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L’udienza riprese qualche minuto dopo le quattordici, con Ned McKay tra il pubblico.
Immediatamente Tremont riattaccò come un rullo compressore, trattenendo al banco docili testimoni a favore della rappresentazione. Deposero altre donne e Birch credette di riconoscere la voce di una di loro. Tutte seguirono fedelmente le orme delle testi della mattinata: Vera odiava Harry. I coniugi litigavano. Vera voleva togliersi di torno il marito. Nessuna dichiarò che lei aveva detto di volerlo uccidere, ma l’implicazione non passò inosservata alla giuria.
Il dibattimento continuò per due buone giornate interrotto soltanto da qualche testimonianza su aspetti tecnici. In una il detective Simeon esibì il martello trovato nel garage di Vera McKay. Frain tentò di sottolineare che il martello poteva esserci stato messo di proposito e poteva anche non essere appartenuto a Vera, ma persino lui intuiva che una marea prorompente stava salendogli contro. In effetti risultava che molti di coloro di cui Vera si era fidata per anni le si erano rivoltati contro. Mentivano, gli aveva detto lei. Ma chi poteva saperlo? Perché avrebbero mentito così in tanti?
Il terzo giorno scoppiò un’altra bomba.
«Chiamo Frances Crawford», proclamò Tremont.
Vi fu un immediato rumoreggiare nell’aula, punteggiato da esclamazioni di stupore. Frances Crawford, una rotondetta cinquantenne, era la moglie del reverendo Milton Crawford, uno degli ecclesiastici più stimati di Tarrytown e il più anziano proprietario terriero del posto. Che Frances Crawford potesse deporre per l’accusa sembrava impossibile. Quell’affabile, paciosa, artritica donna che cosa mai poteva conoscere che fosse disposta a usare contro una parrocchiana, una componente di una famiglia di vecchio ceppo?
Dopo i preliminari, quello che Frances Crawford sapeva diventò palese.
«Ha avuto un incontro con Mrs. McKay qualche mese prima che il marito scomparisse?» domandò Tremont alla moglie dell’ecclesiastico.
«Sì.»
Vera, stupefatta per la presenza della Crawford, restò seduta scuotendo la testa, una reazione che le era divenuta abituale durante gran parte delle deposizioni. «Non è vero», disse a Frain che a sua volta si era ormai abituato alla frase. «La conosco appena.»
«Ci descriva l’incontro», disse Tremont.
Mrs. Crawford si tormentò le mani, tentando di tirarsi le dita gonfie e irrigidite. «Be’», rispose, «Mrs. McKay mi ha telefonato, era agitatissima, e mi ha chiesto di riceverla.»
«Le ha precisato la ragione?»
«Oh, più o meno. Ha detto di avere un problema, un problema di coscienza. Le ho chiesto perché non si rivolgeva a mio marito e mi ha risposto che non credeva che lui avrebbe capito, mentre io sì, invece. Allora l’ho invitata a venire da me, senz’altro.»
«E Mrs. McKay che cosa le ha detto?»
Mrs. Crawford sospirò e scosse la testa, come fosse rattristata per quello che doveva rivelare. «Mi ha confessato che si era messa con un altro uomo.»
Di colpo Vera saltò in piedi, rovesciando una pila di carte sul tavolo della difesa. «È una menzogna!» La sua voce echeggiò per tutta l’aula. «Lei mente, come tutte le altre!» Frain tentò di afferrarla, ma lei si girò e lo colpì in viso con il pugno sinistro, un colpo che ebbe molto più effetto sulla gente in aula che non su Frain. Tuttavia l’avvocato piroettò su se stesso, facendo accorrere i suoi collaboratori.
«Tutto quanto qui è un’ignobile commedia!» gridò Vera.
Si scatenò il caos, mentre gli uscieri accorrevano per fermarla. «Non osate toccarmi!» gli ringhiò Vera. E questa volta tornò a sedersi, crollando con la testa sul piano del tavolo e singhiozzando.
Watson batté a più riprese il martelletto, con poco successo.
Frain, con un livido sulla faccia, era seduto su una sedia vicino al tavolo della difesa e scuoteva la testa perché era tutto intontito. Un’infermiera di servizio accorse al suo fianco, ma lui coraggiosamente la congedò con un cenno, per difendere il proprio prestigio e la propria dignità.
