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C’erano indubbiamente cose assai più facili al mondo che parcheggiare all’Ospedale Nazionale. Matthew finalmente trovò un buco a una considerevole distanza dall’edificio che ospitava l’istituto di Patologia.
Thora si era presentata in ufficio presto quella mattina e aveva scritto una lettera da inviare alla polizia per ottenere la consegna dei documenti dell’investigazione in qualità di rappresentante legale della famiglia. Infilata la lettera nella busta, la posò sul vassoio di Bella perché la spedisse — almeno così sperava Thora — entro la giornata. Per aumentare le probabilità che la lettera arrivasse immediatamente alla cassetta postale, Thora decise di mettere sulla busta un post-it con la scritta: «Da non spedire prima di lunedì»! Poi telefonò alla Scuola di Volo per chiedere informazioni sulla cifra spesa da Harald a settembre, come risultava dall’estratto conto della carta di credito. L’impiegato diede a Thora l’informazione che cercava, cioè che Harald aveva noleggiato un biplano con pilota per un’escursione giornaliera a Holmavik. Con una rapida scorsa alla voce «Holmavik» su internet, Thora non impiegò molto a rendersi conto di cosa avesse attratto Harald in quel paesino del Nord: il Museo della Magia di Strandir. Chiamò poi anche l’Hotel Ranga per verificare i movimenti della vittima nella zona e venne a sapere che Harald aveva prenotato due camere e pernottato nell’albergo per due notti consecutive. I nomi sul registro erano quelli di Harald Guntlieb e Harry Potter. Che bella trovata il secondo nome!
Thora passò tutte le informazioni a Matthew, mentre giravano nel parcheggio dell’ospedale alla ricerca di un posto.
«Era ora!» disse Matthew mentre infilava la vettura noleggiata in un buco appena lasciato libero.
Sì diressero entrambi verso l’istituto di Patologia, situato dietro l’edificio centrale. Aveva nevicato durante la notte, ma Matthew con le sue falcate non faceva fatica a superare i mucchietti di neve. Il vento gelido da nord attanagliava i capelli di Thora. Quella mattina aveva deciso di pettinarseli lisci, e ora se ne pentiva perché li vedeva svolazzare in ogni direzione. Quanto sarò bella quando arriviamo, pensò tra sé e sé. Si arrestò per un istante, voltò le spalle alle folate violente e tentò di raccogliere i capelli nella pesante sciarpa invernale. Non certo un figurino all’ultima moda, ma sicuramente meglio di un caos totale sulla testa. Terminate le operazioni di salvataggio della chioma, Thora accelerò il passo per raggiungere Matthew.
Arrivati finalmente a destinazione, l’uomo si girò verso Thora per la prima volta da quando avevano lasciato l’auto al parcheggio e non poté far altro che guardarla allibito, con quella sciarpa avvolta attorno alla testa. Lei a sua volta non poté che immaginarsi il suo aspetto, e ne ottenne una dura conferma quando Matthew le disse: «Dentro c’è sicuramente un bagno dove potrai sistemarti».
Thora si morse la lingua per evitare commenti, gli sorrise gelida e spalancò a forza l’entrata dell’istituto. Qui domandò a un’inserviente che spingeva un carrello di acciaio dove sì trovasse il medico con cui avevano l’appuntamento. Dopo essersi assicurata che il medico li stesse aspettando, la donna li fece accomodare in una stanza in fondo al corridoio, pregandoli di pazientare un momento perché il patologo avrebbe fatto presto ritorno da una riunione mattutina.
Thora e Matthew si accomodarono su due sedie malmesse, appoggiate alla parete del corridoio di fronte allo stanzino.
«Non avevo affatto intenzione di offenderti. Scusami», disse Matthew senza guardare in faccia Thora.
Lei non aveva alcuna voglia di mettersi a discutere del proprio look, perciò non gli rispose. Si tolse la sciarpa dai capelli con la massima dignità possibile, si sbottonò il piumino e allungò una mano verso la pila di riviste sgualcite che giacevano sul tavolino in mezzo alle due sedie.
«Sono quasi reperti archeologici», borbottò Thora cercando qualcosa tra quell’ammasso di vecchie edizioni.
«Penso che chi viene qui non lo faccia per trovare qualcosa da leggere», replicò Matthew, che sedeva con la schiena diritta, guardando nel vuoto.
Thora smise di rovistare. Si era innervosita. «No, probabilmente no», ammise guardando spazientita il suo orologio. «Dove diavolo è questo dottore?»
«Prima o poi arriverà», fu la secca risposta di Matthew. «Anche se a dire il vero ho dei ripensamenti riguardo a questo incontro.»
«Che vuoi dire?» chiese Thora esasperata.
«Voglio dire che non sarà un bello spettacolo per i tuoi nervi tesi», rispose Matthew girandosi verso di lei. «Non hai nessuna esperienza di queste cose e non sono affatto sicuro che ti troverai a tuo agio. Non pensi che sarebbe meglio se ti riferissi io le risposte del medico sull’autopsia?»
Thora lo fulminò con lo sguardo. «Ho messo al mondo due figli con le relative doglie, la perdita di sangue, la placenta, i tappi di muco e tutto il resto. Sopravviverò anche a questo.» Poi incrociò le braccia e domandò a bruciapelo: «E tu, quanto hai sofferto tu?»
Matthew non sembrava impressionato dalla sfuriata di Thora. «Molto e profondamente. Ma almeno io te ne risparmio il racconto. A differenza di te, non ho alcun bisogno di cadere nell’autocommiserazione!»
Thora stralunò gli occhi. E dire che lo aveva considerato cortese! Meglio mettersi a leggere il giornalino dei Testimoni di Geova che continuare a discutere con una persona così sgarbata. Era arrivata a metà nella lettura di un articolo sulla cattiva influenza della televisione sulla gioventù, quando vide un signore vestito in camice bianco avanzare trafelato lungo il corridoio in direzione dello stanzino. Era una persona sulla sessantina, con barba appena grigia e una bella abbronzatura. I suoi occhi erano circondati da pallide rughe di espressione, che facevano pensare a una bella e divertente vacanza al sole. Il medico si fermò davanti a loro e Thora e Matthew si alzarono in piedi.
«Buongiorno», disse l’uomo porgendo la mano. «Thrainn Hafsteinsson.»
Thora e Matthew si presentarono a loro volta.
«Prego, accomodatevi», disse il medico in inglese, in modo che anche Matthew capisse, e aprì la porta del suo ufficio. «Scusatemi per il ritardo», aggiunse subito in islandese, rivolto questa volta solamente a Thora.
«Non si preoccupi», rispose lei amabilmente. «C’è una tale abbondanza di riviste interessanti in sala d’attesa, che avrei voluto attendere ancora un po’.»
Il medico la fissò meravigliato. «Sì, ha ragione.» I tre entrarono nell’ufficio, quasi del tutto privo di spazi vuoti. Le pareti erano per lo più tappezzate di scaffali con libri e riviste di medicina di ogni genere e grandezza, inframmezzati da schedari. Il medico avanzò verso una scrivania di legno massiccio, dove ogni cosa era in perfetto ordine, e si sedette, invitandoli ad accomodarsi su due sedie di fronte a lui. «Allora», disse posando i gomiti sul bordo della scrivania, come per sottolineare l’inizio formale del loro incontro. «Suppongo che la nostra intervista si debba svolgere in inglese, dico bene?»
Thora e Matthew annuirono all’unisono.
Il medico proseguì: «Non sarà un problema, dato che ho fatto i miei studi di perfezionamento in America. Il tedesco invece non lo parlo dal giorno dell’esame orale alla maturità, e per questo ve lo risparmio».
«Come le ho detto al telefono, l’inglese va bene», lo rassicurò Matthew e Thora tentò di trattenere un sorriso per il suo forte accento tedesco.
«Ottimo», decretò il medico prendendo un fascicolo giallo in cima a un mucchio di fogli sulla scrivania. Lo appoggiò sul tavolo e fece per aprirlo. «Veramente dovrei cominciare scusandomi per il ritardo con cui avete ottenuto il permesso di vedere la perizia autoptica nella sua interezza!» disse con un sorriso imbarazzato. «Le trafile burocratiche che accompagnano casi di questo genere sono spesso insormontabili, anche perché non è per niente chiaro in che modo bisogna agire in circostanze, come dire… inusitate come la presente.»
«Inusitate?» disse Thora con tono dubbioso.
«Eh sì», rispose il medico. «Inusitate nel senso che i congiunti della vittima agiscono tramite un rappresentante, e per di più sono cittadini stranieri. C’è stato un momento in cui credevo che ci volesse la firma del deceduto per far passare il permesso tra le maglie del sistema burocratico…» rispose sorridendo ancora.
Thora ricambiò cortesemente il sorriso, ma si accorse che il volto di Matthew era rimasto di pietra.
Il medico abbassò lo sguardo e continuò: «Comunque non è solamente la burocrazia a rendere questo caso così particolare; mi sembra giusto farvelo sapere prima di iniziare a discutere la faccenda. Sì è trattata di una delle autopsie più strane e incredibili che abbia effettuato in vita mia, e potete credermi che di cose bizzarre ne ho viste ai tempi dei miei studi americani!»
Thora e Matthew attesero in silenzio il proseguo del racconto. Thora era chiaramente molto più emozionata del compagno, che in quel frangente avrebbe potuto benissimo essere scambiato per una statua.
Il medico si schiarì la gola e aprì il fascicolo. «Allora non ci resta altro che dare avvio alla lettura, partendo dalle solite informazioni generali.»
«Cominci pure», grugnì Matthew, mentre Thora non seppe nascondere un gesto di disappunto perché avrebbe preferito sentire subito i dettagli più bizzarri.
«Allora, la causa del decesso è stata asfissia da strangolamento», annunciò il medico tamburellando sulla copertina gialla della cartella. «Quando abbiamo finito vi consegnerò una copia della perizia autoptica, dove potrete procurarvi ulteriori informazioni sulle nostre conclusioni nei minimi particolari, se vi interessa. Ciò che conta ora è la causa specifica della morte, cioè in che modo la vittima è stata strangolata; ebbene, noi riteniamo assai probabile che l’atto finale sia stato compiuto tramite una cintura di finta pelle o una striscia di tessuto. L’autore del delitto deve aver fatto ricorso a tutte le sue forze nello stringere, viste le contusioni lasciate sul collo di Harald. Non è da escludere che la pressione sulle vie respiratorie sia durata più a lungo di quanto bastasse per ucciderlo, per un qualche motivo a noi ancora sconosciuto; forse un eccesso di furia incontenibile.»
«Come fate a saperlo?» chiese Thora.
Il medico scartabellò il fascicolo e ne estrasse due fotografie. Dopo averle posate sulla scrivania davanti a sé, le girò in direzione di Thora e Matthew. Erano particolari del collo di Harald. «Vedete come in alcuni punti la pelle abbia ceduto alla stretta della cintura e in altri no, mentre l’epidermide ha subito dei tagli profondi. Questo significa che la superficie della cintura era qua e là ruvida. Notate inoltre la forma irregolare di ciò che io sto chiamando cintura ma potrebbe essere qualsiasi altra cosa.» Il medico si interruppe e indicò la prima foto. «Un altro aspetto che ci sorprende è il fatto che, qui sotto il collo, ci siano i segni di ferite superficiali meno recenti; non si tratta di lesioni gravi, ma comunque alquanto interessanti…» Guardandoli negli occhi, il medico chiese: «Ne sapete qualcosa voi?»
Matthew prese immediatamente la parola. «No, niente.» Thora rimase in silenzio, pur sospettando il motivo di quella secca risposta.
«Beh, probabilmente non ha niente a che vedere con l’omicidio. Ma non si può mai essere sicuri». Il medico sembrò accontentarsi della risposta di Matthew, o perlomeno non insistette oltre, e indicò la seconda foto, che mostrava anch’essa il collo della vittima, questa volta in un ingrandimento. «Questa foto è eccellente, dato che vi si può scorgere l’impronta di qualche oggetto metallico, forse una fibbia o qualcosa di simile, premuto con forza sulla gola di Harald. Se guardate bene, potrete riconoscere una specie di minuscolo pugnale, anche se porrebbe trattarsi di tutt’altro. La pelle non è certo un calco di gesso!»
Thora e Matthew si allungarono verso la foto per osservarla meglio. Il medico aveva ragione, si poteva chiaramente notare sul collo l’impronta di un oggettino. Dalla scala indicata in calce all’immagine si poteva calcolare una lunghezza di otto-dieci centimetri, e una forma assai simile a quella di un piccolo pugnale o una croce. «E questo cos’è?» chiese Matthew puntando l’indice sulle ferite intorno all’impronta.
«Può darsi che all’oggetto in questione fosse attaccato qualcosa che ha lacerato l’epidermide al momento dello strangolamento. Di più però non posso ricavarne.»
«Che ne è stato di questa cintura, o cos’altro era?» domandò Matthew.
«Purtroppo non è stata ancora ritrovata», rispose il medico. «L’aggressore se ne è liberato, forse per non correre il rischio che ne ricavassimo dei campioni di DNA.»
«Ma avreste potuto farlo?» chiese Thora.
Il medico si strinse nelle spalle. «Chi lo sa?» Si schiarì la gola. «Per quanto riguarda l’ora esatta della morte, invece, si tratta di una questione tecnica complicata.» Il medico sfogliò i documenti ed estrasse delle pagine dal fascicolo. «Non so se conoscete la prassi seguita solitamente per stabilire l’ora di un decesso, vale a dire in che modo la calcoliamo», disse poi guardando i due negli occhi.
«Non ne so assolutamente niente», si affrettò a rispondere Thora, che notò come la sua risposta urtasse i nervi a Matthew, il quale però non fece commenti. Thora non si scompose.
«Allora è meglio che ve lo spieghi in poche parole. Voglio che vi rendiate conto che le nostre conclusioni non sono il risultato di qualche formula magica né un dato di fatto incontrovertibile. Si tratta per lo più, invece, di un calcolo delle probabilità nel quale la precisione delle conclusioni dipende, in tutto e per tutto, dall’attendibilità delle varie informazioni raccolte o delle prove emerse dall’indagine.»
«Raccolte? Emerse?» ripeté Thora.
«Esattamente. Per poter arrivare a delle conclusioni dobbiamo raccogliere prove evidenti sul corpo, dentro di esso o nelle sue vicinanze, e nei dintorni del luogo in cui è stato rinvenuto. Poi utilizziamo le informazioni che abbiamo sulla vita della vittima, per esempio quando è stata vista per l’ultima volta in vita, quando ha mangiato per l’ultima volta, quali erano le sue abitudini e altro di questo genere. Come capirete, il tutto è estremamente importante quando si ha a che fare con una morte così tragica come quella su cui stiamo indagando.»
«È ovvio», disse Thora con un sorriso al medico.
«Tali prove evidenti, o informazioni che siano, vengono poi utilizzate in vario modo per ottenere una valutazione, la più precisa possibile, dell’ora esatta del decesso.»
«In che modo?» domandò la donna.
Il medico si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia, visibilmente contento di aver risvegliato un interesse nei suoi interlocutori. «I metodi usati sono di due tipi: si basano da un lato sulla determinazione dei cambiamenti che il corpo subisce rispetto a parametri noti, come l’irrigidimento post mortem, il raffreddamento della temperatura corporea e la velocità di decomposizione. Dall’altro, invece, sono basati sul raffronto dei dati cronologici in nostro possesso, per esempio se la vittima ha mangiato, a che punto si trova il processo digestivo e così via.»
«A che ora è morto?» Matthew arrivò dritto al punto.
«Bella domanda!» rispose il medico sorridendo. «Per riprendere da dove sono stato interrotto, conviene ora dare una rapida occhiata alle informazioni da noi utilizzate per valutare l’ora esatta del decesso. Non ricordo se l’ho già accennato, ma prima si rinviene un cadavere, più attendibile diviene la nostra perizia. Nel nostro caso non è trascorso che poco più di una giornata dalla morte al ritrovamento del corpo, il che è un fatto positivo. Soprattutto dal momento che il cadavere si trovava all’interno di un edificio, la cui temperatura ambiente è uno dei parametri certi in nostro possesso.» Il medico aprì la cartella dalla fodera gialla e si mise a leggere da una pagina: «Secondo le risultanze dell’indagine della polizia, Harald fu visto per l’ultima volta in vita da un testimone molto attendibile alle 23.42 la notte del sabato in questione, allorché pagò il tassista e si allontanò dall’auto in via Hringbraut. Si può pertanto affermare che tale ora costituisca il terminus post quem per stabilire l’ora della morte. Il terminus ante quem è ovviamente il momento esatto del rinvenimento del cadavere, alle ore 7.20 del lunedì mattina successivo, in data 31 ottobre».
A questo punto il medico si interruppe e guardò i suoi interlocutori. Thora annuì, invitandolo con lo sguardo a continuare. Matthew era ancora la solita statua di sale.
«Quando la squadra investigativa arrivò sul luogo del delitto, venne subito misurata la temperatura corporea del cadavere, che risultò essere pari alla temperatura ambiente, segno che era già trascorso del tempo dalla morte. La rapidità del raffreddamento dipende da numerosi fattori esterni e interni. Se la vittima è magra, per esempio, il raffreddamento avviene più velocemente.» Il medico si mise a gesticolare. «E non dimentichiamo il tipo di abiti indossati dalla vittima, la posizione del corpo al momento del decesso, i suoi spostamenti successivi, il grado di umidità ambientale e diversi altri fattori molto importanti. Tutte le informazioni raccolte in proposito fanno parte delle prove alle quali accennavo poco fa.»
