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Quando toccammo terra, Ito sembrava galleggiare sul sedile in preda al rapimento. — Che meraviglia! — sospirò. — Un tale senso di storia e di venerabilità. Ah, Mr. Harris, quali nobili imprese vennero compiute in questo Stadio nei giorni andati! Possiamo mettere piede su questo storico campo da gioco?
— Certamente, Mr. Ito. — Che bello, non dovevo neppure dire una parola; il lavoro che lui stava facendo per vendere quell’ammuffito ed inutile ammasso di rovine era più di quanto avrei mai potuto fare io stesso.
Uscimmo dal saltapicchio e vagabondammo tra la vegetazione contorta mentre piccioni spennacchiati svolazzavano sopra di noi, e l’immensità dello stadio vuoto conferiva a quel luogo una magica atmosfera di sapore mistico, come se si fosse trattato di qualche tempio greco o di Stonehenge, invece che di un vecchio e cadente campo sportivo. Le tribune sembravano affollate di fantasmi; gli echi di eventi grandiosi che mai ebbero luogo riempivano quegli spazi cavernosi immersi nell’ombra.
E così scoprii che Mr. Ito sapeva più cose sullo Yankee Stadium di quanto ne sapessi o avessi mai voluto saperne io. Mi guidò con passo reverente e misurato, annoiandomi a morte con una specie di itinerario storico e turistico.
— Qui Al Gionfriddo effettuò quella famosa presa alle World Series che costò a Joe DiMaggio una potenziale base — disse quando raggiungemmo l’alta e scrostata parete nera che correva davanti alle gradinate. Numeri sbiaditi indicavano «405». Seguimmo quella parete ricurva fino al numero 467. Qui c’erano tre pesanti lastre che spuntavano dal vecchio terreno di gioco come se si trattasse di pietre tombali, e sulla parete retrostante erano infisse cinque placche di rame, ossidate al punto di risultare illeggibili. Ai vecchi tempi doveva essere proprio una cosa seria, esattamente come lo è ora per i Giapponesi.
— Targhe che commemorano i grandi eroi dei New York Yankees — disse Ito. — Il leggendario Ruth, Gehrig, DiMaggio, Mantle… Proprio qui Mickey Mantle spedì una palla sulle gradinate, una cosa che era stata considerata impossibile per più di mezzo secolo. Ah…
E via di questo passo. Ito gironzolò per tutto il terreno da gioco e pareva che avesse qualche aneddoto, ogni volta descritto come un evento di importanza storica, per ogni metro quadrato dello Yankee Stadium. Qui Babe Ruth aveva raggiunto la sua sessantesima base. Lì Roger Marris aveva superato quel record; là Mantle aveva quasi lanciato la palla al di là del tetto del venerabile stadio. Era incredibile quante di queste sciocchezze riuscisse a ricordare e quanto fossero importanti ai suoi occhi. La visita sembrava non finire mai. Sarei impazzito dalla noia se non fosse stato magnificamente chiaro che aveva completamente perso la testa per quel posto. Mentre Ito continuava la sua relazione amorosa con lo Yankee Stadium, io passavo il tempo contando yen nella mia mente. Considerai che probabilmente avrei potuto scucirgli dieci milioni, il che significava che la mia commissione sarebbe stata un milione secco. Il pensiero di tutto quel danaro che stava per cadere nelle mie mani fu sufficiente per farmi continuare a sorridere per tutte le due ore in cui Ito continuò a farfugliare di basi, lanci e strikes.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando finalmente sembrò soddisfatto e mi permise di riportarlo al saltapicchio. Decisi che era tempo di parlare di affari mentre era ancora sotto l’incantesimo dello stadio e poteva offrire minore resistenza.
— Mi riempie di piacere vedere la profondità dei suoi sentimenti verso questo meraviglioso e venerabile stadio, Mr. Ito — dissi. — Sono pronto ad agevolare un rapido trasferimento quando lei vorrà.
Ito trasalì come se fosse stato improvvisamente risvegliato da qualche piacevole sogno. Abbassò gli occhi e fece un inchino quasi impercettibile.
