171607.fb2
Improvvisamente, senza preavviso, l'estate voltò le spalle all'Inghilterra e s'insediò compiaciuta sulla Spagna. Su Londra era tornata la pioggia. Quando Jack si svegliò, con Rebecca addormentata al suo fianco, percepì il cambiamento nell'aria, avvertì l'umidità sulla sua pelle. Rimase sdraiato per un momento, mentre il cuore gli batteva rapidamente, mentre le sensazioni si rincorrevano, tentando di capire che cosa lo avesse svegliato. Qualcosa nell'appartamento? Il ritorno di Joni? O solo un sogno? Ascoltò il silenzio finché il cuore non riprese a battere normalmente. Accanto a lui, Rebecca, il braccio destro disteso oltre il bordo del letto, quello sinistro piegato, con la mano che toccava lievemente la spalla. Sembrava in posa. Aveva il viso rivolto dall'altra parte. Jack si appoggiò sui gomiti per guardarla meglio. Era immobile. Immobile e…
Jack, smettila!
Per poco non scoppiò a ridere. Per un momento si era immaginato che fosse morta. Ma la sua gabbia toracica si sollevava e si abbassava e, quando avvicinò il volto al seno, sentì il sibilo rassicurante, quasi impercettibile, dell'aria nei polmoni, il frullo d'ali del suo cuore.
Un uccellino morente.
Si mise bruscamente a sedere, poi si alzò dal letto, andò in cucina e passò la faccia sotto l'acqua del rubinetto. Non voleva pensare a Birdman, a ciò che aveva fatto. Non mentre Rebecca dormiva accanto a lui.
Si sollevò, grondante d'acqua. L'immagine stava svanendo. Joni non era tornata: la notte precedente, prima di portare a letto Rebecca, aveva chiuso il catenaccio della porta d'ingresso e la ragazza avrebbe dovuto svegliarlo per entrare nell'appartamento. Mise il bollitore sul fuoco, si versò un bicchiere d'acqua e lo bevve rapidamente, fissando le fotografie sulla mensola sopra il frigorifero.
Alcune raffiguravano Rebecca: vestita con la tuta da lavoro sporca di colore, il pennello in mano, oppure stesa su un divano malconcio, gli occhi annebbiati, la mano protesa verso l'obiettivo in segno di protesta. Un'altra era stata scattata su una spiaggia di ciottoli: Rebecca in pantaloncini corti, la lingua fuori, gli occhi incrociati sotto un cappello floscio di misura troppo grande.
Appoggiò il bicchiere sul ripiano e prese un'istantanea di Joni. Lì era più carina di quanto lui non ricordasse, probabilmente perché non era fatta. Aveva gli occhi vispi, fissi sull'obiettivo, una sigaretta in mano, la bocca aperta e il dito puntato verso il fotografo, come se stesse tentando di spiegare qualcosa d'importante. I capelli ben tagliati le arrivavano alle spalle, e una frangetta le sfiorava le sopracciglia.
Jack portò la foto al tavolo e si sedette, appoggiando i gomiti. Joni lo guardava, cercando di spiegargli qualcosa. Jack le passò il dito sulla frangia.
Le cicatrici sulla testa delle vittime formavano un cerchio perfetto, dalla nuca alla fronte. I capelli biondi di Kayleigh Hatch e di Susan Lister erano stati tagliati a formare una frangia. Jack si passò la mano sulla fronte. I segni sulle vittime erano più bassi rispetto all'attaccatura dei capelli. Una parrucca non si portava certo in quel modo, non così in basso.
A meno che…
A meno che non avesse una frangia. Come Joni.
Balzò in piedi, il cuore in tumulto.
Non la Joni di adesso, ma quella di allora, prima che si tagliasse i capelli. Prima, naturalmente, prima delle protesi. È la vecchia Joni quella che vuole.
«Becky?» sussurrò, baciandola sul collo. «Becky. Svegliati.»
Rebecca si stiracchiò. Jack. Pensò alla sera precedente: nell'atrio e dopo, nel suo letto, quando aveva mantenuto la promessa, alle cose che le aveva fatto. Con aria assonnata, allungò un braccio fuori del lenzuolo, alla ricerca della sua erezione. Ma, quando si rese conto che indossava i pantaloni e si stava abbottonando la camicia, aprì gli occhi. «Te ne vai?»
«Devo.»
«Che cos'è successo?»
«Joni non è rientrata. Sai dove può essere?»
«Non è a casa?» Rebecca si girò sul fianco, sfregandosi gli occhi. «Oh, non lo so… Qualche volta lo fa.»
