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«Si è arrestata del tutto, signore», disse un’altra voce. «Hanno trasmesso un’onda corta modulata, signore. Modulazione di frequenza. Sembra un segnale. Non ha abbastanza energia per essere dannoso».
Il comandante disse, a denti stretti: «Finalmente fanno qualcosa… C’è del movimento all’esterno del loro scafo. Tenete sotto osservazione quello che sta uscendo. Puntateci sopra i fulminatori ausiliari».
Qualcosa di piccolo e rotondo scivolò fuori dalla sagoma ovoidale della nave nera. La nave si mosse.
«Si stanno allontanando, signore», annunciò l’altoparlante. «L’oggetto che hanno mandato fuori è stazionario nel punto in cui l’hanno lasciato».
Un’altra voce intervenne: «Un altro fascio d’onde a modulazione di frequenza, signore. Inintelligibile».
Gli occhi di Tommy Dort s’illuminarono. Il comandante scrutò la visipiastra con la fronte imperlata di sudore.
«Piuttosto ben fatto, signore», commentò Tommy. «Se avessero mandato qualcosa verso di noi, avremmo sempre potuto interpretarlo come un proiettile, qualcosa di esplosivo. Così, si sono avvicinati, hanno fatto uscire una scialuppa, laggiù, e si sono nuovamente allontanati. Hanno immaginato che anche noi possiamo mandar fuori una scialuppa con un uomo, e stabilire un contatto senza rischiare l’intera nave. Devono pensare in un modo assai simile al nostro».
Il comandante replicò, senza distogliere gli occhi dalla visipiastra: «Signor Dort, le spiacerebbe uscir fuori e dare un’occhiata da vicino a quel coso? Non posso ordinarglielo, ma… ho bisogno di tutto il mio personale operativo in quest’emergenza. Il personale d’osservazione, invece…»
«È sacrificabile. D’accordo, signore», si affrettò a concludere Tommy. «Non prenderò una scialuppa, signore. Soltanto una tuta con un propulsore. Sarò più piccolo, e in più le braccia e le gambe convinceranno chi guarda che non sono una bomba. Credo che dovrei portare con me un videotrasmettitore…»
La nave aliena continuò a ritirarsi: quaranta, ottanta, quattrocento miglia. Si fermò, e rimase laggiù come appesa, aspettando. Mentre si infilava nella tuta spaziale a propulsione atomica, appena fuori della camera d’equilibrio della Llanvabon, Tommy continuava ad ascoltare i rapporti, man mano venivano trasmessi attraverso gli altoparlanti in tutta la nave. Il fatto che l’altra nave avesse arrestato la sua ritirata a quattrocento miglia di distanza era incoraggiante. Forse non disponeva di armi efficaci oltre quella distanza, e così si sentiva al sicuro. Ma aveva appena pensato questo, che la nave aliena si ritirò a precipizio a una distanza assai maggiore. Il che, rifletté Tommy, quando infine uscì dalla camera di equilibrio nello spazio esterno, poteva esser dovuto al fatto che gli alieni si erano resi conto di essersi traditi… o forse perché volevano dar l’impressione di averlo fatto.
Tommy schizzò via dalla Llanvabon, lucida come uno specchio, attraverso un vuoto che ardeva luminoso e rappresentava, per un essere umano, un’esperienza completamente nuova. Dietro di lui la Llanvabon virò di bordo e sfrecciò via. La voce del comandante gli risuonò negli auricolari del casco.
«Ci ritiriamo anche noi, signor Dort. C’è la remota possibilità che abbiano caricato in quella scialuppa qualche tipo di esplosivo atomico che non potevano usare in prossimità della loro nave, ma che potrebbe essere distruttivo per noi anche da così lontano. Noi arretriamo. Lei tenga sempre il suo videotrasmettitore puntato sull’oggetto».
Il ragionamento era fondato, anche se sconfortante. Un esplosivo in grado di distruggere ogni cosa nel raggio di venti miglia era possibile in teoria, ma gli umani non l’avevano ancora. Era senz’altro più sicuro per la Llanvabon farsi indietro.
