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Fu così che poche ore più tardi mi ritrovai seduto nell’auto di Deborah a osservare l’ingresso di Zanne. In principio, non c’era molto da vedere. La gente usciva poco per volta, alla spicciolata, per poi vagare in strada o allontanarsi in macchina. Per quanto mi risultò, nessuno si trasformò in pipistrello o volò via su una scopa. Non fummo notati: Deborah aveva spostato l’auto in un angolo buio dall’altra parte della strada, all’ombra di un furgoncino parcheggiato sul marciapiede. Debs non aveva molto da dire, e io ero ancora troppo seccato per far conversazione.
Il caso era di Deborah, l’intuizione pure, ma il lavoro sporco toccava a me. Lo consideravo un gesto stupido, ma per il mero fatto di essere suo fratello, tra l’altro pure adottivo, dovevo essere io a compierlo. Non ne faccio una questione di giustizia, benché in materia ne sappia qualcosa. Ma vi pare che tutto ciò abbia un senso? Nella vita e nel lavoro mi impegno seriamente per integrarmi, per rispettare le regole e fare il bravo ragazzo. Eppure, quando la miccia sta per esplodere, nei paraggi ci sono sempre io.
Comunque continuare a discutere era inutile. Se mi fossi rifiutato di introdurmi nel club, l’avrebbe fatto Deborah al mio posto, e quel che mi aveva detto era vero; in quanto rappresentante della legge, se l’avessero scoperta sarebbe finita in galera, mentre io sarei stato soltanto assegnato al servizio civile, con l’obbligo di raccogliere l’immondizia nel parco o di insegnare a sferruzzare ai giovani dei quartieri degradati. L’immagine di Deborah in rianimazione era troppo vivida nella mia mente per permetterle di correre qualsiasi rischio… Scommetto che lei aveva calcolato anche quello. Fu così che toccò a Dexter entrare in ballo.
Poco prima dell’alba, l’insegna del locale si spense e uscì un sacco di gente, tutta insieme, poi per mezz’ora non successe nulla. Dalla parte dell’oceano, il cielo si fece luminoso e un uccello cinguettò, ignaro. Il primo sportivo comparve a fare jogging su Ocean Drive, sorpassato dal camion dell’immondizia. Infine il portone scuro si spalancò e ne uscì Lurch, seguito dai due buttafuori, da Bobby Acosta e da un paio di scagnozzi mai visti prima. Pochi minuti dopo comparve anche Kukarov, che chiuse il portone e saltò su una Jaguar parcheggiata mezzo isolato più avanti. L’auto si mise subito in moto, contraddicendo tutto quel che avevo sentito dire su quel tipo di macchine, e Kukarov si allontanò oltre l’alba, dove l’attendeva una nuova, piacevole giornata di sonno, giù nella cripta, tra le braccia della sua Morticia.
Guardai Deborah che scosse il capo, allora aspettai un altro po’. Uno sprazzo di luce aranciata spuntò sull’oceano e all’improvviso si fece giorno. Passarono tre giovani in costume da bagno che parlavano tedesco, diretti alla spiaggia. La visione del sole nascente mi ispirò una certa dose di ottimismo; mi convinsi di avere una possibilità su tre che quello non sarebbe stato il mio ultimo giorno sulla terra.
— Okay — disse infine Deborah. — È ora.
Osservai il locale. Che fosse ora a me non sembrava affatto. Forse poteva essere ora di andare a dormire, ma certamente non di entrare nella tana del mostro, non con tutta quella luce, almeno. Dexter si muove nelle tenebre, nel buio e nel fioco chiarore della luna, e non alla luce del sole. Ma, come al solito, non avevo scelta.
— Potrebbe esserci qualcuno là dentro. Una guardia, o simili — fece Debs. — Fa’ attenzione.
Non trovai la sua raccomandazione degna di risposta, così mi limitai a inspirare e a richiamare in me l’oscurità, per prepararmi.
— Il cellulare ce l’hai, no? — continuava. — Se ci sono problemi, o se la trovi e lei è sorvegliata, chiama il 911 ed esci di lì. Dovrebbe essere semplice.
— Non proprio come restarsene in macchina — replicai. Ero piuttosto scocciato, lo ammetto. Come se non bastasse, Debs non se ne stava a bocca chiusa. Come fa una persona a evocare il suo Passeggero se gli altri intorno continuano a chiacchierare?
— Bene — concluse. — E, mi raccomando, sta’ attento, okay?
