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Le luminose stelle del cielo di Marte formavano la volta scintillante di un fantastico dipinto. Un individuo fornito di visione retinica avrebbe visto un terrestre abbigliato con la familiare giacca e i calzoni del ventesimo secolo in piedi su un macigno che lo poneva a poco più d’un metro sopra la sabbia rugginosa. Il suo volto era ossuto, dall’aspetto ascetico. I suoi occhi balenavano indomiti dentro alle orbite incassate. Di tanto in tanto i lunghi capelli ricadevano sopra gli occhi. Le sue labbra si agitavano, vociferanti, mostrando grossi denti giallastri, e davanti ad essi vi era stabilmente una nube di fiato condensato, poiché stava tenendo un discorso… in lingua inglese. L’uomo assomigliava talmente a uno di quegli oratori di vecchio stampo che parlavano da sopra una cassetta di limoni, che veniva voglia di guardarsi intorno alla ricerca di un lampione, di una folla di ascoltatori dai volti imbambolati, traboccanti dal marciapiede, e dei poliziotti in divisa intenti a passeggiare su e giù.
Ma lo sconcertante globo di morbida radiosità che circondava il signor Whitlow faceva sprizzare bagliori di luce riflessa da gusci di smalto nero e da zampe articolate simili a quelle d’una formica vista al microscopio. Ciascun individuo di quella folla possedeva un corpo Ovale lungo circa trentacinque centimetri, del tutto sprovvisto d’una testa in qualche modo riconoscibile, nonché di qualunque orifizio sensoriale o altro sulla nera e lucida superficie, salvo una piccola bocca che funzionava come una porta scorrevole e che continuava ad aprirsi e a chiudersi ad intervalli regolari. A questo corpo erano attaccate otto zampe articolate, un paio delle quali mostrava organi terminali dotati di alte capacità di manipolazione.
Queste creature erano disposte in cerchio intorno al macigno del signor Whitlow. Davanti a lui una di queste creature se ne stava un po’ discosta dalle altre, su un macigno più piccolo. Ai lati di questa, vi erano altre due creature i cui gusci vagamente argentei suggerivano l’erosione del tempo, e perciò la vecchiaia. Al di là della folla, si stendeva un deserto nero fino a un orizzonte che s’intuiva soltanto per la brusca interruzione della distesa di stelle.
Bassa nel firmamento brillava la Terra dall’azzurro cielo, che adesso era la stessa della sera di Marte, e vicino ad essa cavalcava l’esile falce di Fobos.
Ai coleotteroidi di Marte questa scena si presentava molto diversa, poiché essi dipendevano dalla percezione più di qualunque altro sistema sensoriale, per quanto elaborato. Il loro cervello interno era conscio in modo diretto di tutto ciò che si trovava entro un raggio d’una ventina di metri. Per loro, l’azzurro bagliore della Terra era una nube fotonica che si diffondeva ai limiti della soglia della percezione, simile, ma ben distinta dalle altre nubi fotoniche delle stelle e delle deboli lune. Non potevano percepire nessuna immagine distinta della Terra, a meno che non avessero fatto uso di lenti per portare una simile immagine all’interno della loro portata percettiva. Erano consci del suolo sotto di loro come di un emisfero sabbioso percorso da un labirinto di gallerie scavate da vermi e centopiedi. Erano consci dei propri corpi corazzati e segmentati, e dei propri pensieri. Ma la loro attenzione era soprattutto concentrata, adesso, su quell’inefficiente congerie d’organi molli e scoperti che pensava a se stesso come al signor Whitlow: una stupefacente, umidiccia zuppetta di vita sull’asciutto, avaro Marte.
La fisiologia dei coleotteroidi era tipica d’un pianeta dall’economia impoverita. I loro gusci erano doppi; l’intercapedine poteva essere svuotata durante la notte, per trattenere il calore, e nuovamente riempita di giorno per assorbirlo dall’esterno. I loro polmoni erano veri e propri accumulatori di ossigeno: ad ogni espirazione corrispondevano circa cento inspirazioni di quell’atmosfera rarefatta, e la bocca a doppia valvola consentiva di accumulare una considerevole pressione interna. Utilizzavano il cento per cento dell’ossigeno inspirato ed esalavano anidride carbonica mista ad altri prodotti di scarto della respirazione. Le occasionali folate di quest’alito incredibilmente cattivo facevano arricciare le narici al signor Whitlow.