«E quindi?» lo incalzò Matthew.
«Abbiamo potuto restringere un po’ la cerchia delle investigazioni, ma niente di più. È ovvio che con tali metodi siamo in grado di accertare l’ora di un decesso solamente se il calore corporeo è diverso da quello dell’ambiente.» Il medico tirò un sospiro di rassegnazione. «Ma se il corpo ha raggiunto la temperatura ambiente non può che mantenerla, come dovrebbe essere evidente. Dal canto nostro, possiamo solo calcolare il periodo di tempo impiegato dal corpo per raggiungere la temperatura ambiente a quelle condizioni e ricavarne il lasso minimo di tempo trascorso dal momento della morte.» Scorrendo il foglio, aggiunse: «Eccolo qui, infatti».
«Tutto molto interessante, non ne dubito», commentò sarcastico Matthew senza rivolgere lo sguardo a Thora. «Ma a me premeva di più sapere quando Harald è stato ucciso e in quali circostanze.»
«Sì, certo, mi scusi», disse il medico. «L’irrigidimento post mortem indica che il decesso è avvenuto almeno un giorno prima del rinvenimento del corpo, il che riduce ancora di più i probabili limiti temporali del nostro caso.» Il medico volse il suo sguardo sia a Thora che a Matthew. «Volete che vi spieghi il concetto di irrigidimento post mortem più dettagliatamente?»
«Senz’altro», rispose Thora contemporaneamente alla voce di Matthew, che invece suonava: «No, grazie, non ce n’è alcun bisogno».
«Le regole del galateo non dettano forse di soddisfare le richieste della dama?» disse il medico sorridendo verso Thora, che contraccambiò con il suo sorriso più radioso. Matthew invece la guardò di sottecchi, alquanto seccato, o così almeno sembrava.
«L’irrigidimento post mortem è, come il nome indica chiaramente, l’irrigidirsi di un cadavere dopo l’avvenuto decesso. Si tratta di una situazione patologica causata dai mutamenti biochimici delle proteine contenute nel sistema muscolare in seguito all’abbassamento del grado di acidità delle cellule che fa seguito alla morte. Niente ossigeno, niente glucosio, e il valore pH delle cellule scende. Quando poi la quantità di nucleotidi ATP si abbassa di conseguenza, fino a un livello critico, ha inizio la cosiddetta fase di irrigidimento vera e propria, nella quale l’ATP protegge il corpo dalla fusione di acttina e miosina.»
Thora stava per chiedere ulteriori delucidazioni sugli intriganti concetti di acttina e miosina, quando Matthew le strinse in una morsa il ginocchio, costringendola a emettere un: «Sì, capisco», che era naturalmente un’assurdità. Guardando Matthew con la coda dell’occhio, Thora vide la statua di sale sorridere per la prima volta quella mattina.
Il medico comunque proseguì imperterrito: «L’irrigidimento ha inizio nei muscoli maggiormente utilizzati in vita, trasferendosi di seguito agli altri. Al suo punto culminante, il corpo è ormai diventato completamente rigido, nella posizione in cui si trovava al principio del processo vero e proprio. Tale stato non dura a lungo: in circostanze normali, l’irrigidimento raggiunge l’apice circa dodici ore dopo la morte e comincia poi a decrescere nel giro di trentasei-quarantotto ore dal decesso. Invece nel caso di Harald, la cui causa mortis è stato il soffocamento, tale processo è cominciato un po’ più tardi». Il medico si rimise a scartabellare nel fascicolo, ne estrasse una fotografia e la mostrò ai due. «Come vedete, il cadavere era completamente rigido al momento del suo ritrovamento.»
Matthew fu il primo ad allungarsi per osservare la foto ingrandita. La guardò senza tradire reazione alcuna e la passò a Thora, commentando solo: «Una brutta immagine».
Brutta non era una parola sufficientemente forte per esprimere la visione che si dispiegò davanti agli occhi di Thora. La foto mostrava il corpo di un giovane, lo stesso delle vecchie foto nell’«album di famiglia» già esaminato, disteso sul pavimento, nella stessa posa bizzarra che aveva già intravisto dalle fotografie della polizia investigativa. Ma quelle erano talmente sgranate e mal fotocopiate che si sarebbero potute mostrare alla tivù dei bambini, se paragonate a quelle che ora si presentavano al suo sguardo.
Un braccio della vittima era dritto verso l’alto dal gomito in su, come se stesse indicando qualcosa sul soffitto, eppure non c’era niente che lo sostenesse in quella posizione o su cui poggiasse. Ciò nonostante, dalla foto non poteva sfuggire a nessuno che Harald Guntlieb era morto per davvero: il suo volto era rigonfio e ammaccato, di un colore ripugnante che non era certo colpa di una stampa scadente. Ciò che tuttavia le faceva più ribrezzo erano gli occhi o. per meglio dire, le orbite oculari. Thora si affrettò a riconsegnare la foto a Matthew.
«Come vedete, il corpo ha poggiato su qualcosa, probabilmente una parete, e l’avambraccio si è fissato in questa posizione. Senza dubbio saprete già che l’omicidio non è stato perpetrato nel corridoio. Il corpo di Harald è crollato sopra il povero professore nel momento in cui questo ha aperto la porta dello stanzino quel lunedì mattina. A giudicare dalla sua deposizione, forse il cadavere era stato collocato là dentro in modo che fosse appoggiato alla porta. Come risulta evidente dalle foto, la porta dello stanzino si apre verso l’esterno.»
Matthew diede un’occhiata alla fotografia e annuì in silenzio. Thora si accontentò della sua approvazione, non avendo alcuna intenzione di rimettersi a guardare quell’immagine agghiacciante. «Ma ancora lei non ci ha detto a che ora è probabile che Harald sia stato ucciso», insisté Matthew restituendo la foto al medico.
«Sì, scusatemi di nuovo», rispose il medico riprendendo a sfogliare le cartelle. Trovato il documento che cercava, si stiracchiò soddisfatto. «Considerando il contenuto dello stomaco e la presenza di amfetamine nel sangue, l’ora del decesso è stata calcolata tra la 1.00 e la 1.30.» Alzato lo sguardo, il medico si mise a spiegare la cosa con più accuratezza. «L’orario dell’assunzione sia del cibo che della droga era già un dato di fatto. Verso le nove di quella sera sappiamo che Harald aveva mangiato una pizza, mentre per quanto riguarda l’amfetamina, l’avrebbe aspirata attraverso il naso poco prima di abbandonare il party, verso le undici e mezzo.» Detto questo, consegnò a Matthew un’altra foto. «Il processo di digestione di una pizza è uno dei dati sicuri in nostro possesso, registrato e catalogato.»
Matthew guardò la foto senza mostrare reazione di sorta, poi la passò a Thora e sorridendo per la seconda volta quella mattina, disse: «Ti andrebbe una bella pizza?»
Lei afferrò la foto, che mostrava il contenuto dello stomaco del povero Harald. Sarebbe dovuto passare del tempo prima che si facesse una bella pizza per cena! Cercò comunque di camuffare il disgusto e riconsegnò la foto a Matthew.
«Per quanto riguarda invece l’amfetamina, le conclusioni ci sono arrivate dal laboratorio farmaceutico. Assieme alla cartella dell’autopsia troverete la fotocopia del loro rapporto. A dire il vero, è stata rinvenuta anche una pillola di ecstasy nello stomaco, digerita per metà, ma non conoscendo l’ora della sua assunzione non l’abbiamo potuta inserire tra i fattori utilizzati per determinare il momento preciso del decesso.»
«Ottimo», disse Matthew seccamente.
Il medico riprese il filo del discorso. «È anche giusto ricordare che l’autopsia ha messo in luce il fatto che il corpo è stato effettivamente spostato dopo la morte, qualche ora dopo. Lo possiamo vedere da quella sorta di ematoma che di solito si forma nei punti inferiori del corpo non appena la circolazione si blocca e il sangue si raccoglie in basso per la forza di gravità. Così ci siamo accorti che c’erano due serie di necroematomi: più lievi nella schiena, nelle natiche e nei polpacci, più evidenti nelle piante dei piedi, nelle dita delle mani e nel mento. Questo indica che il corpo è rimasto per breve tempo sdraiato sulla schiena e poi è stato alzato in piedi. Inoltre, le scarpe portano ancora i segni di un trascinamento, effettuato tenendo stretto il corpo sotto le ascelle. Il perché di tale azione ci è del tutto ignoto. La spiegazione più plausibile, a mio parere, è che l’omicida abbia ucciso Harald a casa sua, senza potersi liberare subito del cadavere. Magari era troppo ubriaco per farlo. Ma per quale motivo lo abbia poi trasferito fino all’università rimane un mistero. Non si tratta certo del primo posto che possa venire in mente a qualcuno in una situazione così critica.»
«E gli occhi?» domandò Matthew.
Il medico si schiarì la gola. «Gli occhi. Ecco un altro mistero di cui non riesco a trovare una spiegazione. Come certamente saprete, dato che è stato rivelato alla sua famiglia, gli occhi sono stati rimossi dal corpo di Harald dopo la sua morte, il che costituirà un certo sollievo per i parenti, non so se mi spiego. Ma il perché di una tale barbarie non posso certamente comprenderlo.»
«Come si fa, domando io, a staccare gli occhi dalla testa?» chiese Thora, pentendosi quasi subito di aver posto un tale quesito.
«Senza dubbio in molte maniere differenti», rispose immediatamente il medico. «Nel nostro caso, sembra che l’assassino abbia adoperato un oggetto metallico liscio. Tutti gli indizi, anzi la mancanza totale di segni sul volto, non fanno che avvalorare questa ipotesi.» Il medico si mise a scartabellare tra le fotografie in suo possesso.
Thora si affrettò a fermarlo. «Le crediamo sulla parola, non si disturbi.»
Matthew la guardò e sorrise. Ci prendeva certamente gusto a vederla in difficoltà, soprattutto dopo le ripicche di quella mattina. La cosa le faceva saltare i nervi, tanto che decise di mostrargli di che pasta fosse fatta. «Lei ci ha riferito, all’inizio della nostra conversazione, che l’autopsia era stata strana, peculiare, ora non ricordo come l’ha definita esattamente…»
Il medico si sporse in avanti e il suo volto si illuminò. Evidentemente non desiderava altro che scendere in quei particolari. «Non so quanto intimi fossero i vostri rapporti con Harald Guntlieb; forse saprete già cos’aveva combinato.» Diede una veloce scorsa al dossier ed estrasse delle nuove fotografie. «Cioè questo», disse posando sul tavolo, davanti a Thora e Matthew, le foto in questione.
Lei in un primo momento non riuscì a raccapezzarsi su quanto stava vedendo, ma una volta compreso non poté far altro che emettere un suono di disgusto. «Che schifo! Ma che diavolo ha fatto?» si fece sfuggire.
«Domanda alquanto appropriata», rispose il medico. «Harald Guntlieb ha praticato quella che in gergo viene definita ‘metamorfosi’ o body modification, una nuova moda nata all’estero. In un primo momento pensavamo che la condizione della sua lingua rientrasse fra le sevizie subite dal cadavere, ma quando ci siamo accorti che la ferita si era già cicatrizzata da parecchio, abbiamo tratto la conclusione che l’operazione fosse stata praticata molto prima. Un trattamento masochistico assai più sconcertante del piercing nella lingua, questo ci tengo a dirlo.»
Thora guardò quelle fotografie orripilanti. Attanagliata da un attacco di nausea, si alzò dalla sedia. «Scusate», disse a denti stretti e si precipitò verso l’uscita. Dal corridoio sentì che Matthew stava dicendo al medico, con un tono di falsa meraviglia: «Strano, proprio lei che ha partorito due bambini».
Nella sede del Centro Interculturale di Reykjavik c’erano poche persone. Thora aveva scelto la caffetteria dell’associazione perché l’atmosfera che la permeava era più tranquilla e rilassata di quella di altri locali della capitale, e vi si poteva parlare senza dover gridare. Lei e Matthew avrebbero così potuto discutere del caso senza rischiare che i clienti seduti agli altri tavoli li sentissero. Si erano accomodati in un angolo appartato del locale, a un tavolo ricoperto da un bellissimo mosaico di vetro su cui avevano posato la cartella gialla contenente il referto dell’autopsia, che era stata finalmente consegnata a Matthew.
«Ti sentirai meglio dopo una bella tazzina di caffè», disse Matthew impacciato, guardando in direzione della porta dalla quale la cameriera era appena uscita con la loro ordinazione.
«Sto benissimo, grazie», rispose secca Thora. Invece la sensazione di nausea che l’aveva pervasa dentro lo studio del medico legale non le era ancora passata. Era andata di corsa alla toilette del corridoio e aveva cercato di rinfrancarsi lavandosi il viso con l’acqua fredda, ma non era servito a molto. Era sempre stata una persona delicata di stomaco e le era venuto in mente, in quell’occasione, le volte in cui il suo ex marito lasciava aperti in giro per casa i suoi libri di medicina durante gli studi universitari. Ma le foto di quei volumi non si avvicinavano nemmeno lontanamente a quelle che Thora aveva dovuto consultare quella mattina. Forse però la impressionavano di meno perché erano immagini di persone a lei completamente sconosciute, e perciò in un certo senso più astratte. «Non so proprio che cosa mi sia preso. Spero di non aver offeso il dottore», disse con tono un po’ più addolcito.
«Non erano certo delle belle foto», ammise Matthew per incoraggiarla. «Tanti altri avrebbero reagito proprio come te. Non devi affatto preoccuparti per il tuo comportamento dal patologo. Gli ho detto, mentre eri al bagno, che eri appena guarita da un’infezione intestinale e che per questo non eri affatto nelle migliori condizioni per guardare immagini del genere.»
Thora annuì. «Ma che accidenti significavano quelle ultime foto? Che diavolo era, Matthew?»
«Quando sei andata via, abbiamo analizzato ogni immagine», disse Matthew. «Sembra che Harald si fosse sottoposto a tutta una serie di deformazioni corporee. A detta del medico legale, alcune risalivano a diversi anni addietro, mentre le più recenti sono di qualche mese fa.»
«Ma perché lo ha fatto?» chiese Thora, che non poteva immaginarsi come una persona, giovane per di più, potesse scegliere di farsi deformare così.
«Lo sa solo Dio il perché», rispose Matthew. «Harald non è mai stato una persona come tutte le altre. Dal giorno in cui entrai in contatto con la sua famiglia l’ho sempre visto immischiato con gruppi estremisti: ecologisti d’assalto, no global militanti… Quando finalmente scelse di studiare Storia all’università pensai che avesse ritrovato il suo equilibrio interiore.» Matthew diede un colpetto alla copertina gialla. «Per quale motivo abbia scelto di fare una cosa del genere, non riesco proprio a capirlo.»
Thora non disse niente mentre continuava a ripensare alle foto e alla sofferenza che Harald aveva dovuto subire. «Ma che cosa si era fatto fare, esattamente?» chiese, affrettandosi ad aggiungere: «Cercherò di resistere, questa volta!»
Nello stesso istante entrò la cameriera con il caffè e le ordinazioni. La ringraziarono e aspettarono che si allontanasse, poi Matthew riprese la parola. «Si tratta di una lunga serie di operazioni chirurgiche e interventi di ogni tipo. La cosa che mi ha colpito di più è stata la forma della sua lingua. Ti sei sicuramente resa conto che una delle foto raffigurava la cavità orale di Harald, no?» Thora annuì e lui continuò: «Se l’era fatta tagliare in due per il lungo. Probabilmente per farla assomigliare alla lingua di un serpente, il che, confesso, gli è riuscito perfettamente».
«Come si fa a parlare normalmente con una lingua del genere?» domandò Thora.
«A quanto afferma il medico, non è improbabile che la sua pronuncia fosse peggiorata dopo un simile trattamento, ma non possiamo dirlo con certezza. Comunque, ci ha tenuto a precisare che quell’operazione non è certo diffusa, ma Harald non era affatto un precursore in materia.»
«Però non se l’è certamente fatta da solo una lingua così. Chi esegue questo genere di operazioni?» chiese Thora stupita.
«Il patologo pensa che si tratti di un intervento recente, non essendosi ancora rimarginata del tutto la cicatrice. Comunque non aveva la benché minima idea di chi potesse essere stato, anche se era convinto che chiunque avesse disposto di farmaci anestetici, pinze e bisturi, avrebbe potuto eseguire una tale operazione a occhi chiusi. E non solo medici, ma anche infermieri di sala operatoria o dentisti cioè chiunque sia in grado di prescrivere antibiotici e antidolorifici, o per lo meno garantirne l’accesso.»
«Che roba da matti!» esclamò Thora. «E tutto il resto? Le sfere, la freccetta, i segni, i corni e Dio solo sa cos’altro ancora… Che cos’erano?»
«Secondo quanto dice il medico, Harald si era fatto inserire tutta quella serie di oggettini sotto l’epidermide per farne risaltare il profilo a fior di pelle, come quei cornetti che gli affioravano dalle spalle. È una pratica che viene chiamata implantation, e sta prendendo piede tra i cultori del piercing estremo. Il patologo afferma di aver rimosso trentadue piccoli oggetti, tra cui anche le sfere di vetro che, come avrai visto nella foto, erano cucite nei genitali.» Matthew diresse il suo sguardo imbarazzato a Thora, che beveva rumorosamente il suo caffè. Lei gli sorrise di rimando per rassicurarlo a sua volta di non essersi affatto scandalizzata. Allora Matthew proseguì: «Inoltre c’erano degli altri simboli, che si collegano tutti alla magia nera e al satanismo. Harald era un vero ‘appassionato’: gli rimanevano ormai pochi spazi sul corpo privi di tatuaggi o ornamenti di qualsiasi tipo». Matthew fece una breve pausa per mangiare una tartina, poi proseguì. «Anzi, sicuramente i tatuaggi tradizionali non gli bastavano per niente, poiché quelli che gli hanno trovato addosso erano delle grandi cicatrici.»
