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Vera e Ned affiancarono la sedia a rotelle di Annie, mentre un’infermiera la spingeva verso l’ascensore. Annie tornava a casa. I suoi occhiali erano solo leggermente scuri e la bimba sarebbe probabilmente stata in grado di farne a meno di lì a qualche settimana. Il leggero ematoma era scomparso.
Annie indossava una camicetta di velluto rosso e una gonna in tinta. Teneva in grembo il suo cane di pezza. Cronisti e fotografi le si affollarono attorno. La piccola che aveva riacquistato la vista era una celebrità, un argomento che emozionava sempre i lettori.
Le infermiere applaudirono, secondo una tradizione del reparto pediatrico, mentre Annie passava. Altri piccoli pazienti erano fermi sulla soglia delle loro stanze, con l’aria di chi è dimenticato, desiderando di poter tornare a casa anche loro. Annie li salutò gioiosa, agitando le mani e promettendo di farsi viva.
Un radiocronista piazzò davanti al viso di Annie un registratore portatile. «Annie, che effetto fa vedere di nuovo?»
La faccia di Ned assunse un’espressione sdegnata per la cinica domanda.
«È bello», rispose Annie, sorridendo.
«Ti sei fatta degli amici qui in ospedale?»
«Sì. Mi hanno dato il loro numero di telefono e verremo a trovarli.»
«Hai pregato molto?»
«La mia mamma lo fa per me.»
«E tuo papà?»
Cadde di colpo il silenzio. Vera e Ned fissarono il cronista. Ned stava per intervenire quando Annie rispose.
«È andato via.»
Il radiocronista accusò il colpo e arrossì. «Buona fortuna, Annie», concluse, «da tutti i nostri ascoltatori.»
Annie fu condotta nell’ascensore, le cui porte si chiusero.
Dato che l’auto di Vera era ancora in riparazione fu Ned a portare a casa lei e Annie attraverso le tranquille vie di Tarrytown. Alla vista di luoghi a lei familiari Annie si rianimò: i movimenti del suo corpicino divennero più scattanti, più eccitati, più simili a quelli di ogni altro bambino.
La casa dei McKay era un edificio a due piani, di arenaria rossastra e con stucchi, situata in uno dei quartieri più vecchi della città. Aveva, diceva qualcuno, un aspetto abbastanza comune, poco appariscente, che rifletteva la determinazione di Harry di non gareggiare con la gente nuova e brillante di Tarrytown. Il prato era ben tenuto, ma piccolo, e le macchie di arbusti esprimevano, più che il gusto di un giardiniere, il tocco dilettantesco di Harry e Vera.
Quel giorno, sebbene in strada fossero parcheggiate parecchie automobili, Annie non sospettò che fosse stato organizzato in suo onore un party di benvenuto. Quando la bambina fece il suo ingresso in casa, una folla di amici e vicini la circondò. La confusione era enorme, quasi insopportabile. Annie ricevette baci e pacche sulla schiena da averne a sufficienza per tutta la vita. Arrivò anche il dottor Laval a portarle, come le aveva promesso, la torcia elettrica. C’erano i suoi insegnanti e molti compagni di scuola a raccontarle in lungo e in largo che cos’era successo a scuola durante la sua assenza.
Roberta Moran era una donna ben piazzata, di trentacinque anni, amica intima di Vera. Abbracciò Annie, così come fece sua figlia, che era nella stessa squadra delle Giovani Esploratrici di Annie. Roberta diede a quest’ultima un pezzo di torta e poi andò ad aiutare Vera. «Siamo amiche per che cosa?» le disse quando Vera volle opporsi.
