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L'aria era viziata e l'unica luce proveniva dai buchi nelle pesanti e logore tende che coprivano i vetri. Mallory le scostò e aprì la finestra a ghigliottina. Una fresca brezza percorse la stanza e la polvere danzò nello spicchio di sole. Vide gli escrementi dei pipistrelli sul pavimento e gli insetti che si rifugiavano negli angoli.
La forte avversione di Mallory per la sporcizia e il disordine si era come appannata da che abitava ai piani alti di Casa Trebec. Lo stesso valeva per la sua fanatica ossessione per il tempo. La forza dell'abitudine non la spingeva più a guardare l'orologio perduto dieci volte al giorno: sapeva che era mattina dalla posizione del sole, basso nella finestra rivolta a est. Mentre posava un fagotto di indumenti su una cassa di legno di cedro, con la coda dell'occhio vide qualcosa in movimento e si girò a fronteggiare l'intruso sul lato opposto della stanza.
La superficie brunita e ombrosa di un vecchio specchio rifletteva l'immagine di una donna scalza: indossava una camicia ampia dal taglio antiquato e un paio di jeans chiari. I secondi diventarono minuti mentre Mallory contemplava quella dolce apparizione tanto simile a sua madre. Il volto nello specchio era macchiato di lacrime lucenti.
Un rumore di passi nel corridoio la riportò al mondo reale. Si passò la mano sul volto per cancellare ogni traccia di pianto. Ma non ne trovò: le sue guance erano asciutte.
Rimase a osservare la propria mano, possibile che…?
I passi si stavano avvicinando…
Controllati, maledizione.
«Sta cominciando a far freddo» disse Augusta varcando la porta con le braccia cariche di vestiti.
A quel che sembrava, la donna aveva colto tracce delle lacrime fantasma, perché la sua voce era gentile. «Ti serve un soprabito. Ne ho uno qui. Credo sia la tua taglia. Le tue scarpe da corsa purtroppo sono da buttare. Non ho potuto farci niente.» Le mostrò un paio di stivali da cavallo. «Che te ne pare?» Erano di buon cuoio nero, con dettagli western.
«Perfetti. E il soprabito l'ho già trovato io.»
Augusta gettò un'occhiata dubbiosa all'indumento posato sulla cassa di cedro. Il lungo spolverino nero era di moda quando ancora i cavalli erano l'unico mezzo di trasporto nella regione: «Sembra impossibile che quel vecchio straccio stia ancora insieme. Ha molti più anni di me. È tuo, se ti piace».
La donna aprì un armadio e cominciò a tirar fuori alcune scatole dallo scaffale in alto. «C'è un cappello che dovrebbe essere adatto, se solo riuscissi a ricordarmi dov'è. Lo portava mia nonna quando andava a cavallo.» Una grande scatola rotonda si disfò fra le sue mani e un cappello nero rotolò sul tappeto. Augusta lo raccolse e lo rigirò fra le mani, lisciando la calotta e l'ampia falda.
«Non coprirà tutti quei capelli d'oro.» Allungò una mano verso un altro ripiano. «Ma potremo rimediare servendoci di questo.» Le mostrò un foulard nero.
Mallory scostò un altro paio di tende. La luce di una seconda finestra inondò la stanza, eliminando ogni ombra dagli angoli. Si volse verso lo specchio, e studiò la camicia bianca di lino. Il morbido taglio romantico era molto lontano dai suoi gusti severi e asciutti, ma la linea fluttuante nascondeva del tutto la fasciatura. Si infilò la fondina da spalla, trasalendo quando le cinghie di cuoio passarono sulla ferita.
Augusta era in piedi alle sue spalle e parlava al suo riflesso. «Dovresti trovare un altro modo di portare la pistola. La spalla sinistra ti farà male per un po'. Non recupererai tutta la forza e la mobilità per un'altra settimana. Ma ho guarito la mia gatta da ferite ben peggiori.»
Riprendendo il discorso che avevano iniziato a colazione, Mallory domandò: «Perché il padre di Ira si suicidò?».
«Suicidarsi? Andiamo, non esagerare. Il padre di Ira non era un bravo guidatore. La sua macchina aveva un sacco di ammaccature ben prima che finisse contro quel palo del telefono.» Augusta aprì il cassetto di un altro armadio e frugò fra le vecchie cose. «Forse possiamo provare a fissare la tua fondina a una cintura.»
