172614.fb2 Dexter il delicato - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 22

Dexter il delicato - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 22

20

Il poliziotto in divisa condusse i due prigionieri in cella di sicurezza. Nichole raccolse i suoi strumenti e se ne andò, mentre Deborah si sedette, fissando la foto di Bobby Acosta. Vince mi guardò, stringendo le spalle come per dire: “E adesso?”.

— Sei ancora qui? — saltò su mia sorella.

— No, me ne sono andato dieci minuti fa — rispose Vince.

— Fottiti — fece Debs.

— Se mi dai una mano.

— Levati dalle palle, coglione.

Vince si congedò con una delle sue terribili risatine artificiali. Deborah lo guardò allontanarsi. La conoscevo bene, e sapevo che cosa sarebbe accaduto, infatti la cosa non mi sorprese.

— Okay — disse, dopo che Vince era sparito da circa trenta secondi. — Andiamo.

— Oh. — Mi mostrai il più possibile colto alla sprovvista. — Vuoi dire che non intendi aspettare il tuo socio, contrariamente al regolamento e all’ordine del capitano Matthews?

— Porta il culo fuori da questa porta — disse Debs.

— E del mio che ci faccio? — chiese Hood.

— Friggilo. — Deborah saltò su dalla sedia e si diresse verso l’uscita.

— Al tuo socio che cosa gli dico? — fece Hood.

— Digli di informarsi sugli spacciatori di salvia — rispose.

— Forza, Dex.

Mi venne in mente che stavo passando un’incredibile quantità del mio tempo a seguire mia sorella come un cagnolino. Non mi venne in mente, però, come fare a sottrarmi, così lo feci anche stavolta.

Deborah imboccò la Dolphin Expressway, poi puntò verso nord sulla 95. Non fornì altre informazioni, ma non era così difficile capire dove sarebbe andata, quindi, tanto per amor di conversazione, le chiesi: — Hai scoperto un modo per rintracciare Bobby Acosta semplicemente fissando la sua fotografia?

— Già — replicò scontrosa. Il sarcasmo non era mai stato il suo forte. — Praticamente.

— Wow — feci, riflettendo un istante. — L’hai scoperto tramite la lista di nomi del dentista? Di quei tipi con le zanne da vampiro?

Deborah annuì, aggirando un pickup con rimorchio. — Esatto — disse.

— Ma non li hai già verificati insieme a Deke?

Debs mi guardò, il che non mi parve affatto una buona idea, visto che andavamo ai centoquaranta. — Ne manca uno — rispose.

— Ma è quello buono. Lo so.

— Occhio — feci, e Debs tornò a concentrarsi sulla strada appena in tempo per evitare una grossa autocisterna che aveva inspiegabilmente deciso di cambiare corsia.

— Quindi pensi che l’ultimo nome della lista ci permetterà di trovare Bobby Acosta? — chiesi.

Deborah annuì energicamente. — Me lo sentivo fin dall’inizio — disse, spostandosi nella corsia di destra con un solo dito sul volante.

— E allora l’hai lasciato per ultimo?… Deborah! — urlai, mentre un paio di moto ci tagliavano la strada e poi rallentavano in cerca dell’uscita.

— Già — rispose, atterrando nella corsia centrale.

— L’hai fatto per aumentare la suspense?

— L’ho fatto per Deke — replicò. Notai con entusiasmo che finalmente guardava la strada. — È soltanto che… — Esitò per un istante, poi lo disse: — Quel tipo porta iella.

Era da un bel po’ che passavo la vita in mezzo ai poliziotti e mi aspettavo che sarebbe stato così anche in futuro, specie se un giorno mi avessero scoperto. Sapevo dunque che pensieri superstiziosi possono venir fuori nelle situazioni più improbabili ma, nonostante tutto, sentirne parlare mia sorella mi stupì. — Porta iella? — ripetei. — Debs, vuoi che chiami un santero? Magari si mette a sgozzare un pollo e…

— Lo so che può sembrare strano, dannazione — fece lei. — Ma che altro può essere?

