129330.fb2 Visioni di terrore - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 9

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Gli «specialisti adatti» di Laval furono un fiasco.

Vera portò Annie dal dottor Harrison Donnell, l’eminente psichiatra dell’Ospedale universitario di New York, il quale diagnosticò che Annie non aveva nessuna facoltà speciale. Era Vera, disse, che si ricordava soltanto «le predizioni» esatte di Annie, dimenticando però quelle fasulle. Chiunque, asserì benevolmente, ha delle intuizioni che talvolta si avverano e può capitare che giungano a gruppi.

Per il responso Vera sborsò settecentocinquanta dollari.

Poi portò Annie in una clinica di White Plains, dove i dottori ammisero che poteva anche avere qualche facoltà extrasensoriale, ma che era roba di tutti i giorni. C’erano stati, dissero, migliaia di piccoli fenomeni psichici. Meglio ignorarli.

Dello stesso parere furono i medici di tre altre cliniche, una delle quali a Chicago, specializzata in bambini «insoliti». Alla fine Vera rinunciò, giungendo alla conclusione che nessuno, nella scienza medica, aveva qualcosa di importante da dirle. Aveva sborsato quasi tremila dollari, non un centesimo dei quali rimborsabile dalla polizza d’assicurazione, poiché le visite erano da considerarsi volontarie e quindi escluse dalle spese «coperte». Vera era preparata a rinunciare ad ogni tentativo di sapere la verità sulle strane visioni di Annie, se queste visioni si limitavano a dileguarsi senza ritornare ed erano dimenticate dalla bambina.

In un polveroso e affollato supermercato di Broadway, a Manhattan, una donnina minuta con un foulard in testa, occhiali scuri e un logoro abito rosso era in fila alla cassa, in attesa di pagare una scatola di prugne secche. Stava leggendo attentamente un giornale, concentrata su un articolo riguardante Annie McKay e le sue bizzarre facoltà. Era così assorta nella lettura da non accorgersi che chi la precedeva aveva pagato e se n’era andato.

«Su, signora, venga avanti!» esclamò la cassiera.

«Torno dopo», disse la dottoressa Marie Neuberger, continuando a leggere l’articolo. Lasciò le prugne e uscì in fretta dal supermercato, adocchiando una cabina telefonica sul marciapiede e dirigendovisi decisa.

Vi entrò e chiuse la porta. Formò immediatamente il numero del Daily News e fu messa in linea con Larry Birch. Quest’ultimo non fu sorpreso di sentirla, perché già molte volte in precedenza si erano parlati.

«Birch», disse lei con determinazione, «questa bambina, la McKay. Ho letto che cosa scrivono di lei. Io posso aiutarla, ne sono sicura. Si dia da fare.»

Riattaccò senza salutare, tornò sui suoi passi e acquistò le prugne.

Annie tornò a scuola qualche settimana dopo. I suoi compagni, con la naturale volubilità dell’infanzia, avevano già dimenticato la breve celebrità di Annie. Erano più interessati ai regali che aveva ricevuto e a riempirle la testa con quello che era successo durante la sua assenza. Vera aveva cercato di tenerla al passo con il programma scolastico. Agli insegnanti era stato raccomandato di trattarla come un qualsiasi altro allievo, e fecero del loro meglio. Le avevano riservato una particina nella recita della classe, che sarebbe stata rappresentata il giorno di Natale, un atto di fiducia verso Vera che entusiasmò Annie.

Era trascorso più di un mese dall’episodio dell’incendio e la vita della bambina stava tornando alla normalità.

Non c’erano state altre visioni di sorta, niente che sconvolgesse la sua tranquillità. Il dottor Laval la giudicò quasi completamente guarita e le prescrisse occhiali da lettura, che lei cercava di non mettere. A scuola il suo profitto era buono, ma aveva bisogno di aiuto per quanto riguardava la matematica, punto debole anche della madre.

La normalità era, per Vera, una benedizione. L’incubo di Annie sembrava averla abbandonata. Adesso poteva dedicarsi alla casa, cercarsi un lavoro, seguire attentamente gli sviluppi dell’indagine sulla sparizione di Harry.

In una calda sera agli inizi di giugno, Annie si addormentò sodo, dopo un impegnativo giorno di scuola. Il suo respiro era normale, il colorito bello, lo stato generale di salute eccellente. L’umore, prima di coricarsi, allegro e sereno. All’altro capo del pianerottolo, anche Vera, nel grande letto matrimoniale, dormiva saporitamente.