Lui le scostò la frangia dalla fronte e la baciò sulla guancia. I suoi capelli profumavano di shampoo per bambini. «Rebecca, posso chiederti una cosa di lei? È importante.»
«Quale cosa?»
«Joni si è rifatta il seno, vero?»
Cogliendo il tono preoccupato della sua voce, la ragazza lo guardò. «Sì. E allora?»
«Quand'è stata scattata questa?» continuò lui, mostrandole la foto.
«Non so, forse tre anni fa, perché?»
«E le protesi?»
«Mah.» Rebecca diede un rapido sguardo alla foto. «Non ne sono sicura, poco dopo che ci siamo conosciute, forse sei anni…»
«Va bene. Senti…» disse Jack, alzandosi e passandosi una mano sulla camicia, nel tentativo di togliere le pieghe del giorno prima. «Mi serve il ritratto. Quello sul cavalietto.»
«Perché?»
«Te lo riporterò.»
«Prendilo. Sono stufa di vederlo», rispose lei, poi si voltò e si appoggiò sui gomiti, rivolgendogli uno sguardo serio. «Jack, non starai pensando che?»
«No, io…» Jack s'interruppe. «Rebecca, non guardarmi in quel modo», aggiunse, annodandosi la cravatta e appiattendola contro il petto. «Non c'è nulla di cui preoccuparsi.» Le cinse le spalle con un braccio e la baciò sulla testa. «Davvero. Assicurati solo che mi telefoni appena arriva. E tu… sta' attenta, d'accordo? Parlo sul serio. Se devi uscire, fammi prima uno squillo. Tienimi al corrente di quello che fai.»
Più tardi, Rebecca si sedette al tavolo di cucina, giocherellando pigramente coi capelli. Guardava i mozziconi lasciati da Jack nel posacenere, in attesa che la moka da due bollisse. La pioggia formava rigagnoli oleosi lungo i vetri della finestra. Si sentiva la gola chiusa e dolente.
Non è la prima volta che non torna a casa. Nulla di strano, non c'è assolutamente nulla di strano. Avrà perso il controllo dopo che me ne sono andata dal pub e sarà finita all'Adrenaline Village o in qualche lurido buco di tossici di Camden… Oppure sarà andata a smaltire la sbronza a casa di qualcuno e ben presto tornerà con la coda tra le gambe… Ma allora perché quell'improvviso interesse di Jack?
«Accidenti!» Si alzò di scatto, irritata dalla sua fervida immaginazione, e andò nello studio, cercando qualcosa da fare, per pensare ad altro. In strada c'era un via vai di ombrelli dai colori vivaci: rosa, viola e gialli. Gocce di pioggia di dimensioni tropicali rimbalzavano dal tetto. Guardò un foglio bianco fissato a una tavola da disegno e si soffermò a riflettere.
Ha preso il suo ritratto… Pensa che sia nei guai…
Rebecca posò le puntine e andò verso il telefono, in corridoio.
Bliss era sulla soglia della stanza da letto e guardava Joni. Il capo le penzolava di lato e le protesi color muco avevano lasciato macchie di sangue sul ventre. Aveva perso conoscenza mentre lui la suturava, perciò le aveva appoggiato il silicone sulla pancia, affinché lei, una volta sveglia, lo vedesse. Lui aveva dormito in un'altra stanza, determinato ad attendere il suo compleanno. Ma la signora Frobisher l'aveva svegliato presto, prima ancora che iniziassero i lavori del cantiere, zoccolando al piano di sopra neanche fosse una bambola di legno.
Quella donna lo rendeva nervoso: non faceva che lamentarsi, rovistare in giro e spiarlo. La festa di compleanno sarebbe stata molto più sicura al bungalow, ma non poteva rischiare il viaggio in auto. Non con Joni sanguinante e instabile com'era. Staccò il telefono e prese a gonfiare i palloncini.
Jack era di nuovo in preda a quel senso d'incontenibile urgenza: la dottoressa Amedure se ne accorse non appena s'incontrarono nell'atrio. Gli prese la cartina per sigarette piegata che teneva in mano e chiese: «Si sente bene?»
«Sì, sto bene.»
«Cosa mi ha portato? Deve compilare il modulo di richiesta.»
«Può confrontarli col capello dell'ultima autopsia?»
«Forse. Ma prima compili il foglio, e questo dev'essere riportato a Shrivermoor.»
«Devo andare, ora. Quanto le ci vorrà?»
«Mezza giornata. Meno, se mi dimostra un po' di gentilezza.»
«Novità sul cemento? L'esame comparativo?»
