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Polvere di Luna - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

Ora il Selene si stava insinuando nella loro ombra; prima che qualcuno si fosse reso conto di ciò che avveniva, la Terra, che splendeva bassa nel cielo, era scomparsa alla vista. La sua luce brillante scherzava ancora sulle sommità delle montagne, ma là sotto l’oscurità era totale.

«Spegnerò le luci della cabina» disse la hostess. «Così potrete vedere meglio.»

Quando la fioca illuminazione di luci rosse si spense, ogni passeggero si sentì completamente solo nella notte lunare. Perfino la luce della Terra riflessa sulle vette stava scomparendo, via via che l’imbarcazione si addentrava nell’ombra. Pochi minuti dopo, restavano solo le stelle: freddi, immobili punti di luce contro un’oscurità così completa che la mente quasi si ribellava. Era difficile riconoscere le costellazioni tra quella moltitudine di stelle. L’occhio si confondeva tra nuovi schemi mai visti dalla Terra, e si perdeva in una confusione scintillante di nebulose e di sciami ignoti. In quel risplendente panorama, spiccava soltanto una pietra miliare inconfondibile: il raggio abbagliante di Venere, che superava come splendore tutti gli altri corpi celesti, annunciando l’avvicinarsi dell’alba.

Passarono diversi minuti prima che i passeggeri si rendessero conto che non tutte le meraviglie stavano in cielo. Dietro la veloce imbarcazione si stendeva una lunga scia fosforescente, come se un dito magico avesse tracciato una striscia di luce attraverso la faccia buia e polverosa della Luna. Il Selene lasciava una coda di cometa dietro di sé, proprio come ogni nave che si apre la via attraverso gli oceani tropicali della Terra.

Tuttavia, qui non si trattava di microorganismi che accendessero il mare delle loro minuscole lampade. Si trattava solo di innumerevoli granelli di polvere, che scintillavano l’uno contro l’altro via via che le scariche provocate dal rapido passaggio del Selene si neutralizzavano. Pur conoscendone la spiegazione, lo spettacolo restava affascinante: il turista si voltava e vedeva nel buio quel luminoso nastro elettrico rinnovarsi continuamente, come se l’intera Via Lattea si riflettesse sulla superficie lunare.

La scia baluginante si perse nella luce improvvisa quando Pat accese uno dei grandi fari. Ora, minacciosamente vicina, si vedeva una grande parete di roccia scivolare via. In quel punto il fianco della montagna saliva quasi a picco dal mare di polvere, perdendosi ad altezze incalcolabili, poiché la parete rocciosa prendeva corpo solo nei punti illuminati un attimo dall’ovale del faro.

Quelle erano montagne al cui confronto le catene dell’Himalaya, delle Ande, delle Alpi facevano la figura di neonati. Sulla Terra, le forze dell’erosione avevano cominciato a logorare le montagne fin dal primo momento della loro formazione, così che, dopo alcuni milioni di anni, quelle cime solo erano un pallido ricordo di ciò che erano state all’origine. Ma la Luna non conosceva né vento né pioggia; non c’era nulla, lassù, che potesse consumare la roccia, salvo lo sfioccarsi infinitamente lento della finissima polvere quando gli strati superficiali si contraevano nel gelo notturno. Quelle montagne erano antiche come il mondo che le aveva generate.

Pat era molto orgoglioso della propria abilità di presentatore e aveva progettato il prossimo numero con molta cura. Sembrava pericoloso, mentre non lo era per nulla; il Selene aveva percorso quella rotta un centinaio di volte e la memoria elettronica del suo pilota automatico conosceva il percorso meglio di qualsiasi pilota umano. D’improvviso, Pat spense il faro, e i passeggeri, abbacinati fino a un momento prima dal chiarore che illuminava la roccia da un solo lato, si accorsero all’improvviso che le montagne si erano andate chiudendo intorno a loro anche dall’altro.

In un’oscurità quasi totale, il Selene stava correndo lungo uno strettissimo canyon, e la rotta non era nemmeno rettilinea: di tanto in tanto lo scafo faceva brusche virate per evitare un ostacolo invisibile. Molti di quegli ostacoli, in verità, non solo erano invisibili, ma addirittura inesistenti; Pat aveva tracciato quel à rotta metro per metro, a velocità ridotta e nella piena luce del giorno, studiandola in modo da creare la massima sensazione di suspense. Le esclamazioni che arrivavano dalla cabina buia alle sue spalle gli confermarono che il suo era stato un buon lavoro.