Appena dopo le due si levò una leggera brezza e la luna sparì dietro uno schermo di dense nubi. Un cane vagabondo abbaiò, lontano, e un’auto rombò veloce lungo la via, facendo schizzare sassolini contro un segnale di «rallentare» fuori della casa dei McKay.

Annie si agitò nel letto, borbottò qualcosa di incoerente e riprese a dormire.

Qualche minuto dopo, si rivoltò ancora tra le lenzuola. Quella volta sbatté con un braccio contro il comodino.

Il rumore destò Vera, ma non era uno di quei rumori che automaticamente mettesse all’erta il suo istinto materno e lei non se ne preoccupò. Rimase a letto, in una specie di dormiveglia.

Poi Annie gemette, un forte gemito angosciato, e, poco dopo, di nuovo, borbottando la parola «mammina». Allora Vera balzò giù dal letto, si buttò sulle spalle la vestaglia azzurra e si precipitò sul pianerottolo verso la porta della bambina. Parzialmente illuminata dalla luce di un piccolo paralume, Annie era immobile. Quindi si girò di scatto. «Mammina», gemette ancora una volta.

Vera rimase sull’uscio, volendo che l’episodio si snodasse da sé e cercando di interpretarlo. Era una visione o semplicemente un incubo?

«Mamma!»

Annie scattò a sedere, eretta, rigida, urlando sempre più forte: «Mamma, ho paura! L’ho visto!»

Vera corse da lei, stringendola a sé. «No, tesoro, no», le disse. «Mammina è qui. Fai la brava.» Cominciò a scuoterla dolcemente. «Svegliati! Su, da brava. È solo un sogno!»

Accese la luce e vide che la bambina stava sudando, le labbra tremanti, gli occhi chiusi. All’improvviso parve calmarsi. Aprì lentamente gli occhi e fissò davanti a sé, come se guardasse attraverso la parete.

«Che cos’è successo?» le domandò Vera. Per la prima volta ebbe quasi paura della propria figlia.

«L’ho visto», ripeté Annie.

«Chi?»

Annie continuò a fissare il vuoto, quindi urlò e spalancò le braccia, in un gesto senza speranza. Vera cercò di placarla, ma lei balzò dal letto, guizzò via e cominciò a sbattere contro i mobili. Rovesciò una sedia, colpendo poi una foto del padre su un tavolino.

«Ferma!» le ordinò Vera. Ma Annie la superò di corsa, irrompendo sul pianerottolo urlando. Vera la inseguì giù per le scale.

Riuscì alla fine a raggiungerla in cucina, dove la bloccò, scuotendola finché non smise di gridare e di singhiozzare.

Annie le si aggrappò come non aveva mai fatto. «Mammina, ho paura», gemette.

«È tutto passato», rispose Vera, cullandosela dolcemente.

«Era un’altra scena.»

Il cuore di Vera parve fermarsi, in una stretta dolorosa. «Raccontamela», le disse pacatamente, anche se era terribilmente agitata.

Annie ansimava forte e parlò con frasi incerte, a spezzoni. Aveva il volto teso e disperato. «Ho visto papà.»

Vera chiuse gli occhi, tirò un respiro profondo e lottò per restare calma. «Penso sia una cosa bellissima», le disse dolcemente.

«No», ribatté Annie. «Era disteso giù, mammina. Era ferito alla testa.»

«Oh!»

«Una ferita in testa, tanto brutta!»

Vera cominciò a massaggiarle la schiena. «Forse ha avuto un piccolo incidente. Magari ha picchiato la testa.»

Di botto, Annie la fissò con due occhi freddi. «Mamma», gridò, «era morto!»

A Vera parve che le avessero conficcato una lama nello stomaco. Scoppiò in lacrime e scosse Annie. «No, non era morto!» gridò. «Tuo papà non è morto. Non pensarlo nemmeno!»

«Sì, invece!»

Vera si sentì svenire. Avendo paura a lasciarla sola, la prese e la portò sul divano in soggiorno. Poi telefonò subito a Ned.

Dovette attendere sei squilli prima che Ned rispondesse.

«Pronto?» disse con voce impastata.

«Ned, sono Vera.» Il suo respiro affannoso sembrava riempire il microfono.

«Che cos’è successo?» le chiese il cognato, di colpo lucido.

«Potresti venire da noi? So che è tardi, ma…»

«Ti serve un dottore? Un’ambulanza?»

«No, ho solo bisogno di te.»

Ned non fece domande. «Vengo subito.»

