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Decisi che un aperitivo prima di pranzo non mi avrebbe fatto male, e poi, in ogni modo, dovevo parlare con Cass. Attraversai diagonalmente la strada verso il suo locale, ma subito ricordai che era troppo presto. Cass non ha baristi, e di conseguenza non apre mai prima della una. D’altra parte, non sono molti a Mayville quelli che bevono la mattina. Senza baristi, gli tocca lavorare dodici ore al giorno, ma lui dice che non gliene importa; si sente perfettamente al suo posto dietro al banco, dice. E, specialmente fuori stagione, non sempre apre in orario o tiene aperto il locale fino alla una del mattino. Se c’è poco da fare, o se gli capita di averne voglia, abbassa le saracinesche, espone il cartello di «Chiuso» e se ne va.
Cass è tanto indipendente quanto cordiale. Lo avevo imparato una sera, quando ero a Mayville da una settimana o poco più. Si era dato il caso che alle sette fossi il solo cliente del bar. Egli stava cantando, ma improvvisamente aveva detto: «Oh, al diavolo! Che ne direste di una corsa in macchina con me fino a oltre il confine, Bob? Preferisco pagarvi da bere piuttosto che versarvelo.»
«Parlate sul serio?» avevo chiesto. «Più tardi arriveranno altri clienti.»
«Certo che parlo sul serio. I clienti se ne possono andare da qualche altra parte.»
Non mi ero lasciato scappare l’occasione, perchè mi piaceva la sua compagnia e perchè non ero mai stato oltre il confine e desideravo di andarci.
Cass era in vena di parlare quella sera. Dopo un poco avevo incominciato a sospettare che mi avesse portato fuori dal suo bar per potersi sfogare con me senza correre il rischio di essere interrotto dall’ingresso di qualche altro cliente. Ma non me ne importava: quello che aveva da raccontarmi di sé era così interessante che mi andava l’idea di lasciarlo sfogare.
Aveva imparato a cantare, immaginate un po’, in una fattoria della Florida. A venticinque anni, aveva accettato il posto con l’intenzione di fermarsi solo pochi mesi, ma il lavoro e la compagnia gli erano piaciuti tanto che era rimasto per sette anni.
La fattoria era di proprietà di un certo Luigi Vitelli, un ex cantante d’opera che qualche anno prima l’aveva comperata per ritirarcisi a vivere. Aveva cantato per nove anni al Metropolitan, sempre in ruoli secondari, mai come protagonista, perchè la sua voce non glielo avrebbe permesso. Ma conosceva ogni nota di quasi tutte le opere e aveva un numero incalcolabile di spartiti. La moglie di Vitelli, Elsa, una tedesca, non aveva mai cantato sul palcoscenico, ma aveva una discreta voce da contralto ed era in grado di suonare il piano leggendo a prima vista.
«Soltanto noi tre abitavamo là, e tutte le sere c’era riunione musicale. Fin dalla prima sera Vitelli si accorse che avevo una bella voce naturale e un buon orecchio, la prima è inutile senza il secondo, e viceversa, e cominciò a darmi lezioni. Era una cosa che mi piaceva. E anche i Vitelli mi erano simpatici; dopo meno di un anno, ero diventato per loro qualcosa di simile a un figlio. E assieme alla musica mi insegnavano le lingue, quelle in cui vengono cantate quasi tutte le opere. Ci accorgemmo che per queste avevo una certa qual attitudine naturale.
«E durante questi sette anni Vitelli migliorò persino il mio inglese. Non che fosse malvagio; avevo frequentato la scuola media superiore. Ma il suo inglese era perfetto, ed egli correggeva con lo stesso entusiasmo ogni mio errore di pronuncia e ogni mia nota sbagliata.
«Credo che quei sette anni siano stati i migliori della mia vita. Ma nulla dura in eterno. Vitelli morì. Elsa vendette la fattoria, ed io rimasi con lei fino all’ultimo giorno. Quando tornò a New York, voleva che la accompagnassi. Ma io avevo sempre desiderato di andare nell’Ovest, e mi parve che fosse il momento più indicato per farlo.
«Avevo da parte qualcosa. Non guadagnavo molto alla fattoria, ma nemmeno spendevo molto, e così ero riuscito ad accantonare più di un migliaio di dollari. Dovevo decidermi. Mi sarebbe piaciuto cantare. Non nell’opera. Malgrado le lezioni di Vitelli, sapevo che non sarei mai riuscito a tanto, e poi avevo trentadue anni, ed è troppo tardi per tentare una carriera drammatica se non si è già avuto modo precedentemente di esibirsi in pubblico.
