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Tommy Dort entrò nella cabina del capitano con l’ultimo paio di stereofoto e disse:
«Ho finito, signore. Queste sono le due ultime fotografie che ho potuto scattare».
Gli porse le fotografie e guardò con interesse professionale le visipiastre che mostravano lo spazio, fuori della nave. La cabina era pervasa da una fioca luminosità rossa che rivelava quanto bastava dei comandi e degli strumenti necessari al pilota per la navigazione dell’astronave Llanvabon. La poltroncina davanti ai comandi aveva un’imbottitura molto spessa. E c’era la piccola, ingegnosa struttura formata da specchi posti a strane angolature — remoto discendente degli specchietti retrovisivi degli automobilisti del ventesimo secolo — che consentiva di tener d’occhio tutte le visipiastre senza girar la testa. E c’erano le piastre giganti che garantivano, a chi lo volesse, ampie panoramiche della distesa stellata.
La Llanvabon era molto lontana da casa. Le visipiastre, che potevano esser portate a qualsiasi ingrandimento desiderato, mostravano stelle di ogni immaginabile grado di splendore, nello stupefacente caleidoscopio di colori che esibivano fuori dell’atmosfera. Ma erano quasi tutte sconosciute. Soltanto due costellazioni erano riconoscibili, fra quante si vedevano dalla Terra, ma rimpicciolite e distorte. La Via Lattea pareva vagamente fuori posto. Ma perfino queste stranezze erano cose da poco in confronto alla vista mostrata dalle piastre di prua.
Davanti a loro c’era un’immensa nebulosità, impalpabile e luminescente. Pareva immobile. Ci volle molto tempo perché le piastre visive mostrassero un apprezzabile avvicinamento, anche se l’indicatore della nave spaziale mostrava un’incredibile velocità. Quella nebbia luminosa era la Nebulosa del Granchio, lunga sei anni-luce, profonda tre anni-luce e mezzo, con delle porzioni che si protendevano verso l’esterno e, vista con i telescopi della Terra, assomigliava un po’ alla creatura da cui aveva preso il nome. Era una nube di gas infinitamente tenue, che si estendeva su una distanza pari a una volta e mezza quella del Sole dalla stella più vicina. Nel cuore della nube ardevano due stelle, che formavano un sistema doppio: una del familiare color giallo del Sole, l’altra d’un bianco sacrilego.
Tommy Dort disse, pensieroso: «Siamo diretti dentro una fossa, signore?»
Il comandante studiò le due ultime lastre prese da Tommy, poi le mise da parte. Tornò a contemplare con un certo disagio le visipiastre anteriori. La Llanvabon stava decelerando al massimo. Si trovava a solo mezzo anno-luce dalla nebulosa. Il lavoro di Tom si era prolungato per tutta la rotta di avvicinamento della nave, e adesso era finito. Durante tutta la permanenza della nave esploratrice all’interno della nebulosa, Tommy Dort avrebbe oziato. Ma fino a quel momento si era più che pagato il viaggio.
Aveva appena completato la registrazione fotografica del movimento d’espansione d’una nebulosa durante un periodo di quattromila anni… una registrazione eseguita da una sola persona, sempre con la stessa apparecchiatura e lo stesso controllo delle esposizioni per individuare e registrare qualunque errore sistematico — un primato davvero unico. In sé questo era già un successo che valeva il viaggio dalla Terra. Ma Tommy Dort in aggiunta aveva anche registrato quattromila anni di storia d’una stella doppia, e altresì quattromila anni di storia d’una stella nell’atto di degenerare in una nana bianca.
Non che Tommy Dort avesse un’età di quattromila anni. In realtà, aveva da poco oltrepassato la ventina. Ma la Nebulosa del Granchio si trova a quattromila anni-luce dalla Terra, e le ultime due fotografie erano state prese ad una luce che non avrebbe raggiunto la Terra fino al sesto millennio d.C. Lungo tutto il percorso — a velocità che erano multipli incredibili della velocità della luce — Tommy Dort aveva fissato sulle sue lastre ogni aspetto della nebulosa, con la luce che l’aveva lasciata a partire da quaranta secoli prima, fino a sei mesi prima.
