargli addosso subito» rispose, sbrigativo, il commodoro. «Ma uscite di qua con aria disinvolta, come se tutto andasse bene. Il vostro compito è di soffocare il panico prima che dilaghi.»
«Vi sembra giusto» obiettò McKenzie «non lasciar trasmettere un ultimo messaggio?»
«Si perderebbe tempo. Più presto facciamo, tanto di guadagnato per tutti.»
«Pensate davvero che ci sia ancora speranza?» domandò Barrett.
«Sì» rispose il commodoro «ma non chiedetemi quanta. Nessun altro ha domande da fare? Bryan? Johanson? D’accordo. Usciamo, allora.»
Mentre tornavano nel salone principale e riprendevano i loro posti, gli altri li guardarono con curiosità e preoccupazione. Hansteen non li lasciò aspettare molto.
«Ho notizie molto gravi» disse. «Tutti avrete notato una certa difficoltà a respirare, e molti avvertono già male di testa. Dipende dall’aria. Ossigeno ne abbiamo a sufficienza, ma l’anidride carbonica che esaliamo si sta accumulando all’interno della cabina. Il perché non lo so, ma penso che si siano guastati gli assorbenti chimici. D’altra parte, non è la spiegazione che conta, tanto non possiamo far nulla ugualmente.» Dovette respirare a lungo prima di continuare. «Bisogna affrontare la situazione. Non voglio ingannarvi. Le squadre di salvataggio potranno raggiungerci solo tra sei ore, e noi non possiamo aspettare così a lungo.»
Nel silenzio che seguì, si udì il russare sostenuto della signora Schuster. In altri momenti avrebbe suscitato ilarità, ma ora no. La signora era tra i pochi fortunati: dormiva beatamente, all’oscuro del pericolo.
Il commodoro si riempì i polmoni; era faticoso parlare per molto tempo.
«Se non ci fosse stato modo di correre ai ripari, non vi avrei detto niente. Ma il modo c’è. Non sarà piacevole, ma l’alternativa è ancora peggio. Signorina Wilkins, per favore, datemi le fiale del sonnifero.»
In un silenzio tragico, la hostess porse al commodoro una scatoletta di metallo. Hansteen l’aprì e ne estrasse un cilindro bianco delle dimensioni di una sigaretta.
«Probabilmente sapete che tutti i veicoli spaziali hanno l’obbligo di tenere queste siringhe fra i medicinali di bordo. Si tratta di iniezioni assolutamente indolori che vi faranno restare privi di sensi per dieci ore. Da queste fiale può dipendere la vita o la morte di tutti, perché la respirazione di un uomo diminuisce del cinquanta per cento quando l’individuo è in stato d’incoscienza. Così, l’aria durerà il doppio e forse durerà quanto basta perché quelli di Porto Roris ci raggiungano. Naturalmente almeno una persona deve restare sveglia per mantenere il contatto con le squadre di soccorso. Per maggior sicurezza, ne lasceremo sveglie due. Una sarà il capitano, e credo che su questo nessuno farà obiezioni…»
«E, naturalmente, l’altro sarete voi, vero?» domandò una voce anche troppo conosciuta.
«Mi dispiace deludervi, signorina Morley» disse il commodoro, senza il minimo risentimento, anche perché era inutile, ormai, discutere su una questione già regolata in precedenza. «E tanto per togliervi il minimo dubbio…»
Prima che gli altri potessero rendersene conto, Hansteen si era iniettato il liquido nell’avambraccio.
«Spero di rivedervi tutti… tra dieci ore» disse, lentamente ma distintamente, avviandosi verso il sedile più vicino. L’aveva appena raggiunto, quando cadde nell’incoscienza completa.
«Adesso devi sbrigartela da solo» si disse Pat. Per un attimo ebbe la tentazione di rivolgere due parole pepate alla Morley; ma si rese conto che così facendo avrebbe sciupato la risposta dignitosa del commodoro.
«Sono il capitano di questo battello» dichiarò, con voce ferma e pacata. «D’ora in poi, tutti faranno quello che dirò io.»