Anche Lily Singleton, capo dell’Associazione genitori e insegnanti, una delle donne più impegnate della città, capitò lì per qualche minuto. Raramente faceva visite di convenienza e Vera fu particolarmente commossa dalla sua premura. Snella, sulla quarantina, dai modi sbrigativi, Lily Singleton diede per quasi tutto il tempo una mano a Roberta Moran, bisbigliando con lei, cosa che sorprese Vera, che non sapeva neanche che Roberta e Lily si dessero del tu. Vera si rese conto che era stata così assorbita dalle vicende di Annie da aver perso ogni nozione degli avvenimenti locali.
La bambina ricevette molti regali, ma continuò a tenersi stretto il cane di pezza che lo zio le aveva portato. Ned scattò fotografie e Annie era al settimo cielo per tutte quelle attenzioni… e per i doni.
Ma, mentre Ned stava per scattare un’altra istantanea, la bambina sembrò di colpo estraniarsi e sbarrò gli occhi nel vuoto. Ned abbassò la Nikon. «Che cosa ti succede, tesoro?» domandò ansiosamente. «Annie, non ti senti bene?»
Lei lo guardò, ma non rispose. Nella mente, però, vedeva una scena nuova e paurosa: la madre che scivolava sul pavimento della cucina e batteva un polso contro un armadietto. Ma, nella confusione che le era intorno, lasciò che la visione svanisse, senza dire niente anche se assalita dall’impulso disperato di gridare e correre dal dottor Laval. Il baccano degli ospiti era addirittura intimidatorio, l’atmosfera troppo eccitata. La visione sparì come se non fosse avvenuta.
«Annie, stai bene?» insisté Ned.
«Sì», rispose lei quasi impercettibilmente.
«Allora girati da questa parte e sorridi.» Ned puntò di nuovo la macchina fotografica.
Qualche minuto più tardi Vera scivolava sul pavimento della cucina, picchiando forte il polso contro la dispensa. La botta era dolorosa, ma non grave, per cui Vera non ne parlò con nessuno.
Il dottor Laval volle che Annie non riprendesse la scuola prima di tre settimane, come minimo. La bambina rimase quasi sempre in casa, giocando con i suoi nuovi balocchi o smaltendo con grandi dormite i postumi dell’operazione. Ma il tempo primaverile era una tentazione e lei non vedeva l’ora di uscire e giocare.
In una calda e soleggiata giornata Vera e Annie stavano gustando un gelato in cucina e finalmente la madre annunciò quello che Annie aveva tanto atteso. «Questa mattina ho parlato con il dottor Laval. Ha detto che oggi puoi stare fuori un pochino. Ma, mi raccomando, non stancarti troppo correndo su e giù. Okay?»
«Okay», rispose la bambina. Terminò in fretta il suo gelato, facendolo gocciolare sulla maglietta.
«Attenta!» la rimproverò Vera.
Lei non le diede nemmeno retta. «Andiamo!» esclamò.
Vera non si era aspettata l’invito. «Senti, tesoro, ho ancora da fare in casa. Perché non esci da sola? Io ti guarderò dalla finestra della cucina.»
«Oh, dai, mammina! È la prima volta che esco.»
Vera si arrese all’entusiasmo della figlia. «E va bene», acconsentì. «Fammi almeno finire il mio gelato… senza sporcarmi il vestito.»
Il gelato di fragola fu inghiottito alla svelta e Vera prese Annie per mano. «Andiamo!» disse con vivacità. «Ti spingerò sull’altalena, ma pianino, e niente acrobazie.»
Si avviarono verso la porta, con Annie che tirava sua madre e le saltellava intorno. Vera fece scattare la serratura e girò la maniglia.
In quel momento Annie si immobilizzò.
«No!» gridò e indietreggiò.
«Che cosa ti prende?» le chiese Vera.
«Non esco!»
La madre, stupita e irritata, le domandò: «Che cosa?»
«C’è qualcosa sul prato, mammina! L’ho visto proprio ora. E un pezzo di vetro. Mi taglierà!»
Vera si inginocchiò e strinse a sé Annie, che aveva cominciato a tremare. «Su, perché pensi una cosa del genere? Sono uscita questa mattina e il prato era bellissimo!»
