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A Vera parve che il sangue le abbandonasse braccia e gambe, rendendola inerte. Non poteva essere, pensò, implorò. Non poteva perdere anche Annie. Non con Harry che se n’era andato.
Sedeva rigida su una sedia di legno in una piccola sala d’aspetto del pronto soccorso. Il tanfo della formaldeide, dello iodio, del sangue umano rappreso impregnava l’atmosfera e le rivoltava lo stomaco. Udì gli strilli di Annie mentre i dottori cercavano di alleviare il dolore che le tormentava il corpicino così minuto e le straziava gli occhi.
Non doveva morire, non poteva morire. Era solo un brutto sogno.
Ma la temperatura di Annie era stata di oltre 41° quando Vera, alle due di mattina, si era precipitata al Roselawn con lei che gridava istericamente di non vederci più. Da piccola Vera aveva visto una sua cuginetta entrare in crisi e morire di colpo, mentre poche ore prima era stata del tutto normale. Vera aveva anche sentito di cose del genere capitate ad altri bambini, ma non riusciva a credere che qualcosa potesse accadere alla sua piccola.
E Annie continuava a gridare. Ondate di sofferenza che sconvolgevano Vera, attraversandola come colpi di coltello.
Vera McKay strinse i pugni e pregò per la sua bambina di sette anni. Sembrava più giovane dei suoi trentasette anni, con il viso minuto e pulito che mostrava solo qualche leggera ruga. I corti capelli castani, solitamente ben pettinati, erano tutti in disordine e le ricadevano scomposti sulla fronte. Si era infilata in fretta un semplice abito verde di cotone. Aveva esattamente l’aspetto della donna che era, una donna con pochi grilli per la testa, ma che, sopra ogni cosa, aveva il culto della semplice vita familiare.
Alzò per un attimo gli occhi proprio mentre le passava davanti, in fretta, un’infermiera con un vassoio pieno di medicine. Vera si alzò di scatto per chiedere di Annie, ma l’infermiera era già sparita prima che lei potesse raggiungere la porta. Si lasciò allora ricadere sulla sedia.
«Mamma!» udì Annie che gridava. Vera ebbe l’impulso irrefrenabile di correre nel locale del pronto soccorso, al di là del banco dell’accettazione. Ci aveva già provato una volta, solo per esserne respinta dagli inservienti.
Così rimase seduta, alzando ogni tanto gli occhi per vedere pazienti arrivare in barella, alcuni coperti da lenzuola macchiate di sangue. Fu assalita da un senso lancinante di solitudine, dal bisogno di piangere, senza avere qualcuno con cui piangere. Tra un grido e l’altro di Annie era ossessionata dalle ininterrotte chiamate che la voce dell’altoparlante, continuamente percorsa da una vibrazione elettronica, rivolgeva ai medici.
Inevitabilmente le tornò il ricordo dell’anno prima, solo per acuire la sua sensazione di vuoto desolato. Se fosse successo allora certamente Harry le sarebbe stato vicino, tenendola per mano, tranquillizzandola. Era stato un marito così completo e pareva che la vita con lui non dovesse mai finire.
L’immagine di Harry, solido, muscoloso, socievole, era lì, davanti a lei, quando all’improvviso scomparve per l’apparizione sulla porta di un giovane interno tutto sudato.
«Mrs. McKay?»
Vera alzò gli occhi, puntandoli sullo stetoscopio che gli spuntava dalla tasca del camice verde, poi sulla cartella clinica che teneva in mano.
«Sono il dottor Marsh.»
«Come sta mia figlia?» chiese ansiosamente Vera.
«La stiamo sottoponendo a degli esami.»
«E questo che cosa significa?»
«Speriamo per il meglio. Si tratta probabilmente di un’infezione virale che in particolare colpisce gli occhi. Non sappiamo ancora che cosa sia. Abbiamo chiamato gli specialisti.»
«E la vista?»
