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«Se posso permettermi, signore…» disse Tommy, a disagio.
«Sì?»
«Respirano ossigeno», proseguì Tommy. «E non sono molto diversi da noi anche sotto altri aspetti. Mi sembra, signore, che vi sia stata un’evoluzione parallela. Forse l’intelligenza si evolve in linee parallele proprio come… si… le funzioni basilari del corpo. Voglio dire», puntualizzò, «qualunque essere vivente, di qualunque tipo, deve ingerire, metabolizzare ed espellere. E forse, allo stesso modo, ogni cervello intelligente deve percepire, valutare e avere reazioni personali. Sono sicuro di aver percepito dell’ironia. Ciò implica anche l’esistenza di umorismo. In breve, signore, penso che possano rivelarsi creature piacevoli».
Il comandante si alzò in piedi.
«Hmmm…» fece, pensieroso, «vedremo quello che hanno da dire».
S’incamminò verso la cabina di comunicazione. Il trasmettitore d’immagini collegato al robot alieno era pronto, e il comandante si piazzò davanti ad esso. Tommy Dort si sedette alla macchina codificatrice e cominciò a battere sui tasti. Ne uscirono dei rumori del tutto improbabili che entrarono in un microfono e qui modularono la frequenza d’un segnale inviato all’altra astronave attraverso lo spazio. Quasi subito la visipiastra del robot sferico si accese, mostrando l’interno illuminato dell’altra nave. Un alieno si portò davanti all’obbiettivo e sembrò guardar fuori, in attesa, dalla visipiastra. La sua somiglianza con un essere umano era sbalorditiva. Ma non era umano. Era completamente calvo, e li fissò con uno sguardo schietto, con una vaga ombra ironica.
«Vorrei dire», cominciò il comandante, con voce grave, «le cose giuste, in questo primo contatto fra due differenti razze civilizzate, ed esprimere la speranza che tra i nostri due popoli s’instauri un rapporto d’amicizia».
Tommy Dort esitò, poi scrollò le spalle e batté con mano esperta sulla codificatrice. Altri improbabili rumori.
Il comandante alieno ricevette il messaggio. Fece un gesto di assenso, anche se non del tutto convinto. Il decodificatore sulla Llanvabon prese a ronzare e una successione di schede, una per parola, cadde giù in bell’ordine formando il messaggio in risposta nell’apposito riquadro. Tommy annunciò, con voce incolore:
«Signore, sta dicendo: “Tutto ciò suona bene, ma c’è un sistema che permetta a entrambi di tornare a casa vivi? Sarei felice se lei mi potesse descrivere un simile sistema, nel caso sia riuscito a idearlo. Al momento, mi pare inevitabile che uno di noi due debba essere ucciso”».
La confusione era al colmo. C’erano troppe domande che avrebbero dovuto trovar subito una risposta. Ma nessuno poteva rispondere a tutte. Eppure, bisognava.
La Llanvabon avrebbe potuto ripartire verso casa. La nave aliena poteva essere in grado, oppure no, di moltiplicare la velocità della luce per una unità in più rispetto al vascello terrestre. Se era in grado di andar più veloce, la Llanvabon avrebbe finito per arrivare abbastanza vicina alla Terra, rivelando la sua destinazione, e qui esser costretta a combattere. Avrebbe vinto, oppure no. Ma anche se avesse vinto, gli alieni potevano disporre d’un sistema di comunicazione grazie al quale informare il loro pianeta d’origine, prima dell’inizio della battaglia, di dov’era situata la base di partenza della Llanvabon. Ma la nave dei terrestri avrebbe anche potuto venire sconfitta. E se il suo destino era quello di finire distrutta, allora sarebbe stato meglio che ciò avvenisse qui, dove non avrebbe fornito nessun indizio circa la zona di spazio in cui gli esseri umani avrebbero potuto esser trovati da una flotta da guerra aliena, preavvertita e armata fino ai denti.