«Pensai che forse sarei riuscito a cavarmela in un locale notturno o in una piccola orchestra. Non che il jazz, la musica popolare o le ballate mi interessassero particolarmente, ma sapevo di essere in grado di sbrigarmela. Se si canta musica operistica si può cantare qualsiasi cosa. Così presi un treno e partii per San Francisco.
«Il mio primo posto fu di cameriere-cantante in un locale che cercava di imitare il Bowery in tutto fuorché nei prezzi. Erano di prammatica le vecchie canzoni. E ottenni un grande successo. In confronto agli altri miei colleghi, sembravo Caruso che cantasse con ragazzi alle prime armi. Avevo una voce migliore allora, più piena. Cominciai a ricevere offerte e ad accettarle. In genere si trattava di posti in locali notturni. A costo di rimetterci, sceglievo sempre quelle sale dove l’orchestra non era troppo rumorosa o jazzistica. Il mio cavallo di battaglia erano i pezzi già vecchi, come Night and Day per esempio. Potevo riempire una sala con una canzone del genere, e i clienti smettevano di chiacchierare e ascoltavano.
«Lavorai a San Francisco per cinque anni. Poi, per un poco, a Las Vegas. Poi fu la volta di Los Angeles. Me la cavavo bene. Non sfondavo nel vero senso della parola, non guadagnavo cifre favolose, ma era raro che dovessi aspettare molto fra una scrittura e l’altra.»
Ma poi, improvvisamente, era successo qualcosa. Lo aveva colpito una malattia alla gola. Da principio avevano pensato a un cancro alla laringe, e in questo caso sarebbe stato spacciato. Era risultato invece che si trattava di una escrescenza benigna, ma avevano dovuto operarlo per asportarla. E questo significava che non doveva più cantare per un poco. Forse per sempre. E l’operazione, più il periodo di inattività precedente e seguente, avevano intaccato in maniera preoccupante i suoi risparmi.
Appena aveva avuto di nuovo voce sufficiente per parlare, era andato a Las Vegas a cercare lavoro. Aveva trovato un posto di croupier in una sala da gioco e lo aveva tenuto per cinque anni. Intanto la voce gli era tornata, ma non era più quella di prima, ed egli aveva deciso di considerare chiusa la sua carriera di cantante professionista. Aveva ormai quarantacinque anni, e stava diventando un po’ troppo vecchio per esibirsi nei locali notturni.
«Ero a questo punto, quattro anni fa, quando ho conosciuto a Las Vegas un tale di Mayville che era venuto là in vacanza e che mi ha detto di essere disposto a vendere il bar di cui era proprietario. Avevo il denaro appena sufficiente per assicurarmelo, sto ancora finendo di pagare la licenza. Sapete quanto costa una licenza in questo Stato? Una vera licenza per bar, non quella per vino e birra soltanto?»
Avevo risposto: «Se non mi sbaglio costa piuttosto cara, fino a trentamila dollari e più nelle grandi città.»
«Precisamente. E non molto di meno in quelle piccole. Bisogna lavorare quasi cinque anni senza utili solo per pagare quella dannata licenza. Comincio solo ora a essere in attivo. E lavoro duro, salvo una volta ogni tanto, come stasera.»
Avevo chiesto: «Non renderebbe avere un barista e aprire più presto? Voi, potreste venire solo alle cinque o alle sei.»
«Ho provato quando ho aperto. Avevo un barista che veniva alle nove e si fermava fino alle cinque. Ma mi sono accorto che arrivavo anch’io quasi sempre nelle primissime ore del pomeriggio, e, a conti fatti, il lavoro della mattina e del mezzogiorno non bastava neppure a coprire il suo stipendio. E così da allora me la sono sbrigata da solo.»
«Ma non perdete clienti… clienti locali, bene inteso… se non si può mai essere sicuri che sarete aperto a una data ora?»
«Sono aperto nove volte su dieci, e la media mi sembra più che sufficiente. Se sono affezionati al mio locale, ci torneranno anche se trovano chiuso una volta ogni tanto. In caso contrario, che vadano all’inferno. Guadagno abbastanza da vivere anche così. E poi, quando il mio locale è aperto, ci devo essere io dietro al banco, non qualcun altro.»
Avevo capito il suo punto di vista ed avevo rinunciato a discutere.
Così, non potevo essere sicuro che il bar di Cass fosse aperto alla una, ma potevo essere sicuro che non sarebbe stato aperto prima. Non si faceva mai vedere prima della una.