«Lasci che prima si normalizzi… se possiamo.»
«C’è il dottor Laval?»
«È arrivato qualche minuto fa con la cartella clinica di Annie. È un eccellente pediatra. Lei è fortunata ad averlo.»
«Sì. Sì, lo so. Mio marito voleva sempre che interpellassimo lui.»
Marsh si accorse che Vera era in uno stato di semichoc, conscia solo in parte di quanto stava succedendo. «Mrs. McKay», le disse con dolcezza, «devo sapere qualcosa di più di ciò che è scritto sulla cartella del dottor Laval. Se la sente di rispondere a qualche domanda?»
Vera inspirò profondamente, cercando di controllarsi. «Ci proverò», rispose.
Marsh si sedette su una grande sedia con il cuscino strappato e sbirciò la cartella. «Be’, non che sia importante, ma ha compilato i moduli che ci autorizzino a?…»
«Mi hanno fatto firmare delle carte quando siamo arrivate.»
«Molto bene. Ora, signora, Annie ha mai avuto disturbi come questi?»
«No», rispose Vera con voce rauca e malferma. «È sempre stata una bambina sanissima.»
Proprio in quel momento l’altoparlante emise uno stridore sonoro, seguito dal crepitìo di un circuito difettoso. Vera sussultò. Marsh, abituato alla cosa, aveva già pronta un’altra domanda.
«Nelle ultime ventiquattr’ore ha mangiato qualcosa di insolito?»
«No, non a casa. Naturalmente ha fatto colazione a scuola. Ma se ci fosse stato qualcosa di dannoso avreste qui altri bambini, almeno penso.»
«Probabile.» Marsh notò che a Vera tremavano le mani mentre lei giocava nervosamente con la fede matrimoniale. «Cerchi di calmarsi, Mrs. McKay. Le darò qualche pillola.» Portò la mano al taschino.
«No», si oppose Vera. «Ho preso quella roba dopo che mio marito… se n’è andato. Mai più.» Guardò Marsh, con una domanda negli occhi arrossati. «Lei sa di mio marito?»
«Oh, certo. Tutta quella pubblicità», rispose Marsh, imbarazzato. «Annie ha spesso mal di testa?»
«Non più di qualsiasi bambino normale.»
«Ferite alla testa? Contusioni?»
«No, che io sappia.»
«Qual è stata la temperatura massima che abbia mai avuto?»
«Quasi trentanove. Quando ha preso il morbillo, ma poi è scesa rapidamente.»
«Stava facendo qualche cura? Prendendo qualche medicina?»
«No. Le ho dato dello sciroppo contro la tosse, ieri. Nient’altro.»
«Ha la tosse?»
«Un pochino.»
«Bene. Ora, Mrs. McKay, riguardo il suo… be’, problema familiare. Capisco che per lei l’argomento è difficile, ma devo comunque farle la domanda: c’è stato nessun mutamento nel suo rapporto con Annie dopo la sparizione di Mr. McKay?»
«I compagni di scuola la prendevano in giro. Le dicevano che suo papà se n’era andato perché lei aveva una mamma impossibile.» Le lacrime velarono gli occhi di Vera, per poi inondarle il viso. «Naturale che c’è stato un cambiamento nei nostri rapporti. Doveva esserci.»
«Che genere di cambiamento?»
«Non volevo vedere più nessuno. Sapevo che cosa diceva la gente. Ho cominciato persino a sentirmi colpevole. A pensare che forse era davvero colpa mia se Harry se n’era andato.»
«Non dica così.»
«Lo pensavo. C’era in casa un’enorme tensione. Per un certo tempo ad Annie ho rivolto appena la parola. Lei era tutto ciò che mi era rimasto, ma… Mi limitavo esclusivamente ad aspettare e speravo che Harry tornasse.» L’espressione cupa di Vera diventò anche allarmata. «Questa cosa riguarda anche ciò che è successo ad Annie?»
