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Lui mi guardò, prima di rispondere. — Scusi la domanda, Mr. Armstead, ma… lei è giornalista?
— Charlie. No, non lo sono. Sono un video-man, ma lavoro per Shara.
— Mmmm. Be’, verrà a saperlo comunque, prima o poi. Un paio di settimane fa, sul radar è apparso un oggetto all’interno dell’orbita di Nettuno. Come se fosse apparso dal nulla. C’erano… certe altre anomalie. È rimasto fermo per mezza giornata e poi è sparito di nuovo. Il Comando Spaziale ha imposto il segreto, ma sullo Skyfac lo sanno tutti.
— E l’oggetto è stato avvistato di nuovo? — chiese Shara.
— Appena al di là dell’orbita di Giove.
Il mio interesse era molto relativo. Senza dubbio il fenomeno aveva una spiegazione, e dato che non avevo a portata di mano Isaac Asimov, senza dubbio non ne avrei capito neppure una parola. In maggioranza avevamo rinunciato a credere agli esseri intelligenti non umani quando era ritornata a mani vuote l’ultima sonda intersistema. — Gli ometti verdi, immagino. Può mostrarci il Salone, Tom? Mi sembra di aver capito che è identico a quello dove lavoreremo.
McGillicuddy sembrava soddisfatto di poter cambiare discorso. — Sicuro.
Ci fece passare da una porta pressurizzata di fronte a quella da cui era uscito Carrington, e per lunghi corridoi con il pavimento che saliva incurvandosi davanti a noi e dietro di noi. Ognuno era attrezzato in modo diverso, ognuno era pieno di gente indaffarata, e ognuno mi ricordava un po’ l’atrio del New Age, o forse il vecchio film 2001. Opulenza Futuribile, così discreta che quasi urlava. Wall Street portata in orbita… e gli orologi, infatti, segnavano l’ora di Wall Street. Cercavo di convincermi che lo spazio freddo e vuoto era a pochissima distanza in ogni direzione, ma era impossibile. Pensai che era un bene che le navi spaziali non avessero oblò… quando si abituava alla bassa gravità, un uomo avrebbe potuto dimenticare e aprirne uno per buttar via un sigaro.
Studiai McGillicuddy, mentre camminavamo. Era immacolato sotto ogni punto di vista, dalla cravatta alle unghie smaltate, e non portava gioielli. I capelli erano corti e neri, la barba inibita, e gli occhi sorprendentemente calorosi in una faccia professionalmente asettica. Mi chiedevo per quanto aveva venduto l’anima. Mi auguravo che avesse spuntato il prezzo richiesto.
Dovemmo scendere due livelli per raggiungere il Salone. La gravità al livello superiore veniva mantenuta a un sesto del normale, un po’ per comodità del personale lunare che faceva regolarmente la spola, e soprattutto (ovviamente) per comodità di Carrington. Ma la discesa portò un sottile aumento del peso, fin quasi a un quarto del normale. La mia gamba protestava rabbiosamente, ma scoprii, con mia sorpresa, che preferivo il dolore alla sua assenza. Fa un po’ paura, quando un vecchio amico vi abbandona così.
Il Salone era molto più grande di quanto mi aspettassi: era abbastanza grande per i nostri scopi. Abbracciava tutti e tre i livelli, e una parete intera era un immenso teleschermo sul quale le stelle turbinavano vertiginosamente, e ogni tanto vi appariva una fetta della Madre Terra. Sul pavimento erano distribuiti gruppi di poltrone e tavolini, ma era facile capire che, togliendoli, Shara avrebbe avuto tutto lo spazio necessario per ballare; e cosa non meno importante, i miei piedi mi dicevano che la superficie sarebbe stata adattissima alla danza. Poi ricordai che il pavimento non sarebbe servito a molto.
— Bene — mi disse Shara con un sorriso, — per i prossimi sei mesi, staremo in un ambiente come questo. Il salone del Due è identico.
— Sei mesi? — disse McGillicuddy. — Impossibile.
— Come sarebbe a dire? — esclamammo contemporaneamente io e Shara.