«Ah», esclamò la donna, sorridendo. «Ne deduco che qualcuno non si è presentato al lavoro stamattina… Il CCRL ha ottenuto i risultati: li hanno comunicati per telefono a Marilyn Kryotos…» Ma Jack se ne era già andato, precipitandosi per le scale ed estraendo le chiavi dell'auto dalla tasca. «Compilerò io il modulo», mormorò la dottoressa Amedure mentre tornava all'ascensore.
Era ancora molto presto, ma Betty si trovava già al Dog and Bell. In sottofondo, il pastore tedesco abbaiava.
«Se n'è andata con quel tizio dell'ospedale. Sa, quello che le sbava dietro, che se ne sta seduto a bersi mezze pinte di birra.»
«Intende Malcolm?»
«Già, lui.»
Grazie a Dio.
«Avrà speso quaranta sacchi ieri a mezzogiorno. Le ha offerto non so quante bottiglie di Blue Nun, dopodiché lei era completamente partita. Ora delle tre, mi sa che non sapeva più come si chiamava. Perché si fa del male in quel modo, Pinky? Una ragazza tanto carina… Non ha senso.»
Lo vedi, maledetta paranoica che non sei altro? pensò Rebecca. Joni è semplicemente Joni.
Al piano di sopra, tra i fazzoletti e i semi di marijuana avvolti nella trapunta di Joni, trovò l'organizer nero e argento di Kookaï: una serie di pagine malconce e scarabocchiate, cuori e facce sorridenti disegnati con colori pastello. Joni aveva ordinato gli amici per nome. Sotto la M, accanto al nome di Malcolm, aveva disegnato una faccina rosa, sbadigliarne, con una sfilza di Z nere che le uscivano dalla bocca.
Il telefono di Bliss era occupato. Anche Jack stava parlando: era scattata la segreteria. Rebecca mise giù il ricevitore e si sedette nello studio, fissando l'indirizzo e il numero di telefono di Malcolm, ripetendosi di aspettare e di lasciar perdere, finché non riuscì più a starsene con le mani in mano.
Poi si alzò di scatto e andò nella sua stanza. «Hmm…» mormorò, mentre indossava un paio di pantaloni corti, una T-shirt e le scarpe da ginnastica. «Sei sempre la stessa. Non riesci proprio a trattenerti, eh?»
Una volta sulla Jaguar, Jack compose il numero di Shrivermoor sul suo Nokia e rimase in ascolto. Era fermo a un semaforo, dietro il parabrezza appannato, il telefono premuto all'orecchio e lo sguardo assente, fisso sul ritratto accanto a lui, posato sul sedile del passeggero.
Joni era sullo sfondo, sul palco, con le braccia sollevate e la testa lievemente abbassata; dietro di lei, si scorgevano il sipario e le finestre del pub. E in primo piano, nel centro, con le labbra lievemente aperte, un viso. Un profilo fece sussultare Jack.
Afferrò il dipinto e lo inclinò verso il finestrino. Quella faccia – quei brutti denti, curiosamente distanti, simili a quelli di un bambino tra una dentizione e l'altra – gli era familiare. Io ti conosco, ti conosco… Conosco la voce che esce dalla tua bocca, ti ho parlato, ho stretto la tua mano…
«Pronto? Archivio.»
Posò rapidamente il dipinto e si raddrizzò sul sedile. «Sì, Marilyn, ciao, Marilyn.»
«Jack… Dio mio, Maddox ha fatto il diavolo a quattro. Che razza di stupido, sei: hai perso la riunione della mattina!»
«Lo so, lo so. Fagli le mie scuse. Ascolta, piuttosto: sono arrivate telefonate dagli Stati Uniti stamattina?»
«Sono la tua fatina buona, Jack, non dimenticartelo: me ne sono occupata mentre tu ti trovavi ancora nel mondo dei sogni.»
«E allora?»
«Non viene venduto al dettaglio nel sud, e a Londra c'è solo una ditta che usa quel prodotto: la Korner-Mackelson. Ho parlato con la loro loquace segretaria: hanno un cantiere giù, vicino a Belmarsh, uno a Canning Town e uno a Lewisham.»
«A Lewisham?» Jack lanciò un'occhiata al semaforo. «Bene. Dove, a Lewisham?»
«Alla periferia di Greenwich, a Brazil Street. Alla fine di Blackheath Hill. Un vecchio edificio scolastico. Lo stanno riadattando per ricavarne dei loft.»
