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Il lunedì della quarta settimana incominciammo a registrare Liberazione.

Inquadratura di presentazione:

Una grande scatola turchese vista dall’interno. Dimensioni sconosciute: ma il colore crea un’impressione d’immensità, di distanze immani. Contro la parete, di fondo, un pendolo oscillante attesta che si tratta di un ambiente a gravità normale: ma il pendolo oscilla così lentamente ed ha linee così essenziali che è impossibile stimarne le dimensioni e quindi estrapolare quelle dell’ambiente.

Grazie all’effetto trompe-l’oeil, la stanza sembra alquanto più piccola di quel che è in realtà quando la telecamera arretra e noi veniamo posti nella giusta prospettiva dell’apparizione di Shara, prona, inerte, a faccia in giù sul pavimento, rivolta verso di noi.

Indossa una calzamaglia beige. I capelli, d’uno splendido color mogano, sono pettinati all’indietro in una coda di cavallo che si apre a ventaglio su una scapola. Sembra che non respiri. Sembra che non sia viva.

Incomincia la musica. Il vecchio Mahavishnu, su un antiquato acusticon di nylon, stabilisce senza fretta un mi minore. Due piccole candele, nelle semplici bugie di bronzo, appaiono inserite ai due lati della camera. Sono più grandi del normale, sebbene siano piccole in confronto a Shara. Sono spente.

Il suo corpo… non ci sono parole per descriverlo. Non si muove, nel senso in cui s’intende l’attività motoria. Si potrebbe dire che vi scorre un fremito, ma il movimento si irradia dal centro verso l’esterno. È come un’onda, appunto, come se tutto il suo corpo traesse il primo respiro della vita. È viva.

I due stoppini incominciano a brillare, oh, dolcemente. La musica assume una tranquilla concitazione.

Shara solleva la testa verso di noi. I suoi occhi si fissano su qualcosa che sta al di là della telecamera e tuttavia non è l’infinito. Il suo corpo freme, ondeggia, e gli stoppini delle candele sono braci (non ci si accorge che questo ravvivarsi della luce avviene al rallentatore.)

Una contrazione violenta la fa sollevare, acquattata, e la coda di cavallo si rovescia sulla spalla. Mahavishnu inizia una cascata ciclica di note, accelerando il tempo. Lingue incerte di fiamma giallo-arancio incominciano a fiorire verso il basso dagli stoppini gemelli, mentre le braci diventano azzurre.

Lo scatto della contrazione la scaglia in piedi. Le due gore gemelle delle fiamme intorno agii stoppini si avvolgono su se stesse, si attorcono furiosamente per diventare fiamme convenzionali di candele, che guizzano nuove nel tempo normale. Tablas, tambouras e una chitarra basso si uniscono alla chitarra, e la seguono in un energico intreccio intorno a una settima minore che continua a tentare, invano, di trovare una risoluzione nella sesta. Le candele rimangono in prospettiva, ma rimpiccioliscono fino a scomparire.

Shara incomincia a esplorare le possibilità del movimento. Dapprima si muove solo perpendicolarmente alla linea visuale della telecamera, ed esplora quella dimensione. Ogni movimento delle braccia, delle gambe e della testa appare chiaramente come una sfida alla gravità, ad una forza inesorabile come il decadimento radioattivo, l’entropia stessa. Gli slanci più violenti d’energia riescono solo per qualche tempo… le gambe protese ricadono, il braccio proteso si abbassa. Deve lottare o cadere. Indugia, pensosa.

Le braccia e le mani si tendono verso la telecamera, e in quel momento tagliamo e passiamo ad una inquadratura da sinistra. Vista da destra, Shara si protende in questa nuova dimensione, e presto incomincia a muoversi in essa. (Mentre arretra uscendo dal campo della telecamera, l’immagine si sposta a destra sul nostro schermo, scacciata dall’immagine di una seconda telecamera, che la inquadra mentre la prima la perde, senza suture visibili.)

