129330.fb2 Visioni di terrore - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 5

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Annie continuò nel suo miglioramento, senza scosse e rapidamente. Alcuni tra i medici si chiedevano se il virus che l’aveva colpita non fosse un’affezione nuova cui mancavano precedenti. Ogni giorno Laval prescriveva una gradazione più leggera degli occhiali di Annie, i cui occhi a mano a mano si abituavano sempre più alla luce. L’acutezza visiva migliorava costantemente. Laval cominciò a dire a Vera che la vista di Annie quasi certamente sarebbe diventata molto più che accettabile. Le sue condizioni psichiche, aggiunse anche Laval, risultavano equilibrate, anche se non si poteva ancora escludere il sopraggiungere di reazioni.

Cinque giorni dopo aver tolto le bende i timori di Laval sulle «reazioni» si avverarono.

Erano le 8.30 di mattina. Annie dormiva nella sua stanza, al buio, con la porta chiusa. Un’infermiera l’aveva controllata alle 8.15, trovandola normale. Un’altra infermiera era appena entrata, riferendo poi l’identica cosa.

Alle 8.31 Annie cominciò ad agitarsi, con un’espressione di sofferenza sul visetto rotondo. Gemette. Gli occhi malati si spalancarono, rivelando una paura che subito si trasformò in autentico terrore.

Annie si mise a sedere, con un sussulto. Girò gli occhi sulle ombre, con i loro contorni di mobili, fiori e giocattoli.

Cominciò a piangere, una cosa che, stranamente, non aveva mai fatto dopo l’operazione. Le lacrime le inondavano le gote. Si sentiva il cuore battere forte forte.

«Mammina», chiese, «sei qui?»

Ma udì soltanto il ronzìo del condizionatore d’aria.

«Mamma?» domandò a voce più alta, ma, con la porta chiusa, nessuno la sentì.

«Mammina, attenta! Sta’ attenta!»

Balzò dal letto e si infilò gli occhiali scuri, per abitudine. Quando aprì la porta della camera, la luce vivida dell’atrio la ferì. Socchiuse gli occhi. Poi, respirando affannosamente, oppressa da un terribile presentimento, irruppe nell’atrio e cominciò a gridare.

«Mammina, attenta! Non voglio che tu muoia!»

Si scatenò un pandemonio.

Alcune infermiere si precipitarono verso Annie. Vedendole, lei le evitò cambiando direzione di corsa.

«Torna qui!» ordinò un’infermiera. Un’altra sbucò fuori da una stanza. In due bloccarono Annie.

«Voglio la mia mamma!» urlò lei. «Non voglio che lui le vada contro!»

Le sue grida si sentivano per tutto il piano.

Mentre le infermiere le si affannavano intorno arrivò un inserviente in loro aiuto.

Le infermiere, preoccupate per Annie, la riportarono nella sua stanza. Altri bimbi, spaventati dalle grida e dalla confusione, correvano su e giù per l’atrio.

Un’infermiera rimise maternamente a letto Annie massaggiandole le braccia per confortarla. «Da brava, Annie», le sussurrò con voce dolcissima, «ti sei presa un bello spavento. Ma non vogliamo che succeda ancora, vero? Perché non…»

Ma Annie di colpo invocò ancora: «Mammina!»

«Ora calmati», insisté l’infermiera Kendall, ripetendo la frase con voce sommessa, mantenendo un tono dolce e cantilenante.

Lentamente Annie si tranquillizzò. L’affanno diminuì. Il battito del cuore tornò quasi normale. Ma, a causa della crisi, era madida di sudore. Restò distesa, fissando il soffitto. «La mia mamma sta bene?» chiese.

«Ma certo», ribatté la Kendall, sorridendo. «Sarà qui tra poco, infatti. Pensi che dovremmo raccontarle tutto questo?»

«Non lo so», rispose Annie. «Avevo tanta paura.»

«Che cos’era?»

«Vedevo dentro la mia testa come un film. La mia mamma guidava la sua macchina. E c’era quell’altra auto. Veniva avanti proprio in mezzo alla strada e verso mia mamma, ma poi l’ha urtata di fianco.»

L’infermiera Kendall scosse la testa, come se condividesse il racconto di Annie. «Scommetto che sei felice che quel sogno sia finito», osservò.

«Non era un sogno.»

«Ma certo che lo era. Un sogno molto, molto brutto.»

«In parte era un sogno», replicò Annie.

«Ecco, lo vedi.»

«No, un momento. L’ho fatto mentre dormivo, ma poi mi sono svegliata e c’era ancora. Era cominciato prima che quell’uomo arrivasse con la sua auto. Volevo avvisare la mamma che stava arrivando.»