«La compagnia di assicurazione non voleva pagare» disse Mallory. Aveva consultato il database dell'agenzia assicurativa locale, ma il rapporto dell'investigatore era superficiale e incompleto. Non le era stato più utile dei dati che aveva estratto dal computer dello sceriffo.
«Sì, il tizio dell'assicurazione sulle prime piantò delle grane. Ma alla fine pagò l'intero risarcimento.» Augusta le mostrò una sottile striscia di cuoio. Ma dopo uno sguardo alla grossa pistola di Mallory la scartò scuotendo il capo. «Darlene usò i soldi della polizza per ricomprare la sua casa dalla New Church. Pare che il marito avesse firmato il passaggio di proprietà come donazione, per evitare le tasse.»
«Credevo che la New Church riguardasse la famiglia Laurie.»
«Non esclusivamente. Ma dubito che il padre di Ira fosse tanto religioso. Credo che stesse solo cercando un modo di truffare l'erario. Chi rinunciava alla proprietà della propria casa poteva abitarci senza pagare una lira di affitto fino alla morte.» Aveva trovato una spessa cintura con una grossa fibbia e la sollevò per guardarla meglio. «Ecco, questa può andare.» La porse a Mallory. «Fu così che Malcolm finì per impadronirsi di tutte quelle belle proprietà lungo il Lower Bayou. Convinse un sacco di sciocchi che il miglior modo di conservare qualcosa era darlo via, che il miglior modo di risparmiare quattrini era non guadagnarne affatto.»
Mallory infilò la fondina nella cintura. «Ma perché la compagnia di assicurazione contestò la tesi dell'incidente? Ci dovevano essere…»
«Solo una formalità, tutto qui. Accade sempre quando c'è una modifica nei documenti apportata qualche giorno prima della morte di un cliente. La polizza originaria era a favore della New Church, ma lui la cambiò, indicando il nome di Darlene come unica beneficiaria.»
Così il padre di Ira aveva rotto i rapporti con la New Church prima di andare a cozzare – frontalmente e a tutta velocità – contro il palo del telefono, secondo quanto riferito dal vicesceriffo Travis nel rapporto sull'incidente.
L'aria era più fredda quella mattina. In piedi sul portico di Darlene Wooley, Charles si abbottonò la nuova giacca sportiva mentre guardava la piazza di Dayborn animarsi a poco a poco: la gente che camminava per andare al lavoro, le macchine che superavano lentamente la fontana, gli amici che si scambiavano saluti.
Ira non avrebbe mai fatto parte di quel mondo. L'autismo era una religione solitària, nella quale l'attenzione era rivolta all'interno, su di sé; eppure Charles si chiese chi fra quegli individui apparentemente estroversi avrebbe mai notato la scomparsa di una stella.
La porta si aprì alle sue spalle. Si girò e vide il volto stanco ma sorridente di Darlene Wooley. «Bene, Charles Butler. Pensavo che fosse partito.» Spalancò la porta e indietreggiò per permettergli di entrare. «Mi stavo preparando per andare al lavoro. Posso offrirle una tazza di caffè? È già pronto.»
«Sì, grazie.» La seguì in un'ampia stanza arredata con perfetta simmetria. Un divano e un tavolino erano posti esattamente al centro di una parete con ai lati due poltrone identiche. Al centro delle pareti laterali c'erano altri due tavolini e i quadri erano appesi secondo uno schema fisso: uno più grande fiancheggiato da due più piccoli. Mallory avrebbe approvato, perché era tutto molto ordinato, sebbene alcune poltrone avessero braccioli e cuscini segnati dall'usura.
«Mi piacerebbe salutare Ira, se non le dispiace.»
«Certo che no. Si ricorda molto bene di lei. Ogni volta che andiamo a pranzo al Jane's Café ripete: "uomo del panino". Si sieda.»
Charles si accomodò su una poltrona dal rivestimento vistosamente rammendato.
«La casa non è cambiata negli ultimi vent'anni» gli spiegò Darlene in tono di scusa. «La tappezzeria e la disposizione dei mobili sono rimaste gli stessi. La più piccola novità comporterebbe una grande fatica per Ira, costringendolo a memorizzare daccapo tutta la stanza. Quando non è a scuola, passa la maggior parte del suo tempo qui a casa.»
«Io l'ho visto al cimitero.»