Anche la nuova dimensione non soddisfa in Shara il desiderio di liberarsi dalla gravità. Tuttavia combinarle entrambe offre tante permutazioni di movimento che per qualche tempo, inebriata, si slancia nella sperimentazione. Per quindici minuti, Shara ricapitola la sua storia nella danza, in un tour de force accecante che incorpora elementi di jazz, danza moderna e gli aspetti più eleganti della ginnastica a corpo libero delle Olimpiadi. Cinque telecamere funzionano, singolarmente o a coppie sullo schermo diviso, mentre tutti i «trucchi» accumulati in un’intera vita di studio e d’improvvisazione vengono riscoperti ed eseguiti da un corpo superbamente addestrato e versatile, in un’esplosione pirotecnica che sarebbe un grido di gioia se la sua espressione non rimanesse distaccata, quasi arrogante. Questa è l’offerta, sembra dire Shara, che voi non avete voluto accettare. Questa, in se stessa, non bastava.

E non basta. Anche nell’energia divampante e nel controllo totale, il corpo di Shara ritorna continuamente al compromesso finale della semplice postura eretta, l’ultimo rifiuto di cadere.

Serrando i denti, esegue una serie di balzi, sempre più lunghi e sempre più alti. Alla fine sembra librata per interi secondi, e si sforza di volare. Quando, inevitabilmente, ricade, lo fa con riluttanza, e solo all’ultimo istante possibile torna a posare i piedi. I musicisti sembrano presi da una frenesia in crescendo. Ora la vediamo soltanto attraverso la prima telecamera, e le candele gemelle sono riapparse, piccole ma luminose.

I balzi diminuiscono d’intensità e d’altezza, e Shara impiega più tempo per preparare ognuno di essi. Sta danzando da quasi venti minuti: mentre le fiammelle delle candele cominciano a impallidire, si dilegua anche la sua forza. Finalmente si ritira sotto il pendolo indifferente, si raccoglie con disperazione e si slancia a corsa verso di noi. Raggiunge un’incredibile velocità in quel tratto brevissimo, si avventa roteando due volte su se stessa e balza in aria su di un piede solo, e un secondo più tardi sembra premere contro l’aria vuota per guadagnare qualche altro centimetro di altezza. Il suo corpo s’irrigidisce, gli occhi e la bocca si spalancano, le fiamme raggiungono il massimo fulgore, la musica culmina nel gemito tormentato della chitarra elettrica e… e Shara ricade, rotolando appena in tempo, e si rialza soltanto a mezzo. Resta così per un lungo momento, e gradualmente abbandona la testa e le spalle verso il pavimento, sconfitta. Le fiamme delle candele si restringono curiosamente e sembrano sul punto di spegnersi. La chitarra basso continua a suonare, modulando verso un re.

Muscolo per muscolo, il corpo di Shara rinuncia alla lotta. L’aria sembra tremolare intorno agli stoppini delle candele, che adesso sono divenute alte quasi quanto la sua figura accasciata.

Shara leva il viso verso la telecamera, con uno sforzo evidente. L’espressione è angosciata, gli occhi socchiusi. Un lungo rullo di tamburo.

All’improvviso spalanca gli occhi, raddrizza le spalle e si contrae. È la contrazione più squisita e totale mai sognata, registrata a tempo reale ma tale da dar l’impressione di svolgersi al rallentatore. La continua. Mahavishnu riattacca con la chitarra, in un crescendo costruito partendo da una corda di basso a un re con la quarta bemolle. Shara resta immobile.

Per la prima volta passiamo a una telecamera in alto, e la guardiamo da una grande altezza. Mentre il pizzicato di Mahavishnu cresce fino a quando l’accordo sembra un ronzio sordo e prolungato, Shara alza lentamente la testa, continuando a mantenere la contrazione, fino a che guarda direttamente verso di noi. Rimane così per l’eternità, come una molla pronta a scattare, caricata al massimo…

… ed esplode verso l’alto, verso di noi, sollevandosi sempre di più, e più rapidamente di quanto potrebbe, in un volo che adesso è al rallentatore, e si avvicina, si avvicina fino a quando le mani spariscono ai lati e il suo viso riempie lo schermo, fiancheggiato da due candele che in un momento sono sbocciate in sprazzi di fiamma gialla. La chitarra e la chitarra basso vengono sommerse in un’orchestra.

Quasi immediatamente, lei piroetta allontanandosi da noi, e l’inquadratura torna alla prima telecamera: la vediamo slanciarsi dall’altezza di dietri metri verso il pavimento, invertire l’assetto a mezz’aria e guizzare. Esce dall’avvolgimento in una traiettoria assolutamente piatta che la porta attraverso l’intera lunghezza della sala. Urta la parete di fondo con un tonfo che si ode nonostante la musica, e frantuma il pendolo immobile. Le sue cosce assorbono l’energia cinetica e poi la liberano, e ancora una volta corre verso di noi, con i capelli distesi orizzontalmente dietro di lei e un gran sorriso di trionfo che ingigantisce sullo schermo.