Potevano essere un sacco di altre cose e me ne vennero in mente parecchie, ma tacqui per diplomazia.

E Debs continuò. — Okay, forse sono tutte stronzate — disse.

— Ma per questo caso mi serve un po’ di fortuna. C’è un conto alla rovescia in atto e quella ragazza… — Si interruppe come colta da una forte emozione.

La guardai sorpreso. Il sergente di ferro che provava emozioni?

Deborah non si voltò, limitandosi a scuotere il capo. — Sì, lo so — disse. — Non dovrei farmi prendere. È solo che… — Alzò le spalle, irritata, il che mi sollevò. — Ultimamente mi sento un po’… uhm… non saprei. Un po’ strana, ecco.

Ripensai agli ultimi giorni e mi accorsi che aveva ragione: mia sorella si era dimostrata incredibilmente vulnerabile ed emotiva.

— Sì, è vero — osservai. — E come mai, secondo te?

Deborah sospirò profondamente, altra cosa che non faceva spesso.

— Forse… non saprei — rispose. — Chutsky dice che è colpa della coltellata. — Scosse il capo. — Dice che è come la depressione post parto, che ti fa sentir male dopo un evento fortemente doloroso.

Annuii. Un senso ce l’aveva. Recentemente Deborah era stata accoltellata ed era andata così vicina alla morte per dissanguamento che un ritardo di pochi secondi dei soccorsi le sarebbe stato letale. Di sicuro il suo compagno Chutsky di situazioni simili aveva una certa esperienza: prima del suo infortunio era una specie di agente dei servizi segreti e aveva il corpo costellato di cicatrici.

— Comunque — feci — non devi permettere che questo caso prenda il sopravvento su di te. — Mi tenni in guardia, certo che la mia battuta volesse dire un pugno al braccio assicurato, invece ancora una volta Deborah mi sorprese.

— Lo so — mormorò — ma non ci posso fare niente. È solo una ragazzina. Brava a scuola, con una famiglia che le vuol bene… nelle mani di quei cannibali. — Scivolò in un silenzio cupo e riflessivo, in stridente contrasto con la velocità che teneva nel traffico.

— Non è facile, Dexter — disse infine.

— Immagino.

— Forse mi immedesimo nella ragazzina perché la sento vulnerabile come sono io adesso. — Fissava la strada, ma non sembrava vederla davvero, il che mi allarmò lievemente. — E tutto il resto. Non saprei.

Sarà perché stavo vendendo cara la vita su un veicolo scagliato a rotta di collo in mezzo al traffico, ma non riuscii a cogliere dove volesse arrivare. — In che senso, tutto il resto? — chiesi.

— Ah, be’, lo sai — fece, anche se le avevo detto piuttosto chiaramente che non lo sapevo. — La storia della famiglia. Cioè… — Si incupì e mi lanciò un’occhiataccia. — Se ti sfugge una sola fottuta parola con Vince o con altri sul ticchettio del mio orologio biologico, giuro che t’ammazzo.

— Perché, sta ticchettando? — domandai, piuttosto meravigliato.

Deborah mi guardò torva per un attimo poi, fortunatamente per la mia incolumità, tornò a fissare la strada. — Già — disse. — Lo sento. Ho proprio voglia di una famiglia, Dex.

Immagino che avrei dovuto dirle qualcosa di confortante basato sulla mia esperienza: forse che la famiglia è un’istituzione sopravvalutata e i bambini sono soltanto un inquietante mezzo per farci sentire prematuramente vecchi e stupidi. Invece pensai a Lily Anne e all’improvviso desiderai che anche mia sorella avesse una famiglia per provare i miei stessi sentimenti. — Bene — dissi.

— Merda, l’uscita! — esclamò Deborah, immettendosi sulla rampa con una brusca sbandata.