Riappesero. Vera si tenne stretta Annie. «Zio Ned sta arrivando», la rassicurò. «Metterà a posto tutto.»

Meno di mezz’ora dopo la Cadillac di Ned frenò nel vialetto.

«Allora, di che cosa si tratta?» chiese lui.

«Ne ha avuta un’altra», rispose Vera.

Ned fissò Annie con un’occhiata di finto malumore. «Annie, mi hai fatto fare tutta questa strada per scoprire che hai visto di nuovo le cose?»

Per la prima volta da quando si era svegliata. Annie sorrise. Zio Ned le era tanto simpatico. «Sì», rispose, ma poi il sorriso svanì. «Non era proprio bello, anzi era orribile.»

Ned si sedette sul divano e le circondò le spalle con un braccio. «Raccontami», disse.

Annie sbirciò, apprensiva, sua madre.

«Ned», spiegò Vera, «Annie ha avuto una visione… ha visto Harry. Morto.»

Ned trasalì e abbassò lo sguardo. «Annie, questo non è possibile.»

«Qualcuno l’aveva colpito in testa!» esclamò la bambina.

Vera si accorse che Ned era diventato di pietra. Si massaggiava la mano sinistra con la destra, serrando poi il pugno sinistro. «Hai visto uno che lo picchiava sulla testa?» ansimò.

«Sì! No. Ho visto che aveva la testa tutta rotta.»

Ned era come inebetito. Vera poteva capirlo: lui e Harry si volevano bene. C’erano tutti gli elementi per ritenere che Harry fosse morto, ma era sempre stata un’idea astratta. Il sentirlo affermare categoricamente era uno choc.

«Annie», disse alla fine Ned, dimostrando una strana incapacità a parlare con fermezza, «non può essere assolutamente così. Chi potrebbe volere far del male a tuo papà?»

«È così!» insisté Annie. «Era proprio come quelle altre scene che vedevo.»

Ned parve totalmente scombussolato. Frustrato, proseguì: «Annie aspetta qui». Vera lo accompagnò in cucina e chiuse la porta. Si sedettero al tavolo. «Senti», sussurrò Ned concitatamente, «questa volta è grossa. Voglio dire, vedi benissimo come m’ha ridotto. Ma, Vera, la mia paura è che tu attribuisca troppa importanza alla cosa e riapra tutta la faccenda dei veggenti eccetera eccetera.»

«Ned», proruppe Vera con veemenza, «avresti dovuto sentirla come smaniava!»

«Naturale che smaniava», replicò Ned. «Harry è sparito, sì o no? Una bimba è portata a pensare che suo padre sia morto. Ha avuto un incubo, ecco tutto.»

«Vede la scena, Ned. Ormai lo sa. Ho paura. Forse Harry è…»

«No, no. Senti, siamo tutti e due nervosi e sono le tre passate. Sentirla dire… Non voglio nemmeno ripeterlo, ma non può essere vero.»

«Come lo sai?»

Ned la fissò freddamente, così come squadrava i testimoni durante un processo. «Vera, hai bisogno di altri giornalisti? Vuoi provocare uno scandalo di famiglia?»

Vera trasalì alla parola «scandalo».

Ned si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro. «È stato un incubo. La sua immaginazione si è messa a galoppare e la bambina è in ansia per Harry. Tutto qui.»

«E tu non sei in ansia?» gli domandò Vera.

«Certo che lo sono. Mi preoccupa che mia nipote si svegli urlando.»

«Forse abbiamo bisogno di uno psichiatra.»

«Ancora un altro?»

«Magari ne troviamo di migliori, Ned.»

«Be’, può darsi. Domattina me ne interesso.»

Parlarono ancora qualche minuto, concludendo poco, e tornarono da Annie, che era molto cupa in viso.

«Come va?» chiese Ned.

«Bene», rispose Annie in tono per nulla convinto.

Ned le si sedette di nuovo vicino. «Adesso faresti bene a tornare a nanna. Che cosa ne diresti se ti portassi su per le scale a cavalluccio?»

Annie non rispose. Gli occhi bassi, giocherellava con un bottone del pigiama. Quando lo zio se la issò sulle spalle lei non si oppose, ma non si mise neanche a ridere come avrebbe fatto di solito.

Ned la portò di sopra e la rimise a letto. La bambina era inquieta, ma anche esausta, e ben presto si addormentò. Ned si trattenne ancora una mezz’ora, per assicurarsi che fosse tranquilla e per cercare di persuadere la cognata a non lasciarsi deprimere da quell’ultimo episodio. Poi se ne andò e Vera pensò che era una fortuna avere accanto un uomo tanto servizievole.

