129330.fb2 Visioni di terrore - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 11

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10

Larry Birch non era mai stato così soddisfatto.

Guidava la grigia Chevrolet lungo la Saw Mill River Parkway, a venti chilometri oltre il limite di velocità. Vera e Annie erano sui sedili posteriori. Nonostante gli scossoni e i sobbalzi provocati dalla guida caotica di Birch e dall’assoluta mancanza di sospensioni dell’auto, nessuno protestava. Il senso di liberazione, di ansia per una soluzione che sembrava vicina erano troppo grandi.

«Sono nauseato», aveva detto il dottor Laval quando Vera gli aveva dichiarato che sarebbe andata da Marie Neuberger. «Quella non è scienza medica», l’aveva rimproverata, «è ciarlataneria.» E Laval si era immediatamente lavato le mani del caso di Annie. «Non avrò mai niente a che fare con medicastri», aveva dichiarato, disponendo che la cartella e i precedenti clinici di Annie non fossero trasmessi alla Neuberger.

Laval voleva anche avvertire Ned delle intenzioni di Vera, ma lei fece appello alla loro amicizia, al segreto professionale per insistere perché il cognato non venisse informato immediatamente.

Birch girò per la West Side Highway, che correva lungo il fiume Hudson. Era in estasi: pensava compiaciuto a quanto, con il suo aiuto, stava prendendo forma. Certo, era posto di nuovo davanti al problema etico di «costruire» una notizia sensazionale grazie al proprio intervento, ma accantonò ben presto ogni scrupolo. Non stava forse aiutando una povera bambina afflitta da un male misterioso? Non era lui, prima di tutto, un essere umano e, dopo, un giornalista? Sì, da quella sua azione caritatevole avrebbe tratto modesti utili: una storia da prima pagina, l’invidia dei colleghi, forse il Premio Pulitzer. Ma che cos’era tutto ciò rispetto alla soddisfazione di avere salvato una famiglia?

All’uscita della Settantanovesima strada, Birch lasciò la West Side Highway. Poco dopo transitava per vie brulicanti di una folla pittoresca ed etnicamente composita. Piegò a sud su Broadway che, in quella parte a nord dalla zona dei teatri, era un’arteria residenziale e commerciale, piena di piccoli negozi e di supermercati, molti con la merce esposta sul marciapiede. Poi infilò la Settantaquattresima Ovest per fermarsi davanti a un grande edificio residenziale in stile barocco.

«Perché ci fermiamo?» domandò Vera.

«Siamo arrivati.»

«È qui che vive la dottoressa?»

«Già. Proprio qui all’Ansonia. Guardi, Mrs. McKay, non storca il naso. Questo è un vecchio edificio famoso, un simbolo. Ci ha vissuto un sacco di artisti. Alcuni ci abitano tutt’ora.»

Vera guardò gli «artisti» che ciondolavano lungo il marciapiede lungo e stretto, che percorreva l’intero isolato. C’erano bohémien dall’abbigliamento trascurato, qualche coppia di invertiti che si prendeva in giro a vicenda, uno sfaccendato di passaggio e un assortimento di gente qualunque. Nessuno avrebbe trovato collocazione a Tarrytown.

«Che razza di medico vorrebbe esercitare in un posto del genere?» chiese Vera, preoccupata.

«Marie Neuberger», rispose Birch, girando la chiavetta dell’accensione e lasciando spegnare il motore con un ultimo sussulto. «È una di quella razza.»

Vera soffocò i suoi sentimenti di conservatorismo provinciale. Sapeva che poteva essere l’ultima speranza per Annie.