Mi diressi allora nella direzione opposta, al Gabbiano, il locale dove avevo avuto il mio primo appuntamento con Doris, l’unico posto dove fosse possibile mangiare e bere sotto lo stesso tetto. Era anche il miglior ristorante della città, e per questo, con il mio stipendio, non andavo quasi mai a mangiare là da solo, nemmeno per pranzo.
Ma quel giorno feci una eccezione, perchè sapevo che Amy aveva mangiato là, almeno occasionalmente.
Passai dal bar alla sala da pranzo. Avevo sempre voglia di un aperitivo, ma al Gabbiano il barista cominciava a lavorare solo a pomeriggio inoltrato. Così, se avete voglia di bere qualcosa prima delle cinque, è George Mitkos, il proprietario, che va dietro al banco a servirvi. Quando la cameriera mi presentò la lista, la pregai di chiedere a Mitkos di prepararmi un whisky e acqua. Mi avrebbe servito personalmente al tavolo, e in questo modo io avrei avuto la possibilità di parlargli.
Conoscevo poco Mitkos, e non sapevo gran che di lui. Greco di origine, era un americano di seconda generazione. Fra i quaranta e i cinquanta, piccolo, massiccio, sempre sorridente, era quasi fin troppo gentile, almeno per l’Arizona. Aveva aperto il Gabbiano sei o sette anni prima, con il denaro risparmiato lavorando come chef a Los Angeles.
Venne accanto al mio tavolo e mi fece scivolare il bicchiere davanti. «Signor Snitkin! E come sta la vostra bella e giovane signorina?»
«È più bella che mai,» risposi. «Sentite, George, volete chiamarmi Bob invece che Snitkin, tanto più che mi chiamo Spitzer, e sedervi un momento? Vorrei rivolgervi qualche domanda, se non vi spiace. Versate un bicchiere anche a voi e tenetemi compagnia.»
Si mise a sedere di fronte a me. «Certo, Bob. Scusatemi se ho sbagliato il vostro nome. Quanto al bicchiere, no, grazie, è troppo presto. Che cosa volete sapere?»
«Conoscevate Amy Waggoner, vero? So che mangiava qui abbastanza spesso.»
«La conoscevo, certo, ma solo come cliente. Mangiava qui, non regolarmente, no, ma abbastanza di frequente. Ogni tanto saltava un giorno. Ma mangiava una volta sola, la sera. Non è mai venuta né per la prima colazione né per il pranzo.»
«Vi ha mai detto qualcosa che la riguardava personalmente?»
«No. I nostri rapporti erano abbastanza amichevoli, ma non abbiamo mai chiacchierato veramente. Ho saputo dove abitava e che veniva da Kansas City solo stamattina, quando ho letto il vostro articolo nel giornale.»
«Capisco, George. Ma potete ugualmente rendervi utile. Sto dando una mano a McNulty, almeno in questo momento, e mi ha chiesto di parlare con chi ha avuto a che fare con lei. Stiamo adesso cercando di stabilire quali erano le sue abitudini e quanto spendeva nei vari locali. Sappiamo qual era il suo reddito, ma, a quanto sembra, spendeva molto di più; comunque, vogliamo esserne sicuri ed accertare questa cifra extra. Qui, secondo voi, quanto spendeva in media per settimana?»
Rimase un momento pensieroso. «Ordinava sempre una cena normale. Conoscete il nostro menu serale, Bob. Una cena non costa mai meno di due dollari; ma se si ordina aragosta, quando c’è, o una bistecca speciale, si superano i tre. Non notavo sempre che cosa ordinava, ma non ha mai ordinato né aragosta né bistecca speciale. Così, i suoi pasti dovevano venirle a costare fra i due e i tre dollari.»
«E quanto al bere? Prendeva prima uno o più cocktail?»
«Di solito due. Qualche volta, dietro le mie insistenze, niente. Quando arrivava qui, in genere verso le sei, si vedeva che aveva bevuto, ma quasi sempre sapeva controllarsi. Quando si capiva che aveva bevuto più del solito, la convincevo a saltare i cocktail. La prendeva con filosofia, non protestava mai.»
«Per concludere, e tenendo conto delle mance, quanto spendeva qui, secondo voi, per settimana?»
«Mance comprese, che, sia detto per inciso, erano sempre di cinquanta cents, spendeva più o meno quattro dollari ogni volta che veniva. E veniva in media cinque sere la settimana. Venti dollari la settimana mi sembrano una valutazione abbastanza equa.»
«Grazie. Sedeva sempre a una determinata tavola, era in rapporti amichevoli con una determinata cameriera?»
