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Li guardai.

Per Dio, non avevano l’aspetto minaccioso. Più li guardavo e più sembrava che si muovessero in una specie di danza, volteggiando in folli adagio troppo svelti perché l’occhio li seguisse. Non era una danza convenzionale… era più analoga a ciò che Shara aveva incominciato con Massa è un verbo. Avrei voluto mettere in funzione un’altra telecamera per creare il contrasto della prospettiva: e questo, finalmente, mi svegliò. Due idee mi affiorarono nella mente, e la seconda era necessaria per convincere Cox ad accettare la prima.

— Quanto pensi che siamo lontani dallo Skyfac? — chiesi a McGillicuddy.

Lui sporse le labbra. — Non siamo lontani. Non c’è stato altro che l’accelerazione di manovra. Probabilmente quei maledetti cosi sono stati attratti dallo Skyfac… dev’essere il segno di vita intelligente più visibile nel sistema. — Fece una smorfia. — Forse loro non vivono sui pianeti.

Mi tesi e attivai il circuito audio. — Maggiore Cox.

— Si tolga dal circuito.

— Le piacerebbe vedere quei cosi più da vicino?

— Dobbiamo restare dove siamo. E adesso la smetta di prendermi in giro e si tolga dal circuito altrimenti…

— Vuole ascoltarmi? Ho quattro telecamere mobili con telecomando, fonte d’energia autonoma e risoluzioni migliori delle sue. Sono nello spazio. Erano state preparate per registrare la prossima danza di Shara.

Cox cambiò subito marcia. — Può collegarle con la mia nave?

— Credo di sì. Ma dovrò tornare al banco centrale nell’Anello Uno.

— Allora non c’è niente da fre. Non posso legarmi a una trottola… e se dovessi combattere o fuggire?

— Maggiore… è molto lontano, ad arrivarci a piedi?

La domanda lo scosse un po’. — Un miglio o due, a volo d’uccello. Ma lei non è abituato a spostarsi nello spazio.

— Ho vissuto in condizioni d’imponderabilità per quasi due mesi. Mi dia un radar portatile e sono capace di atterrare su Phobos.

— Mmmm. Lei è un civile… ma, accidenti, ho bisogno di immagini video migliori. Permesso accordato.

E adesso, la prima idea. — Aspetti… c’è un’altra cosa. Shara e Tom devono venire con me.

— Assurdo. Non è una gita in comitiva.

— Maggiore Cox… Shara deve tornare al più presto possibile in un campo di gravità. L’Anello Uno andrà bene… anzi, sarebbe l’ideale, se entriamo dal «raggio» centrale. Shara può scendere molto lentamente e acclimatarsi a poco a poco, come un sub effettua la decompressine a gradi, ma all’incontrario. McGillicuddy dovrà venire per stare con lei… se Shara sviene e cade lungo il tubo, può rompersi una gamba anche in un sesto di gravità. E del resto, in fatto di attività extra-veicolari è più abile di noi due.

Cox ci pensò sopra. — Andate pure.

Andammo.

Il tragitto di ritorno all’Anello Uno fu molto più lungo di tutti quelli che avevamo effettuato io e Shara, ma con la guida di McGillicuddy lo compimmo con un minimo di manovre. L’Anello, la Champion e gli alieni formavano un triangolo equiangolo con i lati di circa un miglio e mezzo. Visti in prospettiva, gli alieni occupavano all’incirca il volume dello Shea Stadium. Non si fermarono e non rallentarono nelle loro pazze giravolte, ma sembrava che ci osservassero mentre attraversavamo l’abisso per raggiungere lo Skyfac. Ebbi la sensazione che un biologo studiasse gli strani movimenti d’una specie nuova. Noi tenevamo spente le radio delle tute per non distrarci, e questo mi rendeva un po’ più sensibile alla suggestione.

Lasciai McGillicuddy con Shara e scesi lungo il tubo a sei anelli per volta. Carrington mi stava aspettando nella sala d’ingresso, con due scagnozzi. Era facile capire che era spaventato a morte e cercava di nasconderlo con la rabbia. — Maledizione, Armstead, quelle telecamere sono mie!

— La pianti, Carrington. Se mette quelle telecamere nelle mani del miglior tecnico disponibile, che sono io, e se io metto i loro dati nelle mani del miglior statega dello spazio, Cox, può darsi che riusciamo a salvare la sua stramaledetta fabbrica. E la razza umana. — Mi mossi e lui si scostò per lasciarmi passare. Era prevedibile. Mettere in pericolo tutta l’umanità poteva essere dannoso per le pubbliche relazioni.