«Delle cicatrici?» chiese Thora. «Vuoi dire che se li era fatti rimuovere?»
«No, no. Erano scarificazioni, cioè tatuaggi realizzati facendosi tagliare la pelle o rimuovendola per formare con la ferita una qualche figura o simbolo che fosse. Certo, una strana decisione quella di farsi fare una cosa del genere. Da quello che ho capito dalla spiegazione del medico, per togliersi una cicatrice di quel tipo bisogna farsi applicare un’epidermide nuova con un intervento di chirurgia plastica, e per giunta si formerebbe una nuova cicatrice ancora più grande!»
«Ma va’ un po’ a immaginare…» disse Thora allibita. Al mondo se ne sentivano di tutti i colori! Quando lei era giovane, la cosa più estrema era farsi tre buchi sul lobo dell’orecchio.
«Il medico ha anche aggiunto che uno dei simboli sul corpo di Harald era stato inciso dopo la sua morte. Dapprima si pensava che fosse uno dei suoi tatuaggi più recenti, ma a un controllo più accurato si è scoperto che le cose stavano diversamente. Si tratta a quanto pare di una runa magica che gli è stata incisa sul torace.» Matthew tirò fuori una penna dal taschino della sua giacca e sul tovagliolino di carta tracciò il simbolo. Finito il disegno, lo passò a Thora. «Il medico mi ha detto che è una runa finora sconosciuta, o per lo meno la polizia non è ancora riuscita a trovarne degli esempi noti. È probabile che l’assassino l’abbia inventata sul momento. Oppure che fosse tanto agitato da trasformare il simbolo in uno scarabocchio. Tagliare la pelle non è certo una cosa semplice.»
Thora osservò meglio il disegno, che era composto da quattro linee intersecate a forma di cassa, come nel gioco del tris. Ma alla fine di ogni linea era tracciata un’altra linea più breve, mentre al centro del quadrato c’era un cerchietto.
Thora riconsegnò il tovagliolo al collega. «Purtroppo la mia conoscenza delle rune magiche è pressoché nulla. Una volta avevo una collana con un segno runico, ma non ricordo nemmeno cosa volesse dire.»
«Dovremmo consultare qualche esperto. Non è improbabile che la polizia abbia sorvolato su questo dettaglio nella sua frettolosa investigazione. Chissà che il significato recondito di questa runa non contenga la soluzione del caso», disse Matthew ripiegando in quattro il tovagliolo. «Comunque sia, chi ha ucciso Harald ha certamente voluto comunicare qualcosa, perdendo tempo così. I più non penserebbero che a squagliarsela il prima possibile, dopo aver commesso un omicidio, e a fuggire a centinaia di chilometri dal luogo del delitto.»
«Forse si tratta invece di uno psicopatico», buttò lì Thora. «Non è certo indice di sanità mentale mettersi a tracciare delle rune su un cadavere e strappargli i bulbi oculari!» Il solo pensiero la fece rabbrividire. «Oppure era sotto gli effetti di qualche sostanza stupefacente, il che avvalorerebbe l’ipotesi della colpevolezza del poveraccio già arrestato.»
Matthew scrollò le spalle. «Forse.» Poi si servì una tazza di caffè. «O forse no. Non ci resta altro che fargli visita in prigione, e molto presto.»
«Mi metterò in contatto con il suo avvocato d’ufficio», si offrì Thora. «Non dovrebbe aver problemi a farci avere un colloquio con il detenuto, anzi, ci guadagnerebbe ad aiutarci, dato che i nostri interessi sono ormai comuni. Inoltre ho già inviato alla squadra investigativa la richiesta formale per ottenere la consegna della trafila del caso. Si tratta di un procedimento normale e, a quanto ne sappia, i famigliari la ottengono senza difficoltà di sorta, a meno di noiose eccezioni per casi del tutto particolari.»
Matthew si allungò a prendere un’altra tartina e guardò l’orologio. «Che ne diresti di andare a dare un’occhiata all’appartamento di Harald? Ho con me le sue chiavi e la polizia ha già restituito parte degli oggetti sequestrati durante la perquisizione. Potremmo appunto renderci conto di quali oggetti hanno interessato gli investigatori e se si può ricavarne qualcosa di utile.»
A Thora l’idea piacque. Inviò un messaggio a suo figlio per chiedergli di andare a prendere sua sorella a scuola prima di tornare a casa. Thora si sentiva meglio sapendo che Soley rincasava presto, e spesso ricorreva a suo figlio per andarla a recuperare prima del tempo. Non voleva però approfittare troppo della bontà di Gylfi, per non rischiare di perdere la sua fiducia facendolo sentire sfruttato. A Thora parve di aver appena finito di spingere il bottone «invio» quando la risposta di Gylfi comparve sullo schermo. Aprì il messaggio e lesse: «OK. Quando torni?» Thora rispose subito che sarebbe rientrata verso le sei, ma intanto si domandò per l’ennesima volta come mai ultimamente il ragazzo fosse così interessato ai suoi orari. Probabilmente voleva saperlo solo per poter stare tutto il tempo seduto davanti al computer senza essere disturbato, però la sua insistenza rimaneva sospetta.
Prima di mettere via il telefonino, Thora decise di avvertire in ufficio che non sapeva quando sarebbe tornata. Nessuno rispose e al quinto squillo partì la segreteria telefonica. La donna lasciò un messaggio e riattaccò. Una delle funzioni principali di Bella avrebbe dovuto essere, appunto, quella di centralinista, ma le rare volte in cui Thora aveva dovuto chiamare sul lavoro, nella metà dei casi non aveva avuto risposta. Sospirò, rassegnata al fatto che non sarebbe servito a niente mettersi ancora una volta a discutere con quella dannata segretaria. «Va bene, sono pronta», disse a Matthew, che nel frattempo ne aveva approfittato per finire il resto del pranzo. Thora prese un ultimo sorso di caffè prima di alzarsi e infilarsi il cappotto.
Si diressero entrambi verso la cassa, dove Matthew saldò il conto, e uscirono dal ristorante. Matthew ci tenne a precisare che tutte le spese erano a carico della famiglia Guntlieb e Thora non capì se lo dicesse per evitare che, avendo offerto lui, diventassero più intimi oppure per pura e semplice informazione. Quindi gli rispose con un vago cenno del capo a mo’ di risposta.
Uscirono al freddo e camminarono fino al parcheggio sotterraneo dove avevano posteggiato l’auto a noleggio. L’appartamento di Harald si trovava in via Bergstadastraeti, a breve distanza dalla Hverfisgata. Thora aveva ormai preso pratica del quartiere di Thingholt dopo aver cominciato a lavorare lì al centro, tanto da poter dare precise indicazioni a Matthew sulle vie da prendere per arrivare a destinazione senza incappare in sensi unici e vicoli ciechi. Trovarono un posto per l’auto proprio davanti alla villetta bianca, di stile classico, che Matthew identificò come l’abitazione di Harald. Si trattava di una delle case più eleganti della via, molto ben tenuta e riccamente adornata. Il che spiegava perlomeno le esorbitanti cifre sborsate da Harald per l’affitto, come risultava dal contratto di locazione che Thora aveva potuto consultare.
«Ci sei già venuto qui?» chiese Thora quando i due si avvicinarono all’entrata laterale dell’edificio. Il portone centrale, che dava direttamente sul marciapiede, a detta di Matthew costituiva l’entrata dell’appartamento a pianoterra, abitato dai proprietari della casa.
«Sì, devo confessare di esserci venuto in diverse occasioni», rispose Matthew. «Questa però è solamente la seconda volta che mi capita di venirci in forma privata, per così dire. Le altre volte ero accompagnato dalla polizia, che aveva bisogno della presenza di un testimone per poter rimuovere documenti e oggetti legati all’investigazione, e poi sono tornato quando il tutto è stato restituito e rimesso al suo posto. Sono convinto che la nostra ‘perquisizione’ sarà assai più accurata di quella della polizia: gli investigatori si erano già messi in testa che il colpevole fosse quel tale che avevano arrestato e avevano perciò perquisito l’appartamento come una pura e semplice formalità.»
«L’appartamento è bizzarro come il suo ex affittuario?» domandò Thora.
«No, no, è un posto normale», rispose Matthew mentre infilava nella serratura della porta d’ingresso una delle due chiavi appese a un portachiavi con disegnata la bandiera islandese, il tipico acquisto che si poteva fare in uno dei tanti negozi turistici del centro di Reykjavik. A Thora risultava difficile immaginarsi Harald entrare in uno di quei posti per fare acquisti, circondato da maglioni di lana e pulcinelle di mare di pelouche. «Prego, accomodati», disse Matthew aprendo l’uscio.
Prima che Thora potesse mettere piede dentro casa, una donna che stava passando dietro l’angolo li chiamò in un inglese pressoché perfetto. «Scusate», disse stringendosi nel corto maglione che la ricopriva dal freddo. «Siete i rappresentanti della famiglia di Harald?»
A giudicare dall’abbigliamento, Thora capì che la donna era appena sbucata dall’appartamento al pianoterra. Matthew porse la mano e rispose in inglese: «Sì, salve di nuovo, ci siamo già incontrati quando mi servivano le chiavi. Sono Matthew».
«Appunto, mi pareva», disse lei stringendogli la mano e sorridendogli. Era una donna attraente, magra, con capelli e volto ben curati, e dall’aspetto di signora benestante. Quando sorrise di nuovo Thora si accorse che probabilmente non era così giovane come le era apparsa in un primo momento perché piccole rughe le si formarono intorno alle labbra e agli occhi. La donna porse la mano anche a Thora. «Piacere, sono Gudrun», disse e aggiunse subito: «Io e mio marito siamo i proprietari dell’appartamento che Harald aveva preso in affitto».
Thora si presentò a sua volta e sorrise di rimando. «Volevamo soltanto dare un’occhiata all’abitazione. Non sappiamo quanto rimarremo.»
«Oh, non c’è alcun problema, fate pure», si affrettò a rispondere la signora. «Io sono venuta solamente per sapere se avevate notizie su quando potrò liberare l’appartamento». Sorrise ancora come per scusarsi dell’impertinenza. «Sapete, abbiamo ricevuto delle richieste di affitto…»
Thora comunque non comprendeva del tutto quell’intrusione, dato che, a quanto le risultava, la famiglia Guntlieb pagava ancora regolarmente l’affitto, che per di più era assai più alto del normale. La signora non avrebbe avuto tutto l’interesse a ricevere quei versamenti mensili senza problemi di riscossione? Thora si voltò verso Matthew, nella speranza che potesse rispondere lui alla proprietaria.
«Purtroppo non sarà possibile liberarlo nell’immediato futuro», tagliò corto lui. «Il contratto è sempre valido, come avevamo concordato, mi sembra di ricordare, l’ultima volta che ci siamo incontrati.»
La donna fu svelta a porgere di nuovo le sue scuse. «Sì, certo, non mi fraintenda, certamente è ancora valido. Quello che a noi interessava sapere è quando la famiglia avrebbe pensato di chiuderlo. Dal momento che stiamo parlando di un appartamento piuttosto caro, in genere è difficile trovare degli affittuari in grado di pagare una tale cifra senza problemi.» Gudrun guardò impacciata anche Thora: «Il fatto è che… abbiamo ricevuto una buona offerta da un’azienda prestigiosa, anzi, un’offerta difficile da rifiutare… Ma se non consegnamo loro l’appartamento entro due mesi, non sanno se… Allora ci chiedevamo cosa avevate in mente. Capite cosa intendo dire…»
Matthew annuì. «Capisco benissimo la vostra situazione, ma al momento, le ripeto, non sono in grado di promettervi niente. Tutto dipende da quanto tempo ci servirà per vagliare tutti gli averi di Harald: ci preme molto che non vengano gettati via oggetti che potrebbero rivelarsi determinanti per il nostro caso.»
La signora, che aveva tra l’altro cominciato a tremare per il freddo, annuì con veemenza. «Se posso fare qualcosa per affrettare le vostre ricerche, fatemi sapere senza indugio.» Poi porse loro il biglietto da visita di una società di importazioni che Thora non aveva mai sentito nominare. Sullo stesso si leggeva il nome e il numero di telefono della donna, compreso quello del cellulare.
Thora pescò dalla sua borsetta il proprio biglietto da visita e lo porse a sua volta alla donna. «Allora lei prenda il mio, e mi chiami se a lei o a suo marito viene in mente qualcosa che ci possa aiutare. Stiamo cercando di scoprire chi ha veramente ucciso Harald.»
La donna spalancò gli occhi stupita. «Ma non è già stato arrestato un tizio?»
«Abbiamo i nostri dubbi che si tratti del vero colpevole», rispose Thora senza farla troppo lunga e si accorse che la sua rivelazione aveva ulteriormente messo in subbuglio la povera donna. Perciò si affrettò ad aggiungere: «Penso proprio che lei non abbia assolutamente niente da temere; chiunque sia stato, non verrà certo a fare visita a voi».
«No, non intendevo dire questo», replicò l’altra senza convinzione. «Pensavo che il caso fosse chiuso e archiviato.»
Poi i tre si salutarono e Thora e Matthew entrarono nel tepore dell’atrio. Dall’ingresso partiva una scala interna laccata di bianco che portava al secondo piano, dove si trovava l’abitazione del ragazzo. Accanto alla scala c’era anche la porta dello stanzino lavanderia, in comune con l’altro appartamento. Salirono i gradini e, arrivati sul pianerottolo superiore, Matthew aprì la porta dell’appartamento con la seconda chiave.
Entrando, Thora pensò subito che la definizione «un posto normale» fosse quantomeno riduttiva.
Gunnar Gestvik, direttore del dipartimento di Storia dell’Università d’Islanda, avanzava a passi rapidi lungo il corridoio verso l’ufficio della direttrice dell’Istituto Arni Magnusson. Salutò con un cenno del capo un giovane laureato in storia che incontrò sulla sua strada. Il giovane rispose con un sorriso impacciato, che ricordò a Gunnar la fama recentemente ottenuta tra le mura dell’università e dei suoi numerosi dipartimenti. Sembrava che chiunque sapesse che era stato proprio lui a prendersi addosso il cadavere di Harald Guntlieb, ricavandone un bell’esaurimento nervoso. Non era mai stato, per così dire, famoso come adesso. Purtroppo, fra coloro che gli si avvicinavano per rivolgergli la parola pochi potevano classificarsi come suoi amici. Ovviamente, prima o poi le cose sarebbero tornate alla normalità tanto agognata, ma solo Dio sapeva quanto Gunnar già si fosse stancato di rispondere a tutte quelle domande stupide e invadenti. Ormai gli veniva la nausea davanti ai volti compassionevoli delle persone che cercavano di farsi coraggio per rivolgergli quelle domande idiote. Era un’espressione che voleva mostrare da una parte tristezza per la morte prematura del giovane, dall’altra solidarietà per Gunnar — ma il risultato era sempre un altro, senza eccezioni. Su quelle facce si leggeva solamente un interesse morboso per l’orribile trattamento subito dal corpo di Harald, e il sollievo che una cosa del genere fosse capitata a qualcun altro e non a loro. Non sarebbe stato meglio per lui seguire il consiglio del rettore e prendersi due mesi di permesso? Non ne era certo. In sua assenza la gente avrebbe perso sicuramente l’interesse per l’intera faccenda, ma il caso si sarebbe riacceso quando l’accusato sarebbe stato condotto in tribunale per il processo. Prendendosi quel congedo, Gunnar non avrebbe fatto altro che rimandare l’inevitabile. Inoltre, un suo allontanamento avrebbe suscitato tutta una serie di illazioni senza fondamento, per esempio che fosse stato ricoverato in un ospedale psichiatrico o che si fosse chiuso in casa in preda ai fumi dell’alcol, o qualcosa di peggiore. No, probabilmente era stata una decisione giusta quella di rinunciare alla vacanza forzata e lasciar calmare le acque. Alla fine si sarebbero tutti stancati di parlare di quella storia e avrebbero ripreso a evitarlo come prima.
Gunnar bussò piano alla porta della potente direttrice dell’Istituto Arni Magnusson, Maria Einarsdottir, più per formalità che per altro, dato che poi spalancò la porta senza attendere di essere invitato a entrare. La donna si trovava al telefono e gli fece segno di accomodarsi, cosa che Gunnar fece immediatamente. Si spazientì aspettando che Maria terminasse il suo colloquio telefonico che, a quanto capiva, si riferiva all’ordinazione di un toner per la stampante.
Gunnar cercò di non far trapelare troppo il suo nervosismo. Quando Maria lo aveva chiamato al telefono, pochi minuti prima, gli aveva detto che si trattava di una faccenda molto grave e lo aveva pregato di raggiungerla immediatamente nel suo ufficio. Gunnar aveva dovuto mettere da parte il progetto a cui stava lavorando in quel momento, una domanda di borsa di studio Erasmus a favore del dipartimento di Storia, in collaborazione con l’Università di Bergen in Norvegia. La domanda doveva essere inoltrata in inglese e Gunnar stava appunto per ingranare la marcia in quella lingua quando era arrivata la chiamata di Maria. Se quella faccenda così grave riguardava solo un dannato toner per la stampante gliene avrebbe dette delle belle! Anzi, si stava già preparando un bel discorsetto quando Maria posò la cornetta e si voltò seria verso di lui.