Ma non riuscì a prendere sonno. Si buttò sul letto, angosciandosi per Annie, ossessionata dalla visione che lei aveva appena avuto di Harry morto.

Annie dormiva profondamente, ma un’ora prima dell’alba Vera cominciò a svegliarsi a intermittenza. Durante uno di quei momenti di veglia udì un rumore provenire dalla camera della figlia. Si sedette sul letto, intontita.

Sentiva il fruscio di vestiti contro le pareti, mani che urtavano oggetti, come se cercassero qualcosa a tentoni nel buio. Passi sul pavimento. Un leggero, morbido scalpiccio sul tappeto.

Vera balzò giù dal letto. «Annie!» chiamò.

Ma era troppo tardi.

Un grido. Tonfi sordi e rovinosi. Gemiti infantili. E poi… silenzio.

«No!» urlò Vera.

Si precipitò sul pianerottolo e vide Annie rannicchiata per terra in fondo alle scale, col sangue che le sgorgava dal naso.

Volò giù da lei. Sapeva di non doverla muovere e quindi si precipitò al telefono, annaspò con il ricevitore e fece il numero del pronto soccorso.

«Ho bisogno d’una ambulanza.»

Vera dovette aspettare solo venti minuti per sapere delle condizioni di Annie. Seduta tutta sola nella piccola, ormai familiare, stanza vicino al pronto soccorso di Roselawn, udì il passo zoppicante del dottor Laval, che era accorso all’ospedale dopo essere stato avvertito dalle infermiere. Apparve sulla porta della sala d’aspetto, trascinandosi dietro la gamba offesa, con indosso una camiciola sportiva azzurra e pantaloni grigi. Sorrise debolmente.

«Assolutamente niente di grave», disse.

Un peso enorme sembrò abbandonare le spalle di Vera, che abbassò la testa respirando di sollievo.

Laval entrò e le batté sul braccio. «Annie ha fatto una brutta caduta. Ma, a parte qualche leggero ematoma, non c’è nessun danno serio.»

«Sarà del tutto normale?» chiese Vera.

«Ma certo. Se pensi a danni cerebrali, stai tranquilla. È sveglia, cosciente e potrai vederla tra qualche minuto.»

Sulle labbra di lei spuntò un caldo sorriso, che però svanì rapidamente. «Non so come sia successo», cominciò. «Avrei dovuto far mettere un cancelletto su quelle scale.»

«Dai! Nessuno mette un cancelletto per una bambina di quell’età.»

«Ma…»

«Andiamo a vederla.»

«Sì.»

Lentamente, sentendosi di colpo invecchiata, si alzò per seguire Laval, ma si ricordò all’improvviso di avere indosso un vestito da casa e le pantofole. «Non ho avuto il tempo di cambiarmi», si scusò.

«Nemmeno io», ribatté Laval con un sorriso. Assieme si diressero verso il pronto soccorso.

Annie non era ancora nella sua stanza. Giaceva su un letto nella sala comune, zeppa di armadietti, apparecchiature elettroniche e barelle, e impregnata dall’odore di medicamenti e disinfettanti. C’erano altri letti, ma tutti vuoti. Il pavimento era costellato di macchie.

Annie aveva un aspetto piuttosto buono. Aveva un grosso bernoccolo sul lato destro della testa, e qualche cerotto sulle braccia, le gambe e il viso. Gli occhi erano bene aperti e vigili, ma la bambina stava fissando il soffitto quando Vera entrò e sul momento ne ignorò la presenza.

«Ciao, tesoro», disse Vera, cercando di sembrare il più naturale e disinvolta possibile.

Stranamente, sinistramente, la testa di Annie rimase immobile.

«È il sedativo», bisbigliò Laval. «Un attimo di pazienza.»

«Stai bene?» domandò Vera.

Lentamente, Annie girò la testa verso sua madre e la fissò senza parlare. Vera fu assalita da un’improvvisa paura, perché ciò che vedeva sul viso della figlia non era intontimento, ma choc. Uno choc profondo, quello dovuto alla vista di qualcosa di terribile. «Che cosa c’è?» chiese, agghiacciata dalla paura. «Annie, che cos’è successo?»

Finalmente le labbra della bambina cominciarono a muoversi. «Mammina», pronunciò con voce a malapena percettibile, «sono caduta per le scale.»

«Sì, tesoro, lo so. Ma passerà presto.»

«Era venuto per uccidermi.»

