173646.fb2
Quando il detective Riker entrò nella sala d'attesa dell'ufficio dello sceriffo, non c'era nessuno. Dalla stanza vicina si udiva la voce di un uomo. Riker sbirciò attraverso la porta aperta, ma vide soltanto una bella donna dai lunghi capelli rossi fasciata in un abito aderente.
Riker si sedette su una panca di legno. Uno sciacquone scrosciò nel bagno adiacente. La porta si spalancò e ne emerse un ragazzino di sei o sette anni, che si stava infilando la T-shirt nei blue-jeans. Aveva gli stessi capelli rossi della donna, e occhi piccoli, scuri e indagatori.
«Sei un barbone?»
«No, sono un poliziotto.»
Il bambino fece una smorfia e spinse il mento in fuori, come a dire "Tutte balle".
Riker si guardò la cravatta, macchiata dai ricordi di innumerevoli pasti. Il vecchio abito grigio era tutto stazzonato dopo il viaggio in treno. Le scarpe consumate non erano state lucidate dall'ultimo funerale. Tornò a guardare il bambino che storceva il naso, fiutando senza dubbio la birra che si era bevuta a pranzo. «Sono un poliziotto in incognito» mentì.
«Forte!» Il bambino gli si sedette accanto ed esaminò la barba lunga di due giorni sul volto di Riker. «Complimenti.» Osservò ogni dettaglio del suo trasandato abbigliamento, fino alle scarpe rovinate. «Travestimento perfetto.»
«Grazie, saputello. E tu che ci fai qua? Non avrai mica ammazzato qualcuno, eh?»
«Be', no» rispose il bambino con un certo rammarico. Poi sorrise, e con fare cospiratorio sussurrò: «Ma, secondo me, l'ha fatto la mamma».
«Dici sul serio?» chiese Riker, sorpreso.
«La polizia della Georgia l'ha arrestata. Poi ci hanno messi su un aereo e rispediti qui in Louisiana. Lo sceriffo Jessop è là dentro con lei. La farà confessare.»
Riker e il bambino restarono in ascolto.
Lo sceriffo stava chiedendo: «Credi che ci sia lo zampino di Fred?».
Riker pensò che al tono della voce mancava la forza di una buona torchiatura. La risposta sommessa della donna risultò inintelleggibile.
«Sally,» disse ancora lo sceriffo «escludo che si tratti di un complotto. Babe non era Jack Kennedy, e la sua morte non è un fatto così importante da…»
La donna parlò velocemente, a voce bassissima.
Riker si piegò verso il bambino e mormorò: «Chi è Babe?».
«Mio padre» disse il bambino, tutto allegro. «Il bastardo è morto stecchito.»
Adesso Riker era esterrefatto. Neppure un ragazzino di New York avrebbe potuto mostrare tanta indifferenza di fronte alla perdita di un genitore. «Mi par di capire che non volessi molto bene a tuo padre.»
«Mi faceva schifo, e mia madre lo odiava a morte.»
Alzando gli occhi, Riker incontrò quelli di un uomo della sua stessa età, con una stella dorata appuntata sulla giacca scura. Lo sceriffo stava origliando a sua volta.
Il bambino parlò. «Sceriffo Jessop, vuoi arrestare mia madre?»
«No, Bobby. Tu e tua madre potete andarvene quando volete. Chi è il tuo nuovo amico?»
Riker si alzò in piedi e si presentò: «Mi chiamo Riker. Sono un poliziotto e…».
«E viene da New York» disse lo sceriffo, stringendogli la mano.
Riker aprì il portafoglio per mostrargli il distintivo del dipartimento di polizia di New York e il suo documento d'identità. «Come ha fatto a indovinare?»
Come se non sapesse di avere un pesante accento di Brooklyn.
«Ho tirato a indovinare.» Lo sceriffo gli restituì il documento. «Se continua ad arrivare gente da New York, Betty dovrà aggiungere una nuova ala al suo bed & breakfast.»
