125960.fb2 Questa ? la strada - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 4

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— Perderei due settimane o più — replicò Crown. — L’Autostrada del Ragno è l’unica da prendere in considerazione. — Leaf e Crown si scambiarono occhiate circospette. Leaf chiese quale fosse la natura del guaio sull’autostrada, ma l’Invisibile rispose solo che la strada era stata «uccisa» e non fornì altre spiegazioni.

— Noi andremo avanti — disse Crown, — ostacolo o no.

— Come volete — disse l’Invisibile più anziano versando dell’altro vino. Entrambi gli Invisibili cominciavano già a svanire; la caraffa sembrava sospesa nella foschia. E così anche la discussione divenne irreale come un sogno, poiché le risposte non seguivano più strettamente il senso delle domande e le parole degli Invisibili giungevano a Leaf e Crown con un suono ovattato. Alla fine vi fu un lungo intervallo di silenzio, e quando Leaf tese il bicchiere vuoto, la caraffa non gli venne più offerta e così i due capirono di essere rimasti soli nella tenda. Uscirono e si fermarono in altre tende a fare domande a proposito dell’ostacolo sull’Autostrada del Ragno, ma nessuno ne sapeva nulla: né alcuni giovani Stelle Danzanti, né tre femmine Respira-acqua dal viso piatto, né una famiglia di Donatori di Fiori. Quando ci si poteva fidare delle parole dell’Invisibile? Che cosa intendevano con strada «morta»? Era probabile che con ciò volessero dire semplicemente che la strada era ritualmente impura per qualche ragione nota solo agli Invisibili. Chi poteva mai essere certo del significato delle parole di un Invisibile? Quella notte, nel carro, i quattro si erano interrogati sull’idea di una strada che era stata «uccisa», ma neppure la percezione intuitiva di Shadow, e neanche l’estesa conoscenza che Sting aveva dei dialetti e dei costumi delle tribù poterono far luce sulla cosa. Alla fine Crown riaffermò la propria decisione di continuare sull’itinerario che a suo tempo avevano scelto, e fu l’Autostrada del Ragno che essi imboccarono uscendo da Theptis. Mentre procedevano verso ovest non incontrarono nessuno che viaggiasse in senso inverso, anche se si erano aspettati di trovare nelle corsie in direzione est un flusso di veicoli che tornavano indietro da quell’ostacolo che ostruiva la strada più avanti. Questo rallegrò Crown; ma Leaf osservò fra sé che il loro sembrava essere l’unico veicolo sulla strada in entrambe le direzioni, come se tutti gli altri sapessero che era meglio non tentare neppure. In quella solitudine assoluta viaggiarono per quattro giorni verso ovest, prima che la pioggia purpurea li colpisse.

Ora l’Invisibile disse: — Entra in trance e guida i tuoi cavalli. Io sognerò al tuo fianco finché verrà il risveglio.

— Preferisco l’intimità.

— Non sarai disturbato.

— Ti chiedo di andartene.

— Tratti freddamente i tuoi ospiti.

— Sei mio ospite? — chiese Leaf. — Non mi ricordo di averti invitato.

— Hai bevuto il vino nella nostra tenda. Questo ti obbliga a ricambiare l’ospitalità. — L’Invisibile aumentò la propria intensità corporea fino ad apparire solido come Crown; ma proprio mentre Leaf lo osservava, si assottigliò di nuovo, scomparendo a chiazze. Attraverso il suo petto si vedeva la parete più distante della cabina. Le braccia erano scomparse, ma non le mani dalle lunghe dita adunche. Stava sogghignando, mettendo in mostra una doppia fila di denti storti. Nella cabina c’era uno strano odore, acuto e muschiato, come aceto misto a miele. L’Invisibile disse: — Farò ancora un pezzetto di strada con voi. — E scomparve del tutto.

Leaf cercò negli angoli della cabina, sapendo che un Invisibile si poteva sempre sentire al tatto anche se si sottraeva alla vista. Le sue mani non incontrarono nulla. Svanito, svanito, svanito, sgattaiolato nel luogo in cui finiscono le fiamme spente, eh? Anche l’odore di aceto e miele stava diminuendo. — Dove sei? — chiese Leaf: — Ti nascondi ancora qui vicino? — Silenzio. Leaf fece spallucce. L’odore della pioggia purpurea aveva di nuovo preso il sopravvento. Era ora di muoversi, con o senza passeggero clandestino. La pioggia batteva contro il finestrino con enormi gocce fangose sospinte dal vento. Ancora una volta Leaf prese le redini. Bandì l’Invisibile dalla propria mente.

