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Il giorno dopo Vera andò a Tarrytown per un appuntamento con il detective Edward Simeon, del Dipartimento di polizia. Conosceva e apprezzava Simeon. Era stato incaricato delle indagini sulla sparizione di Harry e l’aveva sempre trattata con cortesia e tatto, tenendola regolarmente informata sugli sviluppi dell’indagine, finché ogni traccia era svanita.
Vera e Simeon si incontrarono nella sala operativa del distretto locale. A differenza degli stereotipi della TV, la sala era moderna, con lampade fluorescenti, soffitti insonorizzati, moquette grigia e pareti bianche. C’erano dodici scrivanie di metallo ordinatamente disposte su file di quattro.
Simeon occupava la terza scrivania di una fila vicina alla parete. Era un uomo ossuto, quasi emaciato, di cinquantacinque anni, che ne dimostrava dieci di più. Un viso lungo, cui le borse sotto gli occhi davano un’espressione malinconica e abbattuta. Quasi del tutto calvo, con qualche ciuffo di capelli completamente grigi. Parlava con una voce stridula, con continue interruzioni, che risuonava sempre affaticata. Tutti a Tarrytown sapevano che sua moglie non era sana di mente, e che la sua malattia lo stava stremando psicologicamente, fisicamente e finanziariamente da oltre dieci anni.
«Ho bisogno di aiuto», gli disse Vera.
«Aiuto di che genere?»
«Protezione per Annie, mia figlia.»
«Oh?»
«Credo possa essere in pericolo.»
«Come mai e perché?»
Vera, in un abito estivo verde, si schiarì la gola. «Mi è molto difficile parlarne», rispose. «Agente Simeon, certamente avrà saputo dai giornali che Annie ha avuto dei problemi.»
«Sì, signora», rispose Simeon, «e mi dispiace molto, mi creda.»
«Be’», continuò lei, «Annie ultimamente ha… sognato… che suo zio Ned, cioè Ned McKay, voleva ucciderla. So che sembra assurdo.»
«Lo è», replicò Simeon, impassibile.
«Ma Ned e io siamo un po’ in disaccordo. Annie è in cura con una nuova dottoressa, la quale ritiene… che Ned potrebbe costituire un pericolo. Ora, io non sono di questo parere…»
«Spero bene di no.»
«Ma, forse, per il bene di Annie…»
Simeon parve costernato. Si sporse in avanti e il suo esile busto sembrò incapace di sorreggere la testa. «Signora», disse, «la conosco ormai da lungo tempo e lei ha tutta la mia simpatia. Mi creda, so quello che lei e la piccola avete passato. E so qualcosa dei disturbi mentali. Ma non posso distaccare un agente per proteggere Annie sulla base di quanto lei sostiene. Voglio dire, abbiamo gente a Tarrytown con problemi effettivi. Abbiamo casi di divorzi, in cui gli interessati si minacciano reciprocamente con pistole e coltelli.»
«Ma Annie potrebbe aver ragione circa suo zio.»
«Mrs. McKay, cerchi di capire che se distaccassimo un uomo per via di ogni brutto sogno, entro un’ora non avremmo disponibile un solo agente.»
«Senta», lo implorò Vera, «lei sa dell’incendio in città. Lei ha visto che Annie ha queste facoltà. La bimba sembra che sappia cose che noi non sappiamo.»
Simeon sorrise con tutta la comprensione che gli riuscì di chiamare a raccolta. «Mrs. McKay», ribatté, «una motivazione del genere è inaccettabile. Non credo di offenderla dicendole che la gente ha i suoi dubbi riguardo ad Annie.»
Vera si lasciò andare con la schiena contro la spalliera della sedia. La tesi ufficiale, educatamente confermata da Ed Simeon, era che la credibilità di Annie non era stata comprovata e che qualsiasi nuova visione non poteva trovare credito. «Mi dispiace di averla disturbata», disse a Simeon. «Grazie lo stesso.» Fece per alzarsi.
«Non mi ha affatto disturbato», ribatté Simeon. «Vorrei poterla aiutare, ma nel caso specifico è impossibile. Per qualsiasi altra evenienza, comunque, mi avverta senz’altro. O magari mi faccia telefonare da Mr. McKay.»
«Ned?» esclamò Vera. «Agente Simeon, di che cosa abbiamo parlato finora?»
Simeon le lanciò un’occhiata scettica. «Su, signora», disse, «Ned McKay è uno degli uomini più stimati della città.»