La Llanvabon continuava la sua corsa attraverso lo spazio. Con estenuante lentezza l’indescrivibile luminosità avanzava, strisciante, e un po’ alla volta invadeva l’intera superficie delle visipiastre. Cancellava ormai alla vista una buona metà dell’universo. Davanti a loro si stendeva una nebbia ardente; alle loro spalle, un vuoto punteggiato di stelle. La nebulosità giunse poi a escludere alla loro vista tre quarti di tutte le stelle. Alcune delle più luminose continuavano a baluginare, fioche, attraverso la nebbia, vicino ai suoi bordi, ma erano assai poche. Infine, rimase soltanto una chiazza irregolare di buio a poppa, sul cui sfondo le stelle brillavano senza palpitare. La Llanvabon si era ormai tuffata dentro la nebula, e parve che penetrasse in una galleria di tenebra con pareti di nebbia scintillante.
Il che era proprio ciò che la nave spaziale stava facendo. Già le prime fotografie, alla maggiore distanza, avevano rivelato la presenza di strutture nella nebulosa. Non era un ammasso amorfo di gas. Man mano la Llanvabon aveva continuato ad avvicinarsi, le indicazioni d’una struttura si erano fatte più precise, e Tommy Dort aveva sostenuto la necessità d’un avvicinamento in curva per motivi fotografici. Così, la nave spaziale aveva compiuto l’ultima parte del viaggio seguendo una curva logaritmica, e Tom in tal modo era stato in grado di, prendere successioni di fotografie ad angoli sempre diversi, ottenendo così delle stereoscopie che mostravano la nebulosa a tre dimensioni; e questo aveva rivelato una struttura assai complicata fatta di ondulazioni simili a quelle d’un cervello umano. La nave si era appunto tuffata dentro una di queste cavità. Erano state chiame «fosse» per analogia con i profondi crepacci che incidevano il fondo degli oceani terrestri. E promettevano di essere assai utili alla missione della nave.
Il comandante si rilassò. Oggigiorno, una delle funzioni d’un comandante è quella di cercare sempre qualcosa di cui preoccuparsi, e poi preoccuparsene. Il comandante della Llanvabon era assai coscienzioso, e soltanto dopo che un certo strumento non aveva registrato più nulla in modo tassativo, si era lasciato andare sullo schienale della poltroncina.
«C’era sempre la possibilità», dichiarò, «che queste fosse potessero risultar piene di gas non luminoso. Invece sono vuote. Così saremo in grado di usare l’iperpropulsione finché ci staremo dentro».
C’era un anno-luce e mezzo dal bordo della nebulosa al sistema della stella doppia che ne costituiva il cuore. Questo, appunto, era il problema. Una nebulosa è un gas. È talmente rarefatto che al suo confronto la coda di una cometa è solida, ma una nave che viaggia in iperpropulsione — ben oltre la velocità della luce — non deve urtare neppure contro un vuoto spinto (una rarefazione come quella ottenuta con le migliori pompe). Ha bisogno del vuoto puro, assoluto, come quello esistente fra le stelle. Ma la Llanvabon non avrebbe potuto far granché in quell’ammasso di nebbia se avesse dovuto limitarsi alle velocità consentite dal solo vuoto spinto.
La luminosità parve chiudersi del tutto dietro la nave spaziale, che continuava a decelerare. L’iperpropulsione si spense con l’improvvisa sensazione di risonanza metallica che percorre il corpo d’un uomo quando il campo iperpropulsivo viene staccato.