Scesero dall’auto e Vera fu immediatamente aggredita dal puzzo degli scappamenti e dai cattivi odori che aleggiano, in una giornata calda, nella Settantaquattresima Ovest. Birch, Annie e Vera entrarono nel vecchio Ansonia e, nell’atrio, presero l’ascensore. Lentamente raggiunsero l’ottavo piano e s’inoltrarono lungo l’oscuro pianerottolo, in cui stagnavano aromi della cucina dell’Europa orientale. In uno degli appartamenti qualcuno pestava su un pianoforte scordato, forse per rievocare il passato splendore dell’Ansonia, ma l’esecuzione risentiva delle più modeste capacità degli attuali inquilini.

Birch guidò Vera e Annie davanti a una porta verde di legno, in fondo al pianerottolo. La vernice era scrostata e sopra lo spioncino era avvitata una targa sbiadita: DR. MARIE NEUBERGER.

Birch tentò di suonare il campanello, ma il pulsante era bloccato. Allora bussò e un po’ di vernice e di polvere caddero sul logoro zerbino rosso.

Vera strinse forte la mano di Annie. Sentiva crescere in sé la tensione. L’Ansonia sembrava una di quelle case stregate dei romanzi o dei film dell’orrore.

Dall’interno si sentì un rumore di passi rapidi, decisi, più forte a mano a mano che si avvicinavano alla porta.

Di colpo lo spioncino si aprì.

«Chi è?» chiese una voce con un lieve accento mitteleuropeo.

«Birch. Ho con me le McKay.»

«Desidera una visita?»

«Sì», rispose il giornalista, «siamo qui per questo.»

«La visita è per lei, Birch? È malato?»

«No, è per le McKay», spiegò lui sempre parlando alla porta chiusa.

«Che lo dica la signora, allora.»

«Sì», intervenne Vera, «desidero la visita.»

Tre serrature scattarono una dopo l’altra, poi la porta si aprì, cigolando sinistramente.

Un piccolo volto dalla carnagione terrea e dalle rughe accentuate fece capolino. Marie Neuberger era esile e, come minimo, sulla sessantina. Capelli bianchi, raccolti a crocchia sulla nuca. Indossava una gonna jeans su una calzamaglia nera, con una camicia scozzese troppo grande. I freddi occhi marrone erano protetti da occhiali dalle lenti azzurrate, senza montatura. Si accorse che Vera era sconcertata dal suo aspetto.

«Lo so», disse, sempre senza sorridere. «Non assomiglio ai medici della televisione. Sono poco presentabile, vero?»

«Oh, no», si affrettò a rispondere Vera.

«Lei mente, ma è okay. Lei mente per farmi sentire meglio.»

Vera arrossì, non sapendo che cosa rispondere.

Marie Neuberger li squadrò, uno dopo l’altro. «Non visito qui sulla porta», disse. «Di solito la gente viene dentro.»

Accennò all’interno dell’appartamento e i tre entrarono. L’alloggio era reso scuro da piante artificiali che toglievano gran parte della luce. Il mobilio era vecchio, in stile provenzale, sui toni del bordeaux. Le pareti quasi tutte nude, dipinte di una tinta mostarda. Ma qua e là si notava una litografia e, sistemato in un angolino, c’era un gruppo di vecchie fotografie ingiallite. Vera le fissò, cercando di mostrarsi incuriosita.

«Le interessano?» le chiese la Neuberger.

«Sì.»

«I miei insegnanti, a Vienna.»

«Dovevano essere grandi uomini.»

«Contraddizione in termini. Si sbagliavano tutti ed erano barbosi.»

«Allora perché tiene appese qui le loro foto?»

«Hanno figli in America», rispose la Neuberger. «A volte vengono a far due chiacchiere. Non voglio rompere i ponti con la vecchia patria.» Si avvicinò alle fotografie. «Hanno studiato tutti con Freud. Che bidone, quello.»

«Sigmund Freud?» si stupì Vera.

«E chi altri? Il macellaio? Un dritto, quello. Delle creature umane ne sapeva quanto io so dei pinguini. Aveva soltanto ciò che oggi si chiamano buone relazioni pubbliche.» I suoi occhi guizzavano da Vera ad Annie. «Chi è la paziente?» chiese asciutta.