Il semaforo stava per diventare verde. Jack tolse la freccia a sinistra e sterzò bruscamente davanti a una macchina. Qualcuno suonò il clacson. «Marilyn? Sei ancora lì?»
«Come sempre.»
«Di' a Maddox da parte mia che arriverò tardi. Lo farai, vero? Starò via circa mezz'ora…E fagli le mie scuse, capito?»
Quel giorno, Greenwich le ricordava Parigi. Le auto schizzavano sulle gambe dei passanti, i negozi avevano i tendoni a righe blu abbassati e i negozianti osservavano la strada da dietro le vetrine, le facce illuminate da una strana luce verde, tropicale. Pedalava veloce, come se potesse liberarsi della sua ansia pungente espellendola col sudore.
A Lewisham il traffico era intenso, ma le fu facile trovare Brazil Street. I muratori, riparati sotto i ponteggi eretti intorno alla vecchia scuola, la salutarono con fischi di approvazione quando la videro passare in T-shirt e calzoncini. Becky lasciò la bicicletta nel parcheggio del numero 34, accanto alla Peugeot di Bliss. Suonò il campanello e rimase in attesa, ascoltando il ticchettio della pioggia sulla tettoia di plastica.
«Sì?» Bliss batté nervosamente le palpebre quando aprì la porta d'ingresso e se la ritrovò davanti. «Sì? Che vuoi?»
«Joni.» Rebecca si asciugò la faccia e guardò oltre le spalle dell'uomo, nell'appartamento. Un solitario palloncino verde, simile a un fantasma, fluttuava nel corridoio. «È qui? Voglio parlare con Jo…»
«Sì. Ti ho sentito. Cosa ti fa pensare che sia qui? Eh?»
«Non so… Talvolta finisce qui da te… Quand'è sbronza…»
«Hmm…»
«Ascolta, Malcolm…» disse lei, scuotendo la testa, esasperata. «È importante. Sai dov'è andata?»
«Pinky…» mormorò lui, muovendo la lingua sotto le labbra carnose, come se stesse masticando qualcosa. Poi si chiuse bene il cardigan, coprendo lo stomaco prominente, e proseguì: «Sai perfettamente che Joni non ha tempo per me».
«Va bene.» La ragazza sollevò le mani e si girò. Il suo vittimismo la irritava. «D'accordo, scusami. Se la vedi, dille di chiamarmi. È importante.»
Stava per appoggiare il piede sul pedale della mountain bike quando percepì che Bliss, sulla soglia, la stava ancora osservando. Allora sollevò lo sguardo. «Sì?»
«Io…» borbottò lui, lanciando un'occhiata furtiva alla strada, «…io non ho detto che non è qui. Non ho detto questo.»
Rebecca aggrottò le sopracciglia. «Scusa?»
«Hai frainteso quello che ho detto.» Bliss arretrò di un passo e indicò il corridoio. «Sta ancora dormendo. Entra, le dirò che sei qui.»
Rebecca riappoggiò lentamente la bici al muro. Dio mio, Malcolm, sei la persona più stramba che conosca. Davvero. E tornò verso la porta, scuotendo il capo.
Brazil Street era una via residenziale immersa nel verde, fiancheggiata da pruni che, in quel momento, gocciolavano di pioggia. Le case bifamiliari in stile vittoriano ostentavano graziosi vialetti d'entrata e giardini ampi, fitti di cespugli. Con i loro garage privati, le distese di caprifogli e le auto davanti all'ingresso, era facile capire che quelle case appartenevano a solide famiglie della buona borghesia. Jack parcheggiò la Jaguar all'inizio della strada e, con la giacca sopra la testa, seguì il complesso diagramma lasciato dai pneumatici sporchi d'argilla dei camion. Raggiunse così il cancello della Korner-Mackelson, oltre il quale c'erano due betoniere gialle, simili a leoni guardiani, una per parte. Poco più in là si scorgeva una scavatrice JBC con le fiancate piene di fango e rigate dalla pioggia. Il cantiere si estendeva per un centinaio di metri, fino all'angolo dell'edificio scolastico in mattoni rossi, dove svoltava bruscamente e continuava per circa mezzo chilometro lungo il margine dei giardini. Jack si appoggiò alla rete di protezione e osservò i muratori accalcati sotto le impalcature, che fumavano e bevevano caffè dai thermos, in attesa che la pioggia cessasse. Il semplice fatto di essere lì, così vicino a Birdman, forse addirittura prossimo a toccarlo, gli fece aumentare le pulsazioni. Con le prove della Scientifica sarebbe stato facile ottenere un mandato per aprire i file del personale dell'azienda; Marilyn avrebbe potuto confrontarli, mettere in pista HOLMES… Eppure, in quel momento, là sotto la pioggia, Jack gli era vicino. Mai nessuno gli era stato così vicino.