«Be’», disse la Kendall, sinceramente commossa, «credo che dovresti dimenticare tutta la faccenda. È stato soltanto un piccolo incubo, tutto qui. Capita anche a me, continuamente.»

«Davvero? E lei che cosa fa?»

«Be’, se mi sveglia, com’è successo a te, sollevo le mani, me le agito davanti e lo faccio andare via.» Le fece vedere. «In questo modo.»

Annie sorrise, ripetendo il gesto.

«Proprio così», approvò la Kendall. «Fai così se qualche brutto sogno ti capita ancora. Okay?»

«Okay.»

La Kendall rimase con Annie, anche se era arrivato il suo turno di servizio.

Vera arrivò poco dopo.

«Mammina!» esclamò Annie vedendola entrare.

L’infermiera intuì immediatamente dall’espressione del viso di Vera che c’era qualcosa che non andava. «Mrs. McKay», le domandò, «non si sente bene?»

Dapprima Vera non rispose. Si diresse da Annie, la baciò, poi si sedette sul bordo del letto. Aveva il respiro corto e le mani tremanti.

«No, non sono malata», rispose alla fine. «Ma la mia piccola per poco non ha perso sua madre. Venendo qui, un’auto ha saltato lo spartitraffico. Mi ha preso di fianco, sul lato guida, strappando letteralmente la fiancata della macchina. Qualche centimetro più a sinistra e…»

La Kendall la fissò a bocca aperta, incredula.

Annie cominciò a tremare e poi a gridare istericamente: «Visto? Visto che avevo ragione?»

«Che cosa succede?» domandò Vera, scossa dalla reazione di Annie.

La Kendall, senza perdere tempo a spiegare, tentò di calmare Annie.

«Avevo ragione!» gridò la bambina. «La mia mamma quasi moriva!»

«No, sto bene, Annie, sono qui con te», esclamò Vera, perplessa e allarmata per l’isterismo della figlia.

Accorsero altre due infermiere a calmare Annie, mentre la Kendall sospingeva Vera nel corridoio.

«La bimba si è agitata», le spiegò, «ha avuto un brutto sogno e, Mrs. McKay, parola mia, quel sogno era uguale al suo incidente.»

Vera impallidì. «È la seconda volta che succede», precisò. «Il primo sogno era pazzesco, ma non si riferiva a niente di reale. Ma questo», proseguì Vera, «è impossibile. Identico al mio incidente? Non può essere.»

La Kendall si strinse nelle spalle e tornò in camera di Annie. «Probabilmente è solo una coincidenza. A volte i bambini sognano le brutte cose che accadono in famiglia.»

Le infermiere calmarono Annie, che però continuava a tremare e a piangere sommessamente. La Kendall, preoccupata, dichiarò: «Faccio chiamare Goodpaster».

«Chi è?» domandò Vera.

«Il nostro psichiatra infantile. Un uomo straordinario, mi creda.»

Qualche minuto più tardi il dottor Carl Rudolph Goodpaster uscì dall’ascensore. Vera lo scrutò mentre si affrettava verso la camera di Annie. Sulla quarantina, alto e molto curato, impeccabilmente vestito di marrone, lo psichiatra aveva un sorriso per tutti.

«Salve, ciao», disse allegramente, passando rapidamente oltre Vera ed entrando nella stanza di Annie. «Allora, qual è il problema?»

Quando la Kendall gli ebbe spiegato Goodpaster fece ad Annie un’iniezione sedativa e la bimba nel giro di qualche minuto si calmò. Il medico le si sedette vicino.

«Allora, signorina», cominciò con voce morbida, «abbiamo fatto un sogno molto brutto.»

«Succedeva alla mia mamma», chiarì Annie.

«Eccome! Ma hai fatto altri brutti sogni, prima, e quelli non sono diventati veri, è così?»

«Sì», rispose Annie con voce sonnolenta per l’effetto del sedativo.

«Sei proprio in gamba.» La voce di Goodpaster si alzava alla fine di ogni frase, quasi una posa per gli adulti, un divertimento per i piccoli. «Vedi? Non devi prendertela. Quasi tutti i nostri sogni non si avverano. Probabilmente, adesso, quando ti addormenterai, farai un sogno bello. Non preoccuparti.»

Goodpaster vide che Annie si stava assopendo, quindi le batté dolcemente sulla testa e si alzò. «Appena torno parleremo un po’ dei tuoi sogni belli», le disse. «Ora fai la nanna.»

Annie chiuse gli occhi. Goodpaster sorrise alle infermiere, compiaciuto. La Kendall lo avvertì che la mamma di Annie aspettava nell’atrio e lui uscì dalla stanza.

«Mrs. McKay», esclamò con calore, tendendo la mano.

Vera gliel’afferrò, annuendo.

«Carl Goodpaster. Sua figlia è una bambina deliziosa.»