Larry Birch non si era perso niente della scena ed ebbe la certezza di avere assistito al naufragio di qualsiasi possibilità di salvezza per Vera. La sua attenzione, però, non era puntata su Vera, o su Frain e nemmeno su Tremont, ma sulla teste. Ecco lì, pensava, la moglie di un sacerdote, una donna che asserisce che Vera era andata da lei per avere guida e conforto. Eppure, davanti al suo tormento, se ne resta seduta sul banco dei testimoni, limitandosi a guardare freddamente, priva di qualsiasi espressione, la sua vittima. Come se Frances Crawford fosse una specie di macchina.
Frain, malfermo sulle gambe ma indomito, ritornò al tavolo della difesa. Da buon attore quale era, il suo primo atto fu di preoccuparsi di Vera.
«Vostro onore!» esclamò Frain. «La mia cliente è sconvolta di fronte a questa deposizione altamente discutibile. Chiedo una sospensione.»
Watson guardò Tremont. «L’accusa ha obiezioni?»
«No, vostro onore», rispose Tremont, ovviamente soddisfatto del collasso nervoso dell’accusata. «La pietà rende necessaria una sospensione.»
Watson consultò l’orologio. «Vista la situazione e l’ora, la corte si aggiorna alle nove di domani mattina.»
L’aula fu fatta sgomberare e gli uscieri fecero eclissare Vera e Frain da una porta laterale, distante dai giornalisti. Tremont si fermò per essere intervistato, ma l’obiettivo principale della stampa era Ned che, di fronte all’esplosione di Vera, si era limitato a chinare la testa. Si avviò lentamente verso il fondo dell’aula e, anche se non si offriva apertamente ai giornalisti, non mostrava nemmeno di volerli eludere.
«Mr. McKay», gli chiese una giovane cronista, «che cos’ha pensato durante la protesta di Mrs. McKay?»
Ned abbassò gli occhi, cercando la risposta adatta. «È difficile esprimerlo a parole», disse. «Devo ammettere che in parte ho pensato a me stesso. Sembra che dovrò avere cura di Annie più a lungo di quanto prevedessi. Dovrò cominciare a pensare a come allevarla, al vestiario, alla scuola, cose del genere.»
«La bambina è consapevole di quello che sta accadendo al processo?»
«Sì, lo è. Abbiamo pensato che sia meglio farle vedere la televisione. Sa com’è, cerchi di nascondere le cose a un bambino e non fai che peggiorare la situazione.» Sospirò profondamente. «Adesso vado a casa, da lei. La scena di oggi l’avrà sconvolta, naturalmente. Ha bisogno di me.» E, così dicendo, aggirò i giornalisti e si avviò in fretta alla sua automobile.
Frain e la Neuberger salirono in macchina con Vera per riportarla in fretta a casa. Troppo annichilita per connettere, se ne stava stoicamente sul sedile posteriore, distrutta. La Neuberger, al suo fianco, comprendeva come la sua amica si sentisse sola, brutalizzata e abbandonata.
«Una bella carogna, quella moglie del sacerdote», commentò la dottoressa. Frain la sbirciò, con aria seccata, ma lei lo ignorò. «Ho sempre diffidato della gente così intima con Dio. Ipocriti, ecco che cosa sono.»
Vera rimase in silenzio.
«Sono assalti rabbiosi che andranno a vuoto», proseguì la Neuberger. «Falliranno per il più profondo dei motivi.»
Vera parve rianimarsi di colpo. «Perché?» domandò, chiaramente scettica. «Perché dovrebbero fallire?»
La Neuberger, compiaciuta che Vera reagisse, rispose. «Al nostro uomo di legge, dal linguaggio ricercato, verrà da ridere, ma noi abbiamo il nostro segreto, vero?»
Per la prima volta da lungo tempo Vera abbozzò un sorriso. Un debole sorriso, pieno di sofferenza. «Sì», annuì, comprendendo che la Neuberger stava alludendo alle visioni di Annie.
«Colei che dal nulla», continuò la dottoressa, «ci protegge non è ancora intervenuta. All’inizio ne ero preoccupata. Forse era la fine. Forse non vi avrebbe più aiutate. Ma oggi, in tribunale, ho capito che c’era un’altra spiegazione. Non so al cento per cento se sia esatta, ma non manca di logica. Rifletta: questo angelo custode non ritiene che tutto quanto è successo in tribunale sia abbastanza grave da richiedere il suo intervento. Non crede che niente di questo arrechi danno effettivo. Aspetta, aspetta il momento in cui il suo aiuto sia effettivamente necessario.»