Non era niente affatto ovvio cosa mai permettesse al signor Whitlow di continuare a funzionare, di parlare perfino, in quella gelida scarsità di ossigeno. Ciò costituiva una domanda sconcertante almeno quanto la fonte del morbido chiarore che l’inondava.
La comunicazione fra lui e il suo pubblico era puramente telepatica. Stava parlando vocalmente dietro precisa richiesta dei coleotteroidi, poiché, come la maggior parte dei non-telepati, riusciva a organizzare e a render chiari al meglio i suoi pensieri mentre parlava. La sua voce era drasticamente attenuata a causa dell’aria sottile: sembrava l’ago d’un fonografo che raschiasse la superficie d’un disco senza amplificazione, il tutto intensificato dall’arcana e ridicola ampollosità del suo ampio gesticolare e delle sue contorsioni facciali.
«E così», concluse ansando Whitlow, scostandosi una volta ancora i lunghi capelli dalla fronte, «torno alla mia domanda originaria: attaccherete la Terra?»
«E noi, signor Whitlow», pensò il capo-coleotteroide, «torniamo alla nostra domanda originaria: perché dovremmo?»
Il signor Whitlow fece una smorfia, rivelando una pazienza ormai logora: «Come vi ho già detto ormai parecchie volte, non posso fornirvi una spiegazione completa. Ma vi garantisco la mia buona fede. Farò del mio meglio per fornirvi i mezzi di trasporto e facilitarvi la cosa in tutti i modi. Intendiamoci, dovrà trattarsi soltanto d’una invasione simbolica. Dopo breve tempo, potrete ritirarvi su Marte col vostro bottino. Non vorrete certo trascurare quest’occasione».
«Signor Whitlow», rispose il capo-coleotteroide con un umorismo velenoso e asciutto come il suo pianeta, «non posso leggere i suoi pensieri a meno che lei non li vocalizzi. Sono troppo confusi. Ma posso percepire i suoi pregiudizi. Lei opera partendo da un grosso malinteso riguardo la nostra psicologia. È chiaro che sul suo mondo è tradizione pensare agli esseri alieni dotati d’intelligenza come a mostri malefici il cui unico desiderio è saccheggiare, distruggere, tiranneggiare e infliggere innominabili crudeltà a creature meno progredite di loro. Niente potrebbe essere più lontano dal vero. Noi siamo una razza antica e priva di emozioni. Ci siamo lasciati alle spalle le passioni e le vanità — perfino le ambizioni — della nostra giovinezza. Noi non intraprendiamo nessun progetto se non per motivi più che validi».
«Ma questo è appunto il caso. Non vedete i grossi vantaggi della mia proposta? Quasi senza alcun rischio per voi avrete modo di fare un prezioso bottino».
Il capo dei coleotteroidi si sistemò più a suo agio sul piccolo macigno, e così fecero i suoi pensieri. «Signor Whitlow, mi permetta di ricordarle che non abbiamo mai affrontato una guerra con leggerezza. Durante l’intero corso della nostra storia, i nostri unici nemici intelligenti sono stati i molluscoidi dei mari senza maree di Venere. Nella primavera della loro cultura giunsero fin qui a bordo delle loro astronavi spaziali piene d’acqua, e noi fummo costretti a combattere guerre lunghe e amare. Ma alla fine anch’essi raggiunsero la maturità razziale e una certa spassionata saggezza, anche se non equivalente alla nostra. Fu dichiarata una tregua perpetua, a condizione che ognuna delle parti se ne restasse sul proprio pianeta e non tentasse più nessuna incursione. Per molte epoche abbiamo rispettato quella tregua, vivendo in mutuo isolamento. Perciò, come può vedere, signor Whitlow, lei può imputarci qualunque cosa, ma non d’essere inclini ad accettare una proposta strana e confusa come la sua».