Poi, quasi nello stesso istante, i campanelli presero a squillare, invadendo l’intera nave col loro stridulo baccano. Tommy fu quasi assordato dal campanello d’allarme che risuonò nella cabina di comando, prima che il capitano lo facesse tacere con un colpo della mano. Ma in tutto il rimanente della nave si udirono squillare in distanza gli altri campanelli, il cui clangore andò via via spegnendosi al successivo rinchiudersi delle porte automatiche.
Tommy Dort fissò il comandante. Questi strinse i pugni, Tommy scrutò al di sopra della sua spalla. Sembrava che uno degli indicatori avesse le convulsioni. Altri faticavano a registrare i loro rilevamenti. In mezzo alla nebulosità diffusa che riempiva col suo bagliore una delle visipiastre di prua c’era un punto che — quando il regolatore automatico lo mise a fuoco — stava diventado chiaramente sempre più luminoso. Quella era la direzione dell’oggetto che aveva fatto scattare l’allarme, segnalando il pericolo di collisione. Stando alle letture dello stesso analizzatore, c’era appunto un oggetto solido a ottantamila miglia di distanza, un oggetto di dimensioni non troppo grandi… Ma c’era anche un altro oggetto, la cui distanza variava da un massimo a zero, e le cui dimensioni sembravano condividere quell’impossibile avanzata e ritirata.
«Diamo il massimo ingrandimento!» sbottò il comandante.
Il punto luminosissimo sullo schermo crebbe ancor più d’intensità, cancellando buona parte dell’impalpabile distesa luminescente. L’ingrandimento aumentò ancora. Ma non comparve nient’altro. Eppure il localizzatore-radar insisteva a dire che qualcosa di mostruoso e d’invisibile eseguiva delle folli puntate verso la Llavanbon, con velocità che sembravano rendere inevitabile una collisione, per poi deviare bruscamente e fuggir via quasi pauroso, con la stessa velocità.
La visipiastra raggiunse il massimo ingrandimento. Ancora niente. Il comandante digrignò i denti. Tommy Dort disse, pensoso: «Signore, ho già visto qualcosa di simile su un transpazio della linea Terra-Marte, una volta, quando fummo localizzati da un’altra nave. Il loro raggio localizzatore aveva la stessa frequenza del nostro, e tutte le volte che si sovrapponevano davano l’impressione di qualcosa di solido e mostruosamente grande».
«Questo», sbraitò il comandante, «è proprio quello che sta accadendo adesso. C’è qualcosa che assomiglia a un raggio localizzatore puntato su di noi. Riceviamo quel raggio sovrapposto all’eco del nostro. Ma l’altra nave è invisibile! Chi c’è mai, qua fuori, in una nave invisibile dotata di congegni localizzatori? Non uomini, di certo!»
Schiacciò il pulsante del suo comunicatore da polso e gridò: «Stazioni di combattimento! Condizioni immediate di massimo allarme in tutte le sezioni, subito!» Continuò ad aprire e a chiudere le mani, nervosamente. Tornò a fissare la visipiastra: il punto luminoso era scivolato fuori del bordo e adesso era visibile soltanto un’informe luminescenza.
«Non uomini?» Tommy Dort si raddrizzò di scatto. «Vuol dire…?»
«Quanti sistemi solari ci sono nella nostra galassia?» chiese, aspro, il comandante. «Quanti pianeti adatti alla vita? E quanti differenti tipi di vita potrebbero esserci? Se questa nave non proviene dalla Terra — e certamente è così — allora deve avere un equipaggio che non è umano. E creature non umane giunte a uno stadio di civiltà che comprende viaggi nello spazio profondo potrebbero significare qualunque cosa!»
Le mani del comandante tremavano. Non avrebbe mai parlato con tanta libertà davanti a un membro del suo equipaggio, ma Tommy faceva parte del personale d’osservazione. E perfino un comandante i cui doveri comprendevano quello di preoccuparsi poteva a volte avere un disperato pensare ad alta voce può essere di aiuto.