Prima di cominciare a parlare, fissò il volto dell’uomo con espressione pensosa, come se stesse cercando di ponderare le parole da rivolgere al collega. Le dita della mano destra presero a tamburellare sul bordo della scrivania. Dopo un lungo sospiro, finalmente disse: «Cristo!»
Non ha certo usato il tempo per misurare le parole, pensò Gunnar, deluso nel sentire la direttrice dell’Istituto Arni Magnusson usare certe espressioni. Quanto erano cambiati i tempi da quando era giovane lui, quarant’anni or sono. Allora si teneva ad adoperare un linguaggio forbito, cosa che oggi appariva invece sempre più un fatto obsoleto, quasi ridicolo. Addirittura un’intellettuale come Maria, dotata di profonda cultura e di un’età non più giovane, ricorreva a quei solecismi non certo appropriati. Gunnar si schiarì la gola. «Che c’è di tanto urgente, Maria?»
«Cristo!» ripeté lei, scorrendo le dita di entrambe le mani tra i capelli tagliati corti, che sulle tempie si stavano imbiancando. Infine scosse il capo e si decise a parlare. «Manca un’epistola antica.» Una breve pausa, e poi: «Che è stata rubata».
Gunnar sembrò ricevere una scossa fisica, poi ringhiò: «In che senso? Rubata? Dall’esposizione?»
Maria emise un gemito. «No, non dall’esposizione. Da qui dentro, da questo edificio!»
Gunnar rimase a bocca spalancata. Da lì dentro? «Ma come è possibile?»
«Ottima domanda. A quanto ne so, questa è la prima volta che accade un fatto del genere qui dentro.» Poi aggiunse in tono cupo: «Chissà, forse è scomparso anche qualcos’altro. Come sai bene, qui vengono conservati più di milleseicento codici e frammenti di manoscritti antichi provenienti dalla collezione di Arni Magnusson, oltre a tutte le epistole e le missive storiche appartenenti alla collezione stessa e a circa centocinquanta codici della Reale Biblioteca di Copenhagen. E poi ci sono una settantina di manoscritti e numerose lettere di diversa origine». Maria fece una breve pausa e fissò Gunnar negli occhi. «È sottinteso che a questo punto parte un’inchiesta per vagliare l’intera collezione in nostro possesso e scoprire se si sono volatilizzati altri documenti preziosi. Quello che invece volevo dirti a quattr’occhi, mio caro, prima che la notizia trapeli, è che nel momento in cui il controllo sarà stato effettuato non ci saranno più dubbi in proposito».
«Che intendi dire? Cosa c’entro io?» Il tono di Gunnar era un misto di stupore e risentimento. Pur essendo il direttore del dipartimento di Storia, non aveva mai dovuto — o bisognava dire potuto? — avere rapporti stretti con gli studiosi dell’istituto. «Stai forse accusandomi di avervi sottratto quell’epistola?»
«Per Dio, Gunnar. È meglio che ti spieghi come stanno le cose, prima che ti metti a chiedermi se sospetto il rettore del furto!» Maria gli consegnò una lettera che giaceva sul suo tavolo. «Ricordi il carteggio antico che ricevemmo in prestito dall’Archivio di Stato di Danimarca?»
Gunnar scosse il capo. L’istituto riceveva spesso in prestito dall’estero collezioni di documenti che avevano qualche relazione con i progetti interni di ricerca. Gunnar ne riceveva sì notizia, ma non sempre, e oltretutto non era tenuto a ricordarsi di ogni collezione che arrivava in sede, a meno che non riguardasse il suo specifico campo di studio. Ma quella raccolta di documenti dell’archivio danese non lo era stata. Diede allora una rapida occhiata alla lettera, firmata da un certo Karsten Josephsen, direttore di sezione dell’Archivio di Stato e scritta in danese, dove si faceva presente che stava per scadere il termine del prestito e quindi bisognava preparare la restituzione del carteggio. Gunnar riconsegnò il foglio a Maria. «Non ne sapevo niente.»
Maria prese la lettera e la rimise in un cassetto della scrivania. «Può anche darsi. Si trattava di una collezione di epistole indirizzate ai vescovi del duomo di Roskilde, tutte del periodo compreso tra il 1500 e il 1550. Mi è stato riferito che non erano molto interessanti per i nostri studiosi, tranne quelle collocabili intorno all’anno della riforma danese, il 1536. Ma la lettera scomparsa non è una di esse.»
«Di che cosa trattava?» domandò Gunnar, senza capire ancora quale fosse il suo ruolo in quella vicenda.
«Non lo so esattamente, dato che è scomparsa. So invece che era datata 1510 ed era stata scritta da Stefan Jonsson, allora vescovo di Skalholt, e indirizzata al vescovo del duomo di Roskilde. O almeno queste sono le informazioni presenti sull’indice che accompagnava l’intera raccolta al suo arrivo in Islanda. È stato appunto tramite questo indice che ho scoperto la mancanza dell’epistola, mentre riordinavo la collezione per il trasporto e la restituzione alla Danimarca.»
«Esiste la possibilità che proprio questa lettera non sia mai arrivata in Islanda, cioè che mancasse in partenza?» chiese Gunnar.
«È da escludere», fu la netta risposta di Maria. «Ero presente io stessa, l’anno scorso, quando la collezione venne aperta e accuratamente confrontata con l’indice del contenuto che la accompagnava. Tutto era a posto.»
«Forse allora è andata a finire da qualche altra parte, questa dannata lettera», insisté Gunnar. «Non potrebbe essere andata a ficcarsi dentro un’altra raccolta?»
«Ti dirò», rispose Maria, «se non ci fosse dell’altro, potrei anche pensarlo.» Tacque un istante per sottolineare le parole che si accingeva a dire. «Non appena mi accorsi della scomparsa mi misi subito a cercare nel nostro data base. Come ben sai, noi scannerizziamo per archiviarli nel computer tutti i documenti che arrivano, tanto i nostri quanto quelli presi in prestito da altre istituzioni.» Gunnar annuì e Maria proseguì: «E sai che ho scoperto? Che avevano eraso il file, anzi, solamente questa unica lettera!»
«Aspetta», obiettò Gunnar. «Questa assenza non potrebbe provare, invece, che la lettera non si trovava tra quelle della collezione? Le lettere non erano state scannerizzate al momento dell’arrivo?»
«Sì, cominciammo il giorno dopo. Ma la lettera in questione c’era e venne scannerizzata. Lo vedo anche dal codice numerico che utilizziamo per catalogare i file elettronici. La collezione riceve un numero di identificazione, poi tutti i documenti vengono classificati per ordine di età, con i più antichi in cima e i più recenti in fondo.» Maria si passò di nuovo le dita tra i capelli. «Manca solo il numero della lettera scomparsa.»
«E le copie di sicurezza del sistema elettronico? Ci dicono sempre che dobbiamo stare tranquilli contro le perdite di documenti, dato che ne fanno sempre una copia. Non sei riuscita a trovarla nemmeno là?»
Maria sorrise tristemente. «L’ho già controllata. A detta del nostro esperto informatico, questa lettera non si trova in nessuna delle copie giornaliere, né in quelle mensili. Le copie giornaliere vengono cancellate settimanalmente, mentre la cassetta con tutte le copie del mese viene conservata fino al mese successivo, per cui non abbiamo le copie giorno per giorno, se non risalgono a meno di un mese fa. Dunque quella registrazione è stata eliminata più di un mese fa. Certo, esiste anche una copia con le registrazioni degli ultimi sei mesi, che è conservata nella cassetta di sicurezza dell’istituto presso la nostra banca di fiducia. Là non ho ancora controllato, dato che solo oggi mi sono resa conto della gravità della situazione.»
«Ancora non mi hai detto cosa c’entro io in tutta questa faccenda», fu l’unica cosa che venne in mente di dire a Gunnar.
«Ovviamente, ho anche controllato quali studiosi avevano lavorato su questa collezione. Come ben sai, è tutto schedato e catalogato. Secondo il registro dei prestiti, l’ultimo a ottenere l’accesso alla raccolta di epistole è stato proprio uno dei tuoi studenti.» Il volto di Maria si fece più duro. «Harald Guntlieb.»
Gunnar si portò la mano sulla fronte e chiuse gli occhi. E ora? Non finiva mai questa storia? Tirò un profondo sospiro e si sforzò di misurare le parole per non perdere il controllo della sua voce. «Ma ci sarà pur stato qualcun altro che ha avuto in prestito la collezione per delle ricerche. Come puoi essere così certa che a rubare la lettera sia stato proprio Harald e non qualcuno prima di lui? Qui lavorano quindici ricercatori fissi tutto l’anno, senza contare l’innumerevole quantità di ospiti e di studenti che effettuano ricerche individuali.»
«Sì, ne sono certa. Ma chi ha avuto la collezione sotto mano prima di Harald sono stata io stessa, e ti posso assicurare che non mancava proprio un bel niente. Anzi, ti dirò che nella cartella che abbiamo ora qualcuno ha infilato della cartaccia per non farla apparire vuota e non destare sospetti al momento della restituzione. E quella cartaccia toglie ogni dubbio.» La direttrice afferrò il pezzo di carta incriminato e lo gettò verso Gunnar con una veemenza che tradiva il suo nervosismo. «Spero tu ti renda conto che gli studenti del dipartimento accedono ai documenti in nostro possesso solamente sotto la responsabilità del dipartimento stesso. Non possiamo permettere che il nostro istituto si crei la nomea di smarrire preziosi codici antichi. Noi dipendiamo dai buoni rapporti di collaborazione che intratteniamo con gli istituti analoghi degli altri Paesi nordici, e non è ammissibile che tali rapporti vengano ora messi a repentaglio per la disonestà di uno dei vostri studenti.»
Gunnar inghiottì e guardò la carta che Maria gli aveva passato. Ebbe subito la tentazione di strapparsi i capelli o fuggire. Si trattava di un foglio con l’intestazione della segreteria dell’università e i crediti dello studente Harald Guntlieb. Gunnar si lasciò cadere il documento sulle ginocchia. «Se Harald ha veramente rubato l’epistola e l’ha poi sostituita con questo, allora abbiamo a che fare con il ladro più ingenuo della storia. Come pensava di farla franca con una prova come questa in nostro possesso?» Gunnar riprese il foglio e lo sventolò davanti a sé.
Maria alzò le spalle. «Come faccio a sapere io che cosa gli stava passando per la testa? Forse pensava di fare un’altra sostituzione più tardi. Ma poi ha avuto un problema, come tu ben sai. Inoltre aveva avuto il permesso di consultare la collezione solamente un mese prima di morire. Probabilmente si era già accorto che nessuno aveva consultato quelle lettere da più di due mesi, così avrà pensato di avere ancora del tempo a disposizione prima che qualcuno notasse la mancanza. Ma ciò che avrebbe voluto fare con quella lettera rimane un vero e proprio mistero. E comunque non ha vissuto abbastanza da poterla restituire. Non trovo altra spiegazione più plausibile riguardo all’intera vicenda.»
«Che vuoi che faccia?» chiese Gunnar con voce flebile.
Maria lo guardò con un’espressione sarcastica. «Ascolta, non ti ho convocato per ricevere il tuo supporto morale. Voglio che tu ritrovi il documento sparito.» Poi aggiunse gesticolando: «Vai a cercare tra le sue cose, e in tutti i posti dove potrebbe aver nascosto quel pezzo di carta. Tu sai meglio di me dove indirizzare la ricerca. Dopotutto era uno dei tuoi studenti».
Gunnar si morse un labbro e maledì il giorno in cui Harald Guntlieb aveva ottenuto l’ammissione, ricordando come lui fosse stato l’unico a opporsi alla sua accettazione. Aveva infatti provato subito un senso di disagio, legato forse all’argomento della sua tesi di laurea, ovvero la caccia alle streghe in Germania. Da quel momento non aveva cessato di temere quello strano studente. Ma la democrazia lo aveva messo in minoranza e ora quella patata bollente era piombata addosso proprio a lui. «Chi è al corrente di tutto questo?»
«Io. Tu. Con altri invece non ho ancora parlato, se si eccettua il tecnico del database, che comunque non conosce l’intera vicenda, ma crede che io abbia un problema legato alla catalogazione elettronica.» Poi ebbe un attimo di indugio. «Ho anche messo sotto torchio il nostro amico Bogi, che aveva compiuto ricerche sulla raccolta subito dopo il suo arrivo in Islanda, e l’ho tempestato di domande. Ora forse sospetta che la lettera sia andata smarrita in uno dei vari trasporti, dato che ancora non sa niente del furto, secondo la mia teoria.»
Bogi era un ricercatore interno dell’istituto. Essendo una persona bonaria. Gunnar era sicuro che non avrebbe certo sollevato uno scandalo per un caso del genere. «Quando dovete restituire la collezione alla Danimarca? Quanto tempo ho per ritrovare l’epistola?»
«Potrei ancora cercare di rimandare la restituzione per una settimana, dopo di che sarò purtroppo costretta a denunciarne pubblicamente la scomparsa. E ci tengo a sottolineare che il tuo nome verrà spesso citato in tale denuncia. Anzi, farò tutto il possibile perché la vergogna ricada completamente sul vostro dipartimento piuttosto che sul nostro istituto. Un uccellino mi ha detto che non sarebbe nemmeno la prima volta che un documento svanisce sotto la vostra custodia.» E lo guardò con sguardo inquisitorio.
Gunnar si alzò paonazzo in volto. «Capisco.» Non se la sentiva, al momento, di controbattere a quelle accuse, ma sulla soglia dell’ufficio si voltò per porgere un’ultima domanda alla sua collega, benché avrebbe preferito andarsene sbattendole la porta in faccia. «Hai una qualche idea di cosa contenga questa maledetta lettera? Hai appena detto che l’intera collezione era stata letta, riletta e vagliata: qualcuno dovrà pure ricordarsi cosa c’era scritto, no?»
Maria scosse il capo. «Bogi se ne rammentava confusamente, dato che stava conducendo una ricerca legata alla fondazione della sede vescovile di Sjalland e alla sua influenza sulla storia ecclesiastica d’Islanda. Ciò che gli importava era avvenuto molto tempo dopo la nostra lettera, che quindi aveva scorso in fretta. Comunque ricordava che era un testo astruso, con accenni alle pene dell’inferno, a qualche epidemia e alla morte di un messaggero. È stata l’unica cosa che ho potuto cavar fuori da lui senza che si mettesse a sospettare qualcosa di losco.»
«Ti farò sapere», disse Gunnar con un gesto di commiato, poi uscì senza neppure attendere il saluto di cortesia di Maria.
Una cosa era certa. Doveva assolutamente trovare quella lettera.
Thora fece una lenta piroetta sul parquet dell’enorme salone, arredato nello stile minimalista che ora andava più in voga. I pochi mobili davano l’impressione di essere costati una bella cifra. In mezzo al pavimento erano stati collocati due grandi divani neri considerevolmente più bassi di quelli normali a cui l’avvocatessa era abituata. Aveva una voglia matta di sedersi su uno di essi, ma non le andava di far capire a Matthew che per lei un simile arredamento costituiva un’esperienza nuova. Tra i due divani era posto un tavolo ancora più basso, che le parve addirittura privo di gambe, come se il ripiano poggiasse direttamente sul pavimento. Thora tolse lo sguardo dai mobili e lo indirizzò verso le pareti. Tranne la nota moderna di uno schermo digitale ultrapiatto al centro di una parete, tutti i quadri avevano un aspetto di preziosa antichità. Oltre ai quadri erano appesi oggetti antichi di vario genere, e in un angolo c’era una specie di vecchia sedia di legno grezzo che Thora giudicò essere un pezzo originale. Si domandò se il tutto fosse stato arredato personalmente da Harald o se invece fosse intervenuta anche la mano di qualche arredatore d’interni. Quell’amalgama di vecchio e nuovo dava allo spazio un aspetto insolito e, in un certo senso, personale.
«Che te ne pare?» chiese Matthew. Secondo Thora, il tono rilassato di quella domanda rivelava un’abitudine al lusso e all’agiatezza.
«È un bellissimo appartamento, molto elegante», gli rispose accostandosi a una delle pareti imbiancate della stanza, su cui pendeva un’antica calcografia incorniciata, sicuramente originale. Ma appena la ebbe guardata da vicino, si ritirò inorridita. «Che schifezza è questa?» Nella calcografia erano incise così tante figure da costituire una prova di bravura per l’artista. Nell’immagine in bianco e nero si potevano contare almeno una ventina di personaggi, per lo più coppie di uomini in cui l’uno era intento a torturare l’altro o punirlo nei modi più disparati.
Matthew le si avvicinò e si mise a guardare con lei il quadro. «Eccolo qui.» Facendo una lieve smorfia, continuò: «Questo è il quadro che Harald ha ricevuto in eredità da suo nonno. Proviene dalla Germania e descrive le condizioni del Paese nel Seicento o giù di lì, quando le guerre di religione avevano raggiunto il loro apice. Come puoi vedere, ne succedevano di belle». Distolse lo sguardo dalla calcografia. «Quello che lo rende speciale è la sua contemporaneità, cioè il fatto che non si tratti di un’interpretazione di artisti recenti che rendano una situazione lontana nel tempo. Quindi non è fantasiosa o esagerata, ma risponde alla realtà dei fatti, pur se stilizzata dalle mani dell’artista.»
«Non riesco a immaginare cosa un artista potrebbe esagerare rispetto a questo», si fece scappare Thora.