«Mrs. McKay», rispose Marsh, «lo stato psicologico di Annie può anche essere in relazione con il suo male. Spesso a un violento trauma mentale seguono sintomi fisici.»
«Capisco.» Vera chinò la testa e cominciò a singhiozzare, dapprima in modo sommesso, poi incontrollabilmente. Ancora una volta si sentì colpevole; si chiese se non avesse fatto qualcosa che avesse ferito Annie.
Marsh interruppe l’interrogatorio. Nei suoi undici mesi da interno non aveva ancora imparato a trattare con i parenti dei ricoverati. Sebbene si sforzasse di assumere una posizione di distacco dai propri pazienti non poteva non commuoversi per Vera. Davanti a quell’angoscia, a quell’evidente dedizione alla famiglia non poteva prestare fede alle maligne dicerie che erano dilagate in tutta Tarrytown.
«Non c’è nient’altro che dovrei sapere su Annie?» domandò in tono sommesso.
Vera sospirò, poi scosse la testa, desolata. Riandò con la mente alla breve esistenza di Annie, alle sue malattie, alle sue abitudini. «È una bimba meravigliosa», disse. «Traumatizzata per non avere un padre. Ma, a parte questo, non c’è nient’altro.»
«Capisco», annuì Marsh.
«In ambulanza, mentre venivamo qui», proseguì Vera, «continuava a dire con voce lamentosa: ‘Lei si prenderà cura di noi, sarà lei a proteggerci’. Mi chiedo a chi si riferisse.»
«Forse a lei, signora», suggerì Marsh.
«Non lo so», replicò Vera.
Marsh si alzò, battendole gentilmente sulla spalla. «Le faremo sapere qualcosa non appena ci saranno notizie», le disse e uscì.
Vera fu sola e l’angoscia la riafferrò. Era stata una bimba trascurata dai genitori, gente frivola e mondana. Prima di sposare Harry non si era mai sentita circondata da un vero affetto. E in quel momento con Harry che se n’era andato… Vera ripensò al giorno in cui lui era sparito. Dopo la colazione del mattino aveva baciato Annie, aveva salutato Vera e si era messo al volante della sua auto per andare in ufficio. Non aveva più fatto ritorno, nessuno l’aveva mai più visto. La polizia aveva trovato la macchina a parecchi chilometri e più tardi la sua giacca era stata rinvenuta in un armadietto della Grand Central Station. Era stato per Vera un periodo doloroso e paralizzante ma perlomeno le era rimasta Annie.
Vera sentì di colpo lo struggente, inesplicabile desiderio di telefonare ai propri genitori che, ormai in pensione, si erano stabiliti in California. Ma si ricordò quanto si fossero dimostrati ostili quando Harry era scomparso. Secondo loro o Vera aveva fatto lo sbaglio di sposare il tipo d’uomo che a un certo punto se la squaglia, oppure aveva sposato un uomo rispettabile, comportandosi poi in modo da nausearlo. Probabilmente avrebbero trovato il modo di attribuire a lei anche la malattia di Annie.
Poi a Vera venne in mente che esisteva qualcuno a cui chiedere aiuto.
Frugò nella borsetta per trovare una moneta. Telefona a Ned, si disse. Il fratello di Harry era il pilastro della famiglia, quello che si era dimostrato sempre pronto a dare una mano da quando Harry era sparito. Sarebbe arrivato lì e l’avrebbe aiutata. Le avrebbe dato quel senso di calore e di premurosa attenzione.
Non aveva spiccioli. Cercò di alzarsi e di andare al banco dell’accettazione, ma le gambe non le ubbidirono. Ripiombò sulla seggiola di legno, con il respiro affannoso, la gola chiusa e arida.
Lottò per dominarsi, per dimostrare quella fermezza che tutti ritenevano le mancasse. Se le infermiere avessero fatto capolino dalla porta per vedere la donna che aveva firmato le carte? Se avessero pensato che lei era stata una moglie da quattro soldi? Non era vero. Annie lo sapeva. E quella era la sola cosa che contava.