«Posso dare un suggerimento?» interloquì il coleotteroide anziano alla destra del capo. I suoi pensieri guizzarono sottili verso Whitlow: «Terrestre, lei sembra possedere poteri perfino superiori, sotto certi aspetti, ai nostri. Il suo arrivo su Marte senza nessun riconoscibile mezzo di trasporto e la sua capacità di sopportare i rigori del nostro mondo senza nessun percettibile mezzo protettivo, ne sono prove sufficienti. Da quanto lei ci ha detto, gli altri abitanti del suo pianeta non possiedono questi poteri. Perché allora non li attacca lei da solo, come fa il verme solitario corazzato? Perché ha bisogno del nostro aiuto?»
«Amico mio», disse il signor Whitlow con solennità, piegandosi in avanti e puntando il suo sguardo sull’anziano dal carapace argenteo, «detesto la guerra come il male più abbietto, e giudico il fatto di prender parte ad essa come il crimine più grande. Nondimeno, sarei pronto a sacrificare me stesso, come lei suggerisce, se ciò bastasse a raggiungere i miei fini. Sfortunatamente non posso. Non avrebbe l’effetto psicologico che desidero. Inoltre…» e fece una pausa imbarazzata, «… tanto vale che vi confessi che non sono del tutto padrone dei miei poteri. Non li capisco. L’opera di qualche inscrutabile provvidenza ha messo nelle mie mani un congegno che è probabilmente il manufatto di creature la cui intelligenza trascende mille volte quelle che abitano il nostro sistema solare, o addirittura il nostro universo. Ed è grazie a questo congegno che posso attraversare lo spazio e il tempo, protetto dai pericoli. Esso mi fornisce calore e luce, concentra intorno a me una sfera d’aria così da consentirmi di respirare normalmente. Ma in quanto a usare questo congegno in maniera più ampia… avrei una mortale paura che possa sfuggire al mio controllo. L’unico, piccolo esperimento in tal senso da me fatto è stato disastroso. Non oserei mai più».
Il coleotteroide anziano inviò un pensiero al suo capo su una frequenza riservata: «Devo tentare d’ipnotizzare la sua mente turbata, facendomi consegnare da lui questo congegno?»
«Sì, fallo».
«Benissimo. Tuttavia temo che quel congegno proteggerà la sua mente, oltre al suo corpo. Tuttavia, vale la pena tentare».
«Signor Whitlow», pensò d’un tratto il capo, «è giunto il momento di passare ad argomenti più concreti. Ogni sua successiva parola fa sembrare la sua proposta ancor più irrazionale, e i suoi motivi sempre più incomprensibili. Se si aspetta che noi mostriamo un serio interesse, deve dar subito una chiara risposta a questa domanda: perché vuole che attacchiamo la Terra?»
Whitlow si contorse tutto: «Ma è proprio la domanda alla quale non posso rispondere».
«Mettiamola così, allora», continuò il capo, paziente. «Quale vantaggio personale si aspetta di conseguire dal nostro attacco?»
Whitlow si erse in tutta la sua statura e si raddrizzò la cravatta:
«Nessuno! Nessuno in assoluto! Non cerco niente per me stesso!»
«Vuole dominare la Terra?» insisté il capo.
«No! No! Detesto ogni forma di tirannia».
«Una vendetta, allora? La Terra le ha fatto del male e lei sta cercando di ripagarla con la stessa moneta?»
«Assolutamente no! Non mi piegherei mai a un simile barbaro comportamento. Io non odio nessuno. Il desiderio di vedere qualcuno ferito è la cosa più lontana dai miei pensieri».
«Suvvia, suvvia, signor Whitlow! Ci ha appena sollecitato ad attaccare la Terra. Come può far quadrare questo coi suoi sentimenti?»
Whitlow si rosicchiò il labbro, perplesso.
Il capo approfittò della pausa per una rapida domanda al coleotteroide anziano: «Qualche progresso?»
«Nessuno. Afferrare la sua mente è straordinariamente difficile. E, come avevo previsto, c’è uno schermo».
Whitlow scrollò le spalle, gli occhi fissi all’orizzonte bordato di stelle.