Visto che il discorso non accennava a finire, misi una mano sulla portiera e dissi: — Andrà tutto bene, ne sono certo. Che cosa potrebbe mai succedermi di male nell’introdurmi in un covo di vampiri e cannibali che hanno già rapito e ammazzato diversa gente?
— Cristo, Dexter — fece Debs, ma io non ebbi pietà.
— Dopo tutto, ho un cellulare — continuai. — Se mi prendono, li minaccerò con un SMS.
— E va bene, cazzo — sbottò lei.
Spalancai la portiera. — Apri il bagagliaio — dissi.
Sbatté le palpebre. — Come?
— Apri il bagagliaio della macchina — ripetei.
Debs tentò di piazzare altre parole, ma io ero già in piedi, lì davanti. Appena sentii lo scatto, spalancai il bagagliaio, recuperai il grosso cacciavite del kit per smontare gli pneumatici e me lo infilai in tasca, coprendo il manico sporgente con la camicia. Richiusi il tutto e raggiunsi Deborah, che aveva abbassato il finestrino.
— Addio, sorellina — feci. — Di’ alla mamma che sono morto da eroe.
— Cristo santo, Dexter — saltò su lei.
Attraversai la strada e l’abbandonai alle sue concitate imprecazioni.
A essere sincero, sperai davvero che sarebbe stato semplice come sosteneva Deborah. Per uno dotato delle mie modeste abilità, entrare non rappresentava un problema. Durante il mio innocente hobby, mi ero introdotto in posti molto meno accessibili e per di più abitati da mostri veri, non da quei freak conciati come se fosse Halloween, con il mantello nero neanche andassero all’opera e i denti finti. Con la luce del giorno che ora illuminava South Beach, proprio non riuscivo a prendere sul serio le loro festicciole adolescenziali.
Sorprendentemente, non riuscivo neppure a entrare in collegamento con il Passeggero. Avevo un incredibile bisogno dei suoi avvertimenti e dell’invisibile cappa di oscurità che solo lui era in grado di fornirmi, ma, nonostante la sua rapida comparsata poco prima nel club, doveva essere ancora offeso. Mi fermai sul lato opposto della strada e chiusi gli occhi, poggiai la mano su un palo del telefono e pensai: Pronto? Ce qualcuno in casa? Qualcuno c’era, ma sembrava non gradire visite; percepii un lento e leggero frullio d’ali, come se si stesse sgranchendo gli arti in attesa di quel che sarebbe successo. Avanti, pensai. Ancora nulla.
Aprii gli occhi. Un camion percorreva Ocean Drive, con la radio che trasmetteva salsa a tutto volume. Ma fu l’unica musica che sentii. A quanto pareva, avrei dovuto cavarmela da solo.
E va bene, allora: quando il gioco si fa duro eccetera. Mi infilai le mani in tasca e mi misi a passeggiare intorno all’edificio, cazzeggiando senza meta. Caspita, che palme. Nell’Iowa palme così non se ne vedono. Perbacco.
Feci il giro del palazzo, guardandomi intorno sbalordito. A quanto sembrava, il mio Innocente Vagabondare era passato inosservato, ma un po’ di pignoleria non fa mai male, così continuai a fare il turista per altri cinque minuti. L’edificio occupava l’intero isolato. Lo esaminai da tutti i lati. Il punto debole era palese: in un vicolo, dalla parte opposta all’ingresso, c’era un cassonetto. Accanto notai una porta che senza dubbio conduceva alla cucina del club. Era nascosta alla vista, a meno che uno non si trovasse nel bel mezzo del vicolo.
Infilai la mano destra in tasca e “accidentalmente” feci cadere una manciata di monete sul marciapiede. Mi fermai a raccoglierle, guardandomi intorno da ogni parte. Sempre che non ci fosse qualcuno sul tetto con un binocolo, non mi aveva visto nessuno. Abbandonai a terra trentasette centesimi e scivolai rapido nel vicoletto. Lì era molto più buio, ma il Passeggero non si fece vedere comunque, così mi affrettai tutto solo verso il cassonetto. Esaminai l’ingresso posteriore. Era dotato di due scoraggianti chiavistelli senza scatto. Con un po’ più di tempo a disposizione e i miei attrezzi da scasso, avrei potuto aprirli agevolmente, ma avevo con me solo il cacciavite, inutile allo scopo. La porta era fuori questione. Avrei dovuto inventarmi un altro ingresso, seppur meno signorile.