«Di una cosa del genere si è discusso per anni, e si sono fatte congetture d’ogni tipo», dichiarò, a bassa voce. «Matematicamente è certo che in questo o quel punto della Galassia dovrebbe esserci una qualche razza con una civiltà allo stesso livello della nostra, o più progredita. Nessuno ha mai potuto indovinare dove o quando li avremmo incontrati. Ma a quanto pare, l’abbiamo fatto proprio noi, adesso!»
Gli occhi di Tommy lampeggiarono vividi.
«Ritiene che si mostreranno amichevoli, signore?»
Il comandante diede un’occhiata all’indicatore di distanza. L’oggetto-fantasma eseguiva ancora le sue folli picchiate, precipitandosi verso la Llanvabon e schizzandone via precipitosamente. L’altra indicazione di qualcosa a ottantamila miglia si muoveva appena.
«Si sta spostando», sottolineò, asciutto, il comandante. «E nella nostra direzione. Proprio quello che noi stessi faremmo se una strana astronave comparisse sui nostri terreni di caccia. Amichevoli? Forse. Tenteremo di metterci in contatto con loro. Dobbiamo farlo. Ma sospetto che questa potrà essere la fine della nostra spedizione… Ringraziamo Dio che abbiamo i fulminatori!»
I fulminatori sono quei raggi di spaventevole capacità distruttiva che si occupano dei meteoriti recalcitranti lungo la rotta di un’astronave, quando i deflettori non riescono a respingerli tutti. Non sono concepiti come armi, ma possono benissimo funzionare come tali. Possono entrare in azione a una distanza di cinquemila miglia, e attingere a tutta la riserva d’energia della nave. Col puntamento automatico e un brandeggio di cinque gradi, una nave come la Llanvabon era senz’altro in grado di praticare un buco attraverso un asteroide di piccole dimensioni, così da passarci attraverso senza danni. Ma non durante l’iperpropulsione, ovviamente.
Tommy Dort si era avvicinato alla visipiastra di prua. Ora girò di scatto la testa.
«I… fulminatori, signore? E perché?»
Il comandante fece una smorfia, rivolto alla visipiastra che inquadrava l’oggetto invisibile: «Perché non sappiamo come son fatti e non possiamo correr rischi!… Sì, lo so», aggiunse, amaro, «stabiliremo contatto e cercheremo di sapere quanto più possiamo su di loro — soprattutto da dove vengono. Sì, ci sforzeremo di mostrarci amichevoli, ma non abbiamo molte possibilità. Non possiamo fidarci di loro neppure d’una frazione di centimetro. Non possiamo osarlo! Essi dispongono di localizzatori. Forse hanno degli individuatori migliori dei nostri. Forse sono in grado di ricostruire l’intera nostra rotta fino a casa senza che noi lo sappiamo! Non possiamo rischiare che una razza non umana sappia dov’è la Terra, prima che noi si sia del tutto sicuri di loro! E come possiamo esser sicuri? Potrebbero venir da noi per commerciare, naturalmente… ma anche piombarci addosso in iperpropulsione con una flotta da guerra e spazzarci via prima che sappiamo che cosa aspettarci, e quando!»
Il volto di Tommy mostrò sorpresa.