Su in alto, una stretta fascia di cielo stellato era tutto ciò che si poteva vedere del mondo esterno; la fascia descriveva curve pazzesche, da sinistra a destra e viceversa, ad ogni scarto del Selene. La Corsa Notturna, come Pat l’aveva battezzata segretamente, durava meno di cinque minuti, ma sembrava molto più lunga. Quando il pilota riaccese il faro, e il battello venne a trovarsi al centro di una grande chiazza luminosa, dai passeggeri si levò un sospiro generale di sollievo misto a disappunto. Ecco un’esperienza che nessuno di loro avrebbe dimenticato tanto presto.

Ora che la luce era tornata, i passeggeri scoprirono di essere sul fondo di una stretta valle, o gola, le cui pareti andavano lentamente scostandosi. E infine il canyon si allargò in una specie di anfiteatro ovale largo circa tre chilometri: il cuore di un vulcano estinto, apertosi milioni di anni prima, quando perfino la Luna era giovane.

Il cratere, rispetto alla media dei crateri lunari, poteva considerarsi piccolo, ma era unico nel suo genere. L’onnipresente polvere vi era confluita aprendosi pazientemente un varco attraverso la gola, e adesso i turisti potevano scorrazzare morbidamente molleggiati in quello che una volta era stato un calderone pieno di fuochi dell’inferno. Quei fuochi si erano estinti molto prima che la vita terrestre vedesse la sua alba, e non si sarebbero riaccesi mai più. Ma c’erano altre forze non ancora estinte che stavano solo aspettando il loro momento.

Senza fretta, Pat fece compiere due volte al battello il giro del lago, lasciando che le luci dei fari corressero su e giù lungo le pareti di roccia. Era il momento migliore per ammirarlo; di giorno, quando il sole lo incendiava di luce e di calore, il cratere perdeva molto del suo incanto. Di notte, invece, sembrava appartenere al regno della fantasia, pareva uscito dalla penna di Edgar Allan Poe. In ogni istante sembrava di scorgere strane forme in movimento proprio al margine del campo visivo, oltre la breve zona luminosa dei fari. Era solo uno scherzo dell’immaginazione, naturalmente; nulla si muoveva in quella terra, salvo le ombre del sole e della Terra. Non potevano esserci fantasmi in un mondo che non aveva mai conosciuto la vita.

Era tempo di tornare, di ripercorrere il canyon e riprendere il mare aperto. Pat diresse la prua del Selene verso la stretta gola tra le montagne, e le alte pareti di roccia si richiusero attorno allo scafo. I fari rimasero accesi, perché i passeggeri potessero osservare meglio il percorso; del resto, il trucco della Corsa Notturna perdeva d’effetto se ripetuto.

Molto più avanti, oltre la zona illuminata dal Selene, un altro chiarore andava affacciandosi e si diffondeva dolcemente sulle rocce e le fenditure. Perfino durante l’ultimo quarto, la Terra aveva lo splendore di una dozzina di lune piene, e adesso che il battello stava emergendo dall’ombra delle montagne, la vivida falce tornava a dominare il cielo. Ciascuno dei ventidue passeggeri del Selene aveva gli occhi rivolti all’astro verdeazzurro, ne ammirava la bellezza e si meravigliava di tanto fulgore.

Faceva un effetto strano pensare che fossero i campi e le foreste e i laghi della Terra a brillare di tanta gloria! Forse c’era una morale, in questo, forse nessuno sapeva apprezzare il proprio mondo finché non l’aveva visto dallo spazio.

Sulla Terra, intanto, molti occhi dovevano essere rivolti verso la Luna… ora più che mai, visto che la Luna era diventata così importante per l’umanità. Ed era possibile, per quanto poco probabile, che alcuni di quegli occhi stessero proprio fissando, attraverso potenti telescopi, il lieve barlume dei fari del Selene che correva nella notte lunare. Ma nessuno ci avrebbe fatto caso se quel barlume avesse tremolato e si fosse spento.

Per un milione di anni la bolla aveva continuato a crescere, come un gigantesco ascesso, proprio sotto la radice delle montagne. Attraverso tutta la storia dell’uomo, il gas racchiuso nel cuore non ancora completamente spento della Luna si era infiltrato nei punti più deboli della crosta lunare, accumulandosi in cavità che restavano a centinaia di metri sotto la superficie. Ora, l’ascesso era maturo e pronto per scoppiare.