Osservai il palazzo: proprio sopra alla porta c’era una fila di finestre, a un metro e mezzo circa l’una dall’altra, che correva per tutto il lato dell’edificio. La seconda alla mia sinistra era facilmente raggiungibile dalla cima del cassonetto; una persona agile avrebbe potuto issarsi e infilarcisi senza troppa difficoltà. Nessun problema: Dexter è destro, e se fosse riuscito ad aprire la finestra non avrebbe avuto problemi.
Il cassonetto aveva due coperchi affiancati, e uno dei due era spalancato. Poggiai entrambe le mani su quello chiuso… e qualcosa balzò fuori dall’apertura strillando orribilmente e mi passò rapido vicino alle orecchie. Mi bloccai, paralizzato dal terrore, finché non mi accorsi che si trattava di un gatto. Era spelacchiato, sudicio e malridotto, ma atterrò poco più in là, inarcando la schiena e soffiando in perfetta posa da Halloween. Mi guardai alle spalle e per un istante pensai che nel locale avessero rimesso la musica, invece era solo il martellare del mio cuore. Mentre il gatto si allontanava dal vicolo, trassi un profondo sospiro e mi arrampicai sul cassonetto. Il Passeggero fece una blanda comparsa, giusto per rivolgermi una risatina sarcastica.
Ci misi un momento per riprendermi, poi, per sicurezza, guardai all’interno. Sembrava contenere soltanto spazzatura, il che mi fece parecchio piacere. Mi piazzai sul lato chiuso e, dopo aver controllato ancora una volta che non passasse nessuno, mi issai verso la finestra a ghigliottina. La toccai e sbatacchiò leggermente. Buona notizia: voleva dire che non era inchiodata o sigillata da anni di pittura approssimativa.
Dalla mia posizione, non riuscivo a vedere l’infisso superiore, ma a quanto pareva la finestra doveva essere priva di allarmi. Un’altra buona notizia, che comunque non mi sorprese troppo. Molti locali risparmiano un sacco di soldi illudendosi che i tentativi di effrazione possano verificarsi solo al piano terra. Quindi anche i vampiri possono essere tirchi, pensai, e la cosa mi fece sorridere.
Cercai di estrarre dalla tasca il cacciavite, e per poco non mi cadde. Avrebbe colpito il coperchio del cassonetto con un fracasso sufficiente a svegliare l’intero vicinato. Avevo le mani bagnate di sudore. Questa era un’esperienza nuova; prima ero sempre stato freddo e razionale, ma dopo il risentimento del Passeggero e l’agghiacciante apparizione del gatto ero diventato incredibilmente ansioso. Sudare era comprensibile: eravamo a Miami. Ma sudare di paura? Proprio il Diabolico e Depravato Dexter, il Re del Disincanto? Non era affatto un buon segno. Feci un’altra pausa, prima di allungarmi e infilare il cacciavite tra la finestra e l’infisso.
Spinsi il manico verso il basso, prima con delicatezza, poi sempre più forte, visto che la finestra non accennava ad aprirsi. Non volevo spingere troppo violentemente, per non staccare l’infisso e rompere il vetro, altrimenti avrei fatto molto più fracasso di una dozzina di cacciaviti contro il coperchio del cassonetto. Andai avanti per una decina di secondi, aumentando gradualmente la pressione, e proprio mentre stavo pensando di studiare qualcos’altro, la finestra si aprì verso l’alto con uno scatto secco. Mi fermai per un istante, l’orecchio teso verso eventuali movimenti o sirene d’allarme. Nulla. Allora mi tirai su, scivolai all’interno e richiusi la finestra alle mie spalle.
Mi guardai intorno. Mi trovavo in un corridoio che alla mia sinistra terminava sulla strada e a destra svoltava ad angolo. Lungo il corridoio c’era una porta. Aveva il chiavistello, ma nessuna maniglia. La spinsi con delicatezza e si aprì. La stanza era completamente buia, ma dal debole odore di Lysol e di urina che si percepiva nell’aria, sospettai di trovarmi in un bagno. Entrai, chiusi la porta e, tastando la parete, trovai un interruttore. Lo tirai su. Si trattava infatti di un piccolo bagno, dotato di lavandino, wc e armadio a muro. Per amor di precisione, l’aprii e la cosa più inquietante che vidi furono i rotoli di carta igienica. Nello stanzino non c’era nient’altro, meno che mai un posto dove nascondere un corpo, vivo o morto che fosse, così spensi la luce e uscii.
Avanzai circospetto verso il punto in cui il corridoio faceva angolo, infine mi fermai e mi guardai furtivamente intorno. Era tutto vuoto e illuminato da un’unica lampada di emergenza situata sopra una porta socchiusa. Notai altre due porte e, al fondo del corridoio, una rampa di scale in discesa.