«Tutt’e due», rispose Birch.

La Neuberger alzò lo sguardo al soffitto. «Che cosa credete che sia questa, una fabbrica?»

«Si tratta della mia bambina», si affrettò a spiegare Vera. «Ma anch’io posso aver bisogno di aiuto.»

«Perché crede alle sue storie fantastiche?»

Vera sussultò. «Non sono…»

«Sì, sì, sì, lo so. Non lo sono mai.»

Vera si sentì di colpo scombussolata. Lanciò un’occhiata apprensiva a Birch.

«Perché guarda lui?» domandò la Neuberger. «Lui non dovrebbe nemmeno essere qui.» Si rivolse al giornalista. «Lei se ne vada e aspetti giù dabbasso.»

Birch era abituato ai modi della Neuberger, ma si finse sorpreso. «Dottoressa, sono amiche mie. Non posso davvero piantarle qui.»

«Perché no? Annegheranno qui da me? O se ne va lei, o se ne vanno loro. Questo non è uno spettacolo teatrale come giù in città.»

Birch si strinse nelle spalle. «Vado a fare due passi», disse a Vera. «Comunque non mi allontanerò. Qui si troverà benissimo.»

Vera avvertì un’immediata, illogica paura, ma non si oppose.

Quando Birch si chiuse la porta alle spalle, lei capì che aveva oltrepassato il punto da cui sarebbe stato impossibile tornare.

«Questa gente dei giornali», commentò la Neuberger, scuotendo la testa mentre richiudeva accuratamente l’uscio, «bisogna stare in guardia da loro. Questo Birch è uno di quelli onesti. Mi procura pazienti. Ma poi ne tira fuori degli articoli.» Accennò bruscamente verso il divano color porpora. «Lei e la piccola, sedetevi. Coraggio.»

Obbediente, Vera prese Annie per mano, e si accomodarono entrambe. Lei si era concentrata tanto intensamente sulla Neuberger da non accorgersi che la mano della bambina tremava. Notava solo in quel momento che Annie era come pietrificata.

«Ha sposato sua figlia, lei?» le domandò la dottoressa.

«Prego?» rispose Vera, attonita.

«Le tiene la mano, come nelle belle statuine.»

«Penso sia un pochino spaventata.»

«Di che cosa? Di me? L’ha portata qui in macchina?»

«Sì.»

«Aveva paura?»

«No.»

«E allora… non era spaventata per i pazzi che circolano in macchina, degli ubriachi e dei vagabondi, ma ha paura di me. Non è un buon segno… lei si comporta in modo sbagliato con sua figlia.»

«Perché? Che cosa le faccio, io?»

«È lei che la rende timorosa. La piccola sente che sua madre ha paura di me.»

Vera, a disagio, si agitò sul divano. «Be’, forse…»

«Lei è un’insicura. Dipende da altre persone. Le va una birra?»

«Birra?»

«Sa che cos’è una birra, no?»

«In uno studio medico?»

«Signora, qui non siamo in chiesa. Birra?»

«No… grazie.»

«La bimba?»

«Birra ad Annie?»

«Signora», disse la Neuberger, con condiscendenza, «la birra non fa male ai bambini. Questa è un’altra delle storie fasulle a cui lei crede. La piccola si berrà una Heineken.»

«No!» ribatté Vera con fermezza.

«Okay, io sì.» La Neuberger marciò in cucina. Vera, nonostante tutti gli avvertimenti che aveva ricevuto, era terrorizzata. Quella donna era matta, dava i numeri. Sbirciò l’orologio. Quando avrebbe potuto squagliarsela educatamente?

Annie le si strinse vicino e le sussurrò all’orecchio: «Mamma, che cosa c’è che non va in quella signora?»

«Che cosa vuoi dire?» bisbigliò Vera.

«Parla in modo strano.»

«Be’, certe persone fanno così.»