Vera se ne andò, ma il male era fatto. Simeon restò dell’idea che lei non fosse del tutto in sé. Quando poi seppe che la «nuova dottoressa» di Annie era Marie Neuberger i suoi sospetti aumentarono. Già ci si era preoccupati, al comando di polizia, di Vera, preoccupati per le sue affermazioni circa le facoltà di Annie.
Vera rimase profondamente ferita dal rifiuto di Simeon. La faceva sentire più sola che mai. E questo senso di isolamento la obbligò a ritenere di dover raggiungere una qualche intesa con Ned in merito alle cure di Annie. Naturalmente non credeva ancora che il cognato avesse cercato di uccidere Annie. Accettava la teoria della Neuberger che Annie lo avesse, nella sua visione, confuso con un’altra persona. E capiva anche la collera di Ned per il fatto che la nipote fosse stata affidata alla Neuberger. In un certo senso Vera rimpiangeva di non averlo ascoltato.
Andò da lui, allo studio, senza preavviso. Come al solito, aveva numerosi clienti in attesa, ma volle riceverla quasi immediatamente.
«Entra, accomodati», disse mentre la segretaria, con Vera dietro, apriva la porta. Le sorrise, come se nessun attrito fosse mai esistito tra loro.
«Come sta Annie?» le domandò premurosamente, mentre la faceva accomodare sulla sedia dei clienti e lui stesso si metteva alla scrivania.
«Sta bene, grazie.»
«Dov’è adesso?»
Lei esitò. «Con la dottoressa Neuberger.»
Un’ombra leggera di pena sfiorò il viso di Ned. «Vera, questo mi dispiace.» Premette il tasto dell’interfono sulla scrivania. «Non ci sono per nessuno», avvertì. Poi tornò a fissare la cognata. «Sta facendo qualche progresso con lei?» chiese, con un tono di voce che tradiva ampiamente il suo scetticismo.
«Sinceramente, non lo so ancora. Sta provando.»
Ned scosse la testa, costernato, un atteggiamento che aveva perfezionato in tribunale. «Vera, davvero non riesco a capire. Di solito sei sempre così equilibrata! Sei andata sempre nei migliori ospedali e dai migliori medici. E adesso, di colpo, diventi un’esperta in psicanalisi, ciarlatanerie, bassifondi di Manhattan e via dicendo.»
«Ned», ribatté lei, «non posso discuterne con te. Ho ritenuto che la Neuberger potesse essermi utile. Nessun altro ci è riuscito. Questo lo capisci, vero?»
«Ma esistono così tanti bravi dottori», obbiettò lui. «Finora ne abbiamo solo consultato qualcuno.»
«Può darsi, ma non siamo approdati a un bel niente e io ero preoccupata per Annie. Questa nuova dottoressa ha delle idee.»
«Su questo non ho dubbi», replicò ironico Ned.
«So che non approvi i suoi metodi, ma concedile almeno una possibilità.»
«Adesso che cos’ha in mente di fare con la nostra Annie?»
«Vuole che ci trasferiamo in un motel vicino al ponte di Tappan Zee. Annie ha avuto quella visione, ricordi, di Harry morto… vicino al ponte.»
«Che cosa ci vuole fare?» esplose con rabbia Ned. «Tenere una seduta spiritica?» Poi si rese conto della propria asprezza e la sua voce tornò subito al timbro affettuoso. «Vera, Vera», mormorò, «che cosa stai combinando a te stessa? Che cosa stai combinando ad Annie?»
«Ned, ti ho detto…»
«Questa donna è una pazza patentata, una vergogna della professione medica. Le visioni di Annie sono un problema mentale. Lei non sa dove sia Harry. Per quanto ne sappiamo tutti, sta vagolando dalle parti di Chicago.»
«Io voglio provarci», insisté Vera, con calma.
«Vuoi andare a stare nel motel? Perché?»
«Per essere vicina allo spirito di Harry.»
«Oh, Gesù Cristo benedetto! Verrà a saperlo tutta la città.»
«Non posso preoccuparmene, Ned. Ci andiamo. Tutt’e tre.»
«Anche lei?»
«Sì, fa parte del suo metodo terapeutico.»
«Vera, mi rifiuto di credere che tu faccia una cosa simile.»
«Ned, cerca di ascoltarmi bene, adesso. Procederemo in questa fase del trattamento, ma c’è una seria complicazione.»