«Vi dirò questo», riprese. «È soltanto perché amo moltissimo la Terra e l’umanità, che voglio che voi l’attacchiate».
«Ha scelto uno strano modo di dimostrare il suo affetto», dichiarò il capo.
«Sì», continuò Whitlow, accalorandosi ancor di più, gli occhi ancora perduti lontano. «Voglio che lo facciate per porre fine alla guerra».
«Questa faccenda sta diventando sempre più misteriosa. Scatenare una guerra per farla cessare? Questo è un paradosso che richiede una spiegazione. Faccia attenzione, signor Whitlow, o io stesso cadrò nel vostro errore di giudicare tutti gli alieni mostri malefici e dementi».
Whitlow distolse lo sguardo dall’orizzonte e lentamente lo abbassò sul capo. Sospirò. «Immagino che farò meglio a dirvelo», borbottò. «È probabile che alla fine l’avreste scoperto lo stesso. Anche se sarebbe stato più semplice nell’altra maniera…»
Spinse indietro la capigliatura ribelle e si massaggiò la fronte mostrando un po’ di stanchezza. Quando riprese a parlare, lo fece con un tono assai meno retorico: «Sono un pacifista. Ho dedicato la vita al compito di prevenire la guerra. Amo i miei simili. Ma essi sono immersi fino al collo negli errori e nel peccato. Sono vittime delle loro più basse passioni. Invece di marciare fiduciosi, la mano nella mano, verso il glorioso conseguimento dei loro sogni, insistono a impegolarsi nei più assurdi conflitti, nelle guerre più abbiette».
«Forse c’è un motivo», suggerì il capo, in tono pacato. «Alcune diseguaglianze che devono esser livellate per…»
«Per favore», l’interruppe il pacifista in tono di rimprovero. «Queste guerre sono diventate sempre più violente e terribili. Io, ed altri, abbiamo tentato di ragionare con la maggioranza, ma invano. Essi persistono nella loro idea fissa. Mi sono lambiccato il cervello per trovare una soluzione. Ho preso in considerazione qualunque rimedio concepibile. Dall’istante in cui sono venuto in possesso di… ehm… del congegno, ho cercato per tutto il cosmo, perfino in altre correnti temporali, il segreto per prevenire la guerra. Senza successo. Tutte le razze intelligenti che ho incontrato o sono impegnate in qualche guerra, il che le esclude automaticamente, oppure non hanno mai conosciuto la guerra — questi erano molto gentili, ma com’è ovvio non potevano fornirmi nessuna indicazione utile. Altri ancora si sono lasciati la guerra alle spalle attraverso il doloroso e orribile procedimento di combattere finché non è rimasto più nulla per cui combattere».
«Come abbiamo fatto noi», fu il fuggevole pensiero del capo.
Il pacifista allargò le braccia, il palmo delle mani rivolto al cielo: «Così, mi ritrovai una volta ancora abbandonato alle mie proprie risorse. Studiai allora l’umanità da ogni angolazione. E a poco a poco mi convinsi che la sua peggiore caratteristica, quella più d’ogni altra responsabile della guerra, era una straripante presunzione. Sul mio pianeta l’uomo è il signore della creazione. Ogni altra specie animale è una fra le tante, nessuna è preminente. I carnivori hanno i loro rivali carnivori. Ogni animale che bruca o che pascola compete con un gran numero di altre specie analoghe per ciò che riguarda l’erba e i germogli. Perfino i pesci del mare e la miriade di parassiti che pullulano nel sangue si trovano suddivisi in specie di capacità e habitat press’a poco uguali. Ciò induce umiltà e senso della prospettiva. E nessuna di queste specie è incline a combattere contro se stessa quando si rende conto che, farlo, significherebbe soltanto aprire la strada al predominio di altre specie. Soltanto l’uomo non ha nessun vero rivale, nessun’aitra specie in grado d’impensierirlo. E il risultato è che ha sviluppato manie di grandezza… di persecuzione e odio. E poiché gli manca il freno che gli verrebbe offerto da una seria rivalità con altre specie, inquina il suo nido planetario scatenando in continuità guerre civili.