«C’è un pezzo di vetro!» insisté la bambina.
«E com’è finito lì?» ribatté Vera.
«Non lo so, ma c’è!»
«Ascolta», cominciò Vera dolcemente, «facciamo così. Io esco e ti sto davanti. Guarderò proprio bene e anche tu guarderai. Vedrai che non c’è niente.»
Annie si allontanò di un passo dalla madre. «No!» ribatté.
«Sì, invece», disse Vera, sempre dolcemente. «Devi vedere tu stessa.»
«Ho già visto.»
Allora Vera si alzò e la prese per mano. Provava una certa irritazione verso la figlia, ma l’attribuì alle lunghe settimane durante le quali era rimasta confinata sola in compagnia di una bambina. Si controllò e si mantenne comprensiva ma decisa.
«Su!» esclamò. «Guarda com’è pulito il prato. Vedi nessun pezzo di vetro?»
«C’è!»
«Allora andremo a cercarlo. Se lo troviamo, lo buttiamo via, così puoi giocare fuori.» Cominciò a tirarsi dietro Annie, chiedendosi perché mai si fosse di colpo spaventata all’idea di uscire di casa.
«È vicino al tavolo da picnic», disse Annie sommessamente. «L’ho visto.»
«Che cosa?» Vera cominciava a rendersi conto che le paure di Annie erano un altro dei suoi ‘sogni a occhi aperti’ o ‘visioni’ o che altro fossero. Preoccupata e smarrita, si diresse cautamente verso il tavolino da picnic.
«Così lo vedrai!» sbottò Annie. Si liberò dalla mano di Vera e rientrò di corsa in casa.
Vera si fermò e ispezionò con lo sguardo ogni centimetro del prato.
E allora vide il riflesso scintillante.
Una scheggia di vetro, aguzza e minacciosa, sporgeva dal terreno, esattamente là dove Annie aveva detto. Chiunque, camminandovi o cadendovi sopra, si sarebbe gravemente tagliato.
«Mio Dio!» mormorò Vera. Sconvolta, si coprì il viso con le mani, indietreggiando istintivamente. Si sforzò di padroneggiarsi, dicendosi di non perdere la testa. Sii razionale, si esortò. Ragiona. Doveva esserci una qualche spiegazione, proprio come i medici avevano sostenuto. Erano tutte piccole, banali coincidenze. Non era forse così?
Probabilmente Annie faceva un po’ di scena per darsi importanza, per essere al centro dell’attenzione. Magari aveva scorto dalla finestra quel pezzo di vetro. Vera guardò verso casa: il tavolo da picnic impediva assolutamente di notare il vetro. La bambina era rimasta sulla porta del retro a osservarla, evidentemente sconvolta. Per un attimo Vera scordò le proprie supposizioni e tornò dalla figlia. La portò sul divano in soggiorno e l’abbracciò.
«Non aver paura di quello stupido pezzo di vetro», le disse. «Mammina lo butterà via.»
Ma era decisa ad andare a fondo sull’episodio.
«Annie», chiese all’improvviso, «voglio che tu dica alla mamma la verità, come hai sempre fatto.»
«Okay.»
«Come sapevi che il vetro era lì?»
«Te l’ho detto. L’ho visto nella mia testa.»
«Sei sicura di non averlo già notato prima?»
«Non l’avevo mai visto», insisté Annie.
«Forse una delle tue amiche lo ha visto e te l’ha detto.»
«Non mi ricordo nessuno che mi abbia detto una cosa del genere», replicò Annie.
«Non te lo ricordi?»
«È così.»
Vera ne fu stranamente sollevata. Forse un altro bambino aveva visto il pezzo di vetro e ne aveva parlato. Ma ciò non spiegava le altre visioni della figlia.