«Denaro?»
«No. Non te ne chiederei mai. La dottoressa Neuberger ritiene che Annie debba essere protetta.»
Ned si oscurò in viso, di colpo. «Perché?»
Vera armeggiò nervosamente con le mani, come spesso faceva quando non riusciva ad affrontare un argomento. «So che sembra assurdo, e ti garantisco che nessuno ti sospetta di niente, ma ti ricordi quando Annie ha creduto che tu stessi… per farle del male?»
«Certo.»
«Per mettere l’anima in pace a tutti, e per dimostrare che tu non costituisci nessun pericolo, la dottoressa pensa che Annie dovrebbe avere una guardia del corpo.»
Ned si fece visibilmente teso. Vera capiva che era turbato e sbalordito. «Be’, questa è… una decisione senz’altro singolare.»
«Ned, noi crediamo in te. Tutto ciò è assurdo. Anche la dottoressa pensa che Annie abbia avuto solo un incubo. So e capisco i tuoi sentimenti. Ecco perché ho voluto parlarti di persona. Fa solo parte della cura.»
Ancora una volta, Ned scelse la via conciliante. «Certo», rispose. «Capisco. Senti, facciamo quello che è giusto. Ho già detto che la paura che Annie ha di me non dev’essere presa alla leggera, per quanto assurdo possa essere. Se insisti nell’affidarti a quella donna, proviamolo. E se vuole che Annie venga comunque protetta, sono io che voglio lo sia, e sono io che pagherò per questa protezione.»
«Oh, no, non posso accettare!»
«No, Vera, insisto! Facciamo le cose per bene. Guarda, non sono d’accordo con te, ma dobbiamo tentare qualsiasi strada per Annie. Giusto?»
Vera parve rilassarsi, concedendosi per sino un sorriso. «Sì», rispose con calore. «Ned, sono felice tu sia la persona che sei.»
Se ne andò poco dopo, convinta che ogni crisi con Ned era stata risolta.
L’Empire Motel difficilmente poteva essere classificato come lussuoso.
Come struttura seguiva il modello, incompiuto, dei migliori motel di Tarrytown e della vicina Westchester. L’Empire aveva trentotto anni ed era costituito da due file di casette prefabbricate di legno, ognuna delle quali ospitava una camera. In origine le costruzioni erano state uffici prefabbricati per un campo d’addestramento militare durante la seconda guerra mondiale, dichiarato superfluo dopo la fine delle ostilità. Davanti ad ogni camera c’era la prescritta area di parcheggio, delimitata da strisce bianche sull’asfalto e numerate. L’interno delle stanze aveva i mobili essenziali, abbastanza in ordine, un vecchio televisore a colori e un bagno, sempre pulito, ma con la pressione dell’acqua insufficiente.
Non c’erano ristorante o snack bar, ma gli ospiti potevano procurarsi tavolette di cioccolato da un distributore fuori della stanza numero 26. La direzione era in un piccolo edificio a sé stante, che ospitava anche l’alloggio dei proprietari. L’ufficio era una cameretta con una scrivania verde di legno e dépliant per i turisti sparpagliati su una mensola. Le tariffe, quaranta dollari a notte per una camera doppia in alta stagione, erano esorbitanti dato il livello del motel, ma i proprietari dell’Empire sapevano che i loro «ospiti» non potevano trovare nient’altro altrove e non avevano scelta.
Il ponte di Tappan Zee si profilava a meno di un chilometro di distanza ed era chiaramente visibile dal motel. Scavalcava l’Hudson e collegava due parti dello Stato di New York. In quel momento era al centro dei programmi e delle teorie di Marie Neuberger, dato che poteva essere la chiave delle misteriose visioni di una bambina. L’elegante ponte raramente era stato oggetto di un così grande, profondo interesse.
Annie e Vera ebbero la camera numero 16, a due letti, mentre alla Neuberger venne assegnata la 17. Grazie all’interessamento di Ned, Vera si era assicurata un servizio di sorveglianza, all’esterno della stanza, ventiquattr’ore su ventiquattro. Le guardie sarebbero state in divisa e venivano messe a disposizione da una locale agenzia specializzata che era stata in rapporto con Harry. I turni di vigilanza si sarebbero susseguiti ogni otto ore.