Dopo tutte le prove che avevo fatto non fu difficile dirigere a occhio quattro telecamere nello spazio, simultaneamente. Gli alieni ignorarono il loro avvicinarsi. La squadra comunicazioni dello Skyfac passava i miei segnali alla Champion e mi teneva collegato con Cox via audio. Seguendo le sue istruzioni inquadrai il pallone fra le telecamere e spostai la soggettiva come mi chiedeva lui. Il Quartier Generale del Comando Spaziale doveva registrare il video, ma non potevo sentire la loro conversazione con Cox, per fortuna. Gli trasmisi replay al rallentatore, primi piani, schermi divisi… tutto quello che potevo fare. I movimenti delle singole lucciole non sembravano particolarmente simmetrici, ma gli schemi incominciavano a ripetersi. Al rallentatore, l’impressione che danzassero era ancora più forte, e per quanto non potessi essere sicuro, mi sembrava che accelerassero il tempo. In un certo senso, pareva che la tensione drammatica della loro danza s’intensificasse.

E poi passai la soggettiva alla telecamera che includeva lo Skyfac sullo sfondo, e il mio cuore si svuotò, e urlai per il terrore primordiale… a metà strada fra l’Anello Uno e lo sciame di alieni, avanzava lentamente ma inesorabilmente una figura in tuta pressurizzata che doveva essere Shara.

Con tempismo teatrale, McGillicuddy apparve sulla soglia, appoggiandosi pesantemente all’ingegnere capo. Aveva la faccia stravolta dal dolore. Si reggeva su un piede solo. L’altra gamba era fratturata.

— Credo che non potrò… tornare alle esibizioni… dopotutto, — ansimò. — Ha detto… Scusami, Tom… sapevo che stava per darmi uno spintone… mi ha messo fuori uso. Oh, maledizione, Charlie, mi dispiace. — Si lasciò cadere su una sedia.

Mi arrivò la voce incalzante di Cox. — Cosa diavolo sta succedendo? Quello chi è?

Lei doveva essere inserita sulla nostra frequenza. — Shara! — urlai. — Torna qui!

— Non posso, Charlie. — La voce era sorprendentemente alta, e calmissima. — A metà del tubo mi sono incominciate le fitte al petto.

— Miss Drummond — urlò Cox, — se si avvicina di più agli alieni, l’ammazzo.

Lei rise, un suono allegro che mi gelò il sangue. — Sciocchezze, maggiore. Non si azzarderà a usare i raggi laser nelle vicinanze di quegli esseri. E poi ha bisogno di me come ha bisogno di Charlie.

— Sarebbe a dire?

— Questi esseri comunicano per mezzo della danza. È il loro equivalente della favella: dev’essere una specie di linguaggio dei segni sofisticato, come l’hula.

— Non può saperlo.

— Lo sento. Lo so. Diavolo, come si comunica, altrimenti, nello spazio privo d’aria? Maggiore Cox, io sono l’unica interprete qualificata che la razza umana abbia al momento. Quindi adesso, per favore, stia zitto in modo che io possa cercare d’imparare il loro «linguaggio».

— Io non ho l’autorità per…

Io feci una cosa straordinaria. Avrei dovuto piagnucolare e implorare Shara perché tornasse indietro, forse avrei dovuto indossare una tuta pressurizzata e volare per riportarla indietro. Invece dissi: — Ha ragione. Chiuda il becco, Cox.

— Cosa sta cercando di fare?

— Maledizione, non sprechi l’ultimo sforzo di Shara.

Cox se ne stesse zitto.

Panzarella arrivò, fece a McGillicuddy un’iniezione analgesica e gli ridusse la frattura alla gamba lì in quella stanza, ma io non vi badai. Per più di un’ora rimasi a guardare Shara che osservava gli alieni. Li osservavo anch’io, nel silenzio della disperazione, e non riuscivo assolutamente a seguire la loro danza. Mi sforzavo, cercavo di assorbire un significato dal loro volteggio pazzesco, ma non ci riuscivo. Il massimo che potevo fare per aiutare Shara era registrare tutto quel che succedeva, per una posterità ipotetica. Più volte lei proruppe in esclamazioni soffocate, e io avrei voluto chiamarla, ma non lo feci. Con un’ultima esclamazione, mise in funzione i razzi di spinta per portarsi più vicina allo sciame degli alieni, e rimase librata là molto a lungo.

Finalmente la sua voce arrivò attraverso l’altoparlante, dapprima impastata e confusa, come se parlasse nel sonno. — Dio, Charlie. È strano. Così strano. Sto incominciando a capirli.

— Come?

— Ogni volta che incomincio a comprendere una parte della danza, ci… ci porta un po’ più vicini. Non è esattamente telepatia. Ma io… li conosco meglio, ecco. Danzano ciò che sentono, gli imprimono una intensità sufficiente per farmi capire il significato. Sto afferrando all’incirca un concetto su tre. Da vicino è più forte.

La voce di Cox era gentile ma ferma. — Che cos’ha appreso, Shara?

— Che avevano ragione Tom e Charlie. Sono bellicosi. C’è una sfumatura d’arroganza, in loro… una convinzione di superiorità. La loro danza è una sfida. Dica a Tom che usano i pianeti.

— Cosa?

— Credo che in una fase del loro sviluppo siano corporei e legati ai pianeti. Poi, quando sono maturi… diventano queste lucciole, come i bruchi si trasformano in farfalle, e si dirigono nello spazio.