Le piogge purpuree scaturivano da nuclei gassosi alla deriva negli strati superiori dell’atmosfera: nuvole impregnate dei residuati chimici che si innalzavano dai luoghi più colpiti e contaminati, e circondavano il pianeta come tempeste maligne. Scontrandosi con una massa di aria fredda, quelle nuvole velenose spesso scaricavano il loro fardello di acidi e carburi maleodoranti sotto forma di tremendi temporali; e quelle fetide precipitazioni erano spesso fatali per piante, cespugli e piccoli animali, qualche volta anche per l’uomo.

La pioggia purpurea era per certe creature il segnale per uscire dai loro nascondigli: predatori furtivi che si nutrivano di ciò che era morto e moribondo, e creature più grandi e pericolose che attaccavano qualunque essere vivente non abbastanza lesto a fuggire. I ragni senza gambe erano tra le creature più disgustose.

Erano bestie sinistre di forma sferica, della taglia di un grosso cane, di appetito vorace e spietati nella caccia. Avevano corpi grassocci, ricoperti di peli marroni ruvidi e folti; sopra la bocca dai denti aguzzi avevano otto occhi luccicanti. Erano davvero senza gambe, ma non immobili, perché un unico enorme piede carnoso, qualcosa di simile al corpo di una lumaca, spuntava da sotto il ventre di questi ragni e li faceva avanzare con un passo lento ma inesorabile. Come inseguitori erano scarsi, facilmente distanziati dagli animali più sani e robusti: ma per le vittime stordite dalla pioggia purpurea, erano un pericolo mortale, pronti a colpire con artigli aguzzi e velenosi, che balzavano fuori da rientranze poste lungo il loro dorso. Ma erano davvero ragni? Leaf non ne aveva idea. Come ogni altra cosa, erano specie recenti, mutazioni di l’Anima-sa-che-cosa, risalenti al periodo dei burrascosi rivolgimenti biologici sopravvenuti alla fine della vecchia civiltà industriale, e nessuno li aveva ancora studiati da vicino o aveva voglia di farlo.

Crown ne aveva uccisi quattro. I loro corpi giacevano rovesciati sul bordo della strada, con i piedi che pendevano avvizziti e cadenti come funghi strappati. Un’altra dozzina di ragni erano emersi dalle basse colline che fiancheggiavano l’autostrada e strisciavano lentamente verso il carro impantanato; parecchi avevano già raggiunto i loro compagni morti e stavano per cibarsi di essi, mentre qualcuno degli altri adocchiava i cavalli.

I sei incubi, prigionieri dei loro finimenti, si agitavano a disagio nello stretto spazio disponibile, raspando con gli zoccoli il suolo fangoso. Erano animaletti grossi e robusti, neri come la morte, con lunghe orecchie piumose e il cranio alto e rotondo che conteneva una mente acuta come quella di molti esseri umani, e in alcuni casi anche di più. La pioggia infastidiva le giumente, ma non costituiva una seria minaccia e i ragni potevano venir tenuti a bada con i calci, ma era chiaro che tutta quella situazione era spiacevole.

Leaf intendeva toglierle di lì più in fretta possibile.

Una pellicola viscida ricopriva tutto ciò che la pioggia aveva toccato, e la strada era un miserevole pantano scivoloso come il ghiaccio. La cosa era pericolosa per tutti. Se una giumenta inciampava e cadeva, poteva fratturarsi una zampa e causare tanto scompiglio da far cadere anche il resto della pariglia: e mentre le giumente ferite si agitavano nel fango, i ragni affamati si sarebbero precipitati su di loro, sfoderando gli artigli velenosi, con punture che avrebbero stordito e lasciato gli animali paralizzati, impotenti, vulnerabili di fronte a quei denti famelici e alle mandibole voraci. Mentre il carro si muoveva in quei luoghi paludosi e impregnati di pioggia, Leaf avrebbe dovuto costantemente rassicurare i cavalli, inondandoli con la propria energia per confortarli, un compito estenuante, un compito che aveva sfinito il povero Sting.