«Il problema è stato analizzato a fondo parecchie volte, in teoria», proseguì il comandante. «Ma nessuno è mai stato capace di trovare una risposta valida, neppure sulla carta. E per di più, malgrado tutte le loro teorizzazioni, nessuno ha mai considerato l’ipotesi… davvero pazzesca, in teoria… d’un contatto nello spazio profondo, in cui nessuna delle due parti conosca il mondo di provenienza dell’altra! Ma il fatto è che, noi, adesso, dobbiamo trovare una riposta. Cosa dobbiamo fare con loro? Forse queste creature saranno bellissime a vedersi, simpatiche, amichevoli e cortesi… con sotto la brutale ferocia d’un giapponese. O forse saranno rozze e burbere come un contadino svedese… e altrettamento oneste e cordiali nell’intimo. Forse sono qualcosa che sta nel mezzo. Ma posso mettere a repentaglio il futuro dell’intera specie umana soltanto sull’ipotesi che, forse, ci si può fidare di loro senza rischi? Dio solo sa se non sarebbe una splendida cosa farsi amica una nuova civiltà! Sarebbe uno stimolo potente e positivo per la nostra, un immenso guadagno per noi. Ma non possiamo correr rischi. Soprattutto, quello che non sono disposto a rischiare è fargli sapere dove si trova la Terra! O sarò più che convinto che non sono in grado di seguirmi, o non tornerò mai più a casa! Ed è probabile che quella gente, là fuori, la pensi nell’identico modo».
Schiacciò un’altra volta il pulsante del comunicatore da polso.
«Ufficiali navigatori, attenzione! Predisponete le cose in modo che ogni mappa stellare su questa nave possa essere immediatamente distrutta. Ciò comprende ogni fotografia o diagramma dai quali la nostra rotta e il nostro punto di partenza possano esser dedotti. Voglio che tutti i dati astronomici siano raccolti e disposti in modo che possano esser distrutti in una frazione di secondo, dietro mio ordine. Fatelo subito, e riferite non appena siete pronti!»
Staccò il dito dal pulsante. D’un tratto parve invecchiato. Il primo contatto dell’umanità con una razza aliena era un’eventualità che era stata ipotizzata in molti modi diversi, ma mai in una situazione angosciosa come quella. Una solitaria nave terrestre e una nave aliena altrettanto solitaria che s’incontravano in una nebulosa senz’altro lontanissima dai pianeti d’origine di entrambe. Potevano far mostra di desiderare la pace, ma la miglior linea da seguire, se si aveva intenzione di attaccare a tradimento, era proprio quella di fingersi amichevoli. Il non mostrarsi sospettosi poteva segnare la condanna della specie umana… e d’altra parte un pacifico scambio dei frutti delle rispettive civiltà avrebbe costituito il più grande beneficio immaginabile. Qualunque errore sarebbe stato irreparabile, ma il non stare sul chi vive avrebbe potuto avere conseguenze fatali. La cabina di comando era molto, troppo tranquilla. La visipiastra a prua mostrava ormai una sezione assai piccola della nebulosa. Era tutta nebbia diffusa, amorfa, luminescente. Ma d’un tratto Tommy. Dort puntò il dito:
«Là, signore!»
C’era una piccola forma nella nebulosità. Era molto lontana. Appariva nera e opaca, non lucidata a speccho com’era invece la superficie esterna della Llanvabon. Era bulbosa, quasi una forma a pera. La luminosità, per quanto rarefatta, che si stendeva in mezzo a loro, impediva di riconoscere i particolari, ma non era certo un oggetto naturale. Poi, Tommy diede un’occhiata all’indicatore di distanza e annunciò con calma: «Sta puntando verso di noi ad altissima accelerazione, signore. Ci sono buone probabilità che stiano pensando la stessa cosa… che nessuno di noi due oserà consentire all’altro di seguirlo fino a casa. Pensa che tenteranno un contatto con noi, oppure che si scateneranno con le loro armi non appena si troveranno a portata di tiro?»
La Llanvabon non si trovava più nella «fossa», in quell’abisso di vuoto assoluto che sprofondava nel cuore della nebulosa. Adesso nuotava nella luminescenza. E non si vedeva più nessuna stella, salvo i due ardenti bagliori del sistema doppio nel cuore della nebulosa. Tutt’intorno allo scafo non c’era altro, se non quella luminosità che tutto permeava, creando una sensazione simile a quella che si sarebbe provata dentro un acquario tropicale sulla Terra.