«Mammina, ho paura. Credo sia una strega. Andiamo a casa.»

«Forse lo faremo. Ancora qualche minuto e poi decideremo.»

La Neuberger tornò poco dopo, portando un boccale di birra. Ne ingollò un buon quarto prima di riprendere a parlare. «Fa bene», spiegò. «Dilata le arterie.»

«Capisco», disse Vera.

La Neuberger si appollaiò su una grande poltrona di fronte al divano. «Così, lei è venuta da me perché è già stata dappertutto, da altri. Giusto?»

«Sì. Abbiamo tentato di tutto.»

«Siete state da alcuni dei cosiddetti psichiatri. Quelli che hanno studi eleganti, con interfono e quattrini in banca.»

«Sì.»

«E lei ha un problema con la piccola», aggiunse la Neuberger. «Naturalmente l’ho vista alla televisione e ne ho letto sui giornali, ma questo non conta. Ma, a quanto mi risulta, la bimba vede le cose.»

«Sì», rispose Vera.

«E allora?»

La faccia di Vera assunse un’espressione interdetta. «Lei non si intende di queste cose?»

La Neuberger alzò le braccia, fingendosi mortificata. «Non sono Dio. Dio forse lo sa… forse.»

Mentre Vera la osservava, la Neuberger posò il bicchiere e la fissò attentamente, con occhi che sembravano bruciare, penetrare nel fondo del suo animo. Ebbe paura di quell’esame, ma allo stesso tempo quegli occhi sembravano possedere una speciale seconda vista e tanta saggezza.

«Mia figlia sembra in grado di predire il futuro», disse Vera.

La Neuberger rise di cuore. «Assurdo. Nessuno è in grado.»

«Ma lei sì.»

«E lei si aspetta che io, un medico, creda a queste stupidaggini?»

«Ma io pensavo lei credesse nel…»

«Ah!» esclamò l’altra. «Queste storie sul mio conto circolano ovunque. Ricevo delle lettere così strane. Signora, io credo soltanto quando c’è una prova. Qui che cosa vedo io, se non una madre isterica?»

«Non sono un’isterica. Lei sa benissimo di che cosa sto parlando. Voglio il suo aiuto.»

«Allora deve raccontarmi esattamente come è cominciata questa bizzarra faccenda. Dopo sarò io a dirle qual è il problema, sempre che quanto sentirò abbia senso. A quanto ne so, suo marito ha tagliato la corda.»

«Mio marito è scomparso l’anno scorso.»

«Ma lei era felice. Il suo matrimonio non aveva problèmi.»

«Lei come lo sa?» domandò Vera.

«Da come abbassa la voce e gli occhi e cambia il ritmo del discorso quando parla di lui.»

«Capisco», mormorò Vera.

«Dopo che lui, questo marito, se n’è andato, le cose per lei si sono fatte difficili?»

Vera sospirò profondamente. «Ero rimasta sola. È stato molto duro.» Sembrò perdersi in un ricordo lontano.

«La piccola ha reagito male alla scomparsa del padre?»

«Molto. Erano molto vicini.»

«Vicini, quanto?»

«Gliel’ho detto, molto.»

«Il che non mi dice niente.»

«Erano sempre insieme.»

«Fisicamente?»

Vera alzò le braccia, esasperata. «Be’, in quale altro modo?»

«Si comporti educatamente con me!» scattò la Neuberger. «Ci sono parecchi modi di essere insieme. Si può essere nella stessa casa, a mezzo metro da un altro, e nemmeno accorgersene. Io sono insieme con la gente quando vado in metropolitana. E non significa che le voglia bene.»

«Capisco che cosa vuol dire», rispose Vera. «Si parlavano sempre. Non per il fatto che Harry ci fosse o meno. Lui le prestava sempre attenzione.»

«E questo, alla piccola, manca.»

«Naturalmente.»

«Mi dica se sua figlia ha mai avuto qualcuna di quelle stranezze prima che il padre se ne andasse.»