La madre del bambino comparve sulla soglia. Riker trattenne un fischio d'ammirazione quando lei gli passò accanto senza degnarlo d'uno sguardo. Sedette sulla panca vicino al figlio e ignorò lo sceriffo che aveva ripreso a parlarle.
«Sally, quando torna la mia vice, fatti accompagnare all'aeroporto.» Indicò la porta del suo ufficio. «Si accomodi, sergente Riker. O devo chiamarla detective?»
«Riker è sufficiente.» Prese posto su una comoda poltrona di fronte allo sceriffo. La confusione sulla scrivania era spaventosa. La sua abilità nel leggere i testi capovolti gli consentì di farsi un'idea della quantità di documenti che erano stati necessari per l'estradizione dalla Georgia: a quanto pareva i colleghi di quello Stato erano stati poco collaborativi.
Lo sceriffo spostò una manciata di fogli per estrarre un portacenere e si accese una sigaretta. Riker sorrise e ne prese una delle sue. Dayborn gli piaceva da morire. Non appena sceso dal treno, al termine di due lunghissimi giorni di viaggio in uno scompartimento per nonfumatori, era entrato al Jane's Café. La vista dei portacenere sui tavoli gli aveva fatto venir voglia di baciare il pavimento.
«Allora, Riker, a quanto si dice voi newyorchesi avete perso il primato degli omicidi.»
«Neanche per sogno. Si dà il caso che il nostro commissario sia il più gran bugiardo di tutti i cinquanta Stati.» Riker esalò una nuvola di fumo e si sentì a casa sua, nonostante gli arredi e i decori ottocenteschi.
Lo sceriffo lanciò un fiammifero e mancò il portacenere. Piazzò i piedi sulla scrivania, facendo cadere qualche fascicolo sul pavimento e conquistandosi le simpatie di Riker, sciatto quanto lui. «Resta il fatto che Miami sta facendo passi da gigante.»
«Affermano di far fuori più turisti di noi, ma sono tutte balle, tutte calunnie» ribatté Riker. «Il sovrintendente ha decentralizzato il dipartimento e il sindaco ha licenziato l'addetto stampa. I giornalisti non hanno modo di verificare le statistiche ufficiali.» Riker appoggiò una gamba al bracciolo della poltrona e un lungo cilindro di cenere gli cadde sui calzoni. «È tutta politica. New York ha i migliori politici che il denaro sporco possa comprare.»
«Spiacente, Riker, questo è il motto della Louisiana. Ma ti perdono la millanteria, che dalle nostre parti, del resto, è molto apprezzata.»
Riker si chiese come mai lo sceriffo non gli avesse ancora domandato la ragione della sua presenza a Dayborn.
«C'è un tuo amico qui in paese» annunciò Jessop. «Un tipo di nome Charles Butler.»
Be', quel fatto chiariva un sacco di cose. Quanti danni poteva aver fatto Charles fino a quel momento? «Mio amico? Questo Butler sostiene di conoscermi?»
«È di New York anche lui.»
«New York è un paesotto piuttosto popoloso, sceriffo, siamo circa otto milioni.»
«E che mi dici del proprietario di questo?» Lo sceriffo infilò una mano nel taschino della camicia e ne estrasse un orologio da tasca. «Louis Markowitz. Il nome ti suona familiare?»
«Mai sentito nominare» replicò Riker, rinnegando un'amicizia trentennale. Si fece un appunto mentale di stuzzicare Mallory per il sentimentalismo che non le aveva permesso di sbarazzarsi dell'orologio insieme a tutto quanto potesse fornire informazioni circa la sua identità.
«Se pensi che questo Markowitz sia di New York, posso chiedere al dipartimento di fare qualche ricerca.» A New York i Markowitz erano centinaia. Riker sperava di trovarne uno di nome Louis che non fosse stato il capo della Sezione Crimini Speciali della città.
«Grazie, Riker. Te ne sarei grato. Ma tu sei qui per la detenuta.»
«Sono qui perché hai mandato all'FBI il numero di matricola di una pistola Smith & Wesson. Il dipartimento di polizia di New York ha scoperto che la stessa arma fu usata in un omicidio di quindici anni fa.»