— Ohimé — disse tristemente, — anche se sarebbe per me un incommensurabile piacere poter serbare come una reliquia il nobile Yankee Stadium nelle mie terre, purtroppo una tale frivolezza da parte mia non farebbe che esacerbare le mie difficoltà domestiche. I genitori di mia moglie stupidamente considerano il nobile sport del baseball una barbarie di importazione americana. Sfortunatamente mia moglie condivide queste opinioni, e spesso rimprovera il mio entusiasmo verso tale gioco. Se comperassi lo Yankee Stadium diverrei un oggetto di scherno nella mia stessa casa e la mia vita diventerebbe veramente insopportabile.
Questo era il massimo! Quell’arrogante piccolo figlio di cane aveva sprecato due ore del mio tempo trascinandomi in giro per questo stupido mucchio di rovine, snocciolando tutte quelle sciocchezze e facendomi quasi impazzire, pur sapendo che non lo avrebbe mai comperato. Mi venne voglia di cacciargli tutti i denti in fondo a quella maledetta gola. Ma pensai a tutti quegli yen che ancora potevo sperare di ricavare e gli diedi una risposta adeguata: un piccolo sorriso di simpatia, un sospiro solidale di doloroso rimpianto, un sussurrato: — Ohimé.
— Comunque — aggiunse allegramente — il ricordo di questa visita sarà qualcosa che mi terrò caro per sempre. Le sono profondamente debitore per avermi permesso questa esperienza, Mr. Harris. È valsa davvero la pena di fare il viaggio da Kyoto, anche solo per questa emozione.
E questo mi diede il colpo finale.
Ero davvero nei guai, proprio sul punto di mandare in fumo il più grosso affare che mi fosse mai capitato. Avevo mostrato ad Ito i due migliori articoli del mio territorio e se lui non trovava quello che voleva nel Nord Est, nel resto del paese c’erano un sacco di cose di prima qualità: cose come l’Arco di st. Louis, il Cervino a Disneyland, il Tabernacolo dei Mormoni a Salt Lake City ed anche un sacco di altri intermediari che si sarebbero incamerati la lauta commissione.
Pensai che mi rimanesse un solo articolo da mostrargli prima che lui cominciasse a pensare di rivolgersi altrove: il complesso di edifici delle Nazioni Unite. L’ONU era caduto in un complicato limbo legale. Le Nazioni Unite avevano mantenuto il diritto di proprietà quando avevano spostato il loro quartier generale fuori da New York; ma quando fallirono, lo stato di New York, la città di New York e il governo federale, avanzarono delle pretese su di essi, insieme ai creditori stranieri delle Nazioni Unite. L’Ufficio Nazionale delle Antichità non aveva titoli definiti, ma amministrava la proprietà per conto del governo federale. Se fossi riuscito a rifilare a Ito quel dannato affare, l’Ufficio Nazionale dei Rottami sarebbe stato anche troppo contento di intascare l’assegno e di lasciare che gli altri si affannassero ad impadronirsi di quel danaro. E una volta che lui l’avesse trasportato a Kyoto, il governo giapponese non avrebbe permesso che qualcuno cercasse di impossessarsi di un articolo per il quale uno dei suoi più eminenti cittadini aveva sborsato un bel po’ di yen.
Così feci un balzo a mach 1,7 sopra le acque oleose dell’Est River in direzione est verso il complesso delle Nazioni Unite nella Quarantaduesima. A quell’ora del giorno e da quell’angolazione gli edifici delle Nazioni Unite offrivano quella che speravo fosse una veduta romantica secondo lo stile giapponese. Il Segretariato era una gigantesca lapide di vetro inondata dal sole del tardo pomeriggio, appena velato dalla foschia grigia che ristagnava perennemente sopra Manhattan; al suo fianco, la bassa struttura incurvata dell’Assemblea Generale dava al complesso un equilibrato profilo calligrafico. L’effetto globale era simile a quello degli antichi cancelli Torii giapponesi, stagliati contro il cielo nebbioso al tramonto, solo su scala molto maggiore.