Svoltai l’angolo e mi avvicinai al primo ingresso alla mia sinistra. Girai il pomello lentamente e con cautela. Il battente si schiuse. Entrai, chiudendo ancora una volta la porta alle mie spalle, e tastai sulla parete in cerca dell’interruttore. Lo azionai. La luce era ancora più fioca di quella d’emergenza nel corridoio, ma capii di essere finito in una sala privata per le feste. Sulla parete di sinistra c’era un televisore a schermo piatto e contro quella di destra un divano lungo e basso con davanti un tavolino. Alle spalle del divano scorsi un bancone ricoperto di marmo verdastro, dotato di un piccolo frigobar. La parete di fronte a me era coperta da un lungo drappo di velluto rosso.
Raggiunsi il bancone. C’erano alcune bottiglie, ma al posto dei bicchieri vidi una rastrelliera colma dei becher che si usano in laboratorio. Ne presi uno. Era in pyrex e su un lato era stampigliato a lettere d’oro: PRIMA BANCA NAZIONALE DEL SANGUE.
Scostai il drappo rosso dalla parete. Dietro c’era una porta. La aprii, tenendo sollevato il drappo per vedere all’interno. Era un semplice stanzino con il necessario per le pulizie: scopa, spazzolone, secchio e una borsa piena di stracci. Richiusi e abbassai il drappo.
Lungo il corridoio, la porta successiva era alla mia destra, sotto la luce d’emergenza. Era chiusa, così rimandai e mi diressi verso quella di sinistra. Mi infilai all’interno e trovai un’altra sala privata per le feste, una sorta di duplicato della prima.
Rimaneva soltanto la porta chiusa. Il buonsenso mi suggeriva che sono le cose più preziose a venir chiuse a chiave, ma anche che il chiavistello era bello resistente e che per aprirlo avrei lasciato chiare tracce del mio passaggio, e magari fatto scattare qualche allarme. Mi domandai se volevo restare invisibile o se, una volta salvata Samantha Aldovar, non avesse importanza che qualcuno sapesse della mia venuta. Con Deborah non ne avevamo parlato, e ora l’argomento stava assumendo una certa importanza. Ci ragionai su e stabilii che ero venuto fin lì per trovare Samantha e che dovevo cercarla ovunque, soprattutto nei posti in cui mi veniva impedito di guardare, per esempio dietro a questa porta chiusa.
Così mi feci coraggio e provai a forzare il battente con il cacciavite. Cercai di procedere con calma per lasciare il minor numero di segni possibile, ma alla fine fui più attento a non far rumore che a non danneggiare lo stipite in legno. Quando infine riuscii a spalancare la porta facendo leva con il cacciavite, sembrava che fosse stata presa a morsi da un branco di castori rabbiosi. In ogni caso si era aperta, ed entrai.
Per quanto potesse custodire chissà quali reconditi segreti, quella stanza avrebbe sconfortato chiunque, a parte un contabile. Senza dubbio doveva essere l’ufficio amministrativo del club; c’era una grande scrivania in legno, un computer e un mobile portadocumenti a quattro cassetti. Il computer era rimasto acceso; mi sedetti ed esaminai rapidamente i dati sull’hard-disk. C’erano alcuni file gestionali che dimostravano che i profitti del locale erano buoni, alcuni documenti di Word, lettere standard indirizzate a membri attuali e futuri del club. C’era un file discretamente pesante denominato Sabba.wpd protetto da un programma di sicurezza così vecchio che per decriptarlo mi sarebbero bastati due minuti. Ma io non li avevo, quindi mi limitai ad ammirare la loro ingenuità e proseguii.
Non c’era nulla che rivestisse il più lontano interesse, nessun file chiamato Samantha.jpg o qualcosa di simile che mi rivelasse dove lei si trovava. Controllai rapidamente nei cassetti della scrivania e nel mobile portadocumenti, e di nuovo non trovai nulla.
Perfetto: avevo sfasciato lo stipite della porta senza motivo. Non è che mi sentissi in colpa, ma avevo perso un bel po’ di tempo e dovevo cominciare a pensare di concludere la missione e uscire di lì. Sarebbero potuti arrivare gli addetti alle pulizie, oppure Kukarov ad ammirare lo stipite d’ingresso del suo ufficio.
Uscii, tirando la porta, e mi diressi verso le scale. Ero abbastanza sicuro che non fosse il caso di controllare la zona riservata al pubblico. Era praticamente impossibile che tutti gli invitati alla festa fossero cannibali: centinaia di persone non sarebbero state in grado di mantenere un simile segreto. Dunque, se Samantha si trovava davvero lì dentro, doveva essere in una zona inaccessibile ai più.
