125787.fb2 Polvere di Luna - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 24

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Lawrence non ne era certo, ma gli era sembrato di aver sentito tremare la piattaforma sotto di sé.

Mentre il Selene sprofondava, Pat aveva capito che si trattava di un fenomeno molto diverso dal primo avvallamento. Era molto più lento, e dall’esterno dello scafo arrivavano rumori e crepitii che la polvere non poteva produrre.

In alto, i tubi dell’ossigeno venivano lentamente divelti. Non uscirono di colpo, perché lo scafo stava scivolando di poppa, e adesso la cabina era in pendenza. Con un rumore secco di fibreglass che si frantumava, il tubo di poppa venne strappato dal tetto e sparì.

Immediatamente un denso getto di sabbia irruppe nella cabina e si sparse in una nube soffocante.

Il commodoro Hansteen era il più vicino e fu il primo a correre ai ripari. Strappatosi via la camicia, l’appallottolò rapidamente e la ficcò nell’apertura. La polvere schizzava in tutte le direzioni mentre Hansteen lottava per arrestare il flusso; c’era quasi riuscito quando si sfilò il tubo di prua, e le luci principali si spensero mentre, per la seconda volta, il cavo principale veniva divelto.

«Ci penso io!» urlò Pat. Un attimo dopo, anche lui senza camicia, stava adoperandosi per fermare il torrente di sabbia che si riversava dentro attraverso il secondo foro.

Pat aveva solcato il Mare della Sete un centinaio di volte, ma mai prima d’ora era venuto a contatto della strana sostanza con la pelle nuda. La polvere grigia gli entrò negli occhi e nel naso, soffocandolo mezzo e accecandolo quasi del tutto. La sostanza dava una sensazione viscida, come di sapone. Mentre lottava, Pat si accorse di pensare: «Se c’è una morte peggiore dell’annegamento, è quella di venire sepolto vivo!»

Quando il getto si ridusse a un semplice rivolo, Pat capi che per il momento il pericolo era scongiurato. La pressione prodotta da quindici metri di polvere, sotto la bassa gravità lunare, non era difficile da tenere a bada… certo, se il foro fosse stato più largo, sarebbe stata una faccenda molto più seria.

Pat si scosse la polvere dalla testa e dalle spalle, poi aprì cautamente gli occhi. Benedette quelle luci di emergenza, anche se un po’ fioche. Il commodoro aveva già tappato l’altra falla, e adesso stava spruzzando acqua attorno per far depositare la polvere.

La sua tecnica era efficacissima, e le poche nuvole che restavano si trasformavano ben presto in macchie di fango sul ponte.

Hansteen incontrò lo sguardo di Pat.

«Ebbene, capitano, avete qualche teoria in proposito?»

«In certi momenti» pensò Pat, «l’autocontrollo del commodoro è addirittura irritante.» Ma subito si vergognò di quel sentimento, dettato unicamente dall’invidia.

«Non so cosa possa essere accaduto. Forse ce lo spiegheranno quelli lassù.»

C’era una bella salita fino al posto di comando, perché lo scafo era inclinato di oltre trenta gradi. Pat, mentre si sistemava davanti alla radio provava una specie di torpore disperato, che superava ogni altra sensazione provata fino a quel momento. Era una specie di rassegnazione, il convincimento quasi superstizioso che gli dei fossero contro di loro, e che ogni sforzo fosse inutile.

Ne fu più che mai sicuro quando mise in funzione la radio e scoprì che era assolutamente muta. La corrente era staccata; quando il tubo di immissione aveva strappato il cavo dei fili principali, aveva fatto un lavoretto completo.

Pat si girò lentamente sul sedile. Ventun persone lo guardavano ansiose, aspettando notizie, ma di queste, venti Pat non le vide, perché Susan lo fissava, e lui era conscio soltanto dell’espressione di lei. Era l’espressione di chi si prepara ad affrontare il peggio, ma nemmeno ora tradiva alcun segno di paura. Nel guardare Sue, Pat sentì che la sua disperazione si dissolveva. Provò una forza nuova, quasi un senso di speranza.

«Che il diavolo mi porti se ci capisco qualcosa» disse. «Ma di un solo fatto sono sicuro: non siamo ancora perduti. Saremo forse affondati di un altro tratto, ma i nostri amici sulla piattaforma torneranno a raggiungerci. Pazienza, si tratterà di un nuovo ritardo, ma non c’è ragione di preoccuparsi.»

«Non voglio fare il corvo del malaugurio, capitano» osservò Barrett «ma… e se fosse affondata anche la piattaforma?»

«Questo lo sapremo appena avrò riparato la radio» replicò Pat, guardando preoccupato i fili che sfuggivano dal cavo strappato. «E finché non sarò venuto a capo di quegli spaghi lassù, dovrete rassegnarvi all’illuminazione di emergenza.»

«A me non dispiace» disse la signora Schuster. «Anzi, è intima. «Dio vi benedica, signora Schuster» pensò Pat tra sé. Si guardò attorno; era difficile distinguere bene le facce in quel chiarore fioco, ma i passeggeri sembravano calmi.»

Lo erano molto meno un minuto dopo.

Pat, infatti, impiegò solo un minuto per capire che non poteva far niente per riparare le luci e la radio. I fili erano stati strappati in un punto all’interno del cavo principale e mancavano i ferri adatti per raggiungere l’interruzione.

«Il guaio è più serio di quel che credevo» riferì Pat. «Non potremo più comunicare, a meno che non ci calino un microfono per ristabilire il contatto.»

«Il che significa» osservò Barrett, che pareva portato a scovare il lato nero delle cose «che al momento il contatto non c’è. Non capiranno perché non rispondiamo. E se ne deducessero che siamo morti tutti? E abbandonassero le operazioni di soccorso?»