«La realtà supera spesso la fantasia», commentò Matthew scrollando le spalle. «Nei miei anni di servizio presso la famiglia Guntlieb ho potuto farmi un’impressione generale sugli avvenimenti di quel periodo e, credimi, questa non è affatto una delle immagini più raccapriccianti della collezione!» Matthew sorrise sarcastico. «Questa farebbe anzi una bella figura nella cameretta dei bambini, se la si paragonasse con altre molto peggiori.»
«Mia figlia ha un poster di Minnie appeso alla parete della sua cameretta», disse Thora accostandosi a un’altra calcografia. «E puoi scommettere che a casa mia un quadro del genere non verrà mai appeso a nessuna parete, né ora né mai.»
«Certo che no, queste non sono cose da tutti», concordò Matthew seguendo Thora davanti a un quadro che mostrava un uomo disteso su un tavolaccio, in procinto di venire smembrato davanti a un gruppo compatto di persone vestite con il saio, che osservavano due boia azionare la ruota della tortura con forza disumana. Il loro intento era certamente quello di tirare le membra di quel poveraccio fino a disarticolarle. Matthew indicò il centro della calcografia. «Questa immagine mostra le pratiche di tortura impiegate dal tribunale dell’Inquisizione e proviene anch’essa dalla Germania. Come puoi chiaramente vedere, a quel tempo si faceva di tutto per strappare le confessioni ai sospetti.» Guardò Thora negli occhi. «È senza dubbio interessante per te, in veste di avvocato, comprendere le origini della pratica della tortura, poiché la sua comparsa in Europa risale appunto alla giurisprudenza, nel senso lato della parola.»
La donna si preparò all’ennesimo insulto contro la sua categoria, cosa a cui si era dovuta rassegnare fin dai primi giorni dei suoi studi di legge. «Come no? Noi avvocati siamo i responsabili di tutte queste torture, ovviamente!»
«No, sul serio», rispose Matthew. «Nel Medioevo il potere dell’Inquisizione era nelle mani dei singoli individui. Chi riteneva di aver subito un torto o un crimine doveva prima fare la denuncia e poi portare l’accusa in tribunale tutto da solo. I processi erano poi una vera e propria farsa. Se l’accusato non confessava il suo reato davanti al giudice o se non c’erano prove lampanti della sua colpevolezza, la sentenza veniva rimessa nelle mani di Dio. Vale a dire che si sottometteva l’accusato alla prova del fuoco, facendolo per esempio camminare sopra le braci ardenti, buttandolo in acqua legato da capo a piedi e altre assurdità simili. Se le sue ferite, per dire, si erano rimarginate dopo un certo tempo oppure se andava a fondo, era da considerarsi innocente. Il che significava allora che l’accusatore sì trovava a sua volta nella merda, poiché si passava subito a processarlo per menzogna. È evidente perciò che in quel periodo ci si guardava bene dall’accusare qualcuno per non correre il rischio che l’accusa si rivolgesse poi contro l’accusatore stesso.» Matthew indicò la persona distesa sul banco di tortura. «Questo sistema ebbe il sopravvento quando le autorità dello Stato e della Chiesa si resero conto che i delitti, mondani o religiosi che fossero, erano aumentati a dismisura per l’impotenza delle corti di giustizia. Per arginare il fenomeno si ripescarono le leggi vigenti un tempo nell’Impero romano, quando la fase dell’inquisizione e il processo giudiziario si basavano su ben altri metodi. Si riprese, per così dire, l’abitudine di inquisire i presunti rei — di qui il termine ‘inquisizione’. Fu la Chiesa a dare il via a tale sistema, seguita immediatamente dopo dal potere temporale, e si arrivò al punto che la vittima del delitto non aveva più la necessità di portare avanti l’accusa né di presentarsi in giudizio.» Matthew sorrise a Thora. «Ergo: gli avvocati.»
Lei sorrise di rimando. «Non ti sembra un po’ esagerato dare la colpa di tutti questi orrori agli avvocati?» Ora fu lei a indicare il poveraccio alla ruota. «Non vedo proprio il nesso tra la fase inquisitoria e le torture, mi scuserai.»
«Il difetto del nuovo sistema giudiziario era che, per poter condannare l’accusato, bisognava trovare due testimoni del delitto oppure strappare la confessione direttamente al reo. Alcuni reati, come la blasfemia, sfuggono spesso ai testimoni oculari, per cui in quei casi non restava altro che ottenere, a qualsiasi costo, la confessione diretta del colpevole. Insomma, la tortura era parte integrante del processo inquisitivo.»
«Disgustoso», commentò Thora togliendo lo sguardo dall’immagine e indirizzandolo verso Matthew. «Ma come fai a sapere tutte queste cose?»
«Il nonno di Harald aveva una profonda conoscenza di questo periodo storico e ne parlava con passione. A me piaceva molto sentirlo raccontare, anche se devo confessare di avere delle nozioni assai superficiali sull’argomento, paragonato al vecchio marpione.»
«Incredibile», disse Thora. «E questi, sono tutti quadri che hai già visto?»
Matthew diede un rapido sguardo alle pareti. «La maggior parte, credo di sì. Comunque non è che una piccola frazione della collezione di famiglia. Harald ha portato con sé solamente alcuni pezzi in suo possesso, lasciandone altri in Germania. Suo nonno ha speso buona parte della sua vita a raccogliere tutto quanto, per non parlare poi dell’ingente quantità di denaro investita in questa occupazione. Non mi stupirei se fosse la più importante ed esauriente raccolta al mondo di materiale sulle torture e le esecuzioni capitali attraverso i secoli. Ne fa parte anche una serie pressoché completa delle svariate edizioni del Malleus maleficarum ancora esistenti.»
Thora fece un ampio gesto. «E una collezione talmente preziosa stava appesa alle pareti, così senza problemi?»
«No, come ti viene in mente un’idea simile? I libri, i documenti di vario genere, le lettere eccetera sono depositati in una cassetta di sicurezza di una banca tedesca, dato il loro valore inestimabile. Nella dimora di famiglia, inoltre, due sale sono interamente dedicate alla parte della collezione tenuta in mostra. Quello che vedi qui in Islanda proviene da quelle sale. Comunque, non penso proprio che abbiano rimpianto molto la perdita temporanea di questi oggetti. Ai più questo museo dell’orrore faceva ribrezzo: la madre di Harald, per esempio, non metteva mai piede in quelle stanze. Il ragazzo era praticamente l’unico membro della famiglia che condivideva l’interesse del nonno per queste pratiche. Ed è probabile che sia questa la ragione per la quale il nonno gli ha lasciato in eredità l’intera collezione.»
«Perciò Harald poteva trasportare i pezzi della raccolta anche all’estero, se voleva?» domandò Thora.
Matthew sorrise. «Potrei scommettere che gli avrebbero permesso di portarsi via quegli oggetti anche se non li avesse ricevuti in eredità. Anzi, credo proprio che i genitori siano stati felici di potersi liberare di almeno una parte della collezione.»
«Anche la sedia proviene dalla raccolta?» chiese indicando il sedile di legno posizionato in un angolo della stanza.
«Sì. Si tratta di una sedia da immersione, utilizzata per affogare i torturati. Una pratica tipica non tanto dell’Inquisizione, quanto dei tribunali inglesi.»
Thora si avvicinò alla sedia e passò le dita sopra l’intarsio dello schienale. Non poteva leggere l’iscrizione quasi del tutto consumata e di cui non conosceva i caratteri alfabetici. Al centro del sedile c’era un foro, mentre nei braccioli erano infissi lacci di cuoio secchi e rugosi, utilizzati senza dubbio per legare strette le mani e le braccia di chi veniva sottoposto alla tortura.
«Il foro serviva per farci passare l’acqua e impedire che la sedia rimanesse a galla. Il trattamento doveva servire per umiliare l’accusato, tenendolo completamente sott’acqua sin quasi all’annegamento, ma andava qualche volta a finire con l’affogamento vero e proprio per la scarsa abilità dei manovratori.»
«Come sono contenta di non essere nata in quel periodo», sospirò Thora togliendo la mano dalla sedia. Avrebbe sicuramente fatto una fine del genere a quei tempi, anche perché era una che aveva difficoltà a trattenere la lingua, se le stava a cuore un argomento.
«Questo è comunque uno degli strumenti di tortura più semplici della collezione», riprese Matthew. «L’ingegnosità degli inventori in questo campo non aveva confini. Il sadismo sembra dare le ali all’immaginazione.»
«Non vedo l’ora di andarmene da questa stanza così ben arredata; che ne dici di passare oltre?»
Matthew fu d’accordo con lei. «Vieni, ti faccio vedere le altre stanze. Non è che in realtà siano meglio di questa, tranne la cucina, che è del tutto normale.»
Entrarono nella cucina, che si apriva direttamente sulla sala. Non era molto spaziosa, ma era arredata con stile e dotata delle apparecchiature più moderne e funzionali. Tra le credenze erano sparse qua e là bottiglie di vino coricate nelle apposite griglie. Thora cominciò a sospettare che Matthew non avesse mai conosciuto la gente «normale». La cucina di casa sua era forse yin, ma questa era sicuramente yang. C’erano un grande fornello a gas con un’altrettanto voluminosa cappa aspirante d’acciaio, una lavastoviglie di lusso, un lavandino stile ristorante, un frigo-bar e un frigorifero a doppia anta come quelli americani. Thora vi si accostò con reverenza. «Ho sempre sognato un frigo che fa anche i cubetti di ghiaccio come questo.»
«Perché non te lo compri allora?» chiese Matthew.
La donna si girò di scatto verso di lui. «Per la stessa ragione per cui non mi concedo tutti i lussi che vorrei. Perché non me le posso permettere. Anche se ti riesce difficile capirlo, devi sapere che esistono ancora delle famiglie che non hanno tutti questi soldi!»
Matthew la guardò stupito. «Un frigorifero non è certo un lusso.»
Thora evitò di rispondergli e si avvicinò invece alle credenze per gettarvi dentro un’occhiata. In uno degli armadietti inferiori si trovava un set di pentole d’acciaio con dei coperchi di vetro talmente puliti da rivelarne un uso pressoché nullo. «Mi pare di capire che Harald non avesse la stoffa del cuoco, nonostante l’eleganza della cucina», commentò richiudendo lo sportello e rialzandosi in piedi.
«No, se lo conoscevo bene era più il tipo da comprare piatti già pronti o da andare a mangiare al ristorante.»
«Gli estratti conto della carta di credito lo davano a intendere.» Thora si guardò intorno, ma non vide niente che potesse offrirle altre indicazioni. Anche lo sportello del frigorifero era vuoto, nessun magnete di sorta e perciò nessun foglio attaccato davanti. Lo sportello del suo frigo fungeva invece da centro informazioni per la famiglia. Anzi, non ne ricordava più nemmeno il colore, essendo del tutto ricoperto da orari scolastici, inviti a compleanni e altri messaggi importanti. «Andiamo a vedere il resto?» chiese, insoddisfatta della ricerca in cucina. «Dubito che troveremo qualcosa di prezioso qui.»
«No, certo, a meno che non sia stato ucciso per quel frigorifero», rispose Matthew, e aggiunse in tono ironico: «Dove ti trovavi la notte dell’omicidio?»
Thora si accontentò di fargli un sorrisetto di compassione. «A giudicare dalle uscite registrate sulla carta di credito, aveva fatto acquisti in alcuni negozi di piccoli animali. Ma Harald aveva qualche animale domestico?»
Matthew scrollò il capo sorpreso. «No, qui non c’erano né animaletti, né altro che indicasse una loro presenza recente.»
«Avevo pensato che avesse comprato qualcosa da mangiare per il suo animale domestico.» Thora guardò dentro il frigorifero in cerca di cibo per cani, gatti o roba del genere. Niente.
«Telefona», suggerì Matthew. «Forse si ricordano di lui, chissà mai?»
Thora prese il telefono, ottenne il numero del negozio dal centralino, chiamò il negozio, parlò con alcuni commessi e riattaccò. «Strano. Si ricordavano di lui e hanno detto che aveva comprato dei criceti, più di una volta», riferì. «Sei sicuro che non abbiano trovato una gabbietta per roditori durante la perquisizione?»
«Sicuro al cento per cento», rispose lui.
«Stranissimo», ripeté Thora. «Il commesso ha aggiunto che Harald aveva chiesto se avevano da vendergli anche un corvo.»
«Un corvo?» esclamò stupito. «Per farne cosa?»
«Il tizio non ne aveva la più pallida idea. Comunque non hanno corvi in vendita, cosicché non se ne parlò più. Gli era sembrata solo un’uscita bizzarra da parte di un ragazzo altrettanto bizzarro.»
«Non mi meraviglierei se per Harald il corvo fosse uno dei simboli legati alla sua passione per la magia», ribatté Matthew.
«È probabile, ma che c’entrano i criceti?» obiettò Thora.
I due lasciarono la cucina e passarono al corridoio, nel quale si aprivano le porte delle altre stanze. Matthew aprì quella del bagno, a cui Thora diede solamente una breve occhiata e che, ultramoderno com’era, non sembrava nascondere segreti di sorta. Poi passarono alla camera da letto di Harald, che invece si dimostrò più interessante delle ultime due.
«Qualcuno ha fatto le pulizie oppure è sempre stato così ordinato questo appartamento?» chiese Thora indicando il letto rifatto alla perfezione. Un letto insolitamente basso, come il divano della sala.
Matthew si sedette sul bordo, ma le ginocchia quasi gli toccavano il mento, così dovette stendere le gambe in avanti. «Aveva una donna delle pulizie che gli metteva sempre tutto a posto. Purtroppo lo fece anche il fine settimana in cui Harald venne ucciso, con poca gioia della polizia. Naturalmente lei non poteva sapere niente dell’accaduto, come d’altronde nessuno dei suoi conoscenti. Si era presentata al lavoro come aveva sempre fatto e non aveva notato niente di insolito. Parlando con lei mi è parso che non avesse niente di che lamentarsi per quanto riguardava Harald, invece le altre donne impiegate nella sua impresa di pulizie non volevano lavorare in quell’appartamento.»
«Ma che strano!» commentò l’avvocatessa in tono sarcastico, indicando le immagini appese alle pareti. Anche qui si potevano ammirare quadri simili a quelli nella sala, ma in questo caso le figure mostravano per lo più torture inflitte a donne, che venivano punite o giustiziate. Alcune di esse erano state denudate fino alla vita, altre del tutto. «Questa è proprio la normale stanza da letto di una persona per bene, non credi?»
«Strane persone devi frequentare», ribatté Matthew stando al suo gioco.
«A parte gli scherzi», riprese Thora dirigendosi verso un ampio schermo appeso alla parete antistante il letto, «mi vengono i brividi solamente al pensiero di cosa potesse avere nel suo lettore DVD.» Piegandosi sull’apparecchio incastonato in un basso tavolino sotto il televisore, lo accese e spinse il tasto di espulsione, ma non uscì niente.
«Il disco l’avevo già estratto io», lo informò Matthew.
«Che film stava guardando?» chiese Thora girandosi verso di lui.
«Il Re Leone»,rispose l’uomo senza battere ciglio e alzandosi a fatica dal letto. «Ora andiamo, è arrivato il momento di mostrarti la camera degli ospiti e il suo studio. Lì potremmo finalmente trovare qualcosa di più utile per la nostra indagine.»
Prima di seguirlo, Thora decise di dare un’occhiata al comodino di fianco al letto. Estrasse l’unico cassetto, e vide numerosi vasetti di crema e tubetti di vaselina, oltre a un pacchetto di preservativi da cui mancavano alcuni pezzi. C’erano dunque delle donne che non si facevano spaventare da qualche ornamento murale, pensò chiudendo il cassetto e rimettendosi a seguire Matthew.
Laura Amaming guardò l’orologio. Per fortuna mancavano ancora quindici minuti alle tre, sicché aveva tempo a sufficienza per portare a termine le pulizie e presentarsi alla lezione alle quattro in punto, in perfetto orario. Dopo aver vissuto per un anno in Islanda, finalmente quell’autunno si era decisa a iscriversi ai corsi di lingua islandese per studenti stranieri. Il corso veniva tenuto presso l’edificio principale dell’università, a poca distanza dall’Istituto Arni Magnusson dove lei svolgeva la sua attività di donna delle pulizie. Se le lezioni si fossero svolte da qualche altra parte non avrebbe potuto frequentarle, dato che finiva di lavorare solo mezz’ora prima dell’inizio dei corsi, e ancora non poteva permettersi l’acquisto di un’automobile.
Laura mise lo straccio nel lavandino e sciacquò lo sporco con un getto di acqua calda. Fra sé e sé ripeté tra le labbra le parole heitt, cioè caldo, e kalt, cioè freddo, maledicendo al contempo la difficilissima pronuncia dura di quella lingua.
Strizzò lo straccio e lo immerse nel secchio di acqua clorata, poi prese lo spray puliscivetri e tre strofinacci puliti: la aspettavano i vetri interni di tutte le finestre del secondo piano, per cui uscì dallo stanzino e salì le scale.