Lui batté le palpebre, sconcertato. — Ecco, lei potrebbe farcela per tutto quel tempo, Charlie. Ma Shara è già stata più di un anno in condizioni di bassa gravità, quando faceva la dattilografa.
— E con questo?
— Senta, prevede di restare in condizioni d’imponderabilità per molto tempo, vero, se non ho capito male?
— Dodici ore al giorno — disse Shara.
McGillicuddy fece una smorfia. — Shara, mi dispiace dirglielo… ma mi sorprenderebbe se resistesse un mese. Un organismo creato per un ambiente a una gravità non funziona a dovere a gravità zero.
— Ma si adatterà, no?
Lui rise, amaramente. — Sicuro. È per questo che ogni quattordici mesi rimandiamo tutto il personale sulla Terra. Il suo organismo si adatterebbe. A senso unico. Senza possibilità di ritorno. Quando sarà completamente adattata, il ritorno sulla Terra le causerà un arresto cardiaco… se non si verificherà prima qualche altro grosso guasto organico. Senta, è stata sulla Terra per tre giorni… non ha notato dolori al petto? Vertigine? Disturbi intestinali? Nausea durante il viaggio di ritorno?
— Tutti quanti — ammise Shara.
— Ecco. Quando è partita, era ormai vicina al limite nominale di quattordici mesi. E il suo organismo si adatterà ancora più rapidamente alle condizioni di gravità zero. Il primato di resistenza all’imponderabilità è di novanta giorni: lo stabilì l’equipaggio del primo Skykab… e loro, prima, non avevano passato un anno a un sesto di gravità, e non si affaticavano il cuore come invece farà lei. Diavolo, adesso sulla Luna ci sono quattro uomini, dei dodici della prima squadra mineraria, che non rivedranno più la Terra. Otto dei loro compagni ci provarono. Voi due non sapete niente dello Spazio?
— Ma io devo restare almeno quattro mesi. Quattro mesi di lavoro continuo, tutti i giorni. Devo. — Shara era sgomenta, ma si sforzava di controllarsi.
McGillicuddy fece per scuotere la testa, poi cambiò idea. Scrutava il viso di Shara. Sapevo esattamente cosa stava pensando, e questo me lo rendeva simpatico.
Stava pensando: come si fa a dire a una donna incantevole che il suo sogno più caro è irrealizzabile?
E lui non sapeva tutto. Io sapevo che cosa aveva già investito irrevocabilmente Shara in quel sogno: e qualcosa urlava, dentro di me.
E poi la vidi stringere i denti, ed osai sperare.
Il dottor Panzarella era un vecchio magro e solido con le sopracciglia che sembravano due bruchi pelosi. Portava una salopette aderente che non si sarebbe impigliata nelle chiusure ermetiche di una tuta pressurizzata se avesse dovuto indossarla in fretta e furia. I capelli lunghi fino alle spalle, che avrebbero formato una criniera intorno alla grossa testa, erano legati strettamente all’indietro, nell’eventualità che la gravità venisse a mancare all’improvviso. Un tipo prudente. Per usare una metafora antiquata, era quel tipo d’uomo che porta le bretelle e la cintura. Visitò Shara, fece esami ed analisi, e le diede poco meno di un mese e mezzo. Shara gli parlò. Io gli parlai. McGillicuddy gli parlò. Panzarella scrollò le spalle, fece altri esami ancora più meticolosi e, con molta riluttanza, rinunciò alle bretelle. Due mesi. Non un giorno di più. Forse meno, a seconda dei successivi controlli delle reazioni dell’organismo di Shara all’imponderabilità protratta. Poi un anno sulla Terra prima che potesse tentare di nuovo. Shara sembrava soddisfatta.
Non capivo come avremmo potuto farcela.
McGillicuddy ci aveva assicurato che Shara avrebbe impiegato almeno un mese solo per imparare a muoversi con efficienza in gravità zero, figurarsi poi a ballare. La familiarità con un sesto di gravità, disse, sarebbe stata un inconveniente anziché un vantaggio. Poi bisognava calcolare tre settimane per la coreografia e le prove, una settimana di registrazione e forse forse saremmo riusciti a trasmettere una danza prima che Shara dovesse tornare sulla Terra. Non bastava. Io e lei avevamo calcolato che sarebbero stati necessari tre spettacoli successivi, e tutti ben accolti dal pubblico, per schiuderle davvero il mondo della danza. Un anno era troppo… e chi sapeva fra quanto Carrington si sarebbe stancato di lei? Perciò aggredii Panzarella.