E fin lì era tutto vero. Riker ricordava perfettamente il giorno di quattro anni prima quando Mallory aveva sottratto di nascosto la pistola durante un giro nella sala reperti. Voleva un'arma che facesse buchi più grossi della 38 d'ordinanza. «È un caso irrisolto.» Bugia. Sia il ladro sia la vittima erano morti nel corso di una sparatoria in un negozio di alimentari.
Lo sceriffo sembrava scettico. «Riker, se l'omicidio di cui parli risale a quindici anni fa, la detenuta non può essere implicata. All'epoca doveva avere al massimo nove o dieci anni. Una ragazzina che fa fuori qualcuno a colpi di pistola… ammetterai che è piuttosto improbabile.»
«Assolutamente» confermò Riker, con poca convinzione, ripensando a Mallory a dieci anni. La vedeva benissimo con la pistola in pugno. In seguito, fortunatamente, l'ispettore Markowitz e sua moglie erano riusciti ad avere ragione delle peggiori inclinazioni della figlia adottiva.
«Mi piacerebbe parlare alla tua detenuta per chiederle dove abbia preso quella pistola.»
«E, naturalmente, ti piacerebbe riportare l'arma a New York. Ci toccherà riempire un sacco di moduli.»
Riker scosse la testa. «Meglio evitare moduli e telefonate. Il vecchio delitto potrebbe essere sotto la giurisdizione federale. Il dipartimento non vuole che l'FBI venga a sapere del collegamento tra i due omicidi: i federali piomberebbero subito a Dayborn, e non credo che l'idea ti piaccia.»
L'antipatia delle forze dell'ordine per quegli arroganti dell'FBI era un fatto risaputo, anche se Riker doveva un favore a uno di loro: per non aver comunicato le impronte digitali di Mallory. L'inevitabile contropartita di quella buona azione altamente illegale lo preoccupava un po'.
«Riker, non posso aiutarti.»
«Non puoi o non vuoi?»
«Be', capisco che ti interessi…»
«Conserva le chiacchiere folcloristiche per i turisti.» Riker schiacciò la cicca nel portacenere. «Puoi scommetterci che ci interessa recuperare l'arma. Non ho l'intenzione di giocare allo scemo del villaggio.»
Si alzò, fingendosi deciso ad andarsene sbattendo la porta. «Non vuoi darci la pistola? Bene! Se mi rendi la vita difficile, chiamerò io stesso i federali. Credi che sia disposto a tornare a New York con la coda fra le gambe?»
Lo sceriffo sorrise e soffiò un filo di fumo. «Detenuta e pistola sono sparite. Ti fai un goccio con me, Riker?»
«E perché no?»
La vicesceriffo Lilith Beaudare aspettò finché la macchina dello sceriffo non si fu allontanata dal Dayborn bar & grill. Tom Jessop era solo a bordo, e questo significava che il tizio di New York doveva essere ancora nel locale. Lilith attraversò il vicolo per sbirciare all'interno attraverso la vetrina.
La sala era piena di uomini: non c'era neanche una donna. Era quella, probabilmente, la ragione per la quale suo padre era stato un assiduo cliente del bar. Quando sua madre gli chiedeva perché frequentasse un postaccio come quello, lui sorrideva come a celare un peccaminoso segreto.
Lilith entrò: nella sala scese il silenzio mentre tutti i presenti voltavano il capo per scoccarle una lunga occhiata. Quello non era il posto per lei. Lilith lo sapeva e lo sapevano anche gli uomini.
Poi i discorsi interrotti ripresero, fra il tintinnio delle posate e dei bicchieri.
Alcune delle migliori storie di Guy Beaudare erano nate in quel bar. Era la prima volta che Lilith ci entrava, eppure ne conosceva ogni dettaglio, dall'acquario dietro il banco alla segatura mista a bucce di noccioline sul pavimento. C'era puzza di sudore, di tabacco e di birra. Il juke-box suonava un motivetto Cajun per violino. Mentre passava tra i tavoli, gli avventori sollevarono il viso e la seguirono con occhi curiosi e indagatori. Sapeva come la stavano immaginando: nuda e disarmata.