Ma… la nave nera si trovava esattamente nell’identica situazione. Anch’essa avrebbe potuto ripartire verso casa. Ma la Llanvabon poteva rivelarsi più veloce e tallonarla (la traccia lasciata da un campo iperpropulsivo non era affatto difficile da seguirsi, se ci si metteva all’opera con prontezza e con gli strumenti adatti). Inoltre, anche gli alieni non potevano sapere se la Llanvabon era in grado di far rapporto alla sua base di partenza anche da quell’immensa distanza. E se c’era una forte probabilità di venir distrutti, anche gli alieni avrebbero preferito combattere là nella nebulosa, piuttosto che far da guida a un probabile nemico fino al cuore della propria civiltà.
Quindi, nessuna delle due navi poteva pensare di fuggire. Era possibile che la nave nera conoscesse la rotta della Llanvabon all’interno della nebulosa, ma questa era una curva logaritmica, e poteva esser seguita all’indietro, questo è vero, ma senza conoscere il punto esatto in cui la curva aveva avuto inizio, era impossibile conoscere la direzione da cui la nave dei terrestri era arrivata attraverso la Galassia. Per il momento, dunque, le due navi erano alla pari. Ma la domanda era, e restava: «E adesso?»
Non c’era nessuna risposta specifica. Gli alieni scambiavano informazioni al ritmo di una data per una ricevuta — e non sempre sembravano rendersi conto di quali informazioni in realtà stessero dando. Anche per gli umani si procedeva al ritmo di un’informazione data per una ricevuta — e Tommy Dort sudava sangue per l’ansia di non fornire nessun indizio circa l’ubicazione della Terra.
Gli alieni vedevano alla luce infrarossa, e le visipiastre e le telecamere degli umani e degli alieni dovevano far variare le rispettive frequenze di trasmissione di un’intera ottava all’insù o all’ingiù perché le immagini trasmesse dall’una all’altra nave fossero reciprocamente visibili. Agli alieni non venne in mente che le caratteristiche della loro vista rivelavano che il loro sole era una nana rossa, il cui massimo di radiazione si trovava a una frequenza appena al di sotto di quella minima visibile agli occhi umani. Ma non appena sulla Llanvabon ci si congratulò per questa brillante deduzione, ci si rese conto che anche gli alieni, in base al tipo di radiazione cui erano sensibili gli occhi umani, potevano aver dedotto il tipo di luce irradiato dal Sole.
C’era un congegno per la registrazione dei pacchetti d’onde corte che veniva usato correntemente tra gli alieni, così come gli uomini usavano i registratori di suoni. Gli umani bramavano averlo a tutti i costi. E allo stesso modo gli alieni erano affascinati dai misteri del suono. Naturalmente, gli alieni erano, si, in grado di percepire i suoni, ma allo stesso modo in cui il palmo della mano di un uomo percepisce la luce infrarossa attraverso la sensazione del calore, ma non riuscivano a distinguere l’altezza di un suono, o il timbro, più di quanto un uomo sia capace di distinguere fra due frequenze di radiazione termica, anche se separata da una mezza ottava. Per quegli alieni, la scienza umana dei suoni era una straordinaria scoperta. Avrebbero trovato usi, per i rumori, che gli umani non si sarebbero mai sognati… se fossero sopravvissuti.
Ma quello era un problema secondario. Nessuna delle due navi poteva partire se prima non avesse distrutto l’altra. Ma, mentre il flusso delle informazioni continuava, nessuna delle due navi poteva permettersi di distruggere l’altra. C’era altresì la faccenda del colore esterno delle due navi. La Llanvabon risplendeva, all’esterno, come uno specchio; la nave aliena era d’un nero tenebroso alla luce visibile. Assorbiva perfettamente il calore, e avrebbe dovuto irradiarlo con altrettanta prontezza. Ma non era così. Quel rivestimento nero non la rendeva equivalente a un «corpo nero», non era, cioè, una mancanza assoluta di «colore». In realtà, era una perfetta superficie riflettente per certe lunghezze d’onda infrarosse; altre, a una frequenza più alta, le assorbiva, convertendone una parte a una frequenza più bassa, di frequenza uguale alle radiazioni riflesse. Grazie a questa sorta di «fluorescenza» nell’infrarosso, la nave aliena si garantiva un perfetto equilibrio termico e manteneva costante la temperatura interna anche lì, nel vuoto.