«No, era perfettamente normale.»

La Neuberger frugò in un armadietto e ne tirò fuori una scatola di biscotti. «Ecco, carina», disse, «prendine uno.» Era la prima cosa gentile che avesse fatto e Vera notò anche che i suoi lineamenti severi si erano un po’ addolciti.

Annie esitò, guardando la madre, la quale annuì che andava bene. La bambina esitò ancora.

«Coraggio!» insisté la Neuberger.

Annie scese lentamente dal divano, le si avvicinò e prese il biscotto. «Grazie», disse quasi in un bisbiglio e tornò a sedersi.

«Un pochino viziata», commentò la dottoressa.

«Che cosa?» esclamò Vera.

«Ho visto che si aspettava che le portassi io il dolcetto. È un sintomo. Deve stare attenta. Specialmente con il papà assente, i bambini diventano viziati, poiché la famiglia cerca di compensare quell’assenza.»

«Ci starò attenta», promise Vera, riconoscendo che il suggerimento era buono.

«Adesso mi racconti dall’inizio della strana faccenda.»

«È stato parecchi mesi fa», cominciò Vera. «Annie si è ammalata gravemente una sera e…»

«Quando ha cominciato a riprendersi sono cominciati anche i problemi.»

«Sì. Ha avuto una visione: cadeva sui binari del treno nello stesso identico modo in cui una ragazzina era morta a Topeka appena prima che lei si ammalasse.»

«Sì, questo l’ho sentito dire. Non deve farci caso. Naturalmente sua figlia l’aveva saputo da qualcuno, anche se dicono che nessuno ne era a conoscenza. La cosa è spiegabile.»

«Ma poi», aggiunse Vera, «Annie ha saputo che per poco non restavo vittima di un incidente automobilistico.»

«Nessuno attorno a lei ne era al corrente?»

«No, impossibile», rispose Vera. «Annie lo ha saputo nell’attimo stesso in cui stava succedendo.»

«Che importanza ha?»

Vera trasalì. Guardò dubbiosa la psichiatra. «Non la seguo, dottoressa.»

«Che importa se ha fatto queste cose?» ribatté la Neuberger. «Ci sono tante spiegazioni! Ne vuole una, gliene do una. Ma in questo gli altri medici probabilmente avevano ragione. Avranno sostenuto che era una coincidenza, o una delle solite percezioni extrasensoriali.»

«Sì.»

«Quindi il caso finisce qui.» La Neuberger si alzò, evidentemente in procinto di accompagnarle alla porta.

«Ma lei non ha capito!» protestò Vera. «È successo ancora, altre volte.»

La Neuberger alzò le spalle. Vera era stupefatta. La Neuberger era più rigida, più ottusa di tutti gli altri dottori.

«Mi sta dicendo», chiese Vera, «che non c’è nient’altro che possa fare?»

«Senta», replicò la Neuberger, «si metta nei miei panni. Se fosse lei ad ascoltare questa storia che cosa direbbe?»

«Ma lei non ha ascoltato tutta la storia.»

La psichiatra sbirciò l’orologio, poi con fare indifferente si sedette di nuovo. «Okay, se ha qualcos’altro da dirmi, parli. Le dedico ancora qualche minuto.»

«Ci sono stati altri episodi», proseguì Vera, parlando sempre più in fretta, sperando che la Neuberger fosse disposta ad ascoltare. «C’è stata la volta in cui sapeva che una scheggia di vetro era nel prato di casa,»

«Per forza, lo sapeva», commentò la Neuberger, «abitava e viveva lì.»

«Mi lasci finire, la prego!»

«Continui pure. Credo, però, che mi stia facendo sprecare del tempo.»

«Sto cercando di esporle i fatti!» ribatté Vera, quasi gridando. Guardò alla sua sinistra. Annie si era raggomitolata a un’estremità del divano, chiaramente impaurita. «La stiamo facendo spaventare.»