Per questo scesi le scale e attraversai la pista da ballo senza fermarmi a guardare in giro. Nel retro, dietro a quell’area sopraelevata in cui Bobby si era piazzato con la sua coppa, c’era un breve corridoio. Lo percorsi. Conduceva all’ingresso posteriore, che avevo notato dal vicolo, e alle cucine, che non avevano nulla di interessante. C’erano un piccolo fornello, un forno a microonde, un lavandino con una rastrelliera metallica per appendere le pentole e molti, splendidi coltelli. Dall’altra parte della stanza vidi una grande porta metallica che sembrava condurre a una cella frigorifera. E poi nient’altro, neanche una dispensa chiusa a chiave.
Per appagare la mia smania di perfezionismo, mi diressi verso la cella frigorifera. C’era una spessa finestrella di vetro, ad altezza occhi e, con mia sorpresa, notai una luce all’interno. Incuriosito dal fatto che a porta chiusa le luci non fossero spente, schiacciai il naso contro il vetro e sbirciai dentro.
La cella era larga circa un metro e ottanta e lunga due e mezzo. Sui lati c’erano file di scaffali, la maggior parte colmi di grossi barattoli, mentre, contro la parete posteriore, vidi un oggetto piuttosto strano per essere conservato in un frigorifero: una vecchia branda.
Cosa ancora più strana, la branda era occupata. Seduto in silenzio e avvolto in una coperta, c’era un fagotto con la forma di una giovane donna. Teneva la testa china e non si muoveva, ma quando la guardai, alzò lentamente il capo, come se fosse esausta o drogata. I nostri occhi si incontrarono.
Era Samantha Aldovar.
Senza pensarci un istante, afferrai la maniglia e tirai. Anche se dall’esterno la porta non era chiusa a chiave, dall’interno non si poteva aprire. — Samantha — dissi. — Va tutto bene?
Mi sorrise stancamente. — Alla grande — rispose. — È ora?
Non avevo idea di che cosa intendesse, così non ci feci caso. — Sono qui per salvarti — spiegai. — Per riportarti a casa dalla tua famiglia.
— Perché? — chiese. Non c’era dubbio, era proprio stata drogata. Il che aveva un senso: le droghe l’avrebbero tenuta tranquilla, alleggerendo il lavoro di sorveglianza. Ma voleva anche dire che mi sarebbe toccato trascinarla fuori di lì suo malgrado.
— D’accordo — dissi. — Solo un secondo. — Mi guardai intorno in cerca di qualcosa per tenere aperta la cella e scelsi un pentolone da una ventina di litri appeso sopra il fornello. Lo sistemai tra la porta e lo stipite e rientrai.
Avevo fatto appena due passi, quando mi accorsi di qual era il contenuto dei barattoli che affollavano gli scaffali dell’enorme frigorifero.
Sangue.
Barattolo dopo barattolo, litro dopo litro, erano colmi di sangue. Li scrutai per un lungo istante e loro ricambiarono il mio sguardo. Non riuscivo a muovermi. Poi trassi un profondo respiro e la realtà tornò a fuoco. In fondo si trattava di un semplice fluido, simpaticamente messo sotto chiave dove non avrebbe potuto nuocere a nessuno. La cosa fondamentale era portare Samantha fuori di lì. Così avanzai verso la branda e la guardai.
— Forza — dissi. — Torniamo a casa.
— Non mi va.
— Lo immagino — l’assecondai, pensando che fosse palesemente preda della sindrome di Stoccolma. — Andiamo. — La presi per la vita e la feci scendere dalla branda. Non oppose resistenza.
Le misi un braccio intorno alla mia spalla e l’accompagnai alla porta, verso la libertà.
— Un secondo — disse confusamente. — Il portafogli. Sul letto. — Indicò la branda e mi tolse la mano dalla spalla per appoggiarsi allo scaffale.
— Okay. — Tornai alla branda, abbassando lo sguardo. Non vidi nessun portafogli… ma udii uno strano sferragliare. Quando mi voltai, Samantha aveva sferrato un calcio al pentolone da venti litri e la porta della cella frigo si stava chiudendo. — Ferma! — La mia esclamazione apparve più stupida di quanto non lo fosse in realtà.
Dovette averlo pensato anche Samantha, perché non si fermò e, prima che riuscissi a raggiungerla, la porta si era chiusa e lei mi fissava con un’espressione di stordito trionfo. — Te l’avevo detto che non volevo tornare a casa.