Tommy Dort stava duramente sgobbando alla sezione comunicazioni. Non trovava i processi mentali degli alieni talmente alieni da non riuscire a seguirli. Le discussioni tecniche, ora, avevano raggiunto lo stadio della navigazione interstellare. Per illustrare le rispettive tecniche era necessaria una mappa stellare. Naturalmente, non era certo il caso di procurarsi una mappa presa dalla sala delle carte della Llanvabon, poiché gli alieni, studiandola, avrebbero potuto senz’altro scoprire il punto dal quale la mappa era stata proiettata. Tommy, perciò, si era confezionato una mappa nuova di zecca con immagini stellari immaginarie ma convincenti riprodotte su di essa. Trasmise, quindi, le istruzioni per l’interpretazione attraverso la codificatrice. In cambio, gli alieni presentarono una propria mappa stellare alla visipiastra del robot sferico. Copiatala all’istante a mezzo fotografia, gli ufficiali della Llanvabon si misero subito a lavorarci sopra, cercando di calcolare da quale punto della Galassia le costellazioni sarebbero apparse in quel modo. La mappa li lasciò assai perplessi.
Fu Tommy che finì per rendersi conto che anche gli alieni avevano realizzato una mappa stellare posticcia per quella dimostrazione… un’immagine speculare della finta mappa che lui stesso aveva propinato loro poco prima.
A questa constatazione, Tommy sogghignò. Quegli alieni cominciavano a piacergli. Non erano umani. Ma avevano un senso molto umano dell’umorismo. A un certo punto, Tommy tentò una battuta di spirito. Dovette venir tradotta in codice, e poi trasformata in una successione di pacchetti d’onde corte, a modulazione di frequenza, questi pacchetti furono trasmessi all’altra nave, e qui Dio soltanto sapeva attraverso quali altri congegni si trovarono costretti a passare per diventare intelligibili. Non sembrava proprio che una battuta di spirito, costretta a passare attraverso tante formalità, avesse molte possibilità di sembrar divertente ai destinatari. Ma gli alieni riuscirono ugualmente a capirla.
Per uno di quegli alieni l’uso del trasmettitore divenne una funzione normale almeno quanto era diventato per Tommy l’uso della codificatrice. Tra l’umano e il suo equivalente alieno si sviluppò ben presto una paradossale amicizia che ambedue svilupparono conversando tra loro tramite codificatrice, decodificatore e pacchetti d’onde corte a modulazione di frequenza. Quando le questioni tecniche nei rispettivi messaggi cominciarono a farsi troppo impegnative, quell’alieno a volte ci buttava dentro delle sue personali interpretazioni in una sorta di slang… e molto spesso era proprio quest’intercalare alla buona che chiariva i punti di maggior confusione. Tommy, per nessun particolare motivo, aveva registrato in codice il nome «Daino», che il decodificatore ora sceglieva ogni volta che quel particolare alieno firmava un messaggio col proprio simbolo.
Durante la terza settimana di comunicazioni, il decodificatore esibì all’improvviso a Tommy, nell’apposito riquadro, il messaggio:
Sei un bravo tipo. Peccato che dobbiamo ucciderci — DAINO.
Tommy, che aveva pensato la stessa cosa, batté la sua amara risposta:
Non riusciamo a vedere una via d’uscita. E voi?
Vi fu una pausa, poi si formò un altro messaggio:
Se potessimo fidarci l’uno dell’altro, si. Al nostro comandante piacerebbe. Ma non possiamo fidarci di voi, e voi non potete fidarvi di noi. Ma ci dispiace — DAINO.
Tommy Dort portò i messaggi al comandante.
«Guardi qua, signore!» disse, affannato. «Questa gente è quasi umana. Sono dei tipi simpatici».