«È un bel po’ che sto rimuginando su quest’idea. Ho pensato con nostalgia a quanto sarebbe stato diverso lo sviluppo dell’umanità, se fosse stata costretta a condividere il suo pianeta con qualche altra specie di pari intelligenza, ad esempio un abitante dei mari col genio per la meccanica. Ho riflettuto sul fatto che, quando avvengono grandi catastrofi naturali, incendi, inondazioni, terremoti, pestilenze, l’uomo sembra abbandonare temporaneamente tutti i litigi, e tutti si mettono a lavorare insieme, d’amore e d’accordo: i ricchi coi poveri, gli amici coi nemici. Sfortunatamente una simile collaborazione dura solo fino a quando l’uomo non riesce a imporre di nuovo il suo dominio sopra l’ambiente. Questi disastri, queste catastrofi, non sono una minaccia tale da farlo rinsavire una volta per tutte. E allora… mi è venuta un’ispirazione».
Lo sguardo del signor Whitlow vagò inquisitivo su quel brulichio di gusci neri: un guazzabuglio di riflessi satinati a forma di mezzaluna che circondavano d’ogni parte la sfera luminosa che l’avviluppava. In ugual maniera la sua mente guizzò attraverso gli enigmatici pensieri che si agitavano all’interno dei loro carapaci.
«Ricordai un incidente degli anni della mia fanciullezza. Una trasmissione radio — noi usiamo vibrazioni ad alta velocità per trasmettere i suoni — aveva descritto in maniera diabolicamente realistica un’invasione, del tutto inventata, della Terra da parte di esseri provenienti da Marte, esseri dalla natura malvagia e distruttiva che, come voi dite, noi abbiamo la tendenza ad attribuire a ogni forma di vita aliena. Molti credettero che l’invasione stesse davvero accadendo, vi fu paura, terrore, panico. Ho pensato, allora, che al primo accenno d’una autentica invasione di creature aliene, i popoli della Terra in guerra tra loro sarebbero stati pronti a dimenticare ogni contrasto, unendosi saldamente insieme per affrontare gli invasori, rendendosi conto che i motivi per cui si erano azzuffati fino a un attimo prima erano in realtà insignificanti, fantasmi di cattivi umori e di paure prive di sostanza. Avrebbero riacquistato equilibrio e buonsenso. Avrebbero capito che il fatto di gran lunga più importante era quello d’essere tutti alla pari, uomini dal primo all’ultimo, posti ora nella necessità di affrontare un comune nemico… e in grado di affrontare splendidamente una simile sfida. Ah, amici miei, quando quella visione ha preso forma nella mia mente… un’umanità in guerra unita d’un sol colpo e per sempre, sono rimasto tremante e senza parole. Io…»
Perfino li, su Marte, l’emozione lo soffocava.
«Molto interessante», fu il blando pensiero del coleotteroide anziano, «ma il metodo che lei propone non entrerebbe, forse, in contraddizione con quella moralità più alta cui, a quanto riesco a percepire, lei anela?»
Il pacifista chinò il capo. «Amico mio, lei ha ragione… nel senso più alto e supremo della definizione. Ma permetta che le assicuri…» il fuoco tornò ad avvampare nella sua voce rauca, «… che quando verrà il giorno, quando sorgerà il problema delle relazioni interplanetarie, io sarò all’avanguardia per ciò che riguarderà le relazioni interspecie ed esigerò la completa uguaglianza tra i coleotteroidi e gli uomini. Ma…» i suoi occhi febbrili nuovamente si trovarono a scrutare da sotto la ciocca di capelli che una volta ancora gli era ricaduta sulla fronte, «… questa è una faccenda che riguarda il futuro. La domanda immediata è: come fermare la guerra sulla Terra? Come ho già detto prima, la vostra invasione della Terra dovrà essere soltanto simbolica, e naturalmente meno sangue verrà sparso, meglio sarà. Basterà soltanto un assaggio di minaccia esterna, una prova convincente che nel cosmo esistono esseri alla pari, e perfino superiori, per riportare alla normalità la prospettiva dell’uomo, per fonderlo in una grande fratellanza per la reciproca protezione, consolidando per sempre la pace!»