«No, sedeva dove le capitava. Ed era abbastanza gentile con chi la serviva, ma né parlava né ha fatto amicizia con il personale. Anche con me parlava ben poco, quanto a questo.»
Lo ringraziai e gli dissi che precisamente questo desideravo sapere. Si allontanò, ed io, dopo aver dato una occhiata alla lista, ordinai il mio pranzo.
L’ipotesi di McNulty aveva tutta l’aria di essere esatta. Amy doveva spendere certo più di cinquanta alla settimana, venti da Birdie, venti lì per la cena, e gliene restavano soltanto dieci per tutto il resto messo assieme.
Terminai di mangiare e tornai in centro. Cass aveva aperto, ma non entrai. Volevo prima indagare all’altro ristorante e stabilire una volta per sempre le abitudini alimentari di Amy. C’erano solo tre ristoranti in città, oltre al Gabbiano, e si trovavano tutti nel giro di due isolati.
Nel primo feci un buco nell’acqua: non conoscevano Amy, né per nome né per la descrizione che ne feci. Sapevano chi era, naturalmente, ma ormai tutti a Mayville erano al corrente del delitto, o per aver letto il giornale o per aver parlato con qualcuno che lo aveva letto. Comunque, per ciò che ne sapevano, ella non era mai stata nel loro ristorante.
Nel secondo le cose andarono un po’ meglio. La conoscevano lì, sia pure superficialmente. Capitava un paio di volte la settimana per la cena. Venivano così spiegate le sue assenze settimanali al Gabbiano. I prezzi erano relativamente bassi, un pasto costava da un dollaro a un dollaro e un quarto, ma la cucina era buona. Probabilmente Amy mangiava lì ogni tanto per variare, non per fare economia.
Cominciavo a pensare che forse Amy mangiava una volta sola al giorno, ma al terzo ristorante risultò altrimenti. Amy faceva lì la prima colazione, tutti i giorni o quasi tutti i giorni, all’ora in cui in genere gli altri pranzavano. Non compariva mai prima di mezzogiorno, e qualche volta quando entrava erano già passate le due. Il suo primo pasto era piuttosto leggero: in genere pasticcini e caffè. Se i pasticcini erano finiti, si accontentava di tosti al burro. La prima combinazione veniva a costare quarantacinque cents, la seconda trentacinque. Lasciava sempre una mancia di dieci cents. Così, la prima colazione doveva venirle a costare, in media, dai tre ai tre dollari e mezzo la settimana. Al secondo ristorante mi avevano detto che, quando mangiava lì qualche volta, spendeva in media un dollaro e mezzo: in questo modo Amy, per il solo vitto, spendeva venticinque dollari come minimo per settimana, il che le lasciava soltanto altri cinque dollari per tutto il resto.
E quegli altri cinque dollari li incassava Cass. Secondo lui, era questa, più o meno, la cifra settimanale che Amy lasciava nel suo locale. Lo frequentava in media due pomeriggi la settimana, si fermava dalle due alle tre ore e beveva dai quattro ai cinque whisky ed acqua a cinquanta cents l’uno. Qualche volta qualcuno le offriva un bicchiere, ma sempre ella insisteva per offrirne uno a sua volta, e in questo modo i conti restavano pari.
Disse: «Non era che Amy tracannasse. Non è mai capitato che ordinasse un puro e lo buttasse giù. Una volta che cominciava a bere, nelle prime ore del pomeriggio o al massimo verso le quattro, continuava, ma a un ritmo piuttosto lento, in modo da far durare a lungo ogni bicchiere.»
Annuii.
Cass continuò: «Sentite, mi è venuta in mente una cosa. Amy dovrebbe avere un funerale, sia pure modesto. Forse potremmo…»
Lo interruppi per spiegargli che non doveva preoccuparsi per questo.
Uscito da Cass, mi diressi subito verso il Filone, pur sapendo che si trattava solo di una delle due visite che avrei dovuto fare a quel locale: una per parlare con Dick Johnson, il barista di giorno, e un’altra dopo le cinque, per trovare Willie.
Ma fui fortunato, perchè li trovai tutti e due. Willie era sulla parte destra del banco — sulla parte sbagliata, tanto per intenderci — e stava bevendo una birra.