Leaf si fece scivolare le redini sopra la testa. Percepì la consapevolezza dei sei cavalli impauriti.

Poiché era ancora sveglio, il contatto era incerto e confuso. Una mente cosciente non poteva comunicare in modo utile con gli animali. Per guidare le pariglie doveva entrare in uno stato di trance, uno stato simile al sogno: loro non avrebbero risposto ad una entità tanto rozza come un’intelligenza cosciente. Si guardò intorno per cercare qualche segno dell’Invisibile. No, non si vedeva. Bene. Leaf focalizzò la mente.

Chiuse gli occhi. La tecnica della trance era semplice per lui, quando non c’erano distrazioni.

Visualizzò una galleria scura, con l’imboccatura stretta, che scendeva verso il basso. Scivolò verso l’ingresso. Rimase sospeso per un attimo.

Entrò.

Galleggia, galleggia, sospinto verso il basso da correnti calde, gentili: affonda in una lenta discesa a spirale, come una foglia autunnale in una brezza di primavera. Le pareti della galleria sono circolari, cristalline, illuminate dall’interno da una luce che brilla più viva a mano a mano che lui cade verso il centro del mondo. Abbaglianti fiori azzurri e scarlatti, trasparenti come il vetro, spuntano dalle fenditure ad intervalli perfettamente regolari.

Lui scende più in basso, senza toccare nulla. Giù.

Entra in un luogo dove la galleria si allarga diventando una stanza dalle pareti lisce, sigillate ad una estremità. Lui si sdraia sul pavimento. Questo è di pietra nera, viscida e scivolosa; lui sogna in un calore dolce e acquiescente simile al grembo materno. Qui i colori sono confusi, i suoni attutiti. Ode una musica lontana, soffocata e tambureggiante, rat-a-tat, rat-a-tat, bllooom, bllooom.

Ora può entrare completamente in contatto con le menti dei cavalli. Il suo spirito si espande verso di loro: lui le avvolge, le accoglie dentro di sé. Avverte l’identità di ognuna, percepisce il mutevole gioco delle loro emozioni, l’impennata delle loro fantasie, le loro paure. Ogni giumenta ha una propria reazione alla pioggia, ai ragni, alla strada fradicia d’acqua. Una è irrequieta, l’altra timorosa, una furente, una scontrosa, l’altra tesa, l’altra torpida. Immette energia in loro. Le unisce. Avanti, radunate le forze, portateci avanti; questa è la strada, dobbiamo andare.

Gli incubi si agitano.

Rispondono bene al suo tocco. Lui pensa che come guidatore lo preferiscano a Sting e a Shadow: Sting è troppo rigido, Shadow troppo permissiva. Leaf le tiene unite, le dirige con facilità, dà loro la guida di cui hanno bisogno. Esse sono intelligenti, sì hanno personalità, scopi, ideali, ma sono anche bestie da soma, e Leaf non lo dimentica mai, perché anche gli stessi incubi non lo dimenticano.

Forza, ora, avanti.

La strada è spaventosa. Gli zoccoli producono un suono simile ad un risucchio uscendo dal fango. Loro si lamentano; abbiamo freddo, siamo bagnate, siamo stanche. Sogna per loro delle ali, perché il cammino sia più agevole. Per ammansirle sogna la luce del sole, un calore munifico, una strada asciutta, un trotto lieve. Sogna colline verdi, cascate di fiori gialli, il fruscio delle ali dei colibrì, il ronzio delle api. Dona alle giumente una dolce estate ed esse si calmano; sollevano la testa, spiegano le loro ali di sogno e si lisciano le penne: sono pronte a riprendere il viaggio. Tirano all’unisono, il rotore ronza allegramente. Il carro scivola in avanti con un movimento fluido e costante.