Su insistenza della Neuberger a Larry Birch era stato vietato di soggiornare all’Empire contemporaneamente a Annie. Così lui fu costretto a prendere in affitto una stanza a due minuti di strada dal motel, la cui insegna luminosa e parte del parcheggio erano visibili dal balcone del secondo piano. Si era anche procurato una radio della polizia che lo avvisasse di qualsiasi «avvenimento» capitasse nel motel.
Vera non lo sapeva, ma Ned aveva assunto un detective privato, che alloggiava nella camera attigua a quella della Neuberger, per tenerla d’occhio e riferire su quanto stava facendo ad Annie.
Poche ore dopo il loro arrivo al motel, in una giornata calda e soleggiata, la Neuberger, Vera e Annie si riunirono nella stanza della psicanalista. Le due donne si sedettero su due poltroncine, mentre la bambina saltava sul letto cigolante. Fuori della porta una guardia di ventidue anni, dai capelli ramati, stava a cavalcioni di un cartone del latte, il volto quasi nascosto da occhiali da sole.
La Neuberger era «vestita» per l’occasione: indossava un informe abito verde con in testa un foulard rosso, portatole dalla Russia da un vecchio amico.
«Voglio che la piccola si renda conto», disse la dottoressa, guardando severamente Annie, «che è una faccenda da prendere sul serio. Non possiamo permetterci giochi e trastulli come il giorno del compleanno. Non possiamo concederci sogni a occhi aperti. Annie, ascolti quello che sto dicendo?»
«Sì», rispose la bambina, rimbalzando agilmente sul letto e distratta da una macchia marrone che aveva visto sul soffitto.
«Farai del male a te stessa se racconti ciò che non è vero. Ma se, in effetti, vedi qualcuna di quelle strane cose, dillo alla mamma, e lei me lo riferirà. Hai capito bene?»
«Sì.»
«Anche nel bel mezzo della notte, Annie. Svegli tua mamma subito e lei sveglierà me. E racconterai tutto, senza tralasciare niente e senza aver paura di essere presa in giro.»
«Okay», rispose Annie, non capendo bene quello che le stava dicendo la Neuberger, ma rendendosi comunque conto che si aspettavano da lei nuove visioni.
«Ora, mia cara Vera», proseguì la Neuberger, «lei ha qui un ruolo importante, anche se non ha visioni. Può darsi che la piccola dica a lei cose che a me non direbbe. Quindi, se io non sono presente, lei sarà la sola ad ascoltare ciò che Annie dice. Deve trascrivere tutto, parola per parola, se ci riesce. Ho portato block notes e penne.»
«Farò come dice», assicurò Vera.
«Molto bene. Inoltre tenga occupata la bambina. A volte i piccoli, quando si annoiano, inventano frottole. Mia sorella era una di quelle. Accidenti, che bugiarda!»
Uscirono tutt’e tre per fare una passeggiata insieme, con la Neuberger attentissima ad ogni minima sfumatura nel comportamento di Annie. La bimba sembrava perfettamente normale. Saltellava, tenendo la mano di Vera, senza dimostrare nessun turbamento per essere stata sbalestrata da casa all’appartamento della Neuberger e poi al motel. Non manifestò neppure emozione per essere vicina al ponte. Anche quando il Tappan Zee le fu sopra la testa lei non fece nessun cenno alla visione di suo padre morto.
Trascorsero tre giorni e tre notti. Vera non si era mai accorta fino ad allora di quanto le mancasse la propria cucina.
E non accadeva niente.
Le guardie si davano il cambio, scambiandosi battute sulla stravagante signora che era con le McKay, facendo ipotesi sulla categoria di persone che aveva il coraggio di affidarsi, o solo accompagnarsi, a Marie Neuberger.
La quarta notte, però, fu diversa.
Era una serata calda e afosa, di quelle che fanno invocare la pioggia a rinfrescare l’aria. La temperatura si manteneva sui ventisette gradi e non si muoveva una foglia. Sulla vallata dell’Hudson incombeva un puzzo, gas d’automobili, rifiuti industriali, fiume inquinato, imprigionato da un’atmosfera immobile. I condizionatori d’aria dell’Empire Motel funzionavano al massimo, creando un concerto ininterrotto di ronzii e cigolii, udibile dentro e fuori. Vera mise a letto Annie alle 20.30, ma ci volle più di un’ora perché la bambina prendesse sonno. Quando la vide addormentata, lei comunque accese un piccolo paralume sul tavolo e aprì una copia del Parents Magazine, vegliando, attenta a qualsiasi suono che provenisse da Annie.