Il comandante era impegnato nel suo importante compito di pensare alle cose di cui preoccuparsi, e se ne preoccupava. Replicò, stancamente:
«Respirano ossigeno. La loro aria ha il ventotto per cento di ossigeno, ma potrebbero cavarsela molto bene anche sulla Terra. Per loro il nostro pianeta sarebbe una preziosa conquista. E non sappiamo ancora quali armi abbiano, né di che cosa sono capaci. Lei gl’insegnerebbe la strada per la Terra?»
«È probabile che loro la pensino allo stesso modo», aggiunse il comandante, asciutto. «E se anche riuscissimo a stabilire un contatto amichevole, per quanto tempo resterebbe amichevole? Se le loro armi fossero inferiori alle nostre, penserebbero di doverle migliorare per la loro stessa sicurezza. E noi, sospettando la loro intenzione di ribellarsi, li schiacceremmo non appena ci fosse possibile… per motivi di sicurezza! E se fossero le nostre armi ad essere inferiori, sarebbero loro a doverci liquidare prima che potessimo metterci alla pari!»
Tommy non aveva replicato, ma si agitava inquieto.
«Se distruggessimo questa nave aliena e ce ne tornassimo a casa», disse ancora il comandante, «il governo della Terra ci farebbe oggetto del suo biasimo se non sapessimo dirgli da dove provenivano. Ma cosa possiamo fare? Potremo chiamarci fortunati se riusciremo a ritornare vivi, con l’annuncio di questa civiltà aliena. Non è possibile estrarre da queste creature più informazioni di quante noi stessi gliene diamo, e certo noi non gli daremo il nostro indirizzo! Ci siamo imbattutti in loro per caso. Forse, se distruggessimo questa nave, non ci sarà un altro contatto per altri mille anni. E sarebbe un peccato, perché tutti gli scambi possibili con loro potrebbero significare tanto!
«Ma bisogna essere in due per fare la pace, e noi non possiamo rischiare di fidarci di loro. L’unica risposta è ucciderli, se possiamo, e se non possiamo, accertarci che quando ci uccideranno, non scoprano niente che possa condurli fino alla Terra. Non mi piace», concluse il comandante, desolato, «ma, semplicemente, non c’è nient’altro da fare!»
Sulla Llanvabon i tecnici lavoravano frenetici, divisi in due gruppi: uno si preparava per la vittoria, l’altro per la sconfitta. Quelli che lavoravano per la vittoria potevano far poco. I fulminatori principali erano le uniche armi che dessero qualche affidamento. Le loro incastellature furono modificate così da non essere più fisse, con soli cinque gradi di gioco come erano state finora. Adesso, collegate grazie a dei sistemi elettronici a una centrale automatica, a sua volta comandata da un localizzatore radar, avrebbero tenuto i fulminatori esattamente puntati con assoluta precisione su un dato bersaglio, qualunque manovra questo tentasse per disimpegnarsi. Inoltre, in sala-motori, un genio fino a quel momento misconosciuto, aveva congegnato un sistema di accumulatori grazie al quale l’intera energia normalmente prodotta dai motori della nave poteva essere temporaneamente immagazzinata e liberata a straripanti bordate. Almeno teoricamente, la portata dei fulminatori ne risultava moltiplicata e le loro capacità distruttive portate a livelli assai maggiori… Ma non c’era granché di più che si potesse fare.
Il gruppo per la sconfitta aveva assai più spazio per manovrare. Le mappe stellari, gli strumenti di navigazione che contenevano indicazioni rivelatrici, le registrazioni fotografiche che Tommy Dort aveva realizzato durante i sei mesi di viaggio dalla Terra, e qualunque altra cosa che potesse offrire indizi sull’ubicazione della Terra nella Galassia, furono approntati per la distruzione. Furono posti in armadi chiusi ermeticamente, i quali, aperti da qualcuno che non conoscesse tutte le fasi del corretto procedimento per farlo, avrebbero trasformato in cenere il loro contenuto in una sola vampata, soffiando via le ceneri in modo che non fosse possibile ricostruire niente da esse. Naturalmente, se la Llanvabon fosse uscita vittoriosa, esisteva il metodo — tenuto prudentemente segreto — per aprirli in tutta sicurezza.