Ma Tommy Dort si sentì molto solo. Saettava attraverso il vuoto verso il minuscolo punto nero sospeso in quell’incredibile splendore. La Llanvabon svanì. Già a una distanza relativamente breve il suo scafo lucido si confuse con quella nebbia luminosa. Neppure la nave aliena era visibile a occhio nudo. Tommy nuotava nel niente, a quattromila anni-luce da casa, diretto al punto nero, l’unico oggetto distinguibile in tutto lo spazio.
Quando vi fu vicino, l’oggetto gli apparve come una sfera lievemente schiacciata, con un diametro di poco inferiore ai due metri. Quando Tommy vi atterrò sopra coi piedi, rimbalzò via. Dalla superficie della sfera sporgevano in tutte le direzioni piccole protuberanze simili a corna o viticci. L’aspetto non differiva molto da una mina subacquea innescata, ma c’era il baglione d’un cristallo su ogni punta.
«Sono arrivato», annunciò Tommy nel microfono del casco.
Afferrò uno di quei corni e si tirò verso l’oggetto. Era tutto di metallo nero opaco. Attraverso lo spessore dei guanti non poteva avvertire, ovviamente, se la superficie fosse liscia o granulosa, ma continuò a farvi scorrere sopra la mano cercando di scoprire lo scopo del manufatto.
«Punto morto, signore», disse poco dopo: «Niente da riferire che il videotrasmettitore non abbia già mostrato».
Fu a questo punto che cominciò a percepire le vibrazioni attraverso la tuta, che si fecero sempre più forti. Una sezione della sfera metallica si aprì, scivolando di lato. Tommy si sporse a guardar dentro, aspettandosi di vederne uscire i primi alieni civilizzati incontrati dall’uomo.
Ma ciò che vide fu soltanto una piastra piatta sulla quale un bagliore rosso cupo strisciava qua e là apparentemente senza uno scopo. Dagli auricolari del casco uscì un’esclamazione di sorpresa. La voce del comandante.
«Molto bene, signor Dort. Piazzi il suo videotrasmettitore davanti a quella piastra. Hanno sganciato lì fuori un congegno automatico con una visipiastra all’infrarosso, per comunicare con noi senza rischiare nessuno dei loro. Qualunque reazione violenta da parte nostra danneggerebbe soltanto una macchina. Forse si aspettano che lo portiamo a bordo… e potrebbe anche essere una bomba da far esplodere nel preciso momento in cui s’inizierà il loro viaggio di ritorno a casa. Bene, manderò anch’io una visipiastra da piazzare davanti alla loro. Lei torni a bordo».
«Sissignore», rispose Tommy. «Ma da che parte sta la Llanvabon, signore?»
Non c’erano costellazioni: la nebulosa le oscurava tutte con la sua luminosità diffusa. L’unica cosa visibile oltre al robot sferico era la stella doppia al centro della nube. Tommy non riusciva più a orientarsi. Ma gli restava ancora quel punto di riferimento.
«Si allontani in direzione opposta a quella della stella doppia», gli giunse l’ordine attraverso gli auricolari del casco. «Ci penseremo noi a raccoglierla».
Poco dopo gli passò accanto un solitario oggetto opaco, diretto verso la sfera aliena, anch’esso con una videopiastra da mettere in posizione. Le due navi spaziali, ognuna ben conscia di non poter rischiare la propria razza per una sia pur minima mancanza di precauzioni, avrebbero comunicato l’una con l’altra grazie a quei piccoli robot. I rispettivi sistemi visivi avrebbero consentito di scambiare tutte le informazioni che si sarebbe osato fornire, mentre da ambedue le parti si sarebbe continuato a scervellarsi sul miglior modo di garantirsi che la propria civiltà non sarebbe stata messa in pericolo da quel primo contatto con l’altra. Certo, il modo più sicuro e pratico sarebbe stato quello di distruggere l’altra nave con un attacco fulmineo e micidiale… per autodifesa, s’intende.
