125787.fb2
«Quanto ci vuole?»
«Pochi minuti. Ma poi bisogna lasciar passare dodici ore per vedere se tiene. È il regolamento.»
Ci sono momenti in cui proprio colui che ha creato una regola si vede costretto a infrangerla.
«Non possiamo aspettare per la prova. Fate una riparazione rinforzata e controllate subito se perde ancora. Se la perdita eventuale rientra nei limiti di sicurezza, spedite immediatamente l’igloo sul posto. Vi autorizzo io.»
Il rischio era minimo, e poteva esserci bisogno di quella grande cupola al più presto possibile. In qualche modo, bisognava provvedere aria e riparo per i ventidue del Selene.
Dal comunicatore dietro l’orecchio sinistro di Lawrence arrivò un bipbip insistente. L’ingegnere premette il pulsante inserito nella cintura della sua tuta e stabili il contatto.
«Qui l’ingegnere capo.»
«Un messaggio urgente dal Selene, signore» annunciò una voce chiara. «Ci sono guai a bordo.»
Grazie al Cielo, tutti i passeggeri dormivano. Gli ultimi ribelli erano stati colti di sorpresa dai cinque aiutanti.
«E adesso non avete più bisogno di me» concluse Sue, con un sorriso coraggioso. «Arrivederci, Pat. Svegliami quando sarà il momento.»
«Certo» promise lui, sdraiandola gentilmente nello spazio tra due sedili. «O non ti sveglierò affatto» aggiunse, quando la vide con gli occhi chiusi.
Rimase chino sulla ragazza per alcuni secondi, prima di riuscire a dominare la propria emozione. Avrebbe voluto dirle tante cose, ma ormai l’occasione era sfumata, forse per sempre.
Si rialzò e guardò i cinque compagni ancora svegli. C’era ancora un problema da risolvere, e fu Barrett ad affrontarlo.
«E allora, capitano, non ci tenete in sospeso. Chi avete scelto per tenervi compagnia?»
Uno alla volta, Pat porse cinque tubetti.
«Grazie dell’aiuto che mi avete dato» disse. «Questo sistema vi sembrerà un po’ melodrammatico, ma è il più semplice: solo quattro di queste iniezioni faranno ‘effetto. Uno dei tubetti è vuoto.»
«Spero che non sia il mio» disse Barrett, praticandosi l’iniezione. Infatti si addormentò. Qualche secondo più tardi, Harding, Bryan e Johanson gli tenevano compagnia.
«Bene» commentò il dottor McKenzie. «A quanto pare è toccato a me. Sono lusingato della vostra scelta… o vi siete affidato alla sorte?»
«Prima di rispondere alla vostra domanda» replicò Pat «sarà meglio informare Porto Roris di quanto è successo.»
Andò fino alla radio e trasmise un breve resoconto della situazione. All’altra estremità ci fu qualche istante di silenzio; poi l’ingegnere capo Lawrence venne messo in contatto.
«Avete fatto benissimo» disse, quando Pat gli ebbe spiegato tutto con ricchezza di particolari. Anche nella migliore delle ipotesi, non potremo raggiungervi prima di cinque ore. Ce la farete a resistere?
«In due, sì» rispose Pat. «Possiamo usare a turno il respiratore della tuta spaziale. È dei passeggeri che mi preoccupo.»
«L’unica cosa da fare è controllare il loro respiro. Se vi sembrano in gravi difficoltà, date un po’ d’ossigeno. Dal canto nostro faremo tutto il possibile per arrivare presto. Avete altro da comunicare?»
Pat rifletté. «No» rispose poi. «Richiamerò ogni quarto d’ora. Chiudo.»
Si alzò, lentamente. La stanchezza e gli effetti dell’anidride carbonica cominciavano a farsi sentire. «Forza, dottore» disse a McKenzie «datemi una mano con quella tuta.»
«Oh, è vero. L’avevo completamente dimenticata!»
«E io temevo che gli altri passeggeri se ne ricordassero.»
Ci vollero cinque minuti esatti per staccare dalla tuta la provvista di ossigeno di 24 ore.
I due uomini ancora coscienti a bordo del Selene si guardarono al di sopra del grigio cilindro di metallo che conteneva un altro giorno di vita. Poi, contemporaneamente, esclamarono: «Prima voi!»
Avevano i polmoni indolenziti, ma risero ugualmente. Poi Pat rispose: «Non voglio discutere» e si portò la maschera al volto,
Un po’ di vento dopo una polverosa giornata d’estate, una folata d’aria di montagna venuta a spazzare l’atmosfera stagnante di una profonda vallata… Ecco cosa ricordò a Pat quella boccata d’ossigeno. Respirò quattro volte, profondamente, espirando ben bene per liberare i polmoni dall’anidride carbonica. Poi porse la maschera a McKenzie, come se fosse stata un calumet della pace.
Quei quattro profondi respiri erano stati sufficienti a rinvigorirlo e a spazzare via la nebbia che già offuscava il cervello. Forse quel sollievo era in parte dovuto a cause psicologiche, comunque si sentiva un uomo nuovo. Ora poteva affrontare con tranquillità le cinque ore di attesa.
Dieci minuti dopo, si concessero qualche altra boccata tonificante. I passeggeri respiravano tutti normalmente, in modo lento ma regolare. Pat richiamò la Base.