Delle bombe atomiche furono piazzate lungo tutto lo scafo della nave. Se l’equipaggio umano fosse rimasto completamente ucciso senza che la nave andasse distrutta, quelle bombe sarebbero scoppiate non appena la Llanvabon fosse stata arpionata e portata al fianco dello scafo alieno. Non che ci fossero delle bombe atomiche già pronte a bordo, ma la nave disponeva di cartucce di riserva di combustibile nucleare e non fu difficile riadattarle in modo che, una volta attivate, invece di liberare un flusso graduale d’energia, esplodessero. E quattro uomini del personale operativo della nave terrestre rimanevano sempre in tuta spaziale, coi caschi chiusi, per continuare a combattere contro la nave aliena nel caso in cui lo scafo della Llanvabon fosse stato perforato da prua a poppa in un attacco improvviso.
Un simile attacco, tuttavia, non sarebbe avvenuto a tradimento. Il comandante alieno aveva parlato con franchezza. I suoi modi erano quelli d’un individuo che mal giudicava le bugie, ammettendone l’inutilità. A loro volta, la Llanvabon e il suo comandante sostenevano, scandendo ogni parola, le virtù della franchezza. Ognuna delle due parti insisteva — e forse era sincera — di desiderare l’amicizia fra le due razze. Ma nessuna delle due parti poteva fidarsi che l’altra, proprio mentre diceva questo, non stesse invece facendo ogni sforzo per scoprire proprio quell’unica cosa che a tutti i costi bisognava nascondere: l’ubicazione del pianeta d’origine dell’altra nave. E nessuna delle due navi osava credere che l’altra fosse incapace di seguirla per tutto il viaggio di ritorno, e scoprirlo. Poiché ognuna delle due parti sentiva che era suo dovere compiere proprio quest’atto, inaccettabile dall’altra, nessuna delle due poteva rischiare la sopravvivenza della propria gente mostrandosi fiduciosa. Dovevano combattere, poiché non potevano fare nient’altro.
Potevano procrastinare l’inizio della battaglia scambiandosi informazioni. Ma c’era un limite alla quantità e al tipo d’informazioni che si potevano offrire. Né gli uni né gli altri avrebbero dato informazioni sulle armi, sull’entità e la distribuzione della popolazione e delle risorse. Non sarebbe mai stata rivelata neppure la distanza dei propri mondi d’origine dalla Nebulosa del Granchio. Certo, si scambiarono parecchie informazioni, ma sapevano che tutto era destinato a concludersi con una battaglia all’ultimo sangue, e ognuna delle due parti si affannava a dipingere la propria civiltà come dotata d’una straripante potenza, per intimorire l’altra e dissuaderla da ogni prospettiva di conquista; in tal modo i terrestri apparivano sempre più minacciosi agli alieni, e viceversa, e la battaglia finale era resa sempre più inevitabile.
Tuttavia, era curioso come questi cervelli alieni potessero colloquiare, intrecciarsi fra loro, capirsi… Tommy Dort, continuando a sudare tra codificatrice e decodificatore, vide emergere qualcosa d’inconfondibile, di personale, da quella che all’inizio era soltanto un’accozzaglia ampollosa di parole-scheda, Tommy aveva visto gli alieni soltanto alla visipiastra, e anche così in una luce dalla frequenza spostata di un’ottava rispetto alla luce alla quale essi vedevano. E gli alieni, a loro volta, lo vedevano anch’essi in una maniera strana, in una luce spostata di un’ottava rispetto a quello che, per i loro occhi, sarebbe stato il lontano ultravioletto. Ma il cervello umano e quello alieno funzionavano allo stesso modo. In maniera sbalorditivamente uguale. Tommy Dort provava simpatia, anzi, qualcosa di molto simile all’amicizia, per quelle creature della nave spaziale nera, calve, con una loro asciutta ironia, e che respiravano, com’era stato appurato, tramite branchie.