Stava cercando il tizio che le aveva descritto il piccolo Bobby Laurie, un poliziotto di New York travestito da barbone. Si avvicinò all'uomo dal vestito stropicciato seduto su uno sgabello al bancone. «Detective Riker? Sono la vicesceriffo Beaudare.»
Lui sorrise amabilmente, e Lilith notò le rughe agli angoli degli occhi, caldi e scuri. «Si prenda uno sgabello, vicesceriffo.»
«Non pensa che ci potremmo sedere in un separé? Non mi sembra appropriato stare qui al banco in uniforme.»
«Ma certo. Andiamo.» Con il bicchiere in pugno le fece strada verso un separé imbottito, in fondo alla sala in penombra. Sul tavolo ardeva una candela infilata nel collo di una bottiglia di Jack Daniels.
Lilith sedette e aspettò finché anche lui non si fu sistemato comodamente davanti al suo drink. «Si tratta della persona che dice di essere sua amica…»
«Ancora? Ho già parlato dell'argomento con lo sceriffo. Questo tipo, Charles Butler, potrà anche essere di New York, ma io…»
«No, non lui, la detenuta.» Si guardò intorno, assicurandosi che nessun altro potesse sentirla. «Mallory.»
«Adesso anche la detenuta sarebbe una mia amica?» E il suo viso sorridente diceva: "Figurarsi un po'".
«La stessa strategia dello sceriffo, a quanto pare. Peccato che con me non attacchi. Crede che stia recitando una parte? Allora come faccio a sapere che Mallory è un'agente di polizia passata dall'altra parte della barricata?»
Lui alzò le mani in segno di resa, ridendo come se se la stesse spassando un mondo. «Mi arrendo, vicesceriffo. Come fai a saperlo? Lo sceriffo dice di non avere idea di quel che Mallory abbia fatto negli ultimi diciassette anni.»
«Lui non sa niente.»
«Mentre tu?»
«Io so che è della polizia.»
«Cosa te lo fa pensare?» Soffiò una nuvoletta di fumo nella sua direzione.
«Mia madre dice che è maleducazione dire alla gente quel che presumibilmente sa già.»
Riker tacque, con l'espressione compiaciuta di chi si gode uno spettacolo. La scena non si stava svolgendo secondo le aspettative della ragazza.
Lilith si appoggiò allo schienale, senza affrettare le parole. «Mallory non ha mai fatto il suo nome, ma so che lavora con lei a New York.»
«La detenuta ti ha raccontato che viene da New York?»
Lilith fece di sì col capo, certa di saper mentire molto bene.
«Se parlasse con l'accento di New York, lo sceriffo lo avrebbe senz'altro notato» disse Riker. «Ha capito che vengo da là dopo appena qualche secondo di conversazione.»
«Mallory è completamente priva di accento. Come un'annunciatrice della TV.»
«Vicesceriffo, non prendertela se mi permetto di sottolineare una cosa abbastanza ovvia. Lo sceriffo mi ha detto che le impronte digitali della detenuta non sono state ancora identificate. Se appartenesse alle forze dell'ordine, avrebbero scoperto la sua identità in quattro e quattr'otto, non credi?» Prese un lungo sorso dal bicchiere e lo sbatté sul tavolo. «È tutto, ragazzina. La lezione è finita.» E volse lo sguardo alla porta.
«È della polizia» insisté Lilith.
Riker scosse il capo. «Lo sceriffo lo saprebbe. Credimi, è un tipo sveglio.»
«Non quando c'è di mezzo Mallory. La considera ancora una bambina. Un tempo Mallory abitava qui insieme alla madre.»