Da quel momento la Llanvabon fu una nave che si trovò ad affrontare due distinte imprese nello stesso tempo. La nave era giunta dalla Terra per compiere osservazioni a distanza ravvicinata sul membro più piccolo della stella doppia che si trovava al centro della nebulosa. La nebulosa stessa era il risultato della più titanica esplosione della quale l’uomo avesse conoscenza. L’esplosione aveva avuto luogo in un certo periodo dell’anno 2946 a.C, prima che la più antica delle sette successive città di Troia, da tempo scomparse, fosse anche soltanto immaginata. La luce di quella esplosione aveva raggiunto la Terra nell’anno 1054 d.C, ed era stata doverosamente registrata negli annali ecclesiastici, e in un modo un po’ più attendibile dagli astronomi cinesi di corte. Divenne eccezionalmente luminosa, al punto da esser visibile alla luce del giorno per ventitré giorni di seguito. La sua luce… distava quattromila anni-luce… aveva superato, in luminosità apparente, quella di Venere.
Da tutto ciò, novecento anni più tardi gli astronomi erano stati in grado di calcolare la violenza dell’esplosione. La materia sparata via dal centro dell’esplosione aveva viaggiato verso l’esterno a una velocità di due milioni e trecento miglia all’ora, più di trentottomila miglia al minuto, qualcosa di più di seicentotrentotto miglia al secondo. Quando i telescopi del ventesimo secolo erano stati puntati sulla scena di quest’immensa esplosione, rimanevano soltanto una stella doppia… e la nebulosa. La stella più luminosa del sistema doppio aveva caratteristiche quasi uniche, poiché aveva una temperatura superficiale così alta da non mostrare alcuna riga di assorbimento nello spettro. Aveva uno spettro continuo. La temperatura alla superficie del Sole è all’incirca di 7000 gradi assoluti. Quella della caldissima stella bianca era di 500.000 gradi. Questa stella aveva all’incirca la massa del Sole, ma soltanto un quinto del suo diametro, cosicché la sua densità era centosettantatré volte quella dell’acqua, sedici volte quella del piombo e otto volte quella dell’iridio, la sostanza più densa conosciuta sulla Terra. Ma questa densità, pur eccezionale, non raggiungeva quella di una nana bianca come la compagna di Sirio. La stella bianca nella Nebulosa del Granchio era una nana incompleta; una stella ancora nell’atto di collassare. L’esame ravvicinato di questa stella — unito alla lunga successione di fotografie prese all’interno del fascio luminoso da essa irradiato per quattromila anni di tempo e lungo una distanza di quattromila anni-luce attraverso lo spazio in direzione della Terra — avrebbe fornito informazioni d’inestimabile valore. La Llanvabon era giunta fin lì per compiere questo esame. Ma la scoperta d’una nave aliena intenta a un’analoga missione aveva implicazioni che relegavano in secondo piano lo scopo originario della missione.
Il minuscolo robot bulboso lasciato dagli alieni galleggiava nel tenue gas nebulare. Il personale operativo della Llanvabon era ai propri posti in attenta vigilanza, in preda a un crescente nervosismo. Il personale di osservazione si divise in due gruppi. Uno andò, a malincuore, a compiere le osservazioni per le quali la Llanvabon era venuta fin lì. L’altro gruppo si dedicò al problema rappresentato dalla nave aliena.
La presenza di questa nave implicava una cultura che aveva conseguito il volo interstellare. L’esplosione di cinquemila anni prima doveva aver spazzato via ogni traccia di vita in tutta la porzione di spazio cosmico riempita adesso dalla nebulosa. Per cui, gli alieni della nave nera dovevano provenire da un altro sistema solare esterno alla nebulosa stessa. Il loro viaggio doveva essere stato simile a quello della nave terrestre… per puri scopi scientifici. Non c’era nient’altro che si potesse ricavare dalla nebulosa.