L’Insurrezione aveva lasciato intatte le Nazioni Unite (i ribelli avevano nutrito uno strano rispetto per quell’istituzione) e dal fiume si riuscivano a scorgere a malapena il sudicio mercato all’aperto a cui era stato permesso di prosperare nella piazza, e i bar malfamati lungo la Prima Avenue. Per fortuna, l’Ufficio Nazionale delle Antichità si faceva un punto d’onore di mantenere gli edifici in buono stato, sapendo che le pretese del governo federale avrebbero potuto essere vanificate se fosse trapelato che l’Ufficio li stava lasciando cadere a pezzi.
Portai il saltapicchio ad una quota di novanta metri e mi allontanai dal fiume, cominciando il mio discorsetto: — Davanti a lei, Mr. Ito, ci sono gli edifici delle Nazioni Unite, malinconico simbolo di uno dei più nobili sogni dell’uomo, ora purtroppo vuoti e abbandonati, un monumento alla tragedia della sfortunata scomparsa delle Nazioni Unite.
Barbagli di sole, riflessi dal fiume e poi dalle centinaia di finestre che formavano la facciata del Segretariato, scintillavano ad intermittenza attraverso il monolito di vetro mentre guidavo il saltapicchio attorno all’edificio. Quando fummo sul lato occidentale, la grande facciata di vetro diventò una cortina di fuoco arancione.
— Il Segretariato potrebbe essere sistemato nei suoi giardini in modo da riflettere sia la luce dell’alba che quella del tramonto, Mr. Ito — gli fece notare. — È considerato uno dei più begli esempi di Utilitarismo del Ventesimo Secolo e lei può constatare che si trova in eccellenti condizioni.
Ito non disse nulla. I suoi occhi non ammiccarono neppure. Persino i muscoli del viso sembravano innaturalmente legnosi. Il saltapicchio fu di nuovo sul lato posteriore del Segretariato, e la mole dell’edificio eclissò sia il sole che i suoi giganteschi riflessi; sotto di noi c’era il tetto di cemento grigio dell’Assemblea Generale.
— E naturalmente il significato storico degli edifici delle Nazioni Unite è incommensurabile, anche se tragico…
Mr. Ito mi interruppe all’improvviso con voce fredda e scandita: — La prego di perdonare la mia crudezza nell’interrompere le sue osservazioni con una opinione politica, Mr. Harris, ma credo che la mia franchezza farà risparmiare a lei molto tempo e molti sforzi e a me un considerevole disagio.
Di colpo, era Shiburo Ito della Ito Freight Booster di Osaka, guida e ispirazione dell’economia della più potente nazione della Terra, e ora me lo stava dimostrando. — Rispetto pienamente la sua valutazione affettiva per le defunte Nazioni Unite, ma è un sentimento che non condivido. Le ricordo che le Nazioni Unite nacquero come alleanza delle nazioni che umiliarono il Giappone in una sfortunatissima guerra, e morirono sotto forma di un assemblea rissosa e stridula di nazioni impoverite e questuanti, unite solo nella disonorevole determinazione di estorcere aiuti internazionali dai paesi più avanzati, progrediti, autosufficienti e virtuosi, primo fra tutti il Giappone. Devo quindi far notare con rincrescimento che la vista di quegli edifici mi riempie solo di disgusto, per quanto essi possano avere una certa bellezza intrinseca come oggetti astratti.
Il suo viso era diventato una maschera lucente e lui sembrava lontano milioni di chilometri. Era il primo di questi pezzi grossi giapponesi che avessi visto avvicinarsi così all’ira; dentro di sé doveva proprio ribollire. Dannazione! Come potevo sapere che le Nazioni Unite avessero per lui tutti quei terribili significati politici? Per quel che ne sapevo io, le Nazioni Unite non avevano significato nulla per nessuno per molti anni, se non come ideale sciocco e vacuo che era stato ripreso dagli abitanti del Terzo Mondo, e poi era andato in frantumi. Proprio una fortuna che fossi incappato in uno dei pochi che ancora la condannavano!
— Lei è senza dubbio stanco, Mr. Harris — disse freddamente Ito. — Non la incomoderò più a lungo. Sarebbe meglio ritornare al suo ufficio ora. Se dovesse avere altri oggetti da mostrarmi, potremmo fissare un altro appuntamento in un giorno che sia comodo per entrambi.