«Lo so. Lo sceriffo mi ha riferito tutta la storia. A dire il vero, mi ha raccontato fin troppo sul conto di questa cittadina. Puoi farmi qualsiasi domanda su Dayborn e io saprò rispondere. So perfino che questo è il bar nel quale Babe Laurie celebrò la festa per la sua prima malattia venerea: strane usanze avete, quaggiù.» Si appoggiò all'imbottitura dello schienale. «Niente quiz? Non vuoi giocare? D'accordo, permetti che sia io a farti una domanda. Hai raccontato a Jessop questa tua teoria sulla poliziotta passata dalla parte del crimine?»
«Detective Riker, lei si fida dello sceriffo?»
«Così non glielo hai detto.» C'era un'ombra di disapprovazione nella sua voce. «Perché lo racconti a me? Che cosa vuoi, ragazzina?»
«Un lavoro a New York, per esempio. Io aiuto lei, e lei aiuta me.» Rallenta, disse a se stessa, stai esagerando. Parlò più lentamente, scandendo le parole. «Lei non conosce questa parte del paese, io sì. Io posso aiutarla a trovare Mallory.»
Lui le rivolse un sorriso stanco, come se avesse già vissuto quella scena mille volte. «Vicesceriffo, non credo che New York ti piacerebbe.» Aveva un tono più morbido, adesso. «Qualsiasi pasticcio tu abbia combinato qui, ti consiglio di rimanere e di mettere le cose a posto.»
Lei irrigidì le spalle. Socchiuse le labbra, ma non uscì alcun suono.
Riker scosse il capo. «No, figliola, non leggo nel pensiero» disse. «I novellini come te credono che ogni errore che commettono sia la fine del mondo. Ci siamo passati tutti. Qualsiasi cosa tu…»
«Io ti posso aiutare, Riker.» Era sua, quella voce stridula? «Tu hai bisogno di me.» Non doveva sembrare disperata. Merda! Abbassò la voce. «Ti aiuterò all'insaputa dello sceriffo.»
«Mossa stupida, ragazzina. Se lo sceriffo non può fidarsi di te, perché dovrei farlo io? Perché qualsiasi poliziotto dovrebbe fidarsi di te?»
E ora che le aveva sferrato quella mazzata, si piegò in avanti per il colpo di grazia. «Sei giovane, vicesceriffo. Chiuderò un occhio. Questa conversazione rimarrà fra di noi. Lo sceriffo non saprà mai che hai cercato di fregarlo. Ci siamo capiti?»
Oh sì, Lilith aveva capito.
Aveva appena perso la faccia con il poliziotto di New York senza ottenere niente in cambio. Ma anche Riker non aveva ottenuto nulla, perché avrebbe continuato a ricevere solo informazioni inutili e di seconda mano dai federali che l'avevano comprata con le loro promesse: tutte balle, a dar retta a Mallory.
Lui si stava alzando, raccogliendo sigarette e fiammiferi. «Se incontri Mallory, chiedile dove ha preso la pistola. Dille che testimonierò al processo per la sua evasione. Qualsiasi giudice le concederà qualche attenuante per aver cooperato. È la prassi.» Prese un biglietto da un dollaro dal portafoglio e lo lasciò cadere sul tavolo per la mancia. «Se avrò bisogno di qualche altro favore te lo farò sapere.»
Lilith lo seguì con gli occhi mentre attraversava il locale. Poi la porta si chiuse alle sue spalle e, nonostante la gente, lei si sentì sola in quel posto, umido e buio come una caverna, tra il fumo emesso dai polmoni dei clienti. Inalò quell'aria di seconda mano insieme al puzzo dei corpi e a quello degli avanzi nei piatti. Il juke-box aveva smesso di suonare.
Lilith fissò il bicchiere mezzo vuoto di Riker e lo prese. Annusò il liquido rimasto sul fondo.
Bourbon.
Lo assaggiò.
Bourbon da due soldi.
Quando suo padre l'aveva portata a festeggiare il diploma in un bar di New Orleans, le aveva detto che i poliziotti onesti d'abitudine bevevano alcolici scadenti. Lo sosteneva il suo vecchio amico Tom Jessop.
Lilith scolò il bicchiere.
Ma a darle il voltastomaco non fu il pessimo bourbon di Riker, né l'aria soffocante del bar.