Mi feci comunicare da ognuno di loro le cifre approssimative e le sommai. Amy spendeva al Filone un minimo di venti dollari la settimana, a meno che non fossero venticinque, ed era anzi abbastanza probabile che si arrivasse ai trenta. Veniva quasi tutti i pomeriggi, qualche volta sul tardi, e ciò doveva avvenire quando passava prima da Cass. E quasi tutte le sere rimaneva lì, dalle sette o dalle otto in avanti. In genere si tratteneva fino all’ora di chiusura, cioè fino alla una, anche se qualche volta si sentiva stanca o aveva sonno, o magari decideva di averne abbastanza, e tornava a casa un poco più presto.
Un tipico esempio di vita oziosa e inutile. Un quadro patetico di una donna che cercava di evadere dalla realtà, o da se stessa. Ma non si trattava forse della stessa cosa?
Dissi: «Willie, secondo voi capitava qui quasi tutte le sere. Sapete dove andava le altre sere, per quanto poche potessero essere? La sera non si fermava mai da Cass, e non si tratteneva mai fino a tardi al Gabbiano.»
Si strinse nelle spalle. «Forse si fermava a casa, una volta tanto, beveva nella sua stanza, ammesso che bevesse.»
Scossi la testa. «Birdie dice che usciva tutte le sere e che di solito rientrava quando lei si era già addormentata. Se Amy si fosse fermata nella sua stanza, avrebbe visto le luci accese. E poi non beveva a casa, non beveva mai da sola, se non contiamo i cocktail prima di cena, e anche allora aveva gente attorno. Ma Birdie non ha mai trovato bottiglie nella stanza di Amy… fino a mercoledì scorso.»
Willie tornò a stringersi nelle spalle. «Non vedo come Birdie possa esserne tanto sicura. Ma ammetto che non ha mai comperato bottiglie da portare poi a casa. E c’è un’altra possibilità: forse, qualche volta, tanto per cambiare, andava a passare la sera a Bisbee o oltre il confine.»
«Che voi sappiate, ha mai varcato il confine?»
«Deve averlo fatto almeno una volta. Un paio di settimane fa è capitata qui con un caratteristico abito messicano, e quando l’ho complimentata mi ha detto di averlo comperato ad Agua Prieta.» Mi guardò fissamente. «Perchè? Voglio dire, perchè vi preoccupate tanto di quello che Amy spendeva?»
«Sappiamo a quanto ammontavano gli alimenti che riceveva… e adesso sappiamo anche che spendeva molto di più. Stiamo cercando di appurare a quanto ammontava questo extra, e da che parte le veniva. Non vi ha mai detto di avere qualche altra fonte di introiti, vero?»
Scosse la testa, adagio. Poi insinuò: «Non è possibile che si fosse sposata due volte? Che ricevesse gli alimenti da due persone, ognuna delle quali ignorava l’esistenza dell’altra?»
«Non è probabile. Specie perchè avrebbe dovuto ricevere quegli altri alimenti in contanti. Alla banca incassava soltanto quell’assegno settimanale di cinquanta dollari. Bene, grazie, Willie. Sarà meglio che me la batta.»
Uscii. Avevo pensato di andare da Birdie, ma ero venuto a piedi fino al Filone, e decisi che mi sarei spinto fino al motel dopo essere passato in centro a ritirare la macchina.
Passando davanti alla stazione di polizia, entrai per vedere se c’era qualcosa di nuovo. McNulty era tornato, e capii che aveva condotto a termine i giri stabiliti perchè aveva dinanzi a sé le schede di registrazione del motel e dell’albergo. Quando mi vide, le spinse da parte e mi indicò la poltrona.
«Che cosa siete riuscito a sapere, Bob?»
Prese nota delle cifre mentre parlavo, e quando ebbe terminato tirò le somme. Disse: «Fa settanta la settimana, anche calcolando la cifra più bassa per il Filone, e sono pronto a scommettere che là spendeva più di venti per settimana. Così, per ciò che ne sappiamo, le occorrevano, come minimo, settanta dollari ogni sette giorni.»
«Sarà bene aggiungerne altri cinque per le spese occasionali: lavanderia, benzina, pasta dentifrìcia e simili.»
«Giusto. Si arriva così a settantacinque. E, a quanto pare, si è comperata anche qualche vestito.» Una pausa. «Mentre ritiravo le schede da Birdie, l’ho tastata a proposito dei vestiti, e lei ha vuotato il sacco. Non ammetterebbe mai di aver ficcato il naso nelle valìgie o nell’armadio di Amy, e così per gli acquisti di minor conto giura di non saperne nulla. Ma ha ammesso che, ripulendo l’armadio, non poteva fare a meno di vedere che cosa c’era attaccato dentro. E giura che i calzoni, la camicia e gli stivali da cowboy e l’abito messicano non c’erano mai stati durante la prima settimana di soggiorno di Amy.»