Vera guardò ansiosamente Laval, poi altri medici e infermiere che erano lì ad ascoltare. «Vedi, Annie, hai fatto un altro dei tuoi sogni», le disse pensosamente.

«L’ho visto, mamma. Aveva una pistola. Voleva uccidermi. Ecco perché sono scappata dalla mia camera e sono caduta.»

«Chi era, tesoro?»

«Non ti arrabbierai con me?»

«No, certo.»

«Mammina… era zio Ned!»

Vera gettò un’occhiata ai dottori e alle infermiere. «Su, Annie», disse, «dovresti vergognarti. Lo zio Ned ti vuole bene più di chiunque altro, tranne la tua mamma.»

«L’ho visto!» gridò di colpo Annie, facendo voltare la testa di tutti quanti erano nel corridoio. L’espressione decisa, quasi fanatica, gli occhi brucianti, urlò ancora: «Mamma, mi ero svegliata e lui era fuori della finestra. Mi puntava contro una piccola pistola. Mi sono spaventata, sono scappata e sono caduta dalle scale!»

Seguì un silenzio di tomba, mentre Laval e Vera cercavano la risposta adatta, ma era difficile. «Annie», si decise Laval, con voce sinceramente affettuosa, «penso che tua mamma abbia ragione. Un brutto sogno, Ann. Un brutto sogno.»

«Bambina mia», aggiunse Vera, «perché mai zio Ned vorrebbe farti del male?»

«Non mi vuole più bene», spiegò imbronciata Annie, «perché vedo le scene.»

«Ma dai!» rispose Vera. «Ti vorrebbe bene anche se fosse la fine del mondo.»

Allora Annie rovesciò indietro la testa e fissò il soffitto.

Vera fece cenno a Laval di seguirla fuori della stanza. «Torniamo subito», disse alla figlia.

«Tu non mi credi», dichiarò la bambina.

«Ma no, dobbiamo solo parlare», la rassicurò Laval.

Vera e il dottore si appartarono in un corridoio che portava a una camera per i raggi X e lei si accorse di un cambiamento della propria opinione riguardo alle rivelazioni di Annie. Questo, pensò, doveva essere un brutto sogno e nient’altro. Non poteva essere una visione, una facoltà soprannaturale. Chiaramente, Ned McKay non sarebbe mai venuto a uccidere Annie.

Laval le offrì il miglior suggerimento che gli era possibile. «Non agitarti», le disse, «perlomeno Annie non si è fatta male seriamente.»

«Ma la sua mente», gemette Vera. «Che cosa ci sta succedendo dentro?»

Laval si strinse nelle spalle. «Se lo sapessimo davvero, mia cara, potremmo fare qualcosa.»

Vera restò un attimo pensierosa, come se stesse riconsiderando quanto aveva detto la figlia. «Sa, Ned ha una pistola.»

Laval la guardò, stupito. «Non vorrai per caso suggerire…»

«No, no, naturalmente, ma Annie sapeva che lui l’aveva.»

«Senz’altro, l’avrà vista in qualche occasione», ipotizzò con aria pensierosa Laval, «e l’arma le è rimasta impressa nella mente. È così che le cose entrano poi nei nostri sogni.»

«Lei pensa che Annie creda davvero che Ned?…»

Il medico allargò le braccia. «Brancolo nel buio, e non dovrei», ammise. «Che cos’abbia visto lei, lo ignoro. E tu?»

«Anch’io. Ma non riesco a sopportare quello che sta succedendo.» Vera si premette le dita sugli occhi, disperata. «C’è all’opera qualche forza maligna. È come se il diavolo si sia impossessato di lei.»

«Ehi, non vorrai credere a una cosa del genere.»

«Sì. Penso che sia al disopra di tutti noi.»

«Vera», l’ammonì Laval, «la cosa peggiore che puoi fare è pensare al diavolo. Vedo in continuazione gente che lo fa e ne viene distrutta.»

Vera sospirò, ancora una volta suggestionata da una voce pacata e autorevole. «Probabilmente lei ha ragione, ma una madre vuole delle risposte.»

«Ma le risposte giuste, Vera.»

«Certo.»

Non aggiunse altro e ritornò a fare un’altra visitina ad Annie, per controllarne le condizioni. Sentendola avvicinarsi, la bambina si voltò a guardarla. C’era nei suoi occhi un fiero risentimento. Quegli occhi che sembravano vedere tante stupefacenti cose in quel momento sembravano ardere e trapassare Vera, fissi nell’ignoto. Erano occhi che nessuno avrebbe osato dimenticare.