«Lei la sta spaventando», replicò la Neuberger. «Vada avanti.»

«Annie non sapeva che c’era il vetro. E non poteva assolutamente saperlo.»

«Assurdo! L’aveva visto in precedenza.»

«No, non l’aveva visto!» insisté Vera, cominciando a mostrarsi esasperata. «Lo chieda ad Annie!»

«La smetta di ordinarmi che cosa devo fare!»

«Non sto ordinando. Sto suggerendo!»

Di scatto, Annie si mise seduta. «Non lo sapevo da prima», disse spontaneamente.

«È tua mamma che ti istruisce a dire questo!» sbottò la Neuberger.

«Non è vero!» insisté Vera. Squadrò con rabbia la Neuberger, ma questa ricambiò l’occhiataccia. Quella vecchia non voleva, non poteva essere suggestionata o influenzata. Vera si sentì svuotata d’ogni energia.

«Mi dica», continuò la dottoressa, accavallando le gambe in modo goffo, decisamente mascolino, «lei ha uno di quegli agenti teatrali, vero?»

«Non la capisco.»

«Qualcuno con la giacca dai grandi risvolti e che telefona sempre in California. Che procura scritture per la piccola in teatro.»

Dapprima Vera non comprese del tutto. Poi l’enormità dell’accusa le apparve evidente. «Sta insinuando», proruppe indignata, «che io cerco di far quattrini perché Annie ha avuto queste visioni? Vuol forse dire che la manderei su un palcoscenico, come un fenomeno da baraccone?»

«È quello che sto dicendo.»

«Allora lei è senz’altro in malafede», affermò Vera, incapace di frenarsi.

«Questo non è vero», ribatté la Neuberger. «Sto solo esponendo dei fatti. L’ho vista in televisione, con folle di giornalisti, a fare la scena.»

Vera scrollò la testa, disperata, e si voltò indietro, tentando di trattenere la collera. «Quella», disse con tono quasi condiscendente, «era una conferenza stampa. I cronisti volevano parlare con noi di Annie dopo che lei aveva salvato delle vite umane. Questo riesce a capirlo?»

La Neuberger sbuffò in modo quasi sprezzante. «Lei sta tentando di farmi fessa», disse. «Sapeva di sicuro i vantaggi della pubblicità. Non riesce a darmela a bere.»

«È inutile andare avanti», replicò Vera bruscamente. «Niente può farle cambiare opinione.»

«Lei si arrende troppo facilmente», osservò la Neuberger. «Gli americani sono dei molli.» Riprese il bicchiere di birra e ne ingollò parecchie sorsate, quasi fino in fondo. Quando ebbe finito fissò compiaciuta il bicchiere, come se interpretasse uno short pubblicitario alla televisione. «Stimolante», disse. «Adesso», ordinò, «mi dica qualcosa di più della sua storia.» Vera fu tentata di porre fine a quell’umiliazione, ma era sopraffatta dal disperato bisogno di trovare qualche aiuto per Annie. «Stavo andando a un colloquio per un impiego. Ero in macchina e Annie mi è corsa dietro. Incredibile. Sapeva che c’era un’esplosione nel palazzo dove stavo recandomi. Ecco com’è diventata così… famosa.»

«Famosa», ripeté la Neuberger con una sfumatura di cinismo. Si appoggiò allo schienale della poltrona e alzò la testa, osservando il soffitto. Poi chiuse gli occhi, evidentemente riflettendo. Li riaprì di colpo e si rivolse ad Annie. «Io ti piaccio?» le chiese.

Annie cominciò a dondolare le gambe avanti e indietro, come fanno i bambini quando si sentono imbarazzati. «Sì», rispose. Vera le aveva detto di essere sempre gentile, indipendentemente dai suoi reali sentimenti.

«Mi dirai la verità?» continuò la Neuberger.

«Sì.»