Leaf, sprofondato nella trance, non è in grado di vedere la strada, ma questo non ha importanza; le giumente la vedono per lui e gli inviano le immagini, cangianti e fluide immagini di sogno, polarizzate, rifratte e diffratte dalla stranezza del loro modo di vedere e dalla distorsione di quella comunicazione sognante: sei visioni simultanee e individuali. Ecco la strada, contornata da bianche betulle sferzate da un vento furioso. Ecco la strada, una linea di terra che taglia una foresta di pini maestosi curvati dal peso della candida neve appena caduta. Ecco la strada, un nastro fertile su cui spuntano brillanti papaveri rossi nei punti toccati dagli zoccoli. Pesci azzurri dalle piume carnose sono a testa in giù ai lati della strada. Panciuti borghesi della tribù degli Arti stendono brillanti tovaglie candide sui margini erbosi e si cibano di ostriche dagli occhi enormi, pieni di riprovazione. Figure mascherate corrono rapidissime tra le zampe dei cavalli. La strada devia, devia ancora, si ripiega su se stessa, incrocia se stessa formando una sorta di cappio. Leaf integra questa pioggia di dati vertiginosa e confusa, dividendo il reale dall’irreale, miscelando e concentrando l’afflusso, e usandolo per guidare se stesso nella guida degli animali. Serenamente, coordina i loro movimenti con impulsi di pensiero rapidi e sicuri, in modo che ogni animale spinga con uguale forza. Il carro è in equilibrio precario sulla sua colonna d’?ria e una spinta ineguale può farlo scivolare nell’insidioso boschetto alla sinistra della strada. Invia rapidi messaggi lungo lo spesso condotto che unisce la sua mente alla loro. Attente, attente! Guardate quel pantano davanti a voi! Ah! Ah, ecco la mia bambina. Attente, ragni sulla sinistra! Bene! Sì, sì, ah sì! Con un refolo della propria mente accarezza i loro fianchi possenti. Ricompensa la loro agilità con visioni della stalla, del fieno fresco, degli stalloni che le attendono alla fine del viaggio.

Da loro (perché loro lo amano, lui sa che lo amano) riceve calde visioni di una strada tutta gioia e bellezza; tutte le visioni convergono in una singola visione idealizzata: maestosi boschetti di alberi-vela e larghi prati in mezzo ai quali scorrono torrenti limpidi. Sognano per lui anche la sua vita passata, rimandandogli casuali perle autobiografiche disseminate nelle pieghe del suo essere. Quello che gli trasmettono è filtrato e trasformato dalla loro sensibilità aliena, colorato di brillanti allucinazioni, stirato e contorto in altre forme e dimensioni, eppure lui è ugualmente in grado di percepire il significato essenziale di ogni quadro: la sua infanzia nei parchi e nei giardini dell’oasi della Pura Discendenza vicino al Mare Interno, gli anni dei suoi vagabondaggi tra le razze innumerevoli, sconosciute, e non completamente umane, dell’entroterra; il breve e felice soggiorno nelle terre occidentali coperte di nebbia, il viaggio verso est nei primi anni dell’età adulta, sempre seguendo il volere dell’Anima, sempre piegandosi ai venti, accettando qualunque destino gli si presentasse; verso est, con un gruppo di amici che erano più che fratelli, in quelle province orientali da lui adottate; la sua casa là, adagiata sulle rive di un lato, padiglioni di legno lucido e tende che si gonfiavano al vento, la sua collezione di vestigia del genere umano dei tempi andati (pezzi di macchinari, eleganti serpentine di metallo, monete arrugginite, statuette grottesche, cunei di plastica indistruttibile) tutti alloggiati in un’ala apposita, con un proprio sovrintendente. Perso in quelle fantasticherie, non ricorda più che la casa sul lago è stata ridotta in cenere dai Denti, che gli amici dei giorni più lieti sono morti, i suoi possedimenti devastati, tutte le sue cose sparpagliate tra le macerie.

Impercettibilmente, il sogno perde la sua dolcezza.

Ragni, pioggia e fango vi si insinuano. Il vago oscurarsi delle immagini che pervadono la sua mente sognante gli ricorda che è stato spogliato di ogni cosa e che è divenuto, ora che si è dato alla fuga, solo un guidatore al soldo di un bestiale mercenario del Lago Scuro, anche lui fuggiasco.