«Qui Selene. Parla il capitano Harris. Il dottor McKenzie e io siamo abbastanza in forma, e i passeggeri sembrano in condizioni soddisfacenti. Richiamerò tra un quarto d’ora. Lascio la ricevente sull’ascolto. Chiudo.»
«Capitano» disse pazientemente McKenzie «non avete risposto alla mia domanda.»
«Quale domanda? Ah, già… No, non mi sono affidato al caso. Il commodoro e io abbiamo pensato che voi foste il più adatto a restar sveglio. Siete uno scienziato, vi siete accorto del pericolo del surriscaldamento prima di chiunque altro e avete saputo tacere coi passeggeri.»
«Cercherò di mostrarmi all’altezza della fiducia. Certo adesso mi sento molto più in forma di prima. Dev’essere l’ossigeno. C’è un solo problema. Quante ore durerà?»
«Per noi due, dodici ore, cioè più che a sufficienza. Ma bisogna tener presente che una parte dovremo darla agli altri, se mostrano segni di malessere. Quindi temo che durerà molto meno.»
Sedettero entrambi a gambe incrociate sul pavimento, accanto al sedile del pilota, con la bombola dell’ossigeno in mezzo a loro. Ogni cinque minuti si accostavano alla maschera, ma solo per due respiri.
Lawrence si rendeva conto che non c’era più tempo per preoccuparsi degli igloo e delle altre comodità da offrire ai naufraghi. L’essenziale, adesso, era di far arrivare quei tubi dell’aria fino al battello. Tecnici e ingegneri avrebbero dovuto compiere miracoli. Se non ce la facevano in cinque o sei ore, tanto valeva piantar lì tutto e lasciare il Selene al suo destino.
Ma Lawrence non tentò nemmeno di fare premura ai suoi uomini; sapeva che non ce n’era bisogno. Si tenne fra le quinte, controllando l’arrivo di strumenti e attrezzature dai magazzini e il carico sulle slitte da polvere, e cercando di pensare a tutti i possibili contrattempi che potevano verificarsi. Di quali altri strumenti e attrezzi ci sarebbe stato bisogno? Ce n’erano a sufficienza? La piattaforma veniva caricata per ultima, in modo da poter essere scaricata per prima. Sarebbe stato prudente pompare ossigeno all’interno del Selene prima di collegare il tubo di scarico? Questi e altri cento particolari, alcuni importantissimi, altri di secondaria importanza, gli si affollavano nella mente. Diverse volte aveva chiamato Pat per chiedergli informazioni tecniche e consigli sui punti più adatti per trivellare il tetto. Ogni volta Pat aveva risposto con crescente lentezza e difficoltà.
Lawrence si era rifiutato di parlare con i giornalisti che ronzavano intorno a Porto Roris tenendo impegnate metà delle linee di comunicazione audio e video tra la Terra e la Luna. Aveva fatto solo una breve dichiarazione, spiegando come stavano le cose e ciò che intendeva fare. Il resto era compito dell’amministrazione. Dovevano pensarci loro a fare in modo che lui potesse svolgere il suo lavoro indisturbato; l’aveva detto chiaro e tondo al capo della Sezione Turistica e aveva tolto la comunicazione prima che Davis potesse replicare.
Non aveva tempo, naturalmente, nemmeno di dare un’occhiata al programma televisivo, sebbene avesse sentito dire che il dottor Lawson si stava facendo una reputazione di personaggio brillante. Tutto merito di quel tale delle Notizie Interplanetarie, che si era portato via l’astronomo, pensava Lawrence. Chissà, quel diavolo di giornalista, com’era ai sette cieli.
Ma quel diavolo di giornalista non era affatto ai sette cieli. Chiuso nell’astronave appollaiata sulle Montagne Inaccessibili, Maurice Spenser stava rischiando l’ulcera brillantemente evitata fino a quel momento. Aveva speso centomila dollari per portare l’Auriga lassù, e adesso tutto lasciava credere che non si sarebbe fatto proprio nessun servizio.
Se le slitte non arrivano in tempo, l’opera di salvataggio, che doveva incollare allo schermo miliardi di spettatori si sarebbe trasformata in una macabra esumazione che avrebbe interessato ben pochi.
Questo era il punto di vista di Spenser giornalista. Spenser uomo, poi, era altrettanto addolorato. Aveva quasi rimorso a respirare, sapendo che quei poveretti laggiù stavano soffocando.
Altre volte si era trovato presente a vere e proprie catastrofi; ma stavolta gli pareva d’essere una specie di avvoltoio.
Tutto era tranquillo, adesso, a bordo del Selene: c’era tanta pace che bisognava lottare per non cedere al sonno. «Sarebbe bello» pensava Pat «fare come gli altri, che sognano serenamente». Pat li invidiava. Poi respirava un po’ di ossigeno e subito tornava alla realtà e al pensiero del pericolo che li minacciava tutti.
Il tempo non passava mai. Incredibile che fossero trascorse solo quattro ore da quando lui e McKenzie avevano cominciato a far la guardia ai compagni addormentati. Avrebbe giurato d’essere lì da giorni e giorni, a parlare con McKenzie, a chiamare Porto Roris ogni quarto d’ora, a controllare il polso e la respirazione di venti persone in stato d’incoscienza e a somministrare ossigeno con estrema parsimonia.