Era stata fortunata, dal momento che i primi tre uffici erano vuoti. Era molto meglio lavorare quando non c’era nessuno in giro, soprattutto nelle giornate di pulizia dei vetri, quando era costretta a salire sopra le sedie o altri mobili per arrivare nei punti più alti. Si vergognava a compiere tali operazioni sotto gli occhi vigili di impiegati con i quali non poteva neppure comunicare le sue difficoltà linguistiche. Nella sua patria lontana, le Filippine, era stata una persona loquace, che amava chiacchierare del più e del meno senza alcuna timidezza. Qui in Islanda invece non si sentiva mai a suo agio, se non con i suoi connazionali; anzi, sul lavoro aveva l’impressione di essere un oggetto qualunque piuttosto che un essere umano. La gente attorno a lei parlava come se lei non esistesse affatto. Tutti a eccezione del soprintendente alle pulizie, Tryggvi, uno che si comportava sempre con la massima gentilezza e faceva tutto quello che poteva per intrattenere rapporti, seppur superficiali, con Laura e le sue compagne di lavoro, anche se spesso non si superava il limite della pura e semplice gestualità e delle risate di incomprensione. Tryggvi non se la prendeva se loro ridevano di continuo mentre cercavano di indovinare il senso delle sue mimiche e delle frasi incomprensibili che le seguivano. Era veramente un gentiluomo, e Laura non vedeva l’ora di potergli dire qualcosa nella sua ostica lingua il prima possibile. Una cosa era certa: il suo nome non l’avrebbe mai potuto pronunciare nemmeno se avesse frequentato tutti i corsi di islandese, dal primo all’ultimo. Ripeteva continuamente a bassa voce: «Tryggvi», e non poteva far altro che sorridere nel sentire come quella parola le uscisse dalle labbra.
La donna entrò nella quarta stanza, il salone che veniva utilizzato come una sorta di ritrovo sociale dagli studenti. Sul liso divano in fondo alla stanza sedeva una ragazza che Laura aveva visto spesso insieme con lo studente ucciso. Tutti i giovani che facevano parte del gruppo di Harald erano facilmente riconoscibili, sempre tetri com’erano sia nel carattere sia nel vestire. La ragazza, che aveva i capelli rossi, era immersa in una telefonata sul cellulare e, benché parlasse a bassa voce, si capiva che l’argomento non era dei più divertenti. Guardò in direzione di Laura, poi avvicinò la mano a coppa davanti al telefonino come per assicurarsi che non sentisse la sua conversazione. Salutato in fretta l’interlocutore, infilò agitata l’apparecchio nella sua sacca verde militare, si alzò e passò con sussiego di fianco a Laura per andarsene. La donna le rivolse un sorriso e si concentrò per dirle «bless», un ciao di commiato. Lei si fermò sulla soglia, si voltò stupita nell’udirla salutare in islandese e borbottò qualcosa di incomprensibile prima di uscire sbattendo la porta. Che peccato, pensò Laura. Era una ragazza carina, e sarebbe stata addirittura bella, se avesse curato di più il suo aspetto, togliendosi per esempio quegli anelli infilzati nelle sopracciglia e nel naso o imparato a sorridere ogni tanto agli altri. Ma tant’è, le finestre l’attendevano e il tempo passava. Laura spruzzò i vetri della prima finestra con il detergente e li passò con un panno pulito, facendo dei cerchi concentrici. Fortunatamente quei vetri non erano molto sporchi, dato che le tendine venivano spesso tenute chiuse per evitare che gli studenti ci lasciassero le impronte, così il lavoro procedette veloce fino all’ultima finestra. Lì la filippina trovò una macchia, una specie di striscia rossa sulla maniglia d’acciaio.
Laura recuperò lo straccio che si era appena messa nella tasca del grembiule. Era inutile sporcare quello immacolato che teneva in mano. Spruzzò il liquido detergente sulla maniglia e la strofinò bene sopra e sotto. Ogni tanto accadeva che le addette alle pulizie più giovani tralasciassero i punti meno visibili, invece lei si accorse che l’impiastro proseguiva anche sotto. Per fortuna quel lavoro era toccato a lei, ci mancava solo che uno di quegli studenti sempre di cattivo umore andasse a lamentarsi in giro.
Laura storse il naso di fronte al disordine di quella stanza, di cui la maniglia non era che un’ulteriore prova. Chi mai poteva avere delle mani così sporche? Qualunque cosa fosse, quella roba veniva via a meraviglia, comunque per sicurezza Laura diede un’altra passata, guardò compiaciuta quell’acciaio lucido e smagliante e provò un senso di vittoria nei confronti di Gunnar. Quando stava per rimettersi in tasca lo strofinaccio, le venne di guardare la macchia che vi si era formata: quel rosso era sangue, non c’era alcun dubbio. Ma come era andato a finire sulla maniglia tutto quel sangue? Laura non ricordava di averne pulito altro sul pavimento nei giorni precedenti, eppure chi aveva afferrato la maniglia avrebbe dovuto sporcare anche qualcos’altro, lì attorno. Che la cosa avesse a che fare con l’omicidio perpetrato all’università? Improbabile. Le finestre erano già state pulite diverse volte da quella notte. Laura aggrottò le sopracciglia e si concentrò. Ricordava bene che non era stata lei a occuparsi di quella stanza dopo il delitto, cosicché tentò di ricostruire a chi fosse toccato. Certo, si era provveduto a pulire l’intera ala orientale dell’edificio il giorno dopo. Ma ovvio, com’era stupida. La polizia aveva interrogato una delle addette più giovani, Gloria, che si accollava i turni festivi.
E ora, che fare? Con il suo islandese limitato a «caldo», «freddo» e poco altro, non sarebbe mai riuscita a spiegare le circostanze della sua scoperta. E poi sarebbe potuta finire nei guai con le autorità per aver commesso lo sbaglio di pulire la macchia di sangue dalla maniglia e cancellare così le possibili impronte digitali. Ma si sarebbe potuta trovare in una posizione scomoda anche se poi fosse saltata fuori una spiegazione banale della faccenda. Che brutta gatta da pelare! Si ricordava bene di come Gloria, uscita spaventata dagli interrogatori della polizia, si fosse persino messa a piangere nel descrivere la brutalità degli agenti. Laura, pur sospettando che la collega avesse esagerato per sembrare più drammatica, non se la sentiva affatto di sottoporsi a un’esperienza simile. Si mise allora a cercare dell’altro sangue nel pavimento. Se ne avesse trovato, il caso era chiuso, dato che lei stessa aveva passato lo straccio più di una volta dalla notte del delitto. Si sarebbe allora trattato di qualcosa avvenuto più recentemente, per motivi più naturali.
Ma per terra non c’era alcuna traccia di sangue, e neppure nelle fessure tra il pavimento e la parete. Laura si morse preoccupata il labbro inferiore e cercò di farsi coraggio. La polizia aveva già arrestato il colpevole. Questo imprevisto non aveva nessuna importanza. Se la macchia di sangue era connessa all’omicidio, allora non si trattava che di un’ulteriore prova di colpevolezza del detenuto. La donna respirò profondamente. Le vennero in mente le riviste che sfogliava nelle riunioni della comunità filippina in Islanda, nelle quali si leggevano interviste a testimoni oculari, spesso figli delle vittime, che tenevano in mano delle prove indiziarie quando si facevano fotografare per la gioia dei rotocalchi. Ma lei non se la sentiva di comparire in uno di quei servizi, con la maniglia in bella vista al suo fianco. No, si stava creando degli inutili allarmismi. Qualche studente aveva perso sangue dal naso, gli era girata la testa e aveva aperto la finestra per respirare un po’ di aria fresca. Una spiegazione plausibile, iniziò a pensare sollevata, quando all’improvviso le vennero in mente i suoi figli con il sangue che gli colava dal naso: loro si precipitavano in bagno, e non verso la finestra!
Eppure… Laura prese di nuovo lo strofinaccio e decise di fare un altro controllo. Se veramente c’era stata una lotta in quella stanza, non era improbabile che ne fosse rimasta qualche traccia anche dopo le accurate pulizie del colpevole. Chi non era abituato a pulire poteva non accorgersene. Si fece il segno della croce e decise che, se nello straccio non spuntava altro sangue, le sue apprensioni non avevano fondamento. Altrimenti avrebbe subito avvisato le autorità, e pazienza se ciò significava dover disturbare la quiete del buon Tryggvi.
La donna si inginocchiò e spinse lo straccio lungo le fessure del pavimento. Niente. Le solite tracce di polvere e di altra sporcizia, ma di sangue nessuna traccia. Risollevata, si alzò soddisfatta per il buon esito del suo esperimento. Che sciocca era stata! Si era lasciata suggestionare dal ritrovamento del corpo. Di quel cadavere seviziato e dall’aspetto così diabolico. Laura si rifece il segno della croce.
Quando stava per lasciare la stanza, le cadde l’occhio sullo zoccolino accanto alla porta, e vi passò il suo panno. Qualcosa lo fece incastrare. Piegandosi per guardare meglio, scorse un oggettino che luccicava come l’argento e si mise a cercare intorno qualcosa per poterlo estrarre. Adocchiò un righello sopra uno dei banchi e lo andò a prendere, poi si inginocchiò di nuovo e tentò con tutta la sua abilità di estrarre l’oggetto, che alla fine, dopo diversi tentativi, saltò fuori. Laura lo prese tra le dita e si rimise in piedi a fatica. Era una stellina d’acciaio, grande quanto l’unghia del mignolo. La posizionò sul palmo della mano e la osservò. Dove l’aveva già vista prima di allora? All’improvviso si riscosse: ora doveva assolutamente proseguire con la pulizia dei vetri, se non voleva arrivare in ritardo alle lezioni. Si infilò la stellina in tasca, decisa a consegnarla a Tryggvi. Forse lui sapeva da dove proveniva. Ma di certo non c’entrava con l’omicidio o col sangue sulla maniglia, che doveva avere i suoi buoni motivi per essere andato a finire lì. Laura si rifece il segno della croce e cercò di cancellare dalla memoria quel ricordo ripugnante. Forse doveva parlarne con Gloria. La ragazza era sicuramente di turno assieme a lei quel fine settimana, e poteva addirittura darsi che sapesse più di quanto avesse rivelato alla polizia.
Marta Mist era appoggiata alla parete del corridoio, spazientita per il ritardo con cui la donna delle pulizie terminava il suo dovere. Non è poi che ci fosse così tanto da fare in quella stanza: buttare via delle lattine, risciacquare qualche tazza e passare lo straccio sui pavimenti. La ragazza gettò un’occhiata all’orologio del cellulare. Maledizione, quella stupida si era certamente sdraiata sul divano. Con gesti rapidi richiamò il numero di telefono di Briet nella memoria dell’apparecchio. C’erano poche cose che le davano sui nervi come il sospetto che i destinatari delle sue telefonate guardassero il display e, riconoscendo il numero, si rifiutassero di rispondere. Ma le sue apprensioni si rivelarono infondate.
«Ciao», rispose Briet.
Marta Mist tralasciò i convenevoli di rito. «Non l’ho trovato. Sei sicura di averlo messo nel cassetto?» chiese in tono secco.
«Merda di una merda!» imprecò Briet con voce tremante. «Ne sono sicurissima, l’ho infilato proprio là. Anzi, tu stessa mi hai visto farlo!»
Marta Mist emise una risata sprezzante. «Scordatelo, non ero nemmeno in grado di mettere a fuoco quello che mi passava davanti!»
«L’ho messo nel cassetto. So bene di averlo fatto», ripeté Briet con ostinazione tirando un profondo sospiro. «Che gli dico ora a Dori? Quello farà il matto.»
«Niente. Non gli dici proprio un cazzo a quello!»
«Ma…»
«Niente di niente, capito? Non è più nel cassetto, e allora? Che altro puoi farci tu?»
«Va bene… Ma non lo so», concluse Briet in tono di sconfitta.
«Comunque, è un bene che io lo sappia», riprese prontamente Marta. «Ho già parlato con Andri, e anche lui è d’accordo con me. Noi non diciamo mente e non facciamo niente, anche perché c’è ben poco da dire e da fare.» Si trattenne dall’aggiungere che c’erano voluti più di venti minuti per convincere Andri a non dire niente, di tutto quanto, ad Halldor. Invece addolcì il tono e concluse: «Non ti preoccupare. Se si trattasse di una cosa seria l’avrebbero già scoperto».
La porta della sala si spalancò e ne uscì la donna delle pulizie. A giudicare dal suo volto, c’erano delle grosse notizie dal mondo degli strofinacci! Aveva l’aspetto di una costretta a ingoiare del rabarbaro inacidito. Quanto tempo perso, pensò Marta Mist staccandosi di scatto dalla parete. «Briet», disse al telefono, «la tizia delle pulizie è appena uscita. Ora posso mettermi a cercare meglio. Ti chiamo più tardi», e chiuse la conversazione telefonica senza salutare. I soliti impicci della malora.
Thora sedeva alla scrivania di Harald Guntlieb, intenta a sfogliare una catasta di documenti. A un certo punto, sollevò gli occhi dai fogli, si stiracchiò e sbirciò Matthew, il quale sedeva in una poltrona nell’angolo dello studio, a sua volta immerso nella lettura. Avevano entrambi deciso di mettersi subito a indagare sugli atti indiziari che la polizia aveva prelevato durante la perquisizione dell’appartamento e di recente restituito. Si trattava di tre voluminosi scatoloni di cartone pieni di documenti di ogni tipo e, dopo meno di un’ora di lettura e catalogazione, Thora stava cominciando a perdere di vista il senso di quella ricerca. Le carte provenivano da diverse fonti: la maggior parte di esse era legata in un modo o nell’altro agli studi di Harald, poi c’erano estratti conto bancari, delle carte di credito e di altre istituzioni. Dal momento che quasi tutto era scritto in islandese, Matthew non si stava dimostrando di grande aiuto.
«Che cosa stiamo cercando di preciso?» chiese Thora di punto in bianco.
Matthew abbassò la pila di fogli in inglese che teneva tra le mani e la posò sul tavolino al suo fianco, stropicciandosi poi gli occhi per la stanchezza. «Innanzitutto stiamo cercando qualcosa che è sfuggita agli investigatori e che ci spieghi, per esempio, dove sia andato a finire il denaro prelevato da Harald poco dopo il trasferimento dal suo conto in banca tedesco alla banca islandese. Inoltre potremmo anche imbatterci in…»
Thora lo interruppe. «Tutto ciò non mi è di nessun aiuto. Quello che intendevo dire è che forse faremmo meglio a riflettere su chi potrebbe essere implicato nell’omicidio o, per lo meno, chi ne ricaverebbe un qualche utile. Io non ho nessuna esperienza di indagini per omicidio e vorrei sapere come si procede di solito, prima di andare avanti con questa lettura apparentemente mutile. Certo, non mi entusiasmerebbe rimettermi a leggere tutte queste carte dall’inizio quando mi spiegherai cosa cercare.»
«No, hai ragione», convenne Matthew. «Però non sono affatto sicuro di sapere cosa risponderti. In effetti non stiamo cercando niente di preciso in anticipo. Mi dispiace ammetterlo. E in un certo senso non stiamo cercando niente in assoluto. Quello che stiamo facendo ora è delineare il tipo di vita svolto da Harald prima e fino al momento della sua morte, per tentare di capire quali circostanze abbiano portato all’omicidio. E se nel frattempo troviamo anche qualcosa che ci porti a indiziare qualcuno, è solamente un colpo di fortuna. Ma se ti serve per demarcare le piste da seguire, posso dirti che il più delle volte i motivi che spingono una persona a commettere un omicidio sono la gelosia, l’ira, i soldi, la vendetta, un attimo di pazzia, la legittima difesa e le psicosi sessuali.»
Thora si attendeva qualcosa di più, ma era chiaro che Matthew aveva terminato la sua elencazione. «Beh, ci dovrà pur essere dell’altro, no?»
«Ti ho già detto di non essere un esperto in materia», rispose Matthew innervosito. «Esistono certamente numerose altre ragioni, ma quelle che ti ho elencato sono per il momento le uniche che mi vengono in mente.»
Thora meditò su quell’osservazione prima di riprendere la parola. «D’accordo, diciamo che questi sono i motivi principali. Ma quale di essi potrebbe riguardare l’omicidio di Harald? Aveva per caso dei rapporti intimi con qualche donna? Potrebbe trattarsi di un delitto passionale?»
Matthew scosse il capo. «No, non penso che avesse delle relazioni fisse. Ma non è da escludere che la gelosia possa aver giocato qualche ruolo in questa vicenda. Forse qualcuno lo amava senza esserne ricambiato.» Per un istante Matthew tacque, poi riprese: «Però le donne molto raramente strangolano le loro vittime; no, non credo si tratti di un delitto passionale».
«No, appunto», disse Thora pensierosa. «A meno che il delitto passionale non sia stato commesso da un altro uomo. Harald era omosessuale, che tu sappia?»
Matthew rimase impassibile. «No, non penso proprio. Anzi, ne sono sicuro.»
«Come lo sai?»
«Lo so e basta», rispose Matthew che, scorgendo l’espressione scettica di Thora, aggiunse: «È una mia dote istintiva, io me lo sento subito se qualcuno gioca per l’altra squadra. Non so come spiegarlo, ma il mio intuito è finissimo».
L’avvocatessa decise di non impelagarsi in una discussione del genere, pur dubitando che le presunte facoltà di Matthew nel riconoscere le tendenze sessuali altrui fossero maggiori di quelle di qualunque altra persona. Anche il suo ex marito, per esempio, era posseduto da simili preconcetti campati in aria, e che di solito crollavano miseramente alla prova dei fatti. Meglio cambiare argomento. «Non essendoci né segni di violenza sessuale né tracce di atti osceni, potremmo forse escludere il delitto passionale.»
«Magnifico, abbiamo già escluso un movente», rispose Matthew sorridendole ironicamente. «Ora siamo a cavallo.»
Thora non si scompose. «E tu, che idea ti sei fatto?»
Matthew la guardò silenzioso per un istante prima di risponderle. «È probabile, secondo me, che c’entri qualcosa il denaro scomparso, anche se non riesco a togliermi dalla mente quelle ricerche sulla magia. La faccenda degli occhi e la runa magica incisa sul corpo non fanno che corroborare tale teoria. Comunque mi sembra assurdo commettere un delitto per dei riti magici o per una storia vecchia di secoli.»