«Amy ha detto a Willie di aver comperato l’abito messicano ad Agua Prieta.»
«Già, ha l’etichetta “Hecho in Mexico”, e secondo Birdie di là del confine non deve costare più di venti dollari. L’altra roba nuova era americana, e, sempre secondo Birdie, non può essere costata meno di trenta dollari, tutta assieme. Dovrei fare un breve controllo nei negozi per accertarmene, ma credo che la cifra di Birdie sia abbastanza esatta. Anche se non ha comperato altra roba di minore importanza come biancheria o calze, abbiamo abiti per il valore di una cinquantina di dollari in quattro settimane. Una media di dodici dollari e cinquanta per settimana. Vediamo a quanto arriviamo in questo modo.»
«A ottantasette dollari e cinquanta, tenendo valida la cifra minima del Filone. E sono d’accordo con voi nel giudicare la cifra troppo bassa, doveva spendere almeno novanta la settimana, ma cento rappresentano per me l’ipotesi più probabile. Il doppio degli alimenti che riceveva. Qui è successo qualcosa d’altro?»
«Ho mandato Chico in Messico. E, dopo che lo sceriffo lo aveva avvertito, l’uomo del F.B.I. ha telefonato da Tucson. Non può venire oggi, ma sarà qui domattina. Credo che ci daranno una mano. Quegli scacciapensieri li interessano moltissimo. Ha detto che, a quanto si sapeva, né risultavano presenti nell’Arizona né la traversavano. Il che rappresenta un vantaggio per la nostra inchiesta. Se si riesce a ritrovare l’origine di questi scacciapensieri, o da parte nostra o da quella del F.B.I., ecco che si ha certo una traccia che può portarci all’assassino di Amy.»
«Giusto. Ma non mi riesce ancora di vedere Amy nel giro dei narcotici, sia pure come consumatrice occasionale, e tanto meno come spacciatrice o intermediaria. Forse qualcuno… l’assassino… ha voluto lasciare apposta quella traccia.»
McNulty si strinse nelle spalle. «Può darsi. Ma è pur sempre una traccia. Lui deve pur essersele procurate da qualche parte, e non si possono comperare quegli scacciapensieri come se si trattasse di pasticche per la tosse. E poi, Amy doveva ben ricavare da qualche parte quei cinquanta dollari extra settimanali. Perchè non dagli stupefacenti?»
«Non si ricava molto dal traffico degli stupefacenti. Specie se si lavora come intermediari, e non mi riesce assolutamente di vederla in un altro ruolo. Sono pronto a scommettere cento contro uno che non era l’incaricata dello spaccio in questa zona.»
McNulty annuì. «Già, cinquanta dollari sarebbero una quisquilia se era molta la roba che le passava per le mani, ma come facciamo a sapere se era questo tutto ciò che guadagnava? Forse il suo reddito era di qualche cento la settimana. Forse aveva stabilito di spendere un massimo di cento e di mettere da parte il resto. Non voleva tradirsi depositandolo in banca, e così lo teneva nascosto nella sua stanza. L’assassino lo sapeva, e proprio per questo l’ha uccisa. Secondo la nostra ipotesi, si sarebbe impossessato solo degli spiccioli che le restavano ancora dell’ultimo assegno. E forse invece il bottino è stato un rotolo di banconote di una grossezza tale da soffocare un cavallo.»
«Può darsi che abbiate ragione, Mac. In questo modo il movente del furto appare fondato.»
«Già. E significherebbe che l’assassino era al corrente del traffico e, con ogni probabilità, lavorava con lei. Non dimenticate di non accennare nemmeno agli stupefacenti quando telefonate a Bisbee.»
«No, certo. Ho promesso. Dov’è Charlie Sanger? Credevo che lo aveste chiamato qui.»
«L’ho chiamato infatti, ma solo perchè mi sostituisse mentre andavo a ritirare queste schede. Tornerà alle cinque.»
«Avete per caso trovato qualcosa di interessante in quelle schede?»
McNulty sospirò. «Mi sembrate peggio del presentatore di un quiz televisivo, voi. E va bene, vi spiegherò tutto, ma poi levatevi dai piedi. Le schede sono circa una trentina, senza tener conto di Willie e di quei pochi altri che vivono all’albergo o al motel. Dieci le ho subito scartate: viaggiatori che capitano qui regolarmente e scendono sempre allo stesso posto, un paio di vecchie maestre di scuola e altri tipi del genere. Rimangono venti schede, ma si tratta per la maggior parte di coppie, e di conseguenza non mi interessano. Voglio dire, chi viene da lontano per uccidere può anche portarsi appresso una donna, tanto per confondere le idee, ma la cosa non è molto probabile. In ogni modo, se lo sceriffo o il F.B.I. vogliono controllare le schede, facciano pure. Io non ho tempo, e mi sono fermato su queste due.»
