125787.fb2
«La domanda è per voi, capitano. Avete spiegazioni da dare?»
Pat scosse la testa.
«Temo che non ce ne siano. D’accordo, l’aria dentro lo scafo dovrebbe renderci galleggiabili, ma la resistenza della polvere è enorme. Alla fine potremmo anche risalire in superficie.. ma tra qualche migliaio di anni.»
Il signore inglese, evidentemente, non era tipo da arrendersi facilmente.
«Nel compartimento stagno ho notato una tuta spaziale. Non potrebbe qualcuno infilarsela e nuotare fino alla superficie? Così le squadre di ricerca saprebbero dove ci troviamo.»
Il capitano Harris si mosse a disagio.
Era l’unico qualificato per indossare quella tuta, che del resto si trovava a bordo più che altro per la forma.
«È quasi sicuramente impossibile» rispose. «Non credo che un uomo riesca a vincere la resistenza della polvere; e naturalmente si muoverebbe alla cieca. Come potrebbe distinguere da che parte si va in su? E come chiuderebbe il portello stagno dietro di sé? Una volta che la polvere fosse entrata, non ci sarebbe modo di ricacciarla fuori. Non è che la si possa pompare come si fa con l’acqua.»
Pat avrebbe potuto aggiungere altro, ma preferì lasciar perdere. «Se non ci sono altre domande» suggerì pronto Hansteen «proporrei di fare un po’ di conoscenza. Ci piaccia o no, dovremo abituarci alla compagnia reciproca, quindi presentiamoci. Farò il giro della cabina, e ciascuno di voi a turno potrà dire il suo nome, indirizzo e professione. Cominciamo da voi, signore.»
«Robert Bryan, ingegnere civile, in pensione… Kingston, Jamaica.»
«Irving Schuster, avvocato, di Chicago. E questa è mia moglie, Myra.»
«Nihal Jayawardene, professore di zoologia, Università di Peradeniya, Ceylon.»
Mentre le presentazioni continuavano, Pat Harris si congratulò di nuovo con se stesso per la piccola fortuna capitatagli in quella situazione così disperata. Per carattere, educazione ed esperienza, il commodoro era un capo fatto e finito; già stava trasformando quella eterogenea collezione di persone in un’unità, già suscitava quell’indefinibile «spirito di corpo» che fa di una folla anonima una squadra. Quelle cose le aveva imparate mentre la sua piccola flotta, la prima che si fosse avventurata oltre l’orbita di Nettuno, a circa cinque miliardi di chilometri dal Sole, navigava per settimane e settimane nel vuoto che divideva i pianeti. A Pat Harris, che aveva trent’anni di meno e non si era mai allontanato dal sistema TerraLuna, quel tacito passaggio di consegne non dava nessun fastidio, anzi.
«Duncan McKenzie, fisico, Osservatorio di Mount Stromlo, Canberra.»
«Pierre Blanchard, commercialista, Clavius City, Lato Terra.»
«Phillis Morley, giornalista, Londra.»
«Karl Johansen, ingegnere nucleare, Base Tsiolkovski, LatoEsterno Luna…»
Una bella collezione di cervelli. Ma non era il caso di meravigliarsene: la gente che veniva sulla Luna era sempre un po’ fuori dell’ordinario..: sia pure soltanto perché aveva i quattrini per pagarsi il viaggio. Ma tanta esperienza e tanta abilità, ora imbottigliate nel Selene, erano impotenti, o almeno così sembrava ad Harris nella condizione attuale.
Questo, in realtà, non era del tutto vero, e il commodoro Hansteen stava per dimostrarlo. Sapeva meglio di chiunque altro che si sarebbe dovuto lottare contro la noia, oltre che contro la paura. In quell’era di passatempi universali e di comunicazioni interplanetarie, il loro piccolo gruppo doveva contare unicamente sulle proprie risorse. Erano tagliati fuori da tutto il resto della razza umana: radio, TV, giornali, cinema, telefoni, tutte queste cose non avevano più significato per loro, di quanto potevano averne per l’uomo delle caverne. Erano come una antica tribù radunata intorno ai fuochi da campo, in un deserto completamente disabitato. Nemmeno durante il viaggio verso Plutone, pensava il commodoro, le condizioni di solitudine erano state così complete. A bordo della sua astronave c’era un’ottima biblioteca, dischi, film, e si poteva comunicare con le stazioni radio dei pianeti vicini. Sul Selene, invece, non c’era nemmeno un mazzo di carte…
Ecco un’idea. «Signorina Morley! Siete giornalista, immagino che avrete un blocco per appunti.»
«Certo, commodoro.»
«Ci sono cinquantadue foglietti bianchi?»