«Già, l’intera questione suona male. E se si esclude il trattamento riservato al cadavere, la polizia non ha trovato nient’altro che si ricolleghi alle pratiche magiche. Gli investigatori non possono aver tralasciato la pista delle arti occulte», disse Thora, affrettandosi poi ad aggiungere: «E non dirmi che i poliziotti sono tutti degli stupidi. Sarebbe una semplificazione troppo comoda».
«Hai perfettamente ragione», riprese Matthew. «La polizia ha già controllato eventuali connessioni con la magia. Però sono convinto che gli agenti non si siano resi conti del fatto che le ricerche di Harald non erano affatto una fissazione da psicotico o una stramberia da ragazzino. Sono entrati qui dentro, hanno visto quello che sta appeso alle pareti e hanno pensato che Harald non fosse altro che un figlio di papà immaturo e per giunta squilibrato. Per loro questi preziosi oggetti da collezione erano solo porcherie, il che, probabilmente, non è diverso da ciò che tu stessa ritieni.» Matthew attese la replica di Thora la quale, però, non si era affatto sentita provocata da quell’ultima uscita. Allora continuò: «A peggiorare le cose si sono aggiunte le tracce di sostanze stupefacenti ritrovate nel suo sangue. Agli occhi della polizia, Harald era un tossicomane psicopatico e masochista che negli ultimi attimi di vita era in compagnia di un individuo del suo stesso stampo, un tizio talmente imbottito di allucinogeni da non essere in grado di fornire agli investigatori un alibi decente per quella notte. Da parte loro non si è trattato che di una conclusione logica, ma di cui io non sono per niente soddisfatto. Molti quesiti rimangono ancora irrisolti».
«Se ho ben capito, tu ritieni che gli studi di Harald sulle persecuzioni contro le streghe e sulle arti magiche siano direttamente connessi al delitto?» Thora lo domandò nella speranza che Matthew rispondesse negativamente. Se quella connessione non esisteva, avrebbero potuto accantonare oltre metà dei documenti in loro possesso.
«No, sono ben lungi dall’esserne sicuro», rispose invece l’uomo. «Eppure i miei sospetti sono fondati. Guarda qui, per esempio.» Matthew sfogliò le carte che teneva sottomano e passò a Thora la copia di una e-mail inviata da Harald a un certo [email protected] in inglese, datata otto giorni prima dell’omicidio:
Ciao Mal,
allora, amico mio, mettiti a sedere. L’HO TROVATA, PENSA UN PO’. D’ora in poi dovrai rivolgerti a me con il titolo di «Onorevole dottore». Lo sapevo, lo sapevo. Non è che voglia rinfacciarti il tuo scetticismo. O forse sì!
Non ho che da ritoccare dei piccoli dettagli, visto che quel deficiente sta pensando di tirarsi indietro proprio adesso. Allora, preparati per la grande notizia. Che colpo di genio, ora sto pensando di prendermi una bella sbronza in più, non so se mi spiego. Stiamo in contatto.
«Pensi che si tratti di una pista da seguire?» chiese a Matthew, perplessa.
«Può darsi. O forse no.»
«La polizia deve aver contattato questo Malcolm. Chiunque abbia visto il messaggio si sarà insospettito.»
«Può darsi», ripeté Matthew stringendosi nelle spalle. «O forse no.»
«Comunque potremmo metterci in contatto noi con questa persona per sapere cosa avesse trovato Harald.»
«O chi fosse il deficiente nominato nella lettera.»
Thora posò il foglio. «Dov’è il suo computer? Stava qui, non è vero?» disse indicando il tappetino del mouse sulla sua scrivania.
«La polizia l’ha preso e lo restituirà, credo, assieme agli altri averi di Harald.»
«Forse lì troveremo altre e-mail di questo tipo», disse Thora speranzosa.
«O forse no», le rispose Matthew sorridendo, poi si alzò e si allungò per prendere un libro dallo scaffale situato sopra la scrivania. «Tieni, portati a casa questo. È una lettura indispensabile se vuoi penetrare nella mentalità del povero Harald», affermò porgendole un’edizione del Malleus maleficarum in brossura.
Thora prese il volume e guardò stupefatta Matthew. «Esiste anche in edizione tascabile?»
«Viene ancora stampato regolarmente, anche se credo che ormai quelli che lo comprano siano più spinti dalla curiosità che da altro. Durante la lettura non dimenticare, però, che un tempo le ragioni erano ben altre.»
Thora infilò il libro nella borsetta, si rialzò in piedi e si stiracchiò. «Posso usare il bagno?»
«Forse. E forse no.» Matthew sorrise ancora. «Fai pure. Se dovesse arrivare la polizia per setacciare di nuovo il bagno, li tratterrò io finché avrai finito!»
«Ma che gentile!» Thora si diresse verso il bagno, ma in corridoio avanzò più lentamente di quanto avesse previsto, poiché alle pareti erano appesi altri quadri e oggetti antichi che suscitarono la sua curiosità. Anzi, più che di curiosità si trattava di vero e proprio terrore, eppure non poteva negare che tutto ciò possedesse un certo magnetismo tutto suo. Senza dubbio era la stessa attrazione che faceva rallentare le macchine quando passavano davanti a un incidente stradale. Le immagini alle pareti appartenevano palesemente alla collezione del nonno, visto il leit motiv: la morte e il diavolo.
Dentro il bagno c’era invece poco o nulla che si ricollegasse agli interessi dell’ex affittuario. I pochi oggetti erano ordinati in modo sistematico negli armadietti a giorno. Thora si vide riflessa allo specchio impeccabilmente lustro soprastante il lavandino e si passò le dita tra i capelli per rinfrescarsi un po’ l’aspetto. Poi lo sguardo le cadde su uno degli scaffali, dove c’era uno spazzolino da denti che sembrava nuovo. Si guardò attorno perplessa. Doveva esserci sicuramente un’altra stanza da bagno nell’appartamento, magari un bagno di servizio che Harald usava regolarmente. Questo era troppo perfetto per essere vero. Non poteva essere altrimenti.
Quando la donna tornò allo studiolo si fermò sulla soglia e annunciò: «Ci deve essere un altro bagno in questa casa».
Matthew sollevò gli occhi stupito. «Che intendi dire?»
«Il bagno in fondo al corridoio è nuovo di zecca. È assolutamente da escludere che Harald non avesse nemmeno, che so, una confezione di filo interdentale che non fosse in stile con gli elementi cromatici e architettonici della stanza!»
Matthew le lanciò un sorriso soddisfatto. «Oh, finalmente! Continua poi a dire che non sai fare le investigazioni!» E le indicò la parte dell’appartamento che avevano già attraversato. «È la porta nella camera da letto. Là dentro c’è un altro bagno.»
Thora si girò sui suoi passi e tornò indietro. Si ricordava di aver scorto quella porta poco prima, ma pensava fosse quella di una cabina armadio. Ora voleva vedere l’aspetto della toilette «vera», inoltre non aveva alcuna voglia di rimettersi a leggere carte. Entrata nel bagno della camera da letto, sorrise tra sé e sé. C’era una doccia e la normale confusione di un bagno normale, ovvero tutta una serie di prodotti igienici e cosmetici sparsi sul ripiano del lavabo, nessuno dei quali in stile con gli altri o con l’arredamento. Thora gettò anche un’occhiata dentro la cabina della doccia. Sulla mensolina di plastica affissa al muro sopra i rubinetti c’erano due bottiglie di shampoo, una delle quali al contrario, un bilama, una saponetta usata e un tubetto di dentifricio. Ai rubinetti era appeso un flacone di bagnoschiuma senza troppe pretese. Thora si sentì un pochino risollevata. Soprattutto la rincuorava il portagiornali appeso accanto al WC, con la tipica collezione di riviste di chi vive da solo. Presa dalla curiosità di appurare gli interessi di Harald nel settore della lettura mondana, si mise a sfogliare quella miscellanea di titoli diversi: delle riviste di motori, un periodico di storiografia, due numeri dello Spiegel, un mensile di tatuaggi e una copia di Bunte. Thora fu sorpresa nel trovare quella rivista tipicamente femminile, che per lo più si occupava di storie e pettegolezzi sulle celebrità del jet-set, tra le preferenze di Harald. Anzi, una cosa del genere non le sarebbe mai passata neanche lontanamente per la testa. Tom Cruise e la sua nuova conquista le sorridevano dalla copertina del periodico sotto il titolo: «Tom Cruise sarà di nuovo papà!» Ma lo scoop sulle vicende prenatali della coppia celebre esercitava su di lei la medesima attrattiva di un articolo sulla coltivazione dei cetrioli, e la rivista tornò al suo posto.
«Lo sapevo», Thora annunciò in tono trionfante tornando nello studio.
«Lo sapevo anch’io», rispose Matthew. «Solamente che non sapevo che tu non lo sapessi.»
Thora era in procinto di rispondergli quando le squillò il telefonino, che estrasse dalla borsetta.
«Mamma», disse la flebile voce di Soley dall’altra parte. «Quando vieni a casa?»
Thora guardò l’orologio e si rese conto che era passato molto più tempo di quanto avesse previsto. «Arrivo fra pochissimo, amore. È successo qualcosa?»
Silenzio, poi: «No, no. Però mi sono stufata. Gylfi non ha voglia di giocare con me. Si è chiuso in camera, salta sul letto e non mi vuole far entrare!»
Thora non afferrò del tutto la situazione descritta da sua figlia, anche se era chiaro che Gylfi non stava svolgendo le sue mansioni di baby-sitter con la dovuta serietà. «Senti, gioia», le disse teneramente al telefono, «arrivo subito. Di’ a tuo fratello di smetterla di fare lo stupido e di uscire dalla sua stanza per stare con te.»
Poi madre e figlia si salutarono e Thora rimise il cellulare nella borsetta. Facendolo trovò il bigliettino dove aveva annotato alcune domande da rivolgere a Matthew. Lo prese e lo aprì. «Vorrei chiarire con te alcuni particolari ancora oscuri del dossier.»
«Alcuni?» ribatté Matthew sorpreso. «Mi aspettavo qualcosa di più, almeno ‘parecchi’. Ma comunque, dimmi pure.»
Thora ripassò in fretta la lista. Che diamine, si era veramente fatta sfuggire così tanti particolari? Meglio fare come se niente fosse. «Per la verità sto parlando solamente dei punti più importanti, i dettagli erano troppi per poterli appuntare.» Gli sorrise e proseguì: «Per esempio, il servizio militare. Perché sono stati inseriti nel dossier i documenti della leva? Harald era veramente così malato da non poter portare a termine il suo mandato?»
«Il servizio militare? No, l’ho inserito solamente perché ti facessi un’idea più ampia della vita di Harald. Probabilmente non ci dirà niente di particolare, ma non si sa mai dove potrebbero emergere delle connessioni importanti.»
«Stai forse dicendo che l’omicidio potrebbe addirittura collegarsi con il periodo trascorso nell’esercito?» chiese Thora scettica.
«No, non con certezza, almeno», rispose Matthew con altrettanto pessimismo. «Nelle questioni che riguardano Harald non si può essere mai sicuri di niente».
«Ma per quale motivo si era arruolato?» domandò Thora incuriosita. «A giudicare dai suoi precedenti, era più un tipo antimilitarista.»
«Non hai tutti i torti. In effetti, all’arrivo della cartolina di leva, in circostanze normali avrebbe optato per il servizio civile. Come saprai, l’obiezione di coscienza è un’alternativa valida in Germania.» Thora assentì. «Però sua sorella Amelia era morta da poco e la tragedia lo aveva profondamente segnato. Anzi, mi sentirei di affermare che avesse preso la decisione di partire soldato per una crisi spirituale. Era l’inizio del 1999 e nel novembre o dicembre dello stesso anno la Germania aveva deciso di inviare le sue truppe di pace nel Kosovo. Harald partì col sorriso sulle labbra. Benché non conosca la sua carriera militare nei minimi particolari, so che all’inizio si era rivelato un soldato modello, caparbio e coriaceo. Per questo motivo, ciò che poi accadde in Kosovo prese tutti di sorpresa.»
«Che cosa accadde?»
Matthew sogghignò. «In effetti è una storia piuttosto bizzarra, per così dire. Soprattutto se tieni presente che quella spedizione era la prima che l’esercito tedesco intraprendeva dalla fine della seconda guerra mondiale. Era dunque importantissimo che le reclute inviate fossero le migliori.»
«E Harald non lo era?»
«No, no, lui lo era, solo che fu sfortunato. Circa tre mesi dopo il suo arrivo in quella polveriera, il suo reggimento arrestò un serbo sospettato di avere informazioni riguardanti un attentato dinamitardo che aveva ucciso tre soldati tedeschi e ne aveva mutilati altri. Il serbo era tenuto in custodia nello scantinato della costruzione che serviva da quartiere base dell’armata. Harald era stato assegnato alla vigilanza. La seconda o la terza notte di prigionia c’era appunto lui di guardia, e il detenuto ancora non aveva detto una sola parola. Harald aveva rivelato al suo superiore di conoscere la maniera di far parlare le persone sotto interrogatorio e aveva ottenuto il permesso di provare tali metodi la notte successiva.» Matthew guardò Thora. «Chi gli concesse di cimentarsi in queste pratiche non aveva ovviamente alcuna idea della dimestichezza di Harald con la storia delle torture.»
Thora sbarrò gli occhi. «Lo ha torturato?»
«Diciamo soltanto che al serbo andò peggio che alla piramide umana del carcere di Abu Graheb. Ora, non sto assolutamente cercando di minimizzare gli eventi in Iraq, ma le foto che abbiamo visto in televisione erano come la cerimonia di apertura delle Olimpiadi, paragonate con le sofferenze subite dal poveretto quella notte. Al cambio della guardia, la mattina dopo, Harald aveva naturalmente ottenuto tutte le informazioni che voleva, anzi, sicuramente anche qualcuna in più! Ma invece di ricevere i ringraziamenti che si aspettava e che credeva di meritare, fu congedato su due piedi non appena i suoi superiori videro il relitto di carne e sangue che giaceva sul pavimento della cella. Il fatto venne poi fatto passare sotto silenzio, come è logico, e in tutti i documenti ufficiali venne scritto che il congedo era avvenuto per motivi di salute.»
«E come fai tu a saperlo, allora?» chiese Thora, felice di poter finalmente fare una domanda relativamente normale.
«Io conosco delle persone», rispose Matthew con sussiego. «Ho anche parlato personalmente con Harald al suo ritorno dal Kosovo. Era tutto un altro individuo quello che mi trovai davanti, te lo posso assicurare. Che fosse stata l’esperienza militare o il gusto del sangue, non saprei dirlo. Era comunque diventato molto più strano di quanto già non fosse in precedenza».
«In che senso?»
«Così, più strano del solito. Sia nell’aspetto, sia nei modi di fare. Anzi, subito dopo queste vicende si iscrisse all’università e andò a vivere da solo, cosicché non ebbi più altrettante occasioni per parlargli. Le poche volte che poi ci incontrammo mi risultò comunque evidente che era entrato in una spirale senza fondo. E la morte di suo nonno, pochi mesi dopo, non fece che peggiorare la situazione. I due erano molto attaccati l’uno all’altro.»
Thora non sapeva che dire. Harald Guntlieb era indubbiamente un individuo molto particolare. Decise così di rimettersi a leggere la sua lista e arrivò all’articolo sulla vittima del sesso da soffocamento. A quel punto, però, di queste storie ne aveva già piene le tasche. Guardò il suo telefonino e vide che si era fatto molto tardi. «Matthew, ora devo proprio andare. La mia lista non è esaurita, ma per il momento ho ancora diverse cose da digerire prima di continuare.»
Si misero entrambi a risistemare quanto esaminato nello studio. Fecero soprattutto attenzione a non mescolare le pile del materiale che avevano già catalogato. Il solo pensiero di dover ripetere quell’operazione nauseava Thora.
Quando ebbe finito di riordinare con cura l’ultima catasta di documenti, la donna si volse verso Matthew e gli domandò: «Harald aveva per caso fatto testamento, dati i suoi ingenti patrimoni?»
«Sì, in effetti un testamento redatto da lui esiste, ed è anche un atto piuttosto recente», rispose Matthew. «Portava sempre con sé una copia, e l’ultima in suo possesso risaliva al settembre scorso, dopo l’ennesimo emendamento. Aveva addirittura fatto una scappata in Germania per incontrarsi con il legale di famiglia e fargliene stendere una nuova versione. Ma ancora nessuno ne conosce il contenuto.»
«Come?» chiese Thora sbalordita. «Perché no?»
«Era un atto diviso in due parti, con precise istruzioni di aprire unicamente la prima alla sua morte, mentre la seconda verrà letta solo dopo il funerale, che ancora non si è potuto svolgere date le circostanze.»
«Cosa c’era scritto nella prima sezione?» domandò Thora prontamente.
«Solo direttive riguardanti il luogo della sepoltura.»
«E dove voleva essere seppellito?»
«In Islanda. Cosa strana, se si pensa che non aveva soggiornato qui se non per pochi mesi. Ma questa terra lo ha in un certo qual senso stregato. Poi voleva che i suoi genitori presenziassero al funerale, e che rimanessero almeno per dieci minuti in piedi sopra la bara dopo la sua deposizione nella tomba. Se non rispetteranno tali condizioni, tutte le sue fortune passeranno a una piccola bottega di tatuaggi di Monaco.»
Thora rimase a bocca aperta. «Come, pensava forse che non si sarebbero nemmeno presentati al suo funerale?»