Che cosa potevo dire? Lo avevo offeso profondamente, e poi non riuscivo a pensare a nient’altro da mostrargli. Portai il saltapicchio a centocinquanta metri di quota e mi diressi a cento chilometri all’ora verso il centro, sperando nonostante tutto di riuscire a escogitare qualcosa per salvare questo affare da un milione di dollari che rischiava di sfumare, prima di raggiungere il mio ufficio e di perdere per sempre questa gallina dalle uova d’oro.
Mentre ci dirigevano in centro, Ito fissava impassibile la lunga sequela di squallidi edifici allineati lungo la costa di Manhattan sotto di noi, senza degnarsi di parlare o di far cenno di accorgersi della mia miserabile persona. L’intensa luce rossastra che filtrava attraverso la cupola tramutava la sua faccia rotonda in un Sol Levante, uguale a quello della bandiera giapponese. Un’immagine appropriata. Il pazzo bastardo era proprio come il suo paese: un signore feudale suscettibile in politica, dotato di educata arroganza economica, con una sensibilità estetica estremamente raffinata, unita inesplicabilmente ad una brama da topo d’albergo per le più sciocche delle nostre vecchie paccottiglie. Un momento prima Ito appariva così superiore in tutto e in quello seguente era uno stupido ed infantile boccalone. Sono anni che tratto affari con i Giapponesi e ancora non li capisco a fondo. Tutto ciò che posso fare è azzardare qualche supposizione, che resta però sempre ai margini della loro vera realtà interiore, e sperare con quella di cogliere nel segno. E proprio questa volta, con un milione di yen o più che mi balenavano davanti agli occhi, avevo fatto cilecca per ben tre volte e me ne stavo tornando a casa con la coda tra le gambe in compagnia di un cliente insoddisfatto, il cui atteggiamento sembrava fatto apposta per farmi capire che ero una stupida e insulsa creatura, mentre lui era uno dei signori dell’universo!
— Mr. Harris! Mr. Harris! Laggiù! Quella magnifica struttura! — All’improvviso Ito si mise quasi a gridare: gli occhi luccicavano per l’eccitazione e stava sorridendo.
Stava puntando il dito verso sud, lungo l’East River. La sponda dalla parte di Manhattan era soffocata dal più orrendo progetto di case popolari che si potesse immaginare, e la sponda di Brooklyn era ancora peggio: una di quelle enormi aree cosiddette industriali, con bassi edifici senza finestre, magazzini geodesia, banchine, qualche rampa per vettori merci. C’era un’unica costruzione svettante, la sola cosa che Ito potesse indicare: la struttura che collegava le case popolari sulla sponda di Manhattan con l’area industriale di Brooklyn.
Mr. Ito stava indicando il Ponte di Brooklyn.
— Il… ah… ponte, Mr. Ito? — riuscii a dire mantenendo il viso impassibile. Per quello che ne sapevo, il ponte di Brooklyn aveva una sola pretesa di storicità: era l’oggetto di una serie di barzellette così vecchie che non erano nemmeno più divertenti. Era il Ponte di Brooklyn che tradizionalmente nelle vecchie comiche i truffatori vendevano ai turisti boccaloni, ai sempliciotti o ai contadini, come li chiamavano allora, insieme a inesistenti partite di uranio e mattoni verniciati d’oro.
Così non resistetti alla tentazione di pronunciare la battuta: — Vuole comprare il Ponte di Brooklyn, Mr. Ito? — Era meraviglioso: mi aveva fatto passare l’inferno ed era diventato maledettamente altezzoso e arrogante, e adesso io gli stavo dando apertamente del cretino e lui non lo sapeva.
In effetti, lui annuì deciso, proprio come quei sempliciotti delle vecchie barzellette e disse: — Credo di sì. È in vendita?
Ridussi la velocità del saltapicchio a sessanta chilometri, lo feci abbassare a trenta metri e soffocai un risolino mentre ci avvicinavamo alla vecchia mostruosità in rovina. Due massicce e tozze torri di pietra sostenevano i cavi arrugginiti a cui era sospeso il letto del ponte. I saltapicchi avevano reso inutile il ponte da anni; nessuno si era preoccupato della sua manutenzione e nessuno si era preoccupato di smantellarlo. Nel punto in cui i grandi blocchi di pietra grigio-scuro toccavano l’acqua, erano incrostati di una melma verde dall’aspetto putrido. Sopra il pelo dell’acqua le torri erano ricoperte da uno strato bianco, vecchio di almeno dieci anni, causato dallo sterco di uccelli.