Il capitano Harris aveva lasciato i comandi al pilota automatico e stava chiacchierando con i passeggeri della prima fila quando il primo tremito scosse l’imbarcazione. Per una frazione di secondo Pat Harris si domandò se uno dei ventilatori avesse urtato contro qualche ostacolo sommerso; poi, il suo mondo gli mancò letteralmente sotto i piedi.

Si spalancò lentamente, come va a rilento tutto ciò che accade sulla Luna. Davanti al Selene, in un cerchio che si estendeva per molte centinaia di metri, la liscia distesa si era contratta come un ombelico. Il Mare della Sete si era animato e si muoveva, sconvolto da forze destate da un sonno millenario. Il centro del movimento sismico era al fondo di una specie di imbuto, come se nella polvere si fosse formato un mulinello gigantesco. Ogni fase di quella agghiacciante metamorfosi fu spietatamente illuminata dal chiarore terrestre: in pochi istanti il cratere divenne così profondo che la parete opposta si perse nell’ombra, e sembrò a tutti che il Selene stesse precipitando in una sacca di assoluta oscurità, lungo un arco di annientamento.

La verità era quasi altrettanto tragica. Quando Pat raggiunse i comandi, il battello stava ormai precipitando giù per quella impossibile china, trascinato dal proprio slancio e spinto dal flusso della polvere che ricadeva verso il fondo del cratere. Pat non poté fare altro che tentare di mantenere lo scafo in equilibrio, e sperare che quella velocità li spingesse su per l’altro versante dell’imbuto prima che questo si richiudesse sopra di loro.

Forse i passeggeri urlarono atterriti, ma Pat non li udì. Era conscio unicamente di quello spaventoso precipitare e del proprio sforzo per impedire allo scafo di rovesciarsi.

Già il Selene cominciava a inerpicarsi su per l’altra parete, già il bordo del cratere pareva vicino, ma sotto lo scafo la sabbia cedeva, le eliche annaspavano come le zampe di un insetto. I motori spinti al massimo riuscivano a guadagnare un po’ di strada, ma non era sufficiente. La polvere scendeva sempre più rapida verso il fondo dell’imbuto e, quel che era peggio, cominciava a sommergere le paratie del battello. Ecco: aveva già raggiunto il bordo inferiore dei finestrini; ora stava salendo lungo le vetrate… le aveva coperte completamente. Harris spense i motori prima che andassero in pezzi, e subito la marea montante della polvere cancellò l’ultimo chiarore che ancora si intravedeva della falce di Terra. Nel buio e nel silenzio il Selene sprofondò nella Luna.

Nella Sala degli impianti elettronici per il Controllo del Traffico, dal Lato Terra una memoria elettronica si risvegliò inquieta. Le otto di sera, ora lunare, erano passate da un secondo, e uno schema di impulsi, che sarebbe dovuto arrivare automaticamente allo scoccare di ogni ora, non era comparso.

Con una rapidità inconcepibile per il pensiero umano, il piccolo insieme di cellule e di microscopici relais cercò istruzioni: «ASPETTARE CINQUE SECONDI» dissero gli ordini codificati «SE NON ACCADE NULLA, CHIUDERE IL CIRCUITO 10011001.»

La minutissima parte del sistema elettronico fin qui interessata al problema aspettò con pazienza che quell’enorme periodo di tempo trascorresse… una vera eternità, sufficiente per fare cento milioni di addizioni da venti cifre, o per stampare buona parte della Biblioteca del Congresso. Poi chiuse il circuito.

In alto, sopra la superficie della Luna, da un’antenna che era puntata direttamente verso la Terra, un impulso radio si lanciò nello spazio. In un sessantesimo di secondo aveva percorso i cinquantamila chilometri fino al satelliterelais noto sotto il nome di Lagrange II, direttamente in linea tra la Terra e la Luna. Un altro sessantesimo di secondo e l’impulso era di ritorno, sensibilmente amplificato, e investiva tutto il Lato Terra Nord della Luna, dal polo all’equatore.

In termini di linguaggio umano, portava un messaggio molto semplice: «PRONTO, SELENE, NON RICEVO IL VOSTRO SEGNALE. PREGO RISPONDERE SUBITO».

Il cervello elettronico aspettò per altri cinque secondi, poi trasmise una seconda volta. Per il mondo elettronico significava aspettare per un tempo interminabile, ma la macchina era infinitamente paziente. Dopo il terzo tentativo, la macchina consultò di nuovo le sue istruzioni. Ora dicevano: «CHIUDERE IL CIRCUITO 10101010». La calcolatrice obbedì. Nella sala di Controllo del Traffico, una luce verde si fece improvvisamente rossa, un ronzio cominciò a diffondere il suo grido d’allarme. Adesso anche gli uomini, oltre le macchine, venivano informati che qualcosa non andava, in qualche punto della Luna.