Spinto da quella affinità mentale, preparò — anche senza nessuna speranza — una specie di tabella con tutti gli aspetti del problema che si trovavano ad affrontare. Non era affatto convinto che quegli alieni avessero l’istintivo desiderio di distruggere l’uomo. In effetti, l’analisi approfondita delle comunicazioni che continuavano a giungere dagli alieni aveva finito per creare, sulla Llanvabon, un sentimento di tolleranza non dissimile da quello che aveva quasi sempre finito per crearsi, sulla Terra, fra i soldati nemici durante una tregua. Gli uomini non provavano nessun sentimento d’inimicizia, e con tutta probabilità neppure gli alieni. Ma dovevano uccidere, o essere uccisi, a causa d’una logica implacabile.
La tabella di Tommy era assai dettagliata. Fece una lista degli obbiettivi che gli umani miravano a conseguire, in ordine d’importanza. Il primo era senz’altro quello di portare indietro, sulla Terra, la notizia dell’esistenza della cultura aliena. Il secondo, era l’esatta localizzazione di quella cultura aliena in un preciso pianeta della Galassia. Il terzo era riportare indietro il maggior numero possibile d’informazioni su quella cultura. Sul terzo ci stavano lavorando sopra, ma il secondo era probabilmente impossibile. Il primo sarebbe dipeso dal risultato che doveva aver luogo.
Gli obbiettivi degli alieni sarebbero stati esattamente gli stessi, cosicché gli uomini dovevano impedire, primo, che la notizia dell’esistenza della civiltà della Terra fosse riportata indietro da essi sul loro pianeta natale; secondo, che gli alieni scoprissero la posizione della Terra; e, terzo, l’acquisizione da parte degli alieni d’informazioni che li potessero incoraggiare e aiutare ad attaccare l’umanità. Ma anche in questo caso il terzo punto era in corso, del secondo si stavano con tutta probabilità occupando, e il primo doveva aspettare la battaglia.
Non c’era nessuna possibilità di evitare l’amara necessità di distruggere la nave nera. E anche gli alieni non avrebbero visto nessun’altra soluzione del loro problema se non la distruzione della Llanvabon. Ma Tommy Dort, contemplando mesto la tabella si rese conto che neppure la vittoria completa sarebbe stata la soluzione perfetta. L’ideale sarebbe stato che la Llanvabon portasse con sé la nave nera per poterla studiare. Soltanto in questo modo il terzo obbiettivo sarebbe stato realizzato in pieno. Ma Tommy si rese conto di odiare l’idea d’una vittoria così completa, anche se fosse stata possibile. Odiava l’idea di dover uccidere delle creature, anche se erano non-umane e perfettamente in grado di afferrare il concetto di esseri umani che allestivano una flotta da combattimento per distruggere una cultura aliena in quanto la sua esistenza rappresentava un pericolo. Il puro caso di quell’incontro, sia pure tra gente che avrebbe potuto provar simpatia l’una per l’altra, aveva creato una situazione che poteva sfociare soltanto nella distruzione totale.
Tommy Dort era amareggiato nei confronti del proprio cervello che si mostrava incapace di trovare una risposta in grado di funzionare. Ma doveva esserci una risposta! La posta in gioco era troppo grossa! Era troppo assurdo che due navi spaziali dovessero combattere — e nessuna delle due era stata concepita per farlo — cosicché il sopravvissuto riportasse indietro la notizia che avrebbe indotto la sua razza a compiere frenetici preparativi contro l’altra che non era stata in nessun modo avvertita.
Tuttavia, se entrambe le razze fossero state avvertite, e ciascuna delle due avesse saputo che l’altra non voleva combattere, e se avessero potuto comunicare l’una con l’altra ma non localizzarsi a vicenda finché non fosse stato trovato un terreno per la reciproca fiducia…
Era impossibile. Era una chimera. Era un sogno a occhi aperti. Era una sciocchezza. Ma era una sciocchezza tanto attraente che Tommy Dort, con una punta d’amaro, la trasferì nella codificatrice per comunicarla al suo amico Daino che respirava con le branchie e in quel momento si trovava a qualche centinaio di migliaia di miglia di distanza, in mezzo alla nebbiosa luminosità della nube.