Era difficile credere che Ito parlasse sul serio. Il ponte era una vecchia mostruosità, sporca, puzzolente e fatiscente. In poche parole, era proprio quello che Ito meritava gli venisse rifilato.
— Ma certo, Mr. Ito — dissi, — credo di essere in grado di venderle il Ponte di Brooklyn.
Feci librare il saltapicchio alla distanza di circa trenta metri da una delle vecchie e sudicie torri. Dove non erano ricoperte di guano, le pietre erano incrostate da una spessa patina di fuliggine nera. La strada era piena di buche e completamente ingombra di rifiuti, conchiglie e altro sterco di uccelli; il ponte doveva essere da anni abitato da colonie di gabbiani. Fui estremamente grato del fatto che il saltapicchio fosse a tenuta stagna: il fetore doveva essere terrificante.
— Eccellente! — esclamò Ito. — Proprio grazioso, non trova? Sono fermamente deciso ad essere l’uomo che comprerà il Ponte di Brooklyn, Mr. Harris.
— Non riesco a pensare a nessuno che sia più degno di questo onore della sua stimata persona, Mr. Ito. — dissi io con la più completa sincerità.
Circa quattro mesi dopo che l’ultima sezione del ponte era stata trasferita a Kyoto, ricevetti da Ito due pacchetti. Uno era una busta contenente una minicassetta e una diapositiva olografica; l’altro era un pesante involucro delle dimensioni di una scatola di scarpe e avvolto in elegante carta azzurra.
Sentendomi molto più ben disposto nei confronti di Ito ora che avevo un milione dei suoi yen accreditati nel mio conto in banca, inserii la minicassetta nel registratore e non fui certo sorpreso quando udii la sua voce.
— Saluti, Mr. Harris, ed ancora i più profondi ringraziamenti per aver accelerato il trasferimento del ponte nella mia tenuta. Esso è ora installato in modo permanente e procura a tutti noi un grande piacere estetico ed ha incommensurabilmente aumentato la tranquillità nella mia casa. Le accludo un’olografia del sacro luogo. Le ho anche inviato un piccolo segno della mia stima che spero vorrà accettare nello spirito con il quale viene donato. Sayonara.
Incuriosito, mi alzai e inserii la diapositiva nel mio visore a parete. Di fronte a me apparve una montagna ricoperta di alberi che si innalzava in due picchi gemelli di austera roccia grigio scura. Un’alta cascata si tuffava graziosamente nella gola tra i due pinnacoli, precipitando in un lago profondo ai piedi della montagna, e lì si abbatteva su di un pianoro di roccia formando un velo perenne di sottile foschia che trasformava il paesaggio in un’immagine che sembrava uscita direttamente da un dipinto cinese. Disteso attraverso la gola tra i due picchi, simile ad una ragnatela sospesa proprio sopra la cascata, le torri di pietra ancorate a degli spuntoni roccia sull’orlo del precipizio, c’era il ponte di Brooklyn, la sua massa imponente resa aggraziata ed esile dalle dimensioni massicce del paesaggio. La pietra era stata ripulita e brillava per il vapore umido, i cavi e la sede stradale erano ricoperti di edera lussureggiante. L’olografia era stata scattata proprio mentre il sole tramontava tra le torri del ponte, facendole risaltare su di uno sfondo rosso-arancione, e trasformando la nebbiolina in una cascata di luccicanti scintille color rame.
Era molto bello.
Ci volle un po’ prima che riuscissi a distogliere lo sguardo, ricordandomi dell’altro pacchetto di Mr. Ito.
Dentro l’involucro di carta azzurra c’era un mattone verniciato d’oro. Rimasi a bocca aperta. Poi risi. E poi lo guardai di nuovo.
Superficialmente, l’oggetto sembrava un vecchio mattone ricoperto di vernice d’oro. Ma non lo era. Era un vero lingotto di oro puro, una perfetta imitazione dell’originale, perfetta in ogni dettaglio.