Mi tese due cartoncini che aveva preso in cima al mucchio. «Tutti e due uomini soli. Tutti e due sono scesi all’albergo, non da Birdie. Tutti e due sono arrivati mercoledì e partiti giovedì. Tutti e due sconosciuti.»
Osservai le schede, prima una e poi l’altra. Continuò: «Uno di costoro viene da Kansas City. Niente altro contro di lui, ma quanto basta per farmi desiderare un piccolo controllo.»
Dissi: «Se qualcuno ha seguito qui Amy da Kansas City, perchè non ha fatto figurare di venire da qualche altra parte?»
«Impossibile, se era al volante della sua macchina con una targa regolare. Bisogna trascrivere il numero di targa sulle schede, e qualche volta i proprietari danno un’occhiata di controllo. È sempre meno sospetto dare un numero esatto che non quello sbagliato.»
«E quest’altro veniva da Nogales? Perchè vi ha insospettito?»
«Nogales, Sonora, oltre il confine, di fronte a Nogales, Arizona, ecco tutto. Targa messicana. Nogales è più distante da qui di Naco o di Agua Prieta, ma non tanto da escludere che gli stupefacenti venissero da lì e passassero per Mayville. Si qualifica esercente, come avrete notato, e dà come indirizzo il corso di Obregon. Ma non dice di che genere di negozio si tratta. Voglio sapere se è davvero proprietario di un negozio, se è un tipo rispettabile, che non può neppure lontanamente essere sospettato di avere una mano nel traffico degli stupefacenti.»
«Intendete telefonare a Nogales?»
«No, ho chiamato il capo di Naco e l’ho pregato di farmi telefonare da Chico non appena arriva. Preferisco che Chico vada a Nogales dopo aver controllato Naco e Agua Prieta. Può saperne di più di quanto non possa sapere io con una interurbana. E, già che è là, rivolgerà anche le stesse domande a proposito degli scacciapensieri.»
«Avete già telefonato a Kansas City per quell’altro?»
«No, non ancora. Stavo per farlo quando siete entrato.»
«E allora, se posso darvi un suggerimento, c’è qualcosa d’altro che dovreste chiedere ai poliziotti di laggiù, già che telefonate. Due domande per il prezzo di una sola.»
«E la seconda sarebbe?»
«Abbiamo appurato che Amy spendeva qui circa cento dollari la settimana. Non sarebbe interessante sapere se viveva allo stesso modo a Kansas City o se il denaro extra ha incominciato a pioverle in tasca dopo che era arrivata a Mayville? Perchè questo deve essere accaduto, se laggiù viveva con cinquanta dollari la settimana.»
«I controlli saranno un poco più difficili, certo, perchè i bar sono moltissimi a Kansas City e non pochi come qui. Ma la sua padrona di casa dovrebbe essere in grado di avanzare qualche ipotesi, o almeno dovrebbe sapere quanto Amy pagava di affitto e quanto poteva spendere, approssimativamente, per i vestiti. E Amy era un tipo abitudinario; secondo me, doveva mangiare quasi sempre in un locale e bere soprattutto in un altro. Se riescono a individuare questi due posti, dovrebbero riuscire a farsi una idea almeno approssimativa. E, per quanto approssimativa, ci permetterebbe di stabilire se viveva con cinquanta piuttosto che con cento dollari la settimana. C’è molta differenza fra queste due cifre.»
McNulty picchiò un pugno sul tavolo. «Sì, accidenti. Dovrei averci pensato io. Se viveva con cinquanta dollari a Kansas City…»
Il telefono squillò ed egli sollevò il ricevitore. Ascoltò per qualche istante, poi disse: «Sì, accetto il pagamento in arrivo. Passatemi la comunicazione.»
Rimasi, nel caso si trattasse di qualcosa di importante. Ma quando egli disse: «Salve, Chico. Quando avete finito a Naco e ad Agua Prieta, voglio che…» me ne andai, perchè sapevo già quali istruzioni sarebbero state impartite a Chico.
Erano le tre, e decisi di chiamare Tom per riferirgli quanto ero riuscito a sapere fino a quel momento. Niente di molto importante, ma c’erano particolari sufficienti per un articolo che egli avrebbe poi a sua volta trasmesso. E, se fosse saltato fuori qualcosa di grosso, avrei sempre potuto richiamarlo prima dell’ora della chiusura.