Estrasse dal terreno la scheggia e la mise nella pattumiera mentre Annie la sorvegliava dalla finestra. Poi, lasciandola a divertirsi con un gioco di pazienza, andò in camera da letto e telefonò in studio al cognato. Non le piaceva disturbarlo, lui era sovraccarico di lavoro e aveva perso un sacco di tempo quando Annie era stata in ospedale, ma non sapeva a chi altro rivolgersi. Roberta probabilmente avrebbe riso di tutta la faccenda, ma Ned era il fratello di Harry, sicuramente le avrebbe dato retta.
Lo studio di Ned era un ambiente elegante con mobili di noce, quadri di pregio e un grande tappeto orientale. Si diceva fosse il più bello studio legale della Contea di Westchester ed era stato fotografato per Architectural Digest e il New York Times Magazine. Ned ne andava orgoglioso ed era sempre felice di mostrare ai visitatori l’impianto stereo nascosto, il computer e la raccolta di penne stilografiche Mont Blanc d’oro massiccio. Era convinto, e l’aveva detto molte volte a Harry, che un uomo lo si giudica dal suo ufficio.
Nella stanza prima dello studio lavorano due segretarie e un procuratore. Le macchine per scrivere IBM, elettroniche, erano sempre in azione, i telefoni non tacevano mai. L’aura del successo spirava in ogni angolo e la maggior parte dei clienti di Ned riteneva che se lo meritasse. La disponibilità e la premura che lui dimostrava per la cognata erano concesse a tutti coloro che rappresentava.
Quando Vera telefonò, stava lavorando a un contratto di vendita per uno stabile di appartamenti. Si fece subito passare la comunicazione.
«Ha avuto un’altra visione», gli riferì Vera, senza preamboli.
«Riguardo a che cosa?» domandò lui, diventando improvvisamente teso.
Lei gli descrisse l’episodio. Ned, appoggiato allo schienale della sedia anatomica, ascoltò e fece qualche domanda… ma continuò nel proprio lavoro. Prese appunti e riuscì anche a riscontrare su un testo un paragrafo del contratto mentre Vera parlava.
«Non vedo problemi», sentenziò alla fine. «Magari Annie fa un po’ di scena. Ultimamente ha ricevuto un sacco di attenzioni e adesso la sua vita sta tornando quella di sempre. Probabile che voglia di più.»
«Ma queste cose hanno un’impronta comune, Ned», insisté Vera. «In ospedale voleva mettermi in guardia contro quell’auto. Poco fa voleva impedire che io potessi tagliarmi. Sembra, so che è pazzesco, sembra che veda il pericolo prima che si manifesti.»
Ned gettò il fascicolo sulla scrivania e si raddrizzò di scatto sulla sedia. «Ma dai!» ribatté quasi irritato. «Tu stai troppo davanti al televisore. Annie non ha intuito nessun pericolo quando si è vista cadere sulle rotaie. E non la stavamo certo portando su una strada ferrata.»
«Questo è vero, lo ammetto.»
«Certo che è vero. Senti, forse dovresti consultare di nuovo il dottor Goodpaster. Quell’uomo mi piace. Potrebbe darti qualche consiglio.»
Vera rimase muta. «Allora?» la sollecitò Ned.
«Non voglio farlo ancora», si decise Vera alla fine. «Non voglio sottoporre Annie ad altri esami e prove. Ne ha già passate abbastanza.»
«Sì, ti capisco», convenne Ned, con tono comprensivo, quasi pietoso. «Dammi retta, per ora scordiamocelo. Credimi, ti stai preoccupando senza motivo. Però voglio che tu mi telefoni ogni volta che Annie ti dà dei problemi. Sono sempre pronto ad aiutare la famiglia di Harry. Capito? Voglio che tu mi telefoni. D’accordo?»
«Lo farò», rispose Vera, con una voce che era un sussurro. Si sentiva rassicurata, convinta che non c’era niente per cui angosciarsi e tanto felice che Ned fosse così pronto ad aiutarla.