«La ringrazio.»

«Si riprenderà benissimo. Senz’altro il dottor Laval le avrà spiegato che i bambini spesso hanno questi piccoli sconvolgimenti psicologici dopo una crisi. Quanto alla coincidenza con l’incidente che è capitato a lei, chi sa? I libri sono pieni di episodi del genere.»

«Mi chiedevo se non si tratti di percezioni extra sensoriali», osservò Vera.

«Potrebbe avere ragione. Sorprendente, a volte, come i genitori sappiano che cosa stanno facendo i loro figli e viceversa. È un argomento da non escludere, Mrs. McKay, ma nulla che riguardi l’ambiente scientifico.»

«Mi toglie un peso.»

«È per questo che sono qui», proseguì Goodpaster, con un sorriso smagliante. «Mi faccia chiamare per qualsiasi, minimo problema. Annie ha attraversato un periodo critico non indifferente. Tutt’e due potreste trarre beneficio da qualche consiglio.»

«Lo penso anch’io», ammise Vera.

Goodpaster se ne andò quasi con lo stesso slancio con cui era arrivato. Suo malgrado, Vera rimase turbata da una sensazione di disagio non appena lo psichiatra l’ebbe lasciata. Non poteva fare a meno di intuire che quello aveva minimizzato qualcosa di serio. Ma scacciò i propri dubbi, sicura che l’ospedale si serviva certamente e soltanto dei medici migliori. E quando sbirciò nella stanza vide che Annie dormiva tranquilla con un leggero sorriso sulle labbra.

Goodpaster attraversò festoso l’atrio, accarezzando teste di piccoli pazienti e ammiccando alle infermiere, diretto verso il suo studio, per consultare l’elenco dei bambini da visitare i cui problemi erano più grandi di quelli che lui avesse mai avuto.

«Mi scusi, signore…»

Goodpaster si fermò e si girò. Quella voce l’aveva già sentita. Si trovò di fronte un uomo grasso e tozzo, dalle guance rosee e dai capelli arruffati, insaccato in un abito blu di dubbia qualità. La tasca della giacca era talmente rigonfia di carte e di penne che la cucitura aveva ceduto.

«Si ricorda?» chiese l’uomo con un sorrisetto.

Goodpaster si strinse nelle spalle. «Mi dispiace, veramente no.»

«Forse ricorda il vestito, vecchio e consunto com’è.» Allargò le braccia per sottolineare l’affermazione.

«Ricordo l’abito, sì», rispose Goodpaster un po’ seccato, «ma questo è quanto.»

Il visitatore estrasse un logoro portacarte, tutto sporco di tabacco, che cadde in parte sul pavimento. Gli fece balenare sotto gli occhi una tessera. «Larry Birch, del New York Daily News. Parlai con lei l’anno scorso riguardo agli adolescenti cui piace tanto bere, qui dalle nostre parti.»

«Ah, sì», esclamò Goodpaster, poco entusiasta d’essere visto insieme con quel trasandato giornalista. «Voleva parlarmi di questo, adesso?»

«Be’, non esattamente, signore. Voglio parlare di Annie McKay.»

«Una bella e brava bambina», osservò Goodpaster. «Ma veramente non c’è molto di cui parlare.»

«Oh, non saprei, signore.» Birch si appoggiò alla parete. «Una bambina il cui padre è sparito, mi sono occupato anche di quella faccenda, e che si ammala e quasi perde la vista. C’è parecchio da parlarne, dottore.»

Goodpaster sbirciò il suo cronometro d’oro. «Senta», propose, «perché non va in amministrazione, in modo che possiamo fissare un appuntamento?»

«Oh, è questione di un minuto, signore.»

«Non dispongo nemmeno di un minuto.»

«Trenta secondi, allora», ribatté Birch, seguendo Goodpaster, che già stava per allontanarsi e piazzandoglisi davanti, bloccandolo. «È qualcosa di più di una storia strappalacrime, dottore. Da quanto si dice questa bimba è una, per così dire, che ‘vede’ le cose.»

Goodpaster diventò paonazzo in viso. «Lei come lo sa?»

«È il mio mestiere.» Birch alzò le spalle, con aria disinvolta.

«Guardi che lei sta parlando di notizie confidenziali», lo avvertì Goodpaster. «Se desidera sentire i familiari, può darsi che loro…»

«Disturbare la madre? Mi suggerisce di fare questo?»

«Be’…»

«Senta, dottore, qualcuno mi ha riferito che questa bambina sapeva che sua mamma quasi rimaneva ammazzata in un incidente. Allora qual è la sua opinione al riguardo?»

«Nessuna opinione. La cosa non è importante.»

Birch tossì, una tosse da fumatore piena di catarro, poi ricominciò: «Quindi, lei non è interessato alla cosa?»