«Allora raccontami come inventi questi scherzetti. Chi ti suggerisce di dire queste cose?»

Annie alzò le spalle.

«La verità!» insisté la psicanalista.

«La mamma ha spiegato…»

«Tu, spiegalo!»

Vera ribollì all’allusione che avesse mentito. Ma aveva fiducia in Annie e decise di non interferire.

«Vedo le scene», precisò Annie, «proprio come ha detto la mamma.»

«Sono sogni, naturalmente», dichiarò la Neuberger.

«No che non lo sono. Vedo le scene nella mia testa, come alla televisione.»

«Chi ti ha suggerito di dire così?»

«Nessuno.»

«Tu non mi stai raccontando la verità.»

«Sì, invece!»

«Non mi piacciono i bambini che dicono le bugie!»

Allora Annie scoppiò in lacrime, nascondendo la testa in grembo alla madre.

«Come può!» esclamò Vera, dominandosi, ma con le lacrime agli occhi. «È solo una bambina e lei la tratta come spazzatura!»

«Non è vero», ribatté freddamente la Neuberger.

«Lo è», scattò Vera, alzando la voce. «È verissimo. Forse per questo lei è al bando nella sua professione. Forse per questo lei esercita in una vecchia casa squallida come questa!»

«Mrs. McKay», ribatté la dottoressa, con un’improvvisa sincerità nella voce, «io sto cercando di aiutarvi.»

«Un bell’aiuto davvero!» commentò Vera, cui era sfuggito il cambiamento di tono della Neuberger. «Gli altri dottori non ritengono di essere in tribunale. Perché lei sì?»

«Perché il mio sistema funziona. Ho aiutato altra gente come voi due, Mrs. McKay», proseguì, «so che lei pensa che sia un’originale. Non mi stupisce, ma nemmeno mi preoccupa. Il metodo che uso è insolito. Tende a cavarle informazioni esattamente come un dentista estrae un dente. Già so di voi due più di qualsiasi altro dottore, ma di questo per ora non parleremo. La stragrande maggioranza dei medici, quelli con l’orologio d’oro, si preoccupa della propria immagine, di ciò che gli altri possono pensare di loro. Io mi preoccupo soltanto di risolvere il problema. Devo anche convincermi che lei non sia un’imbrogliona. Se questo non le va a genio, quella è la porta. Se vuole il mio aiuto, si adegui al mio metodo.»

Vera abbassò gli occhi, non sapendo che cosa ribattere, sentendosi di colpo imbarazzata, ma ancora incollerita per un «metodo» che metteva Annie alla tortura.

Squillò il telefono, uno squillo lacerante e sonoro che rimbombò sulle pareti quasi spoglie. La Neuberger si alzò con un’agilità che smentiva i suoi anni e si diresse a un tavolino, dove il telefono era nascosto dietro una pila di libri.

«Sì, pronto.»

Ascoltò e Vera la vide oscurarsi in volto, annoiata.

«Sì, sì, sì. È qui, ma questo è uno studio medico, non un club di ritrovo. Non posso passargliela.»

Ascoltò ancora, con un’espressione seccata sul punto di diventare rabbiosa.

«Attenda, Mr. Blablabla», disse aspramente, poi si girò verso Vera. «È per lei. Questo scocciatore dice che è urgente, ma io non lo credo affatto.»

«Chi è?» domandò Vera.

«Un certo Mr. Ned.»

Vera esitò, ma decise che evitare di rispondere sarebbe stato peggio. «Devo parlargli?» chiese alla Neuberger.

«Questo Ned può turbarla ancora di più», rispose la psicanalista. «Secondo me dovrebbe lasciarlo perdere. Ma se non può farne a meno…»

«Sì, credo di doverlo fare.» Vera accarezzò ancora Annie, si alzò e si diresse al telefono.

«Ned… sono Vera.»

«Che cosa diavolo ti è venuto in mente di fare?» replicò lui seccamente.