«Penso di sì.»
«Allora devo pregarvi di sacrificarli. Tagliateli e disegnateci un mazzo di carte. Non occorre che siano molto artistiche, basta che si distinguano, ma che il disegno non traspaia dall’altra parte…»
«Come faremo per mescolarle?» obiettò qualcuno.
«Un bel problema! Lo risolverà il nostro comitato ricreativo. C’è qualcuno che s’intende di spettacoli?»
«Io ho lavorato in teatro» disse Myra Schuster, dopo una lieve esitazione. Il marito non parve entusiasta di quella rivelazione, ma il Commodoro si.
«Benissimo! È vero che siamo un po’ stretti, qui, ma forse potremmo mettere su una commediola.»
«Veramente è passato molto tempo» obiettò la signora che ora sembrava a disagio quanto suo marito. «E poi, io non parlavo molto, veramente…»
Vi fu qualche risatina, e perfino il commodoro stentò a mantenersi serio. La signora Schuster aveva passato la cinquantina e pesava circa un quintale: era difficile immaginarsela come «sospettava il commodoro» ballerina di fila.
«Non importa» disse Hansteen «è lo spirito che conta. Chi vuole aiutare la signora Schuster?»
«Io ho recitato un po’ come dilettante» disse il professor Jayawardene. «Soprattutto Brecht e Ibsen, però.»
Quel «però» indicava coscienza del fatto che, data la situazione, ci voleva qualcosa di più leggero.
Non si trovarono altri volontari per quel genere, e il commodoro trasferì la signora Schuster e il professore su due sedili vicini e li pregò di studiare un programma. Non era possibile che da una coppia così male assortita venisse fuori qualcosa di utile, ma non si poteva mai dire. L’importante era di tenere tutti occupati, in un modo o nell’altro.
«Questo è tutto, per il momento» concluse Hansteen. «Se a qualcuno venisse un’idea brillante, è pregato di comunicarla subito. Nel frattempo, vi propongo di mettervi comodi e di rompere un po’ il ghiaccio. Chissà quanti di voi avranno in comune conoscenze o interessi. Avrete una quantità di cose di cui parlare.» «E una quantità di tempo per parlarne», aggiunse in cuor suo.
Hansteen stava consultandosi con Pat nell’abitacolo del pilota, quando il dottor McKenzie li raggiunse: McKenzie era il fisico australiano. Sembrava preoccupatissimo, quasi più di quanto la situazione meritasse.
«Volevo parlarvi di una cosa, commodoro» disse in tono d’urgenza. «Se non vado errato, quella riserva di ossigeno per sette giorni non significa nulla. C’è un pericolo molto più grave.»
«E sarebbe?»
«Il calore.» L’australiano indicò verso l’esterno con un gesto della mano. «Siamo avvolti da quella roba, il miglior isolante che si possa immaginare. In superficie, il calore generato dalle macchine e dai nostri corpi si disperdeva nello spazio, mentre qui si accumula. Il che significa che diventeremo sempre più caldi… fino a cuocere addirittura.»
«Mio Dio!» esclamò il commodoro. «A questo non avrei mai pensato. Quanto ci vorrà, secondo voi?»
«Datemi una mezz’ora, e tenterò di fare qualche calcolo. Così a occhio direi… non più di un giorno.»
Il commodoro si sentì invadere da un senso di totale impotenza: non c’era niente da fare. Se McKenzie aveva ragione, tutte le loro iniziative erano inutili, tutte le loro speranze andavano in frantumi. Erano già scarse, d’accordo, ma con una settimana di tempo c’era forse modo di venirne fuori. Con un solo giorno a disposizione, non era nemmeno il caso di parlarne. Anche se fossero stati ritrovati in tempo, sarebbe mancato il margine necessario all’opera di salvataggio.
«Potete controllare la temperatura della cabina» disse McKenzie. «Così avremo una prima idea.»
Hansteen andò al quadro di comando e gettò un’occhiata a quel labirinto di spie e indicatori.
«Ho paura che abbiate ragione» disse. «La temperatura è già salita di due gradi.»
«Circa un grado all’ora. Come immaginavo.»
Il commodoro si rivolse a Harris, che aveva ascoltato la situazione con ansietà crescente.
«Non si può fare niente per aumentare il raffreddamento? Che potenza ha il nostro impianto d’aria condizionata?»
Prima che Harris potesse rispondere, il fisico intervenne. «È inutile» disse quasi con impazienza. «L’impianto non fa altro che pompare calore dalla cabina e disperderlo all’esterno. Ma è proprio quello che non può fare ora, per via della polvere che abbiamo intorno. Se lo forziamo al massimo non faremo che peggiorare le cose.»