Quindi, quegli alieni dovevano trovarsi per lo meno al livello della civiltà umana, il che significava che potevano disporre di capacità, conoscenze e merci di cui poter far commercio con gli uomini, in amicizia. Ma, fatalmente, anch’essi si sarebbero resi conto che l’esistenza dell’umanità, e il livello di civiltà da questa raggiunto rappresentavano una potenziale minaccia per la loro razza. Umani e alieni… le due razze avrebbero potuto essere amiche, ma altresì nemiche mortali. Ognuna, seppur involontariamente, rappresentava una mostruosa minaccia per l’altra. E l’unica cosa da farsi con una simile minaccia era distruggerla.
Lì, nella Nebulosa del Granchio, il problema era acuto e immediato. Quel che sarebbe stato, in futuro, il rapporto tra le due razze, sarebbe stato sistemato qui e adesso. Se fosse stato possibile stabilire relazioni di amicizia, una razza, altrimenti condannata, sarebbe sopravvissuta, ed entrambe ne avrebbero beneficiato immensamente. Ma ci si doveva, prima di tutto, conoscere, e instaurare una reciproca fiducia, senza che vi fosse il più piccolo rischio di tradimento. Nessuna delle due parti osava arrischiarsi a fare una sola delle cose indispensabili ad arrivare alla fiducia. L’unica cosa certa, per entrambe le parti, era distruggere l’altra o esser distrutta.
Ma anche per iniziare una guerra di distruzione totale, bisognava saperne assai di più sull’avversario. Vista la capacità di quegli alieni di attuare viaggi interstellari, essi dovevano disporre dell’energia atomica e di qualche forma d’iperpropulsione per viaggiare più veloci della luce. E insieme ai localizzatori, alle visipiastre, e alla telecomunicazione a onde corte, dovevano per necessità disporre di moltissimi altri congegni. Che armi avevano? Fino a che punto era estesa la loro cultura? Quali erano le loro risorse? Era possibile uno sviluppo di rapporti amichevoli, di commerci, oppure le due razze erano tanto dissimili che fra esse poteva esistere soltanto la guerra? E se la pace era possibile, come si poteva cominciare?
Agli uomini della Llanvabon occorrevano fatti… e occorrevano fatti anche all’equipaggio dell’altra nave. Ognuna delle due parti doveva portare indietro con sé ogni possibile frammento d’informazione. L’informazione più importante di tutte sarebbe stata l’esatta ubicazione dell’altra civiltà, nel caso in cui vi fosse stata guerra. Ma anche altre notizie sarebbero state ugualmente preziose.
Il fatto più tragico era però che non poteva esserci nessuna possibile informazione in grado di condurre alla pace. Nessuna delle due navi era pronta a rischiare la sopravvivenza della propria razza basandosi su una dichiarazione di buona volontà o sulla parola d’onore dell’altra.
Così, era una ben strana tregua quella in atto fra le due navi. Sia quella aliena che la Llanvabon continuarono la loro attività di osservazione. Il piccolo robot sferico galleggiava nel vuoto luminoso. Una telecamera della Llanvabon era messa a fuoco su una visipiastra aliena, e viceversa. Le comunicazioni ebbero inizio.
E progredirono in fretta. Tommy Dort fu tra quelli che fecero il primo rapporto sui progressi in corso. Il suo compito specifico in quella spedizione era terminato; adesso gli era stato affidato il compito di lavorare al problema della comunicazione con le entità aliene. Si recò insieme all’unico psicologo della nave fino alla cabina del capitano, per comunicargli la notizia del primo successo conseguito. La cabina del capitano era come sempre un luogo di silenzio e le luci rosso-cupo degli indicatori occhieggiavano tra le grandi visipiastre disposte sulle pareti e sul soffitto.