«Sembra evidente», commentò Matthew. «Con questa clausola, in ogni modo, se lo è garantito. I suoi genitori non sono certo disposti ad andare a finire sui giornali perché il loro figlio ha donato una fortuna a una qualche bottega di tatuaggi.»
«Credi che saranno loro a ereditare i suoi beni?» domandò Thora. «Voglio dire, nel caso che presenzino al funerale…»
«No», rispose Matthew. «Anzi, non gliene potrebbe interessare meno. Semplicemente non vogliono andare a finire su qualche rivista scandalistica. No, credo proprio che sua sorella Elisa erediti una gran parte dei suoi averi. Un’altra bella quantità di denaro però è sicuramente intestata a qualcuno qui del luogo, a sentire le vaghe ma attendibili risposte dell’avvocato, messo sotto torchio dalle nostre pressanti domande. La seconda parte del testamento deve venire aperta proprio in Islanda, secondo le disposizioni di Harald.»
«Chi pensi che sia?» chiese Thora, assai incuriosita.
«Non ne ho idea», rispose Matthew. «Colui o colei che ha ucciso Harald avrebbe in ogni caso avuto un motivo eccellente per vederlo morto, se era al corrente del testamento, voglio dire.»
Thora si sentì risollevata quando uscirono da quella tetra dimora. Era stanca e aveva voglia di tornare a casa dai suoi figli. Eppure sentiva un’ansia indefinibile. Aveva l’impressione che le fosse sfuggito qualcosa. Ma per quanto tentasse di richiamare alla mente quel particolare mancante, una volta rimasta sola nella sua auto di riserva, non approdò a nulla. Quando poi ebbe lasciato il catorcio nel parcheggio di casa sua, se ne era ormai completamente dimenticata.
Il suo divorzio non aveva avuto soltanto pregi, come Thora ormai da tempo si era resa conto. Prima la famiglia veniva gestita da due persone, mentre ora lei doveva farsi bastare un solo stipendio. Il passaggio dalla povertà degli anni di studi all’agiatezza del matrimonio era stato facile, mentre tornare a stringere la cinghia era risultato alquanto complicato. Il suo ex marito, Hannes, era specializzato in medicina degli infortuni, aveva un lavoro sicuro come perito e un’ottima retribuzione. In seguito al loro divorzio, Thora aveva dovuto rinunciare all’agiatezza che ormai considerava scontata e smettere di andare a cena fuori, fare le vacanze all’estero, comprarsi abiti costosi o qualsiasi altra cosa non strettamente necessaria. Oltre alle carenze economiche (per non parlare di quelle sessuali), quella che più la faceva penare al momento era la mancanza della donna di servizio che prima si recava da loro due volte la settimana per sistemare e pulire l’appartamento. La signora era quindi stata una vittima indiretta del loro divorzio. Ora perciò Thora si trovava nel tinello, intenta a combattere con il tubo dell’aspirapolvere, che continuava a scivolare verso di lei, impedendole di richiudere l’armadietto delle scope. Alla fine sconfisse il nemico e tirò un sospiro di sollievo. Aveva appena terminato di passare l’aspirapolvere sui duecento e rotti metri quadri della sua abitazione ed era alquanto soddisfatta di sé.
«È tutta un’altra cosa adesso, vero?» chiese a Soley, che sedeva in cucina, concentrata sui suoi disegni.
La bambina sollevò lo sguardo. «Che cosa?» domandò curiosa.
«I pavimenti», le rispose sua madre. «Ho passato l’aspirapolvere. Sono puliti, vero?»
Soley abbassò gli occhi sotto di sé e li rivolse di nuovo verso sua madre. «Ti sei dimenticata qui», disse indicando con il pastello a cera verde dei residui di polvere che si erano appiccicati alla gamba della sua sedia.
«Oh, mi scusi tanto, madame», replicò Thora baciando sua figlia sul capo. «Che cosa stai disegnando di bello?»
«Questi siamo io, tu e Gylfi», rispose Soley indicando tre figure di diversa grandezza nel foglio. «Tu hai un vestito elegante come me, mentre Gylfi porta i pantaloncini.» E, precisò: «Nel disegno è estate».
«Quanto sono bella ed elegante», esclamò Thora. «Ho proprio l’intenzione di comprarmi un completino così per la prossima estate.» Guardò l’orologio. «Vieni adesso a lavarti i denti. È ora di andare a letto.»
Mentre Soley sistemava i suoi colori, Thora andò in camera del figlio. Bussò piano alla porta prima di aprire. «Non è tutta un’altra vita?» gli chiese riferendosi al pavimento pulito della sua stanza.
Gylfi era disteso sul letto a parlare al telefono. Non appena si accorse che sua madre era entrata, interruppe la conversazione promettendo al suo interlocutore, a bassa voce, di richiamarlo più tardi. Aveva il viso sciupato, le parve. «Che cos’hai? Sei così pallido.»
«Che?» chiese Gylfi. «No, no, va tutto bene. Anzi, ottimamente.»
«Meglio così», rispose Thora. «Ero solo venuta per sapere se ti piace di più l’aria fresca della stanza, dopo le mie pulizie. E se non merito un bacio.»
Gylfi si alzò dal letto e, guardandosi attorno come intontito, rispose: «Eh, sì, certo, che meraviglia…»
Thora scrutò attentamente il volto di suo figlio. Di una cosa era certa: qualcosa non andava per il verso giusto. Normalmente la sua reazione sarebbe stata quella di scrollare le spalle o borbottare che a lui del pavimento non importava niente. Invece ora il suo sguardo assente evitava di incrociare quello della madre. C’era qualcosa che proprio non quadrava e Thora ebbe una fitta al cuore. Non l’aveva seguito come doveva. Dal giorno del divorzio si era trasformato da bambino in una specie di mezzo adulto, mentre Thora era stata troppo occupata con se stessa e i suoi problemi per potergli stare dietro abbastanza. E adesso non sapeva più come comportarsi con lui. Avrebbe voluto abbracciarlo e passargli le dita tra i capelli troppo lunghi, ma lui non avrebbe apprezzato. Il tempo delle coccole era ormai passato da un pezzo. «Ehi!» disse invece poggiandogli la mano sulla spalla. «C’è qualcosa che non va? Puoi parlarne con me. Ti prometto di non arrabbiarmi.»
Gylfi la guardò pensoso, ma non osò parlare. Thora vide microscopiche gocce di sudore spuntargli sulla fronte e le venne in mente la possibilità che avesse preso l’influenza. «Hai la febbre?» gli chiese sollevando il palmo della mano per sentirgli la fronte.
Gylfi si sottrasse al contatto con un guizzo. «No, no, assolutamente. Ho appena ricevuto una brutta notizia.»
«Non mi dire!» si fece sfuggire Thora. «Chi era al telefono?»
«Sigga… cioè Siggi», rispose Gylfi abbassando gli occhi. Poi si affrettò a dire: «L’Arsenal ha perso contro il Liverpool…»
Thora non era certo nata ieri e si rese immediatamente conto che si trattava di una scusa poco convincente, inventata lì per lì. Per prima cosa non conosceva nessun Siggi nel suo giro di amici, anche se comunque ultimamente non era al corrente di tutte le sue nuove frequentazioni. Invece conosceva suo figlio abbastanza bene da sapere che non era mai stato tanto appassionato di calcio da farsi sconvolgere per qualche risultato del campionato inglese. Thora valutò in silenzio se continuare a fargli domande o se invece lasciarlo in pace. Alla fine optò per la seconda soluzione, che le parve più adatta alla situazione. «Ah, che peccato. Quei maledetti del Liverpool.» Lo fissò negli occhi. «Se dovessi sentire la necessità di parlarne, tesoro mio, promettimi di non esitare a farlo.» Vedendo che suo figlio tratteneva il fiato aggiunse: «Voglio dire della partita. Dell’Arsenal. Lo sai che ti puoi sempre confidare con me, amore. Anche se non posso certo risolvere tutti i problemi del mondo, potrei comunque cercare di affrontarli quando ci capitano addosso.»
Gylfi la guardò senza dirle niente. Sorrise debolmente e mugugnò qualcosa su una tesina da finire. Thora infine uscì dalla cameretta e si chiuse la porta alle spalle. Non riusciva a capire quale problema potesse affliggere tanto un ragazzo di sedici anni. Era la prima volta che doveva affrontare un simile grattacapo, senza contare che dei suoi anni di teenager non ricordava che pochissimi particolari. L’unica cosa che le venne in mente erano le questioni d’amore. Probabilmente Gylfi si era preso una cotta per una ragazza che non ricambiava i suoi sentimenti. Thora decise però di scoprire la verità con calma e perizia. L’indomani avrebbe potuto tastare il terreno durante la colazione. Sempreché l’indomani mattina la crisi non fosse già passata. Poteva trattarsi, in fondo, di una tempesta in un bicchier d’acqua, una questione ormonale.
Dopo aver lavato i denti a sua figlia e letto per lei una favola, Thora si lasciò cadere sulla poltrona davanti al televisore. Per prima cosa sbrigò l’onere della telefonata serale a sua madre, che era partita per un mese di vacanza invernale alle Canarie assieme al marito. Sempre le stesse lagne, quando la sentiva. Nell’ultima chiamata si lamentava perché non trovava da nessuna parte lo yogurt islandese, ora invece, a sua detta, il papà era diventato teledipendente per Discovery Channel alla televisione dell’albergo. Infine si congedò dicendo che tornava sul divano accanto al marito per erudirsi insieme a lui sulle tecniche di copulazione dei bruchi. Thora sorrise, riappese la cornetta e si mise a guardare a sua volta la televisione. Nel momento in cui stava per addormentarsi sopra un ridicolo reality, squillò il telefono. Si rialzò sul divano e sollevò il ricevitore.
«Thora», rispose assicurandosi che la sua voce non rivelasse che si era assopita.
«Sì, ciao, sono Hannes», giunse dall’altra parte della linea.
«Oh, ciao.» Thora si sentiva sempre a disagio parlando con il suo ex marito. Il fastidio che tali rapporti le provocavano nasceva indubbiamente dal brusco passaggio obbligato dall’intimità del passato alla cortesia forzata del presente, simile all’imbarazzo che si prova incontrando un vecchio fidanzato o qualche amante estemporaneo. E in un piccolo Paese come l’Islanda capitava spesso.
«Senti, per quanto riguarda questo fine settimana, sto pensando di passare un po’ più tardi, venerdì, a prendere i ragazzi. Vorrei dare a Gylfi delle lezioni di guida e direi che sarebbe meglio tenerci lontani dal traffico dell’ora di punta. Che ne dici delle otto?»
Thora rispose di sì pur sapendo alla perfezione che il ritardo non aveva niente a che vedere con le lezioni di guida. Hannes doveva forse fare degli straordinari oppure andare in palestra dopo il lavoro. Una delle cause dei loro continui litigi prima del divorzio era per l’appunto la completa irresponsabilità del marito. Qualsiasi problema era sempre colpa di qualcun altro o di qualche motivo esterno e immaginario, che non dipendeva da lui e su cui non poteva esercitare il minimo controllo. Beh, per fortuna ora toccava a Klara, la sua convivente attuale, doverci lottare. «Che pensate di fare questo week-end?» gli chiese tanto per dire qualcosa. «Devo farli venire con dei vestiti pesanti?»
«Sì, penso di portarli con me a cavallo, per cui sarebbe bene che avessero con sé degli abiti adatti», rispose Hannes.
Klara era un’appassionata di equitazione e aveva trascinato anche Hannes in quello sport. Ciò costituiva per Soley e Gylfi una vera e propria spina nel fianco, dato che avevano entrambi ereditato la stessa paura di vivere della madre, una sorta di apprensione innata che, nel salto generazionale, si era addirittura ingigantita. Thora aveva il terrore di guidare sulle strade ghiacciate, di fare scalate in montagna, di prendere l’ascensore, di mangiare cibi crudi e di tutto ciò che secondo lei poteva finire in un disastro. Per motivi incomprensibili, invece, non aveva affatto paura di prendere l’aereo. Lei capiva pertanto il terrore che entrambi i suoi figli provavano solamente al pensiero di dover salire in sella, convinti che ogni cavalcata costituisse la loro ultima ora di vita. Hannes non riusciva ad accettare che quella fosse la loro natura e cercava continuamente di convincere i figli che prima o poi avrebbero preso gusto all’equitazione. «Ma sei sicuro che lo vogliano?» chiese Thora pur sapendo che Hannes non avrebbe certo cambiato idee e progetti. «Gylfi è un po’ giù di morale negli ultimi tempi e non sono sicura che una galoppata sia quello di cui ha bisogno proprio ora.»
«Non dire sciocchezze», rispose infatti Hannes con presunzione. «Anzi, ti dirò che sta facendo grandi progressi a cavallo.»
«Come ti pare. Cerca però di parlargli un po’. Temo che abbia dei problemi di donne, e tu di queste cose ne sai certamente più di me.»
«Problemi di donne? Che ne so io di problemi simili?» Hannes era montato sui nervi e la cosa fece sorridere Thora.
«Voglio dire, spetta a te fargli un discorsetto da padre a figlio…» Il sorriso di Thora si fece ancora più grande.
«Stai scherzando», disse Hannes speranzoso.
«No, affatto», gli rispose decisa. «Conto molto sul tuo intervento. Poi toccherà a me fare lo stesso con nostra figlia, quando cominceranno i suoi guai con i ragazzi. Potresti, per esempio, prendere da parte Gylfi durante la cavalcata e parlargli in tutta calma, senza agitarti.»
Con quell’argomento era certa di aver diminuito drasticamente le probabilità di un fine settimana a cavallo. Conclusa la telefonata, tentò di sprofondarsi di nuovo nell’irrealtà della televisione. Ma la cosa non le riuscì, poiché il telefono squillò ancora.
«Scusa se ti chiamo così tardi, ma mi è venuto in mente che forse pensavi a me», disse Matthew, impassibile, dopo i saluti di rito. «Così ho deciso di concederti di sentirmi.»
Thora ebbe un sussulto. Non sapeva se Matthew fosse uscito di testa, avesse bevuto oppure stesse scherzando. «Non la chiamerei proprio un’ossessione la mia, ma comunque…» Preso il telecomando, abbassò il volume per non fargli sentire i programmi scellerati che stava guardando. «Sai, stavo leggendo.»
«Che cosa leggi di bello?» le chiese Matthew di rimando.
«Guerra e pace, Dostoevskij», mentì Thora.
«Interessante», commentò Matthew. «Assomiglia al Guerra e pace di Tolstoj?»
Thora strinse i pugni, adirata con se stessa per non aver nominato un Laxness o qualche altro autore islandese che lui sicuramente non conosceva. Ma non era mai stata brava a mentire. «Sì, certo, volevo dire Tolstoj. Ma mi avrai chiamato per qualcosa di particolare, non certo per discutere di letteratura.»
«No, per fortuna, perché altrimenti avrei fatto il numero sbagliato», rispose Matthew prontamente. Thora non gli diede corda, cosicché l’uomo proseguì: «No, scusami, ti ho telefonato perché mi ha appena contattato l’avvocato difensore dell’indiziato.»
«Finnur Bogason?» chiese Thora.
«Sì, appunto, la tua pronuncia è certo migliore della mia. Mi voleva far sapere che domani possiamo incontrare il ragazzo, se vogliamo.»
«Abbiamo ottenuto il permesso?» domandò Thora sbalordita. Di solito era arduo visitare i detenuti in attesa di processo.
«Questo tale Finnur», continuò Matthew pronunciando il nome in modo buffo, «è riuscito a convincere la polizia che noi due lo stiamo assistendo nella difesa dell’indiziato. Che, in un certo senso, è quello che stiamo facendo indirettamente.»
«E che cosa lo avrebbe spinto a farlo?»
«Potremmo dire che ha ricevuto una ‘spintarella’ dal sottoscritto.»
Thora non osò approfondire la questione, dato che non voleva rimanere invischiata in qualcosa di illecito. Dubitava che Matthew avesse usato le minacce per convincere l’avvocato, mentre era dell’idea che gli avesse promesso del denaro in cambio della visita in carcere, cosa che al massimo poteva considerarsi «immorale». Magari si sarebbe sentita meglio pensando che il loro compito era quello di difendere l’indiziato.
Oh, al diavolo la moralità o l’immoralità! Le era indispensabile incontrare questo Hugi. In fondo poteva essere lui il vero colpevole. Non c’era niente di meglio che guardarlo negli occhi mentre parlava e seguire i suoi movimenti e il linguaggio del suo corpo per inquadrarlo. «Va bene, non sottilizziamo. Prima o poi dobbiamo comunque incontrarlo.»
«Certo. Devo solamente avvertire Finnur.»
«Ma perché l’avvocato ti ha chiamato così tardi?» chiese Thora. «Non può essere che il permesso sia arrivato stasera.»
«No, no. Il messaggio era registrato nella segreteria telefonica della mia stanza d’albergo, e l’ho sentito solamente ora, rientrando. Non mi va di far sapere a tutti il mio numero di cellulare.»
Thora dovette ammettere con se stessa che avrebbe voluto sapere dove era stato dopo il loro incontro, anche se con ogni probabilità se n’era andato in città a cenare in un ristorante.
Decisero che Matthew sarebbe passato a prenderla in ufficio alle nove della mattina seguente e insieme si sarebbero recati in auto al carcere giudiziario di Litla-Hraun. Thora guardò fuori dalla finestra la neve che scendeva pesante e fitta e sperò che Matthew sapesse guidare sulle strade ghiacciate. Altrimenti sarebbero stati nei guai.