Qualche minuto più tardi sentì all’esterno dei passi pesanti e familiari. Un’ombra cominciò ad allungarsi sul consumato linoleum verde dell’atrio. Vera si aggrappò ai braccioli della sedia. I passi erano lenti, ma a lei parvero quasi riluttanti a proseguire.
Un uomo entrò. Vera lo fissò.
«Ned!» Il sollievo nel vederselo davanti le restituì improvvisamente tutta la sua energia. Balzò in piedi e gli corse incontro.
«No, rimani seduta», la esortò Ned, la cui voce morbida e modulata risuonava familiare e confortante. «Vera, da brava!» Dolcemente la riaccompagnò alla sedia.
«Sono così felice che tu sia qui», disse lei, singhiozzando di nuovo irrefrenabilmente. «Volevo telefonarti, ma…»
«Su, su, ora calmati. Mi ha telefonato Roberta Moran. Ha visto l’ambulanza. Ero appena rientrato da quel mio viaggio d’affari. Per fortuna ero in casa. Sono corso qui subito.»
Era tipico di Ned, pensò Vera, di essere così attento, così padrone di sé. Sebbene avesse solo trentotto anni, cinque meno di Harry, Ned era sempre stato il vero capo dei McKay. Era stato il primo a rompere la tradizione di famiglia nel campo assicurativo a Tarrytown, intraprendendo la carriera legale. Gli amici lo consideravano più in gamba di Harry, che faceva l’assicuratore. Ned non solo si era fatto un nome come avvocato, ma dava di sé un’immagine di autorità, rafforzata dal suo aspetto esteriore: alto, impeccabilmente vestito con sobri abiti e panciotti tradizionali, con baffetti e barba alla Van Dyke ben regolati.
Si chinò accanto a Vera e le prese una mano. «Ho appena parlato con Laval.» Seguì un lungo istante di silenzio.
Vera riuscì a guardarlo negli occhi, terrorizzata da quanto lui potesse dirgli.
«Sono ottimisti… ma non possono garantire…»
«Voglio solo che viva.»
«Certo. Tutti noi lo vogliamo.» I muscoli del volto di Ned si irrigidirono. «Questa faccenda è come una mazzata per me», disse. «Sai quanto voglio bene ad Annie.»
«Sì.»
«Se c’è bisogno di specialisti, li faremo venire, anche in aereo. Tu lascia che me ne occupi io. E non preoccuparti della spesa.»
Vera non aveva ancora pensato ai soldi, ma l’assicurazione di Ned la rincuorò.
Vera e Ned attesero per due ore e mezzo. Scambiarono poche parole. Ogni tanto Ned faceva una puntata al pronto soccorso per avere notizie, per sentirsi dire che le condizioni di Annie erano «stazionarie», un eufemismo che a loro non diceva nulla. Finalmente il dottor Sanford Laval, il pediatra di famiglia, uscì dal pronto soccorso e si avviò verso la piccola sala d’aspetto, dove Vera era immobile sulla sedia. Era troppo agitata per dormire, sebbene avesse tanto bisogno di un buon sonno. Ned sedeva accanto a lei, a occhi chiusi.
Vera udì entrare Laval, riconoscendo il suo passo strascicato. Tutti in città sapevano che Laval aveva deciso di diventare pediatra dopo che, da adolescente, era rimasto zoppo in seguito a un attacco di poliomielite. Era ormai un uomo di mezza età, con tendenza alla calvizie e alla pinguedine e una faccia rincagnata che ricordava quella di un bulldog. Vera lo aveva sempre trovato sinceramente amichevole e coscienzioso.
Come entrò Vera e Ned si riscossero.
«Vera», disse Laval con la familiarità di chi conosceva da anni i McKay, «ho appena visto Annie.»
Gli occhi di Vera erano lucidi per l’ansietà.