Ora Leaf fa più fatica a controllare le pariglie. Il passo dei cavalli sembra meno sicuro, rallenta; qualche cosa li disturba ed un’ansia aspra e querula pervade i messaggi che gli inviano. Lui comprende il loro umore, vede se stesso aggiogato ai lati del carro ed è Crown a tenere le redini, Crown che agita un’orribile frusta, Crown che spinge il carro a velocità pazza, in cerca di alleati che lo aiutino ad appagare il suo sogno di liberare le terre conquistate dai Denti. Non c’è modo di sfuggire a Crown. Si leva sul paesaggio come un mostro di fumo congelato, crescendo fino ad oscurare il cielo. Leaf si domanda come farà a liberarsi di Crown. Shadow corre al suo fianco, accarezzandogli il viso, mormorando, e lui le chiede di sciogliere i finimenti, ma lei risponde che non può, che è loro dovere servire Crown, e allora Leaf si rivolge a Sting, anche lui legato al suo fianco, e gli domanda aiuto, ma Sting scivola nel fango quando la frusta di Crown gli si abbatte sulla schiena. Non c’è scampo. Il carro trema e sbanda. Il cavallo di destra scarta, sta per cadere, si riprende. Leaf decide che la stanchezza sta cominciando a farsi sentire. Quel giorno ha guidato moltissimo e lo sforzo è stato grande. Ma la pioggia continua a cadere (per un attimo lui penetra oltre il velo delle illusioni, oltre le scene di primavera, estate e autunno, e vede l’acqua purpurea cadere a grandi scrosci dal cielo) e non c’è nessun altro che possa guidare, così lui deve continuare.

Cerca di immergersi in una trance più profonda, dove sarà più difficile distorglierlo dalla guida.

Ma no, qualcosa non va, qualcosa bussa alla sua consapevolezza, trascinandolo verso la veglia. Le cavalle lo spingono verso il risveglio con scene terrificanti. Una gli mostra il carro sul punto di tuffarsi in un muro di fuoco. Un’altra gli proietta l’immagine di massi enormi disseminati lungo la strada; un’altra, una montagna di ghiaccio che blocca la via; un’altra un branco di lupi ringhianti, e l’ultima una fila di guerrieri in armatura allineati spalla a spalla con le lance in resta. Non c’è dubbio. Guai. Guai. Guai. Forse sono giunti al punto morto della strada. Non c’è da stupirsi che l’Invisibile si tenesse nascosto. Leaf si costringe a svegliarsi.

Non c’era un muro di fuoco. Né guerrieri o lupi, nulla di tutto ciò. Solo una palizzata di tronchi appena tagliati ad un centinaio di metri dal carro, tronchi alti due volte Crown, appuntiti ad entrambe le estremità e conficcati in profondità nel terreno uno accanto all’altro, e legati strettamente con viticci tagliati da poco. La palizzata ostruiva la strada completamente, da un lato all’altro; sulla destra era contornata da un groviglio impenetrabile di cespugli spinosi e a sinistra si stendeva fino all’orlo di una ripida scarpata.

Erano bloccati.

Un simile sbocco su di un’autostrada pubblica era inconcepibile. Leaf sbatté le palpebre, tossì, si sfregò la fronte dolorante. I sogni discordanti degli ultimi minuti gli avevano lasciato il cervello ottenebrato, arrugginito. Anche quel muro di legno era una sorta di sogno, un sogno molto spiacevole. Leaf immaginò di udire accanto a sé la fredda risata dell’Invisibile. Almeno, sembrava che la pioggia stesse diminuendo e non c’erano ragni in giro. Piccole consolazioni, in mancanza di meglio.

Confuso, Leaf, si liberò delle redini e rimase in attesa degli eventi. Dopo pochi istanti udì il ritmo scandito che gli annunciava il pesante avvicinarsi di Crown. L’omone si affacciò alla cabina del guidatore.

— Che succede? Perché non ci muoviamo più?

— Strada morta.

— Che cosa stai dicendo?

— Guarda tu stesso — disse stancamente Leaf, indicando il finestrino.

Crown si sporse oltre Leaf per guardare. Per un interminabile momento fissò la scena, reagendo lentamente. — Che cos’è quello? Un muro?

— Un muro, sì.

— Un muro che attraversa un’autostrada? Non ho mai visto niente di simile.

— Forse l’Invisibile di Theptis stava cercando di metterci in guardia contro questo.