Puntai sull’ufficio del Sun ed entrai. Hetherton era solo alla sua scrivania. Mi guardai attorno, per cercare la nostra impiegata e contabile dalla faccia equina, Alicia Howell, ma non la vidi. O doveva essere uscita per una commissione o non era venuta quel giorno. Nemmeno i tipografi c’erano, lo sapevo: dopo aver lavorato quasi tutta la notte del giovedì per stampare il giornale, riposavano il venerdì, come me.
Quando entrai, Hetherton alzò la testa. «E allora, Spitzer?»
«Non c’è male, grazie. Credo di essere pronto a telefonare a Bisbee.»
«Quale novità?»
«Niente di importante. Solo particolari secondari sufficienti per un articolo. Il rapporto dell’inchiesta e qualche notizia sul passato di Amy, riferita dall’ex marito, particolari che, a quanto pare, hanno ben poco a che fare con il delitto. Mentre telefono a Tom potrete ascoltare.»
Mi misi a sedere alla mia scrivania e presi il telefono, ma poi cambiai idea. «Credo che farò meglio a battere prima il pezzo e a leggerlo poi a Tom.»
Infilai un foglio nella mia vecchia Underwood.
Hetherton disse: «Quanto tempo credete che vi ci voglia, Spitzer? A scrivere e a telefonare.»
«Non più di mezz’ora, se la comunicazione mi viene passata subito. Perchè?»
«Ho un paio di commissioni da fare. In mezz’ora dovrei sbrigarmela, ma come massimo ci impiegherò un’ora. Vi spiacerebbe di fermarvi fino a quando torno, anche se finite prima?»
«Certo,» risposi, ma intanto mi domandavo come mai me lo avesse chiesto. Hetherton non si preoccupava di tenere aperto l’ufficio tutto il giorno di venerdì. Spesso, se voleva cercare pubblicità o aveva qualcosa d’altro da fare, lo chiudeva per un poco.
Hetherton disse: «Ah, ecco perchè. Mia moglie mi ha telefonato poco fa. Viene in centro per fare acquisti e ha bisogno di un poco di denaro. Avrei voluto rimanere qui ad aspettarla, ma sono già in ritardo per un appuntamento. Ma, se vi fermate voi…»
«Certo,» ripetei. «Se siete sicuro di non impiegarci più di un’ora. Ho altro da fare.» Non sapevo che cosa, ma non intendevo rimanere occupato troppo a lungo.
«D’accordo.» Si alzò e fece il giro della scrivania per prendere il panama dall’attaccapanni. «Ah, la cassaforte non è chiusa. Datele quello che vuole, prelevandolo dalla piccola cassa. Ci sono soltanto cinquanta dollari, ma mi ha detto che si tratta di acquisti di poco conto, e credo sia più di quanto ha bisogno. Mettete un biglietto con la cifra che le avete dato, in modo che la piccola cassa quadri.»
«Benissimo. Una cosa soltanto. Se ho fatto la mia telefonata e lei è già venuta qui prima del vostro ritorno, posso chiudere la porta e andarmene?»
«Certo. Ma chiudete anche la cassaforte. Ah… e potete anche lasciare il vostro pezzo sulla mia scrivania, in modo che sia in grado di aggiornarmi su questi particolari.»
Uscì, ed io tornai a voltarmi verso la macchina, concentrandomi su quello che stavo per scrivere. O che avrei cercato di scrivere.
Ma invece pensai a Doris. Avevo l’abitudine di telefonarle sempre nel mio giorno di libertà, e invece quel giorno non l’avevo chiamata.
Venne all’apparecchio prima la padrona di casa e poi Doris. «Ciao, Bob. Pensavo che non mi avresti chiamata. Ho un minuto soltanto, devo fare qualcosa prima di cominciare a lavorare, e sto per uscire.»
«Non ti farò perdere tempo. Volevo soltanto dirti una cosa.»
«Che cosa?»
«Ti amo. Sono pazzo di te, cara.»
Rise. «Se questa è una novità, sono contenta che tu mi abbia chiamato. Anch’io ti amo. E adesso devo scappare. Arrivederci.»
Riattaccai il ricevitore, e un rumore che sembrava il grugnito di un bufalo mi fece alzare la testa.
Ferma davanti alla mia scrivania, la signora Hetherton mi stava guardando con espressione indignata. La porta dell’ufficio del Sun non fa il minimo rumore, e non l’avevo sentita entrare.