«Abbiamo stabilito un contatto abbastanza soddisfacente, signore», riferì lo psicologo. Aveva un aspetto stanco; il suo lavoro, durante tutto il viaggio, avrebbe dovuto consistere nel valutare i fattori individuali di errore nel personale di osservazione, portando l’attendibilità di tutti i dati ottenuti sempre più in là, un decimale dopo l’altro, verso l’esattezza assoluta. Quel nuovo incarico, al quale non era adatto, gli era stato imposto quasi a forza, e cominciava a risentirne gli effetti deleteri. «In altre parole, siamo in grado di dir loro quasi tutto ciò che vogliamo, facendoci capire, ed essere ugualmente in grado di capire ciò che ci dicono in risposta. Ma, com’è ovvio, non sappiamo quanto ci sia di vero in quello che ci dicono».
Gli occhi del comandante si appuntarono su Tommy Dort.
«Abbiamo collegato alcune apparecchiature», riferì Tommy, «forrealizzando un traduttore automatico. Disponiamo di visipiastre, naturalmente, e altresì di fasci direzionali di onde corte. Essi usano la modulazione di frequenza, più una variazione del profilo d’onda che, probabilmente, equivale alla successione dei suoni delle vocali e delle consonanti nel discorso. È qualcosa di nuovo, per noi, perciò non disponiamo di circuiti in grado di registrarlo; abbiamo comunque elaborato una specie di codice, che non è la lingua di nessuno di noi. Loro trasmettono su onde corte in modulazione di frequenza, e noi lo registriamo come suono. Quando noi trasmettiamo suoni, vengono convertiti in modulazione di frequenza».
Il comandante disse, corrugando la fronte:
«Come avete fatto ad accorgervi della variazione del profilo delle onde corte, se non possiamo registrarla?»
«Gli abbiamo mostrato il nostro registratore nelle visipiastre, e gli alieni ci hanno fatto vedere il loro. Registrano direttamente la modulazione di frequenza. Credo», aggiunse Tommy, soppesando le parole, «che non usino affatto i suoni, neppure per parlare tra loro. Hanno montato una vera e propria cabina di comunicazione, e noi li abbiamo osservati mentre comunicavano con noi. Non c’è stato nessun movimento percettibile di qualcosa che assomigliasse a un organo vocale. Invece che a un microfono, essi si tengono vicini a qualcosa che dovrebbe funzionare come un’antenna. La mia ipotesi, signore, è che usino microonde per quella che si potrebbe definire una comunicazione tra individuo e individuo. Credo che producano pacchetti di onde corte allo stesso modo in cui noi produciamo suoni».
Il comandante lo fissò: «Questo vorrebbe dire, forse, che possiedono la telepatia?»
«Mmmm… sì, signore», annuì Tommy. «E significa che anche noi possediamo la telepatia, dal loro punto di vista. Essi, certo, ignorano il concetto della produzione di onde sonore nell’aria per comunicare. Semplicemente, non usano né suoni né rumori per nessuno scopo».
Il comandante assimilò l’informazione, poi la mise da parte.
«Qualcos’altro?»
«Be’, signore…» fece Tommy, dubbioso, «credo che tutto sia pronto, adesso. Abbiamo concordato dei simboli arbitrari per ogni singolo oggetto, tramite le visipiastre, e abbiamo altresì elaborato rapporti tra i vari oggetti, verbi e così via, tramite diagrammi e immagini. Ora abbiamo un vocabolario di duemila parole che hanno un significato reciproco. Abbiamo installato un analizzatore dei loro pacchetti d’onda corta, che abbiamo collegato a una macchina decodificatrice. La sezione codificante di questa macchina sceglie poi tra le registrazioni per tradurre nei loro pacchetti d’onda, e ritrasmetterli, ogni nostro messaggio. Lei può parlare col comandante dell’altra nave anche subito, signore. Noi siamo pronti».
«Uhmmm… Qual è la sua impressione circa la loro psicologia?» Il comandante si era rivolto allo psicologo.
«Non saprei, signore», rispose questi, preoccupato. «Sembrano del tutto sinceri. Ma non hanno lasciato trapelare neppure un po’ della tensione che, sappiamo, deve senz’altro esistere laggiù. Si comportano come se stessero semplicemente installando un mezzo di comunicazione tra amici. Ma c’è… be’… c’è una sfumatura…»