Frain si voltò di nuovo e di scatto. «Cerchi di smetterla!» la implorò, patetico. «Lei può influenzare molto negativamente il cervello di Vera.»
«No, invece!» esclamò Vera. «È l’unica che capisce.»
Frain roteò i suoi occhietti a mandorla.
«Pensa», domandò Vera alla Neuberger, «che tornerà?»
«Sono una comune mortale», rispose la dottoressa alzando la mano grinzosa con un’insolita aria di umiltà, «ma se colei che protegge torna, lo farà tramite Annie.»
Vera deglutì, cercando di controllarsi. «Annie non è con noi», disse con amarezza. «Potremmo non saperlo mai.»
«Allora, forse c’è qualcosa da tentare», rispose la Neuberger. Diede un colpetto sulla spalla di Frain. «Avvocato, lei conosce tutti quegli sfaticati delle alte sfere. Che cosa si può tentare?»
«Proprio niente», ribatté Frain, la cui voce già penetrante risuonò ancora più acuta nell’interno dell’auto. «Non crederà mica che possa ottenere una revoca basata su questi vaneggiamenti?»
La Neuberger non rispose. Inutile rispondere, perché lei e Vera conoscevano la risposta. L’improvviso ottimismo di un attimo prima si rafforzò. Evidentemente Annie sarebbe rimasta da Ned. Ma se il pericolo era costituito da Ned, Annie aveva con lei l’angelo protettore e si sarebbe salvata. L’unica certezza di Vera era che il processo sarebbe continuato e che Elwood Frain sapeva quale ne sarebbe stato l’esito, nonostante ogni suo sforzo.
Finalmente arrivarono a casa. Frain aiutò Vera a scendere e la scortò fino all’ingresso buio. L’andatura di lei risultava più lenta e esitante del solito e la Neuberger si rese conto che presto sarebbero occorse le cure del medico di famiglia per rimetterla, almeno fisicamente, in condizioni accettabili.
Ned McKay, di ritorno dal tribunale, salutò Annie con un abbraccio e un bacio. Chiaramente si era riguadagnato la sua fiducia, in parte coprendola di regali, tra cui il modellino funzionante di una stazione televisiva. Era di nuovo il vecchio zio Ned, pieno di entusiasmo e di attenzioni. Non c’era nessun presagio minaccioso o funesto.
«Come sta la mia mamma?» gli chiese Annie, come non mancava mai di fare.
«Oh, non c’è male», rispose Ned. «Oggi era un po’ nervosa, Annie cara. Lo vedrai alla TV. Ma credo che le passerà subito.»
«Ha dato un pugno all’uomo che le siede accanto», sbottò Annie.
«Sì. Sì, glielo ha dato.»
Mentre salutava l’infermiera, Ned capì che Annie aveva già visto il telegiornale. «Ma non penso che ne avesse l’intenzione. A volte basta un momento di nervoso. Direi che dovresti telefonare alla mamma e dirle quanto le vuoi bene.» Ned incoraggiava la piccola a telefonare a Vera almeno una volta al giorno.
Annie chiamò, ma fu la Neuberger a rispondere. Vera dormiva, sotto l’effetto di un tranquillante. La Neuberger spiegò che non si sentiva bene, ma che avrebbe richiamato quando si fosse svegliata. Annie ci rimase male, ma cercò di mostrarsi coraggiosa.
«Sono sicurissimo che la mamma starà bene», la rassicurò di nuovo Ned. «Adesso dorme proprio per rimettersi. Meglio non disturbarla, ti pare?»
«No», rispose Annie, docilmente.
«Perché non facciamo un gioco?» propose Ned.
«Okay. A Merlino.»
Merlino era un nuovo gioco elettronico che Ned aveva comprato qualche giorno prima. Andarono in soggiorno e si sedettero sul tappeto per giocare. Di solito Ned faceva vincere Annie, ma ogni tanto la batteva perché non si insospettisse. Come al solito, Annie cominciò a stancarsi dopo sette-otto partite, sbadigliando più volte e accelerando nelle battute conclusive. Per le sei e mezzo era pronta per la cena e un’ora dopo Ned la mise a letto.
Cominciò a leggerle Il palloncino rosso, uno dei suoi racconti preferiti. La prima volta che gliel’aveva letto, Ned aveva cercato di riassumerglielo, solo per accorgersi che Annie lo sapeva a memoria. Questa volta, mentre stava avvicinandosi alla conclusione, si accorse che la piccola faticava a tenere gli occhi aperti e ben presto si addormentò. Ned spense la luce, scese dabbasso, domandò all’infermiera dei progressi di Annie e poi la lasciò libera per il resto della serata.