— Mr. Armstead — ribatté lui, arrabbiatissimo, — il mio contratto mi vieta espressamente di permettere che questa signorina si suicidi. — Fece una smorfia acida. — Mi risulta che sia disastroso per le pubbliche relazioni.
— Charlie, va bene così — insistette Shara. — Posso farci stare tre danze. Magari perderemo un po’ di sonno, ma possiamo riuscire.
— Una volta dissi a un tale che non c’è niente d’impossibile. E lui mi chiese se ero capace di passare da una porta girevole con gli sci ai piedi. Tu non hai…
La mia mente innestò l’hyperdrive, considerò la situazione, si prese varie volte a calci nel sedere, e tornò nel tempo reale in tempo per sentire la mia bocca che diceva, senza interruzioni: — … molte possibilità di scelta. Bene, Tom, faccia sgombrare quel Maledetto Salone Due. Lo voglio nudo e immacolato. E bisognerà dire a qualcuno che dipinga lo stramaledetto schermo video, della stessa tinta delle altre tre pareti, e voglio dire proprio la stessa. Shara, togliti quei vestiti e metti la calzamaglia. Dottore, ci vedremo fra dodici ore. Tom, la smetta di star lì a bocca aperta e vada… andremo subito là. Dove diavolo sono le mie telecamere?
McGillicuddy balbettò.
— Mi dia una squadra armata di fiamme ossidriche… voglio che aprano fori nelle pareti, e mettano le telecamere dietro, con finti specchi, in sei posti diversi; voglio una stanza adiacente al Salone per mettere il banco mixer, e una macchina per il caffé imbullonato vicino alla poltroncina. Ho bisogno di un’altra stanza per il montaggio, con privacy completa e oscurità totale, della grandezza di una cucina efficiente, con un’altra macchina per il caffé.
Finalmente McGillicuddy mi investì con un torrente di parole. — Mr. Armstead, questo è l’Anello Principale del complesso Skyfac Uno. gli uffici amministrativi di una delle società più ricche che esistano. Se crede che l’intero Anello si metta capovolto per far piacere a lei…
E così sottoponemmo il problema a Carrington. Lui disse a McGillicuddy che d’ora in poi l’Anello Due era nostro e che dovevamo avere tutta l’assistenza richiesta. McGillicuddy cercò di dirgli che questo avrebbe ritardato di parecchie settimane l’apertura del complesso Skyfac Due. Carrington rispose, senza alzare la voce, che le addizioni e le sottrazioni sapeva farle anche lui, grazie, e McGillicuddy diventò pallido e stette zitto.
Questo devo riconoscerlo, a Carrington. Ci lasciò mano libera.
Panzarella si trasferì allo Skyfac Due con noi. Ci scarrozzarono certi tipi d’astronauti a bordo dei veicoli che, figuratevi, sembravano scope gravide. Per fortuna avevamo il dottore… Shara svenne, durante il trasferimento. Poco mancò che svenissi anch’io, e sono sicuro che ancora oggi il manico di scopa conserva l’impronta delle mie cosce… la prima volta, l’esperienza di precipitare nello spazio è spaventosa. Shara reagì magnificamente quando la riportammo al chiuso, e per fortuna non le tornò la nausea… la nausea può essere una seccatura in caduta libera, e un disastro in una tuta pressurizzata. Quando arrivarono le mie telecamere e il banco mixer, lei era di nuovo in piedi e aveva l’aria di vergognarsi un po’. E mentre io assediavo una squadra di tecnici sudati perché installassero tutto più in fretta di quanto non fosse umanamente impossibile Shara incominciò ad imparare a muoversi in gravità zero.
Dopo tre settimane eravamo pronti per la prima registrazione.