La tentazione, come sempre, era quella di prendere in mano la situazione, di agire subito senza aspettare, senza attenersi agli ordini. Ma Jack sapeva cosa avrebbe rischiato, oltrepassando quella linea. Si staccò dalla rete, si diresse verso la Jaguar, le scarpe e i calzini inzuppati, aprì la portiera, entrò, inserì le chiavi, poi improvvisamente, con un movimento rapido, ridiscese dall'auto.
Raggiunse una Polo verde parcheggiata dietro la sua macchina, e si chinò per osservare il parabrezza. Quindi si raddrizzò, si girò per guardare le automobili vicine e corse a esaminarle una a una: una Volvo, una Corsa e una vecchia Land-Rover.
Tutte erano parcheggiate lì da molto: sul parabrezza e sulla carrozzeria, la pioggia, mescolandosi con la polvere di cemento giunta dal cantiere, aveva formato un'intricata rete di linee.
Jack fece scorrere un dito lungo il bordo della portiera della Polo e lo esaminò per qualche istante, mentre i pensieri si susseguivano rapidi. Poi si voltò e guardò lungo Brazil Street.
La casa era umida e i pavimenti erano appiccicosi. Pareva che Bliss avesse acceso il riscaldamento in quella piovosa giornata quasi estiva. L'uomo era fermo in corridoio e, con le braccia allargate, le bloccò l'accesso alla parte posteriore dell'appartamento.
«No… Da questa parte, da questa parte. In cucina», esclamò, aprendo la porta.
«Va bene. Voglio solo parlare con Joni», rispose lei, facendo un passo per superarlo. «Non mi fermerò a lungo.»
Ma di nuovo l'uomo allargò le braccia. «Sì, sì… Da questa parte, entra, entra.»
Con un sospiro, Rebecca entrò. La cucina era calda e puzzava di latte acido. La condensa gocciolava dalle finestre e bagnava il davanzale punteggiato di mosche morte, che galleggiavano nell'acqua. Su un piccolo tavolo, fiancheggiato da tre sedie, spiccavano pile di piatti sporchi, una tazza di tè e varie scodelle, tutti ricoperti da una polvere fine, cinerea. Altre mosche svolazzavano sul soffitto.
Bliss prese una sedia e iniziò ad armeggiare, infilando il dito nella plastica rotta. «Non va bene, è rotta. Non posso farti sedere su una sedia rotta.» Dopo si mise a frugare in un cassetto. «Ecco qui.» Si voltò, tenendo in mano un nastro da pacchi, e ne cercò l'estremità con le unghie sporche. «Ho sempre avuto difficoltà con queste cose», borbottò, porgendole il rotolo. «Forse tu… Sai, le unghie.»
Rebecca emise un sospiro esasperato. «Dai qua.» Glielo prese di mano e staccò l'inizio del nastro con le unghie fragili, dopodiché glielo restituì. «Allora… Dov'è Joni?»
«Va bene! Va bene!» Bliss riparò velocemente lo squarcio nella sedia, infilò il rotolo nella tasca dei pantaloni e spinse la sedia verso di lei. «Vado! Vado!» Con le mani in alto, in un gesto di resa, uscì dalla stanza. Rebecca scorse la testolina schiacciata dell'uomo dietro la lunetta di vetro smerigliato posta sopra il lavandino. Stava considerando la possibilità di seguirlo in corridoio per fargli fretta, allorché quella strana faccia dalle labbra carnose riapparve al di là della lunetta e le mani si aggrapparono al vetro, facendola trasalire.
«Permetti?» Aprì il vetro di pochi centimetri, infilò il viso nella fessura e indicò il tavolo. «Ti dispiacerebbe passarmi la tazza di tè che le ho preparato? È laggiù, me n'ero scordato.»
«È sveglia?»
«Sì, sì. Ma vuole del tè. La tazza, per favore.»
La ragazza roteò gli occhi. Malcolm, per l'amor del cielo… Gli porse la tazza e lui l'afferrò.
«Grazie. E anche quei biscotti, scusa… Sì, quelli là, se non ti dispiace.» Si passò le mani sulla testa. «Joni è una signorina esigente.»
«Su, dai, Malcolm!» Rebecca gli porse sgarbatamente il pacchetto. «Potresti limitarti a dirle che sono qui, per favore?»
«Certo, certo», rispose lui gentilmente, afferrandole il polso e torcendoglielo con forza.