La notizia si sparse dapprima lentamente, perché l’amministratore capo Olsen non aveva nessuna simpatia per le esplosioni premature di panico. Lo stesso pensava Davis, il capo della Commissione per il Turismo, tanto più che spesso quegli allarmi si rivelavano infondati.

Trascorsero diversi minuti prima che Davis si rassegnasse ad ammettere che stavolta il guaio doveva essere serio. Altre volte il segnale automatico del Selene non era arrivato, ma Pat Harris aveva sempre risposto, appena sollecitato sulla sua normale lunghezza d’onda.

Stavolta, nessuna risposta, nemmeno a un estremo segnale trasmesso su una lunghezza d’onda riservata solo per i casi d’emergenza. Era stata quest’ultima notizia che aveva indotto Davis a precipitarsi fuori della sua Torre Turistica per infilare la sotterranea che emergeva a Clavius City.

All’ingresso del centro per il Controllo del Traffico, Davis incontrò Lawrence, l’ingegnere capo. Brutto segno, quello; significava che qualcun altro prevedeva necessarie le operazioni di salvataggio. I due uomini si guardarono, entrambi ossessionati dallo stesso pensiero.

«Spero che non abbiate bisogno di me» disse l’ingegnere. «Cos’è successo? Io so soltanto che un segnale d’emergenza è rimasto senza risposta. Di che astronave si tratta?»

«Non è un’astronave, è il Selene. Non risponde, ed è in crociera sul Mare della Sete.»

«Mio Dio… se il battello si è bloccato là in mezzo, possiamo raggiungerlo solo con le slitte da polvere. L’ho sempre detto che bisognava avere due battelli in funzione, prima di cominciare a portare a spasso i turisti.»

«Questo l’avevo detto anch’io… ma al ministero hanno messo il veto. Hanno risposto che non ce ne avrebbero concessa un’altra se prima il Selene non si dimostrava una iniziativa economicamente redditizia.»

«Purché non ci renda dei titoloni in prima pagina» osservò cupo Lawrence. «Sapete come la penso su questa faccenda dei turisti sulla Luna.»

Davis lo sapeva benissimo, era una loro vecchia divergenza di opinioni. Per la prima volta, si domandò se l’ingegnere non avesse ragione, tutto sommato.

Come sempre, tutto era molto tranquillo al Controllo del Traffico. Sulle grandi carte murali, le luci verde e ambra continuavano ad accendersi e spegnersi con regolarità, ma i loro rapporti avevano perso ogni importanza di fronte al segnale di quell’unica luce rossa. Davanti ai quadri di controllo dell’Aria, della Corrente e delle Radiazioni gli ufficiali di servizio sedevano come angeli custodi, vegliando sulla sicurezza di un intero quarto di mondo.

«Nessuna novità» riferì l’addetto al Traffico del suolo. «Sappiamo solo che si trovano in un punto non identificato del Mare della Sete.»

Tracciò un cerchio sulla carta.

«A meno che non siano andati completamente fuori rotta, dovrebbero trovarsi su per giù in questa zona. Alle diciannove si trovavano a un chilometro dalla loro rotta normale. Alle venti il segnale non è arrivato, perciò se è successo qualcosa non può essere accaduta che entro quei sessanta minuti.»

«Quanta strada fa il Selene in un’ora?»

«Ha una velocità massima di centoventi chilometri» rispose Davis. «Ma di solito va molto più adagio. È inutile andar forte quando si è in gita turistica.»

Davis fissava la carta, come se volesse cavarne informazioni con l’intensità del suo sguardo.

«Se sono sul Mare della Sete, non ci metteremo molto a trovarli. Avete mandato fuori le slitte?»

«No, signore, aspettavo l’autorizzazione.»

Davis guardò l’ingegnere capo, che sul lato della Luna rivolto verso la Terra aveva più autorità di qualsiasi altro, salvo l’amministratore capo Olsen. Lawrence assentì.

«Fateli uscire» disse «ma non illudetevi di avere notizie molto presto. Ci vuole tempo per perlustrare parecchie migliaia di chilometri quadrati, specie di notte. Dite agli uomini di seguire la linea di rotta partendo dall’ultima posizione ricevuta, una slitta da ciascun lato della linea, in modo da poter battere una striscia di mare abbastanza larga.»