Quell’idea era venuta anche a Pat, ma l’aveva scacciata immediatamente.

«Avete sentito come parla l’ingegner Lawrence, no?» replicò. «Non è certo il tipo che rinuncia alla lotta prima d’avere la certezza assoluta che non ci sia più niente da salvare. Su questo punto, non avete nessun motivo per preoccuparvi.»

«E per l’aria?» domandò angosciato Jayawardene. «Ora siamo rimasti di nuovo senza rifornimento.»

«Dovrebbe durare per parecchie ore, ora che i filtri sono stati rigenerati. E, nel frattempo, quei tubi verranno rimessi a posto» lo rassicurò Pat, mostrando una fiducia che non provava. «Nell’attesa cerchiamo di passare il tempo come possiamo; l’abbiamo fatto per tre giorni, possiamo farlo ancora per qualche ora.»

Si guardò attorno, cercando eventuali segni di disaccordo, e vide uno dei passeggeri alzarsi in piedi. L’ultima persona alla quale Pat avrebbe pensato: il taciturno, solitario signor Radley, che aveva forse detto dieci parole in tutto da quando il viaggio era cominciato.

Sul conto suo, Pat sapeva soltanto che era un amministratore e che veniva dalla Nuova Zelanda: l’unico Paese della Terra ancora un po’ isolato dal resto del mondo, in virtù della propria posizione geografica.

«Volevate dire qualche cosa, signor Radley?» domandò Pat.

«Sì, capitano» rispose Radley. «Ho una confessione da fare. Temo che tutto questo stia succedendo per colpa mia.»

Quando l’ingegnere capo interruppe il suo commento ai lavori, tutti i telespettatori in ascolto compresero che qualcosa non andava. Che cosa, però, nessuno fu in grado di stabilirlo, almeno basandosi sulle immagini. Dopo alcuni secondi di attività fattasi improvvisamente frenetica, le figure in tuta spaziale si erano riunite in gruppo, certo a consulto, e con i circuiti telefonici isolati, in modo che nessuno potesse sentire cosa si stavano dicendo. Era avvilente osservare quella discussione silenziosa e non avere idea di quale fosse l’argomento.

Durante quei lunghi minuti di attesa, mentre lo studio della centrale stava tentando di sapere che cos’era successo, Jules fece del suo meglio per tenere viva l’immagine. Ma era un’impresa rendere interessante la scena statica da tanta distanza e con una sola telecamera. jules aveva perfino domandato se era possibile spostare l’astronave, ma il capitano Anson era stato esplicito. «Non ho nessuna intenzione di saltellare su e giù per le montagne» aveva dichiarato. «Questa è un’astronave, non un camoscio.»

Finalmente l’adunanza si sciolse e gli uomini della piattaforma ristabilirono il contatto telefonico. Ora, forse, Lawrence avrebbe risposto alle chiamate radio che lo stavano bombardando da ben cinque minuti…

«Signore Iddio!» esclamò Spenser. «Non posso crederci! Ma lo vedete cosa stanno facendo?»

«Già» fece il capitano Anson. «E nemmeno io riesco a crederci. Mi pare proprio che stiano sgomberando il campo.»

Come scialuppe che si allontanano da una nave che affonda, le slitte da polvere, cariche di uomini, si stavano scostando dalla piattaforma,

Forse era un bene che il Selene fosse rimasto senza il contatto radio. Sarebbe stato tutt’altro che producente, per il morale dei passeggeri, sapere che le slitte stavano abbandonando il luogo dell’affondamento. Ma al momento nessuno, a bordo, pensava alle squadre di soccorso: Radley era al centro della scena debolmente illuminata.

«Cosa significa: «è tutta colpa mia»?» domandò Pat nell’attonito silenzio che seguì la dichiarazione del neozelandese. Attonito ma non ostile, perché nessuno l’aveva presa sul serio.

«È una storia lunga, capitano» disse Radley, in tono stranamente impersonale. Era come ascoltare un robot, e Pat provava una strana sensazione di malessere. «Non dico d’averlo provocato io, volontariamente. Ma temo che l’incidente sia stato provocato di proposito, e mi dispiace che siate rimasti implicati anche voi. Vedete… loro danno la caccia a me.»

«Non ci mancava altro» pensò Pat. «Abbiamo proprio tutto contro. Ora ci voleva anche un maniaco!»

Poi si rese conto dell’ingiustizia di quel pensiero. Per quanto riguardava i suoi passeggeri era stato proprio fortunato. Solo la Morley gli aveva dato qualche fastidio, ma il commodoro, il dottor McKenzie, gli Schuster, il professor Jayawardene, David Barrett… e tutti gli altri, avevano sempre obbedito senza fare storie.

E poi c’era Sue, che già si stava dando da fare, tranquillamente intenta ai suoi doveri. Solo Pat si accorse che la ragazza apriva l’armadietto dei medicinali e nascondeva nel palmo uno di quei piccoli cilindri che davano la calma del sonno.

Se Radley avesse dato segni di agitazione, Sue sarebbe stata pronta a intervenire.

Al momento, però, il signor Radley pareva calmissimo, in pieno possesso del proprio equilibrio e perfettamente razionale. Sembrava esattamente quello che era: un piccolo contabile di mezz’età che si era preso una vacanza sulla Luna.

«Molto interessante quello che dite, signor Radley» osservò il commodoro, in tono disinvolto «ma perdonate la mia ignoranza: chi sarebbero «loro», e perché dovrebbero avercela con voi?»

«Sono sicurissimo, commodoro, che avrete già sentito parlare dei dischi volanti.»

«Sì, certo» rispose il commodoro. «Ho letto qualcosa su certi vecchi manuali di astronautica. Circa ottant’anni fa erano una specie di fissazione, vero?»