La nave aliena se non altro non diede segno di voler scatenare subito le ostilità. Quando fu più vicina alla Llanvabon, decelerò. La stessa Llanvabon, dopo esserle andata incontro, si era fermata del tutto. La sua decelerazione era stata un ovvio riconoscimento della vicinanza dell’altra nave. Il suo fermarsi era allo stesso tempo un segno amichevole e una precauzione nei confronti di un possibile attacco. Relativamente immobile lì nello spazio, poteva sempre, però, ruotare su se stessa così da fornire il bersaglio minore allo scatenarsi d’un attacco in forze, e avrebbe avuto un più lungo intervallo utile di sparo se l’altra nave le fosse guizzata lungo il fianco.
La tensione salì al massimo al momento dell’approccio vero e proprio. La prua aghiforme della Llanvabon era puntata con ferma decisione contro lo scafo alieno. Un contatto azionabile nella cabina di comando consentiva al capitano di scatenare in una minima frazione di secondo l’intera potenza dei fulminatori. Tommy Dort stava osservando, corrugando la fronte. Gli alieni dovevano possedere un alto grado di civiltà se disponevano di navi spaziali, e le civiltà non si sviluppano se non si accompagnano a un alto grado di prudenza. Quegli alieni dovevano ben conoscere tutte le implicazioni di quel primo contatto fra due specie civilizzate, all’identico modo in cui le conoscevano gli umani dentro la Llanvabon.
Le prospettive d’una lussureggiante fioritura di entrambe le civiltà grazie a un contatto pacifico e a liberi scambi delle rispettive tecnologie avrebbe dovuto far piacere a loro come all’uomo. Ma, sulla Terra, quando due differenti culture umane venivano a contatto, una finiva sempre in posizione subordinata all’altra… e in caso contrario, si scatenava la guerra. C’erano quindi due possibilità. Ma una condizione subordinata fra razze sorte su diversi pianeti non avrebbe certo potuto stabilirsi in via pacifica. Gli umani, per lo meno, non avrebbero mai acconsentito a trovarsi subordinati, né era probabile che una qualunque altra specie altamente sviluppata l’avrebbe accettato. I benefici derivanti dal commercio e dallo scambio d’informazioni non avrebbero mai compensato una condizione d’inferiorità. Alcune razze — gli uomini… forse — avrebbero preferito il commercio alla conquista. Forse — forse! — anche questi alieni. Ma c’era sempre qualcuno, anche tra gli umani, che avrebbe bramato una guerra sanguinosa. Se quella nave aliena, che adesso si stava avvicinando alla Llanvabon, fosse tornata al pianeta d’origine con la notizia dell’esistenza dell’umanità e di navi come la Llanvabon, appunto, avrebbe dato alla sua specie la scelta fra commerciare o combattere. Avrebbero preferito il commercio… o la guerra? Non potevano esser sicuri delle intenzioni degli uomini, né gli uomini potevano esser sicuri delle loro. L’unica certezza assoluta, per gli uni come per gli altri, sarebbe stata offerta dalla completa distruzione di una o di entrambe le navi, qui e subito.
Ma neppure la vittoria totale sarebbe stata sufficiente. Perché, ora, gli uomini si trovavano nella necessità di sapere da dove veniva quella specie aliena, per evitarla, se non per combatterla. Dovevano conoscere le sue armi, e ogni altra risorsa, se quella specie aliena poteva essere una minaccia, e come poterla eliminare in caso di necessità. E gli alieni avrebbero avvertito le identiche necessità nei confronti degli uomini.
Così, il comandante della Llanvabon non schiacciò il tasto che avrebbe potuto ridurre a niente l’altra nave. Non osò farlo. Ma non osava neppure non sparare. Il sudore cominciò a imperlargli la fronte.
Un altoparlante bofonchiò. Qualcuno dalla centrale di tiro.
«L’altra nave si è fermata, signore. È in condizione stazionaria. Le teniamo i fulminatori centrati addosso, signore».