L’atmosfera si dissolse e io persi il senso di quel che volevo dire. Il cartello, che lampeggiava a pochi centimetri dalla mia testa, annunciava che eravamo diretti a North Miami Beach, una zona di abitazioni e negozi modesti che negli ultimi vent’anni non era cambiata molto. Un quartiere insolito per un cannibale.

Al termine della rampa, Deborah rallentò e si infilò nel traffico, anche se continuava comunque ad andare troppo veloce. Guidò per alcuni isolati a est, poi a nord, infine svoltò in una zona composta da sei o sette complessi abitativi in cui i residenti avevano fatto crescere delle siepi per sbarrare le strade d’accesso, lasciando libera soltanto la via principale. In quella parte della città si trattava di una pratica comune per difendersi dal crimine. Nessuno mi aveva mai detto se funzionava.

Entrammo in quella minicomunità e, dopo due isolati, Debs accostò sull’erba, davanti a una modesta casa giallo pastello, e spense il motore. — È questa — disse, lanciando un’occhiata al foglio che teneva sul sedile. — Il tipo si chiama Victor Chapin e ha ventidue anni. L’abitazione è di proprietà della vedova di Arthur Chapin, sessantatré. Lavora in centro.

Osservai la casetta. Era lievemente sbiadita e piuttosto ordinaria. Non c’erano pile di teschi ammonticchiate fuori, né simboli del malocchio dipinti sui muri, nessun segno che indicasse la presenza del male. Una Mustang di una decina d’anni era parcheggiata nel vialetto e tutto sembrava immobile e tranquillo.

— Vive con sua madre? — domandai. — Ai cannibali è permesso?

Debs scosse il capo. — A lui sì — fece, spalancando la portiera.

— Andiamo.

La vidi scendere dalla macchina e dirigersi impettita verso l’ingresso. Ripensai alla volta in cui aveva fatto la stessa cosa e io ero rimasto in macchina ad aspettarla, mentre lei veniva pugnalata. Ci restai male, così mi alzai di scatto e la raggiunsi nel momento in cui suonava il campanello. Dall’interno della casa proveniva una complicata sinfonia, difficile da inquadrare, ma molto drammatica.

— Notevole — commentai. — Mi ricorda Wagner.

Deborah scosse il capo e batté impazientemente il piede sul porticato in cemento.

— Forse sono tutti e due al lavoro — ipotizzai.

— Impossibile. Victor lavora in un locale notturno di South Beach — disse Debs. — Il posto si chiama Zanne. E non apre prima delle undici.

All’improvviso percepii un tremito percorrere il suolo delle mie cupe e remote segrete interiori. Zanne. L’avevo già sentito, ma dove? Sul “New Times”? O in uno dei racconti di Vince Masuoka sulle sue prodezze nei locali notturni? Non riuscivo a ricordarmene e, quando Deborah, rabbiosa, premette un’altra volta il campanello, non ci pensai più.

Dall’interno, la musica crebbe di nuovo, ma stavolta, proprio nel bel mezzo dell’accordo più toccante, si udì qualcuno gridare: — Cazzo! Arrivo! — La sinfonia cessò e pochi secondi dopo la porta si aprì.

Un individuo, che presumibilmente doveva essere Victor Chapin, comparve sulla soglia, scrutandoci ostile. Era magro, alto circa uno e settanta, con i capelli scuri e la barba di qualche giorno. Indossava i pantaloni del pigiama e una canotta da muratore. — Eh, che cavolo! — esclamò aggressivo. — Stavo cercando di dormire!

— Victor Chapin? — domandò Deborah.

Il suo tono da poliziotta dovette averlo colpito, perché si irrigidì all’improvviso e si mostrò un po’ più sulle sue. Si inumidì le labbra con la lingua e per un istante intravidi uno dei canini rivestiti del dottor Lonoff. — Che cosa… perché? — chiese, guardando ripetutamente me e Debs.

— Sei tu Victor Chapin? — ripeté lei.

— Voi chi siete?

Deborah estrasse il distintivo. Chapin capì di che cosa si trattava ancora prima che lei glielo mostrasse ed esclamò: — Cazzo! — tentando di sbatterci la porta in faccia.