Nei cinque minuti successivi tutte e sei le telecamere tentano invano di seguirla mentre sfreccia nella sala immensa come un colibrì che cerca di uscire da una gabbia, usando le pareti, il pavimento e il soffitto come un maestro di jai alai, esistendo in tre dimensioni. La gravità è vinta. L’assunto fondamentale d’ogni forma di danza è spezzato.

Shara è trasformata.

Finalmente si ferma nel centro verticale, in primo piano entro il cubo di turchese, con le braccia, le gambe, le dita, i piedi, il viso protesi verso l’esterno, girando dolcemente su se stessa. Le quattro telecamere puntate su di lei si spartiscono lo schermo, l’orchestra si risolve nel mi maggiore finale e… si dissolve.

Non avevo il tempo né l’attrezzatura per creare gli effetti speciali che voleva Shara. Perciò inventai vari modi per piegare la realtà alle mie esigenze. Il mio segmento delle candele era l’inquadratura sdoppiata d’una candela sola che veniva spenta dall’alto… all’ultrarallentatore e a rovescio. Il secondo segmento era una semplice registrazione della realtà. Avevo acceso la candela, avevo incominciato a registrare… e avevo fatto arrestare la rotazione dell’Anello. Una candela si comporta in modo strano, a gravità zero. I gas della combustione a bassa densità non di sollevano dalla fiamma, permettendo all’aria di raggiungerla dal basso. La fiamma non si spegne: si addormenta. Basta ristabilire la gravità dopo un minuto o due, perché sbocci e riprenda vita. Non feci altro che giocare un po’ con le velocità in modo da armonizzarle con la musica e la danza di Shara. Avevo avuto l’idea da un capo-operaio dell’officina di metallurgia dove stavamo realizzando le cose di cui Shara avrebbe avuto bisogno per la sua prossima danza.

Montai uno schermo nel Salone dell’Anello Uno, e tutti quelli dello Skyfac che potevano abbandonare il lavoro si affollarono per assistere alla trasmissione. Videro esattamente ciò che veniva irradiato in collegamento mondiale via satellite (Carrington aveva abbastanza influenza per ottenere venticinque minuti filati senza interruzioni per gli spot pubblicitari) circa mezzo secondo prima che il mondo lo vedesse.

Per tutto il tempo della trasmissione rimasi in Sala Comunicazioni a rodermi le unghie. Ma andò tutto liscio, e spensi il banco e arrivai nel Salone in tempo per assistere all’ultima metà dell’ovazione. Shara era in piedi davanti allo schermo, con Carrington seduto a fianco, e pensai che la diversità delle loro espressioni era istruttiva. Il viso di lei non rivelava sorpresa o modestia. Aveva sempre avuto fiducia in se stessa, aveva approvato quel nastro per la trasmissione… sapeva, con il distacco incredibile di cui sono capaci pochissimi artisti, che quell’applauso frenetico era pienamente meritato. Ma il suo volto mostrava che era profondamente sorpresa, e profondamente grata, di ricevere ciò che le spettava.

Carrington, invece, rivelava un trionfo stranamente misto a sollievo. Anche lui aveva avuto fiducia in Shara, e l’aveva appoggiata con un cospicuo investimento… ma la sua fiducia era quella di un uomo d’affari in una speculazione che può rendere bene, e mentre gli osservavo gli occhi e la fronte sudata, mi resi conto che nessun uomo d’affari corre un rischio dispendioso senza temere che possa essere il fiasco dal quale avrà inizio la perdita dell’unica cosa essenziale per lui: la faccia.

Vedere quel tipo di trionfo accanto al trionfo di Shara mi rovinò il momento; e anziché tripudiare per Shara mi accorsi che quasi la odiavo. Lei mi scorse e si sbracciò per segnalarmi di raggiungerla di fronte alla folla plaudente, ma io girai sui tacchi e mi lanciai letteralmente fuori dalla sala. Mi feci prestare una bottiglia dal capo-operaio dell’officina metallurgica e presi una sbronza memorabile.