«Ne sono interessato, certo. Ma non è mio reame.»

«Non è suo che cosa?»

«Reame, campo. La bambina è una paziente del dottor Laval, il quale non mi ha chiesto nessun parere.»

«Così lei non ha alcuna opinione?»

«Gliel’ho detto. Se mi chiamano a esaminare la bambina potrei saperne di più. Ma questo dipende dal dottor Laval.»

Birch scribacchiò qualche appunto su un taccuino con le pagine piene di orecchie, servendosi di un mozzicone di matita. «Lei intende dire che è un problema burocratico.»

«Il caso non presenta possibilità di crisi ripetitive, né di serie infermità», rispose Goodpaster.

Il medico tentò di nuovo di aggirare l’ostacolo. E di nuovo Birch non mollò la preda, seguendola fin dentro l’anticamera dello studio, che aveva le pareti tappezzate di fotografie di bambini.

«Non posso più dedicarle nemmeno un secondo», insisté Goodpaster. «Si rivolga all’amministrazione.»

«Ancora qualche domanda.»

«Senta Mr. Burns…»

«Birch. Larry Birch. Del New York Daily News

«Mi scusi, Birch, ma il colloquio finisce qui.»

«Dottore, la storia non finisce. La bambina ha avuto un’altra visione, sì o no? Crede di essere caduta da un traliccio della ferrovia a Topeka…»

«Questo dove l’ha saputo?» domandò Goodpaster, la cui giovialità fanciullesca si stava tramutando in collera e risentimento.

«Via, via», lo ammonì Birch, agitando un dito. «Noi proteggiamo le nostre fonti. Ho degli amici qui dentro, dottore. Ma lei come spiega questa visione?»

«È un sogno, non una visione. Se lei riesce a fare capire esattamente il suo nome deve anche sapere usare il vocabolo giusto. Non spiego né posso spiegare e comunque a chi importa?»

«Dottore», disse Birch, «la differenza è che io sono sicuro di come mi chiamo. Vede, lei non sembra rendersi conto di ciò che la faccenda comporta. Quanti sono i bambini che sognano di cadere sulle rotaie di un treno?»

«Un sacco, sono pronto a scommetterlo.»

«Subito dopo che è realmente accaduto a Topeka?»

«Come sarebbe a dire?»

«Una bambina cadde, o fu sospinta, giù da un traliccio a Topeka, poche ore prima che Annie si ammalasse. Poi Annie ebbe questa visione.»

Goodpaster si strinse nelle spalle. «Il mio campo è la psichiatria», rispose. «Si rivolga a quelli che pubblicano certe cose.»

«Non stimola il suo interesse, proprio per niente?» chiese Birch.

«No, no davvero. Probabilmente qualche infermiera ha accennato a quell’episodio mentre Annie era semicosciente. Lo ha registrato nel cervello. Ecco tutto.»

«Impossibile.»

«Perché?»

«Perché l’episodio non fu riferito in nessun modo da New York se non la mattina seguente… dopo che Annie aveva raccontato il suo, già, il suo sogno. Nessuno poteva avere saputo la notizia in precedenza.»

«Be’», ribatté Goodpaster, «allora il mistero lo risolva lei. La terrà occupato.» Sgusciò oltre Birch e si precipitò in studio, salutando, strada facendo, qualche bambino e la sua assistente.

«Ehi, dottore», gli gridò dietro Birch, ma Goodpaster fece orecchie da mercante. «Dottore», ripeté Birch, «che cosa significa ‘ci protegge lei’?»

Goodpaster ignorò la domanda e Birch lasciò l’ospedale, chiedendosi quale potesse essere la risposta. Decise di tenere in sospeso il suo articolo. Spesso aveva come norma di accumulare e tenere da parte il materiale finché non disponeva di un qualche elemento essenziale. Dapprima aveva pensato che si trattasse soltanto di un articolo tipo ‘famiglia sconfigge la cattiva sorte’. In quel momento intuì che era molto di più. Si rendeva conto che i sogni di Annie potevano essere davvero solo sogni e che forse gliene sfuggiva la spiegazione ovvia. Era così che di solito andava a finire in quelle storie più strane di un romanzo. Ma nel caso di Annie McKay c’era qualcosa che lo attirava. Non riusciva a togliersi dalla testa il terrificante rapporto tra la tragedia di Topeka e la visione di Annie. Forse, pensò, ma solo forse, era qualcosa che giungeva da un’altra dimensione, da una potenza ultraterrena.

O forse lui era soltanto un cronista annoiato che aveva lasciato una famiglia del cui dramma si era già occupato sul giornale, un cronista che attribuiva un significato assolutamente inesistente a delle circostanze che erano solamente bizzarre.