Qualche minuto più tardi telefonò Elwood Frain. Di solito era lui a chiamare quando Vera voleva parlare con Annie, per evitare un contatto diretto tra Ned e Vera.
«La mia cliente vorrebbe parlare con la piccola», disse l’avvocato, come se annunciasse una visita regale.
«Apprendo che la sua cliente ha avuto una leggera collisione con la sua mascella», rispose Ned, incapace di rinunciare alla frecciata.
«Pura casualità», ribatté Frain. «La mia cliente stava manifestando la propria irritazione davanti a una deposizione particolarmente odiosa.»
«Bene», disse Ned in tono più cordiale, rendendosi conto di esser potuto sembrare ostile, «le auguro il meglio. Lei sa come la penso.»
«Naturalmente.»
«Annie non ne poteva più dal sonno. È andata a letto. Non ho voluto si stancasse troppo. Non può telefonare domattina?»
«Certamente», rispose Frain.
«Diciamo verso le otto», disse Ned, che concluse lì la telefonata.
Dopo che ebbe riattaccato compose un altro numero, irrigidendosi in tutto il corpo mentre completava le ultime cifre, come se il gesto avesse un profondo significato. All’altro capo del filo il telefono squillò una volta, due volte. Poi rispose una voce femminile.
«Tutto pronto», disse Ned. «Trovati qui all’ora esatta. Passa parola.»
La donna non rispose, limitandosi a riattaccare.
Poi Ned salì solennemente in camera sua e aprì un ampio ripostiglio. Sul fondo c’era un baule da marina, chiuso con due lucchetti. Li aprì servendosi di una chiave appesa alla catena del panciotto, sollevò il coperchio e guardò dentro. Il suo sguardo incontrò un mare di tessuto nero. «Questa notte», promise lui.
Annie dormiva bene a casa di suo zio. C’era già stata altre volte, quando Vera accompagnava Harry in qualche viaggio. Il letto nella stanza degli ospiti era soffice, l’atmosfera accogliente. Probabilmente, aveva detto Ned a una delle sue segretarie, Annie ci dormiva meglio che non a casa propria, con tutte le emozioni del processo.
Anche quella sera stava dormendo sodo. Durante le prime ore non aveva quasi cambiato posizione. Non risentiva nemmeno della forte umidità che era calata su Tarrytown insieme con una fitta nebbia. Era distesa, pacifica, con il braccio stretto attorno al cagnolino di pezza che lo zio Ned le aveva portato in ospedale.
E poi, all’improvviso, cominciò ad agitarsi.
Sollevò la testa dal cuscino e quindi la riadagiò, come se fosse troppo pesante.
Cercò di riprendere sonno, ma sollevò di nuovo la testa e aprì gli occhi, spalancati e spaventati. Strinse forte il cane di pezza.
Girò attorno lo sguardo. Il respiro le si fece affannoso. Le pareva di vedere qualcuno ritto di fronte a lei.
Era un sogno? Un incubo? Una visione? Non lo sapeva.
L’immagine di quelle persone si intensificò. Annie era terrorizzata e vi si concentrò tentando di decifrare la scena.
C’erano delle persone, in piedi, a semicerchio, tutte che la guardavano, gli occhi pieni di furore. Le scrutò una per una. Pensò di riconoscere una donna, ma senza esserne sicura. Erano vestite… in modo strano. Tuniche nere. Scarpe nere. Guanti neri.
Annie aguzzò gli occhi su un’altra donna. Sì, era Mrs. Moran.
E sembrava in collera.
E, vicino a lei, c’era Mrs. Singleton, la signora dell’AGI. Annie l’aveva vista spesso in giro per la scuola. Anche lei aveva un’aria feroce.
Annie saltò giù dal letto e cominciò a indietreggiare, ma la gente avanzava su di lei. Un uomo, al centro del gruppo, con il viso nascosto dal buio, accese un fiammifero. Prese da un tavolo una torcia, l’accese e la diede a Mrs. Moran. Poi, passando lungo il semicerchio, consegnò una torcia ad ognuno.
I volti emersero dalle tenebre.
Annie vide altri che conosceva: Mrs. Crawford, la moglie del pastore… e il dottor Laval.
«Mamma!» gemette Annie.
Spiava, confusa e dubbiosa, quegli adulti dal comportamento così strano.
«Mammina», mormorò di nuovo.