«Io no» ribatté l’indomita signorina Morley. «Sono una passeggera che ha pagato il biglietto e ho i miei diritti. Non ho la minima intenzione di usare una di quelle fiale.»
Pat guardò i suoi aiutanti. Il più vicino alla signorina Morley era l’ingegnere giamaicano Robert Bryan. Sembrava pronto a scattare, ma Pat sperava ancora di poter evitare i mezzi drastici.
«Non discuto sul diritti, ma se volete controllare quei che c’è stampato sul vostro biglietto, scoprirete che in caso di emergenza mi viene devoluta la massima autorità. In ogni modo, il provvedimento viene preso per il vostro bene. Anch’io preferirei aspettare dormendo l’arrivo della squadra di soccorso, anziché sveglio.»
«Io sono dello stesso parere» dichiarò il professor Jayawardene. «Come il commodoro ha spiegato, l’aria. resterà più pura, quindi è l’unica speranza di salvezza che abbiamo. Signorina Wilkins, volete darmi una di quelle siringhe?»
La calma logica dei suo contegno servì ottimamente a placare il nervo sismo generale e anche la vista del professore che si addormentava placido nel giro di pochi secondi contribuì ad allentare la tensione. «Ne restano diciotto» pensò Pat.
«Non perdiamo tempo» disse a voce alta. «Come vedete, le iniezioni sono assolutamente indolori. C’è un’ipodermica a microgetto all’interno di quel piccolo cilindro. Non sentirete nemmeno una puntura di spillo.»
Sue stava già distribuendo i tubetti, e parecchi passeggeri li usarono immediatamente. Ora dormivano gli Schuster. L’avvocato, con tenera sollecitudine, aveva praticato, l’iniezione nel braccio della moglie già assopita. B dormiva anche l’enigmatico signor Radley. Ne restavano quindici. Chi sarebbe stato il prossimo?
Sue era accanto alla signorina Morley. «Stavolta basta» pensò Pat. «Se quella strega dice ancora una parola…»
«Credevo di avere spiegato una volta per tutte che non intendo usare quella roba, Portate via quel tubetto, per favore.»
Robert Bryan stava già per farsi avanti, ma furono l’accento oxfordiano e il tono ironico usato dal signor Barrett a risolvere la questione.
«Ciò che turba questa brava signorina, capitano» osservò Barrett «è il pensiero che possiate approfittare di lei durante il sonno.»
Per qualche istante, l’acida giornalista rimase senza parole per lo sdegno, mentre le sue guance diventavano cianotiche.
«Non ero mai stata insultata così in vita mia!» cominciò.
«Nemmeno «io», signorina» l’interruppe Pat, dandole il colpo di grazia. La donna guardò le facce che l’attorniavano: molte erano serie, ma altre avevano un’espressione divertita, perfino in un momento simile, e lei capì che le restava una sola via d’uscita.
Mentre la Morley si afflosciava sul sedile, Pat tirò un sospiro di sollievo. Ora le cose sarebbero andate molto meglio.
Erano due anni che Lawrence non metteva piede in un igloo, e da allora erano stati apportati molti miglioramenti. Un igloo era una specie di tenda pressurizzata, una vera casa spaziale.
Lawrence si chinò per passare attraverso il compartimento stagno, aspettò il segnale di pressione compensata, poi entrò nel grande locale emisferico.
Lawrence poteva vedere solo una parte dell’interno di quel mezzo pallone perché una delle novità era la suddivisione per mezzo di paratie mobili. In alto, sospese a sostegni elastici, c’erano le lampade e la griglia per il condizionamento dell’aria. Contro le pareti curve si vedevano delle scaffalature metalliche ribaltabili. Dall’altra parte della paratia più vicina arrivava una voce che leggeva un inventario. Un’altra voce rispondeva regolarmente: «Controllato».
Lawrence girò attorno alla parete e si trovò nella sezionedormitorio dell’igloo. Come gli scaffali, anche i letti erano ribaltabili. Due assistenti stavano effettuando gli ultimi controlli, dopo di che l’igloo sarebbe stato sgonfiato e spedito sul posto.
Lawrence aspettò che i due avessero finito, poi s’informò: «È questo il modello più grande che avete in magazzino?»