Per puro istinto, infilai il piede in mezzo e la porta rimbalzò, finendogli in faccia. Chapin si voltò e corse verso il retro della casa.

— L’uscita posteriore! — gridò Deborah, precipitandosi a fare il giro della casa. — Tu resta qui! — E scomparve dietro l’angolo.

Sentii una porta sbattere in lontananza, Deborah che urlava a Chapin di fermarsi, poi più nulla. Ripensai di nuovo a quando mia sorella era stata accoltellata e al senso di vuota impotenza che avevo provato su quel marciapiede, mentre la vita lentamente l’abbandonava. Debs non aveva modo di sapere se Chapin si fosse davvero diretto verso l’uscita posteriore. Avrebbe potuto benissimo entrare in cerca di un lanciafiamme. E ora avrebbe potuto attaccarla.

Diedi una sbirciata all’interno, ma era scuro e non si vedeva niente, né si udivano suoni, a eccezione del ronzio del condizionatore.

Uscii e aspettai. Aspettai ancora. Continuava a non succedere nulla, né si sentivano rumori. Poi percepii una sirena in lontananza. Un aereo che mi volava sulla testa. Da qualche parte, lì intorno, qualcuno accordava una chitarra e si metteva a suonare Abraham, Martin and John.

Proprio quando avevo deciso che non avrei più aspettato e che sarei andato a dare un’occhiata, udii una voce petulante levarsi dal prato di fianco: comparve Victor Chapin, con le braccia ammanettate dietro la schiena, e Deborah dietro che lo sospingeva verso la macchina. Il ragazzo aveva il pigiama macchiato d’erba sulle ginocchia e metà della faccia paonazza. — Non puoi… cazzo… un avvocato… merda! — borbottava.

Non so se si trattasse di un parlare smozzicato in voga tra i cannibali, ma Deborah non si lasciò impressionare. Si limitava a spingerlo avanti e, mentre mi affrettavo a raggiungerla, mi accorsi che negli ultimi tempi non l’avevo mai vista così soddisfatta.

— Ma cazzo! — Stavolta Chapin si rivolgeva a me.

— Eh, già — lo assecondai.

— Cazzo! — urlò.

— Sali in macchina, Victor — disse Deborah.

— Non potete… ma come! — fece. — Dove mi volete portare?!

— All’istituto di detenzione — rispose lei.

— Non potete… cazzo — protestò.

Mia sorella sorrise. Non ho incontrato molti vampiri, ma credo che il suo sorriso fosse più inquietante di tanti succhiasangue messi insieme. — Victor, scappando hai opposto resistenza a un pubblico ufficiale. Quindi vuol dire che, cazzo, posso portarti via — disse. — E lo farò, cazzo, e tu risponderai per me ad alcune cazzo di domande altrimenti non vedrai la luce del sole per un bel po’.

Il ragazzo aprì la bocca e trasse un respiro. All’improvviso i suoi canini lucenti non mi parvero poi così minacciosi. — Quali domande? — volle sapere.

— Sei andato a qualche bel party, ultimamente? — gli chiesi.

Ho sentito spesso parlare, e ho anche letto, di quando il sangue non arriva più alla testa, ma era la prima volta che assistevo di persona a tale fenomeno, eccezion fatta per quel che capitava durante il mio hobby segreto. Victor si fece più pallido della sua canottiera e, prima che Debs facesse in tempo a lanciarmi un’occhiataccia perché avevo parlato senza il suo consenso, esclamò: — Giuro su Dio che non ne ho mangiata neanche un po’!

— Di che cosa, Victor? — chiese amabilmente Deborah.

Ora Victor tremava e agitava la testa su e giù. — Mi ammazzeranno — mormorò. — Cazzo se mi ammazzeranno, Gesù santo.

Deborah mi rivolse un rapido sguardo carico di gioioso trionfo. Poi posò una mano sulla spalla del ragazzo e lo sospinse gentilmente verso la macchina. — Sali, Victor — disse.