E poi anche l’uomo al centro, il capo, avanzò in piena luce. Era zio Ned. Sembrava più arrabbiato degli altri e anche lui era vestito di nero.
Annie indietreggiò ancora, ma era ormai contro la parete. Ebbe voglia di urlare. E di scappare. Ma da chi? Vera e la dottoressa Neuberger non c’erano. C’era soltanto Ned.
Annie era ormai terrorizzata, smarrita, una bimba sola, senza nessuno a cui ricorrere.
Ma si chiedeva anche: che cosa stava facendo quella gente? Che cosa stava facendo zio Ned?
Di colpo la visione cominciò a sbiadire. Annie allungò una mano per toccarla, ma continuava ad allontanarsi e ben presto scomparve.
Annie, ancora una volta al buio, dapprima non si mosse. Era spaventata, incerta su quanto aveva visto. Voleva chiamare lo zio Ned, ma l’immagine di lui vestito di nero le ricordò una precedente visione, quella di lui che veniva per ucciderla.
La bimba si riaccostò lentamente al letto e vi mise su un ginocchio, quasi a cercare rifugio sotto le coperte. Vi salì sopra, le molle cigolanti sotto il suo peso.
Poi udì dei rumori venire dal pianterreno.
Rumori strani.
C’era gente dabbasso. Forse zio Ned aveva ospiti, ma non gliene aveva parlato. E quei rumori non erano di persone riunite per un party: gli ospiti di Ned stavano cantando. Le voci ritmate risuonavano lugubri, minacciose.
Annie scese di nuovo dal letto e andò alla porta in punta di piedi, attenta a non fare il minimo rumore. Aprì l’uscio e una lama di luce si stagliò sul tappeto.
Il canto era più forte, ma Annie non riusciva ancora a capirne le parole. Sgusciò pian piano fuori della stanza, guardando da ogni parte che non ci fosse nessuno, e poi, rannicchiandosi, strisciò verso la cima delle scale.
Quel che vide là sotto la paralizzò di terrore.
Lì, nel soggiorno, ecco la sua visione che si materializzava.
C’era il semicerchio di persone, in piedi, con le torce… tutte vestite di nero.
C’era Mrs. Moran.
E Mrs. Singleton.
E il dottor Laval.
E, al centro, con la torcia tenuta più alta di tutti, c’era zio Ned.
L’espressione sul suo volto era determinata, cattiva, sinistra. Un’espressione che Annie non gli aveva mai visto.
E continuavano a cantilenare, monotoni… sempre le stesse parole che echeggiavano attraverso il pianterreno e su per le scale sino a lei.
Con il cuore che le batteva all’impazzata, tremando in tutto il corpo, Annie cominciò a scivolare verso la stanza di Ned, pregando di non venire sorpresa. Il suono della cantilena le riempiva le orecchie, ma copriva anche ogni suo rumore.
Quando fu nella camera dello zio si precipitò al telefono e con dita nervose e sudate formò il numero di casa sua.
«Per favore, mammina», sussurrò, «per favore, sii a casa.»
L’apparecchio squillò una volta, due volte, poi una terza.
Vera, addormentata, sfinita dagli avvenimenti della giornata, non si svegliò che al quarto squillo. Intontita, sollevò il ricevitore, pensando si trattasse di qualche altro maniaco che si divertiva ad angosciarla.
«Pronto.»
«Mamma?»
«Piccola mia!» Vera si sedette di colpo.
«Mammina, ho paura!»
«Che cosa? Annie?»
«Mammina, è terribile!»
La Neuberger, che aveva teso l’orecchio sin dal primo squillo, uscì di volata dalla stanza attigua per ascoltare a una derivazione.
«Annie», domandò Vera, «che cos’è successo?»
«Mamma!» il respiro ansimante di Annie ne rendeva poco intelligibili le parole. «Mamma, loro sono giù al pianterreno.»
«Loro chi? Annie, cerca di calmarti!»
«Zio Ned», rispose Annie. «È giù dabbasso con delle altre persone. C’è Mrs. Moran. E Mrs. Singleton. Prima le ho viste come in un film.»
«Una visione», intervenne la Neuberger. «Ha avuto un’altra visione.»
«Sì», disse Annie. «Vedevo quella gente che mi stava intorno, tutta vestita di nero. Avevano in mano dei bastoni, mammina. Li tenevano alti, con il fuoco in cima.»
«Torce», disse la Neuberger.
«Poi il film è sparito e adesso loro sono per davvero giù dabbasso. Cantano una canzone!»