L’indomani mattina mi sentivo la testa come se fosse un fusibile da quindici ampere in un circuito da quaranta, e mi sembrava che soltanto la tensione superficiale riuscisse a tenermi insieme. I movimenti improvvisi mi facevano paura. È una brutta caduta, da quel carro, anche in un sesto di gravità.

Il telefono squillò (non avevo avuto il tempo di modificarlo) e un giovane che non conoscevo annunciò compitamente che Mr. Carrington voleva vedermi nel suo ufficio. Subito. Io risposi alludendo a una supposta di filo spinato e spiegando come poteva usarla, subito, Mr. Carrington. Senza cambiare espressione, il giovane ripeté il messaggio e tolse la comunicazione.

Perciò m’infilai nei vestiti, decisi di farmi crescere la barba, e uscii. Lungo il percorso mi domandai per che cosa avevo barattato la mia indipendenza, e perché.

L’ufficio di Carrington era d’un buon gusto opprimente, ma almeno l’illuminazione era smorzata. La cosa migliore era che il sistema di filtraggio assorbiva il fumo… nell’aria c’era l’odore dolce e muschiato della marijuana. Accettai da Carrington un microspinello di «Maoi-Zowie» quasi con gratitudine e incominciai a liberarmi dei postumi della sbronza.

Shara era seduta accanto alla scrivania, e portava una calzamaglia a un velo di sudore. Evidentemente aveva passato la mattina a provare la prossima danza. Mi vergognai, e quindi mi stizzii, ed evitai i suoi occhi e il suo saluto. Panzarella e McGillicuddy entrarono dietro di me, parlando del più recente avvistamento dell’oggetto venuto dallo spazio, che stavolta era ricomparso nelle vicinanze di Mercurio. Stavano discutendo se aveva dato o no segno di intelligenza senziente, e io avrei tanto desiderato che stessero zitti.

Carrington attese fino a quando tutti ci fummo seduti e avemmo acceso gli spinelli, poi si appoggiò alla scrivania e sorrise. — Allora, Tom?

McGillicuddy sorrise. — Meglio del previsto, signore. Secondo tutte le stime, abbiamo avuto circa il 74% del pubblico mondiale…

— Al diavolo le stime — scattai io. — Che cos’hanno detto i critici?

McGillicuddy sbatté gli occhi. — Ecco, finora la reazione generale è che Shara è uno schianto, il Times…

L’interruppi di nuovo. — Qual è stata la reazione men che generale?

— Ecco, non c’è mai un’unanimità assoluta.

— Sia più preciso. I critici della danza? Liz Zimmer? Migdalski?

— Uh. Non proprio entusiasti. Elogi, certo… solo un cieco avrebbe potuto stroncare lo spettacolo. Ma elogi guardinghi. Uh, la Zimmer l’ha definita una danza magnifica rovinata dal trucco finale.

— E Migdalski? — insistetti.

— Ha intitolato la recensione: «Che cosa non si farebbe per un bis?» — ammise McGillicuddy. — La sua tesi fondamentale è che si è trattato di un affascinante caso unico. Ma il Times…

— Grazie, Tom — disse Carrington senza alzare la voce. — È più o meno quello che ci aspettavamo, no, mia cara? Molto chiasso, ma nessuno è ancora disposto a parlare di una marea travolgente.

Shara annuì. — Ma lo faranno, Bryce. Le prossime due danze saranno decisive.

Panzarella intervenne. — Miss Drummond, posso chiederle perché ha fatto così? Ha usato l’interludio a gravità zero solo come un breve epilogo aggiunto a una danza convenzionale… doveva aspettarsi che i critici avrebbero parlato di un trucco.

Shara sorrise: — Per essere sincera, dottore, non avevo scelta. Sto imparando a servirmi del mio corpo in condizioni d’imponderabilità, ma si tratta ancora d’uno sforzo voluto, quasi una pantomina. Ho bisogno di qualche altra settimana perché diventi una seconda natura, ed è necessario, se voglio reggere un intero pezzo in quelle condizioni. Perciò ho tirato fuori dal baule una danza convenzionale, ho aggiunto un finale di cinque minuti sfruttando tutti i movimenti in gravità zero che conoscevo e con immenso sollievo mi sono accorta che, insieme, avevano un senso tematico. Ho detto a Charlie la mia nozione, e lui l’ha resa operante visualmente e drammaticamente… l’idea delle candele è stata sua, e sottolineava ciò che stavo cercando di esprimere meglio di qualunque set che avremmo potuto creare.