Nella camera attigua Marie Neuberger stava annotando le sue osservazioni del giorno e le sue ultime riflessioni su Annie. Non era scoraggiata per l’assenza da parte della piccola di visioni relative al ponte così vicino.
Vera, alle 22.08, stava finendo un articolo sui mobili per i bambini. Nonostante il rumore del condizionatore d’aria percepì il cri-cri di un grillo fuori della finestra. Alzò gli occhi, stupita per come un animaletto simile riuscisse a produrre un suono tanto forte, poi passò a un altro articolo.
Alle 22.14 udì Annie emettere un verso, come un gorgoglio.
Un suono soffocato, come quelli che a volte segnalano l’inizio di un raffreddore.
Vera spiò la figlia per qualche momento, la vide tranquilla e immobile e decise che non c’era da preoccuparsi.
Annie ripeté il brontolìo.
Poi, di nuovo.
«Paparino», gemette.
Vera lasciò cadere la rivista sul tavolo. «Annie», sussurrò, «stai bene, tesoro?»
Annie si rigirò e brontolò ancora, questa volta abbastanza forte da spaventare Vera.
«Che cosa non va?» le domandò Vera con voce agitata.
Il respiro di Annie divenne più pesante. Gocce di sudore le imperlarono la fronte.
Annie si rigirò ancora, percuotendo forte col braccio il materasso.
Vera si lanciò alla porta, girandone la chiave nervosamente e aprendola.
La guardia, Elmer Greer, un poliziotto in pensione di sessantadue anni, non era al suo posto e stava chiacchierando con un cliente nell’area di parcheggio. Vedendo Vera, cercò di riguadagnare in tutta fretta la sua postazione. Ma i venti chili in più gli permisero solo di trotterellare verso la stanza.
Vera si precipitò alla porta della Neuberger e bussò. La dottoressa, ancora sveglia, aprì subito. «Che cosa c’è, che cosa c’è?» chiese.
«Annie», ansimò Vera.
La Neuberger afferrò carta e matita e si affrettò verso la camera di Annie.
Elmer Greer arrivò proprio mentre le due donne erano a metà strada fra le due stanze. «Posso essere utile?» domandò senza fiato.
«Faccia da testimone», gli disse la Neuberger. «Tenga a mente tutto.»
Greer si limitò a stringersi nelle spalle davanti a un ordine così strano e si risistemò sulla propria sedia.
La Neuberger e Vera entrarono nella stanza di Annie.
Si bloccarono entrambe, di colpo.
Annie era scesa dal letto. Aveva indossato la sua vestaglietta rossa e calzato le pantofole. Aveva gli occhi spalancati, deliranti.
Cominciò a dirigersi verso la porta.
Vera si mosse per fermarla.
«No!» ordinò la Neuberger. «Vediamo dove ci porta.»
Come se fosse guidata da una presenza invisibile, Annie uscì all’aperto. Sembrava essere in un altro mondo.
«Meglio fermarla!» suggerì Greer, ma la Neuberger gli impose con un gesto di trarsi in disparte.
Annie entrò nel parcheggio.
«Stiamo attente alle macchine», disse la Neuberger. «Fermiamo loro non lei.»
Ma non arrivava nessuna automobile e Annie scivolò attraverso il parcheggio in un bosco lì nei pressi. «Paparino», continuava a mormorare.
All’improvviso cominciò a correre, lasciando interdette Vera e la psicanalista.
Annie galoppò tra gli alberi. «Papà!» gridò questa volta, con tutto il fiato.
Oltrepassò la zona di luce che veniva dal motel, immergendosi nel buio. Solo le sue grida e lo scintillìo dei capelli sotto il chiaro di luna indicavano dov’era.
La Neuberger e Vera cercarono di starle dietro, senza perderla di vista, ma, come altre volte, Annie correva fortissimo. Sempre di più. La Neuberger fu costretta a fermarsi. Vera continuò l’inseguimento. Elmer Greer non ci provò neppure.
Annie deviò bruscamente sulla destra, verso il ponte, la sua figuretta delineata dalle luci. «Papà!» gridò. «Voglio venire da te!»
Alla fine, in un folto d’alberi all’ombra del Tappan Zee, si fermò. Vera, abbastanza vicina da riuscire a vederla, la osservò che riprendeva fiato, per poi guardare giù verso la terra umida e scoppiare in singhiozzi.
«Papà», disse sommessamente, «voglio che tu venga fuori da lì sotto.»