Vera, disorientata, capiva solo in parte quanto Annie le stava dicendo. «Che cosa stanno cantando, tesoro?» domandò.
«Di me, credo», bisbigliò Annie. «Ho paura, mamma!»
La Neuberger si intromise. «Annie, dobbiamo sapere che cosa stanno cantando. Alza il ricevitore.»
Annie corse alla porta e la spalancò, tirando il filo del telefono così da dirigere il ricevitore verso la tromba delle scale.
Vera e la Neuberger sentirono. Il canto era rabbioso, sinistro. Filtrava attraverso il telefono in tutta la sua agghiacciante follia:
La voce di Ned McKay sovrastava le altre, facilmente identificabile tra il coro.
Per un attimo Vera e la Neuberger rimasero incapaci di parlare, le loro menti paralizzate dal nuovo incubo. La prima a riprendersi fu la Neuberger. «È una setta», disse con calma, intuendo l’importanza di mantenere il controllo. «È una setta di streghe.»
«Mio Dio», mormorò Vera. «Ned…»
Ma ad Annie le teorie non interessavano. «Mamma, che cosa devo fare?» domandò e cominciò a piangere.
«Annie!» esclamò la Neuberger. «Adesso ascoltami bene. Rimani lì al telefono. Io vado subito a un altro apparecchio e torno.» Mise giù il ricevitore e si affrettò a un altro telefono che Harry aveva fatto installare in casa per suo uso d’affari. Rapidamente chiamò la polizia. «Devo segnalarvi un incendio», dichiarò. «Forse doloso. Una strana faccenda.» Diede l’indirizzo di Ned e quindi fece un’identica telefonata ai pompieri.
Tornò di corsa all’apparecchio in linea con Annie. «Annie», ordinò, «devi scappare da quella casa. Subito! Adesso arriviamo anche noi. Fa’ come ti dico!»
Riattaccò e si affrettò a raggiungere Vera, che era ancora seduta, inebetita, il ricevitore appoggiato all’orecchio. La Neuberger glielo tolse di mano e lo riappese. «Qui non le siamo di alcun aiuto», le disse. «Si infili qualcosa. Andiamo là con la polizia. Adesso il pericolo è grande!»
«Che cosa le succederà?» gemette Vera.
«Si vesta!» gridò la psicanalista. «Vuole aiutarla o no?»
Terrorizzata, ossessionata da orribili presagi, Vera scese dal letto.
«Adesso capisco», le disse la Neuberger, mentre Vera afferrava i vestiti. «Avrei dovuto sospettarlo. Suo cognato, quel Ned, è il capo di questa setta di indemoniati. Da quello che cantavano sappiamo che lo considerano il messaggero di Satana sulla terra.
«Ma il messaggero dev’essere puro. Nessun altro può esistere avendo lo stesso suo sangue. Quindi, questo Ned deve distruggere tutti i propri consanguinei, quale atto di devozione a Satana.»
Vera la guardò, il volto devastato dall’angoscia più torturante. «È lui che ha ucciso Harry.»
«Sì», rispose la Neuberger, «questo è ovvio, adesso.»
«E Annie!…»
«Ha già tentato di ucciderla, come diceva la visione. Adesso non dobbiamo perdere un minuto. Il loro rito sta procedendo ancora. Ned deve eliminare Annie, un altro discendente dello stesso sangue, che ha nelle vene il sangue di suo fratello. Dalle torce deduco che il piano è di servirsi del fuoco, per poi dire che è stato un incendio a colpire la casa.»
Vera e la Neuberger corsero fuori e salirono in macchina. Partirono a tutta velocità, dirette verso l’abitazione di Ned, che distava quattro minuti, i quattro minuti più lunghi della vita di Vera.
In lontananza udirono le sirene che ancora una volta ululavano per i McKay.
Le auto della polizia e le autopompe convergevano sulla casa di Ned.
Annie cercava di fuggire. Al primo piano c’era un balcone, ma Ned lo aveva chiuso a chiave. Annie sapeva che c’erano finestre che davano sul tetto piatto dell’autorimessa, circa un metro più sotto, ma anche quelle erano bloccate. Pensò di correre giù dalle scale, al pianterreno, e di lì guadagnare il portone, ma c’erano Ned e gli altri.
Non c’era nessuna via di fuga.
E, mentre la cantilena proseguiva, Annie riuscì alla fine ad afferrare le parole della sua condanna:
E Annie pensò che sarebbe diventata realtà.