Nell’Anello Due ci avevano preparato l’alloggio e un impianto di supporto vitale ridotto al minimo, in modo che potevamo lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro, se volevamo; ma noi passavamo nello Skyfac Uno la metà delle nostre «ore libere» nominali. Ogni settimana, Shara doveva passare tre mezze giornate là con Carrington, e trascorreva gran parte del presunto periodo di riposo fuori nello spazio, con una tuta pressurizzata. All’inizio fu un tentativo voluto di vincere la paura viscerale di tutto quel vuoto. Presto diventò la sua meditazione, il suo rifugio, la sua fantasticheria artificiale, e il tentativo di ricavare dalla contemplazione dei freddi abissi neri una intuizione del significato dell’esistenza extraterrestre abbastanza vivida per poterla esprimere con la danza.
Io passavo il tempo litigando con gli ingegneri, gli elettricisti, i tecnici e un imbecille di rappresentante sindacale il quale insisteva che il secondo Salone, finito o non finito, apparteneva al futuro e ipotetico personale. Per ottenere da lui il permesso di lavorare lì mi logorai la gola e i nervi. Passavo troppe notti in uno stato di torpore anziché di sonno. Un piccolo esempio: tutte le pareti interne del maledetto Secondo Anello erano dipinte della stessa identica sfumatura di turchese… e non riuscivo a riprodurla per coprire quel dannatissimo megaschermo video nel Salone. Fu McGillicuddy a salvarmi dall’apoplessia: seguendo il suo suggerimento feci staccare il terzo strato di lattice, togliere la telecamera esterna che metteva in funzione lo schermo, portarla dentro e fissarla in modo che inquadrasse la parete interna di una stanza adiacente. E così ridiventammo amici.
Era sempre così: arrangiarsi, improvvisare, limare e verniciare. Se una telecamera si guastava, passavo le ore che avrei dovuto riservare al sonno parlando con gli ingegneri che non erano di turno, per scoprire quali dei pezzi di ricambio esistenti in magazzeno si potevano utilizzare. Sarebbe costato troppo far spedire qualcosa dall’immenso pozzo di gravità della Terra, e sulla Luna quello che mi serviva non esisteva.
Shara, comunque, lavorava anche più duramente di me. Un corpo umano deve ricondizionarsi totalmente per funzionare in condizioni d’imponderabilità: lei doveva dimenticare, letteralmente, tutto ciò che aveva saputo o imparato sulla danza, e acquisire capacità completamente nuove. Fu ancora più difficile di quanto ci aspettassimo. McGillicudy aveva avuto ragione: ciò che Shara aveva imparato durante l’anno trascorso in un sesto di gravità era un tentativo esagerato di conservare modelli terrestri di coordinazione… accantonarli completamente risultò effettivamente più facile per me.
Ma non riuscivo a starle dietro… Dovetti abbandonare l’idea di lavorare con una telecamera a mano, e basare interamente i miei piani sulle sei telecamere fisse. Fortunatamente le GLX-5000 hanno una montatura a snodo: anche dietro quei meledetti finti specchi avevo circa quaranta gradi di mobilità per ciascuna. Imparare a coordinarle simultaneamente tutte e sei sull’Hamilton Board mi fece un effetto straordinario: mi portò all’unità con la mia arte. L’ultimo, grande passo. Scoprii che potevo seguire tutti e sei i monitor con l’occhio della mente e avere una percezione quasi sferica, non dividere l’attenzione ma abbracciarli tutti, vedere come un essere a sei occhi da molte angolazioni diverse. L’occhio della mia mente diventò olografico, la mia sensibilità divenne multistrati. Incominciai a comprendere veramente, per la prima volta, la tridimensionalità.
Il problema era la quarta dimensione. Shara impiegò due giorni per rendersi conto che non poteva diventare abbastanza efficiente nelle manovre in imponderabilità per reggere un pezzo di mezz’ora nel tempo richiesto. Perciò revisionò il suo piano di lavoro, adattando la sua coreografia alle esigenze pratiche. Incluse sei giorni in condizioni di peso normale della Terra.
E anche nel suo caso, lo sforzo la portò avanti di quell’ultimo passo verso l’apoteosi.