«Era il suo posto preferito. Fino a poco tempo fa, le pietre erano immobili, sempre identiche a se stesse.»
«Ha visto la statua?»
«No. Gli ho detto di non andarci per un po', almeno fino a quando lo sceriffo non avrà scoperto quel che accade laggiù.» Fece una pausa e riprese: «Così è venuto a trovare Ira. Che bello. Sono anni che non riceve visite. Torno fra un attimo». E andò in cucina. Un minuto dopo ricomparve e gli porse una tazza di caffè. «Niente latte, tre zollette, vero?»
«Sì, grazie. A essere sinceri, nutro un interesse professionale nei confronti di Ira. Ho telefonato al direttore del Centro Dallheim di New Orleans. Fanno ricerche sulle doti dei savant per apprendere quanto più possibile sul funzionamento del cervello. Hanno un programma terapeutico per giovani autistici. Prevede anni di duro lavoro, ma al termine del percorso Ira potrebbe riuscire a conquistare una vita indipendente.»
«So tutto del Dallheim.» Darlene si lasciò sprofondare nel divano, gli occhi fissi sulla sua tazza di caffè. «Era il mio grande sogno, un futuro quasi normale per Ira. Ora come ora…» Lo guardò in faccia, cercando accuratamente le parole. «Se dovesse succedermi qualcosa, finirebbe in un istituto. Supplicai quelli del Dallheim di prenderlo. Mi dissero di non tornare fino a quando Ira non fosse stato in grado di sostenere una semplice conversazione.»
«Il direttore del Centro mi ha detto che Ira non ha mai cantato per loro.»
«No, lo fa solo quando ne ha voglia. Però suonò il piano. Chopin.»
«Ho parlato con il direttore delle qualità canore di Ira. I suoi molteplici talenti lo hanno reso un candidato più interessante ai suoi occhi. C'è una lunga lista d'attesa. Potrebbero passare mesi o perfino un anno prima che lo accettino, ma bisogna spedire loro tutti i documenti al centro prima che compia venticinque anni. È il limite d'età per l'iscrizione.»
«È inutile riportarlo da quella gente, se non può parlare.»
«Non lo porteremo da nessuna parte. Ho l'autorizzazione, e la competenza, necessarie a eseguire qui un nuovo test di selezione.»
«Non parlerà. Oppure balbetterà cose senza senso.»
«Non è detto. A volte l'ecolalia è uno sforzo, un tentativo di interagire attivamente. Quando ripete quel che lei dice, non le pare che stia comunicando?»
«Be', sì, e lo feci notare agli esperti del Dallheim, ma mi risposero che non contava.»
«Ho spedito loro via fax intere pagine di appunti di Cass Shelley a proposito della terapia di Ira. Per essere un bambino tanto piccolo, si esprimeva con grande precisione. Non aveva difficoltà con i pronomi personali, un fatto decisamente atipico. Mostrava una buona conoscenza di grammatica e sintassi. Cass lo giudicava di intelligenza addirittura superiore alla media. Al Dallheim non sapevano neanche questo.»
«Ma il test di selezione…»
«È una semplice conversazione. C'è un metodo per ottenere un risultato rapido. È quello che Cass Shelley usò quando Ira regredì. Lo costrinse a parlare. Non sarà facile. Devo fare in modo che si concentri per un po', ma le assicuro che non farò nulla che Cass Shelley non avrebbe fatto. Il direttore del Centro mi ha suggerito di rievocare un evento traumatico, come la morte violenta della dottoressa. Parlerà per farmi smettere, per liberarsi di me, ma lo farà. Tutto quel che mi serve sono un paio di risposte dirette alle mie domande, e avremo dimostrato i requisiti per l'ammissione.»
Tutti parlano sotto tortura. Considerando il terrore e la repulsione che Ira provava per il contatto umano, quel che Charles pensava di fare al ragazzo era davvero crudele.
Darlene assentì con il capo, più speranzosa. «Ma Ira smise di parlare prima della morte della dotoressa. Fu la cerimonia religiosa a sconvolgerlo irreparabilmente. Cass era furibonda con mio marito per averlo trascinato a quello spettacolo di mostri.»
Charles e lo sceriffo si erano trovati d'accordo nel ritenere che fosse meglio tacere il fatto che Ira avesse assistito all'omicidio di Cass. Ma il ragazzo non poteva attendere in eterno.
«La morte di un mentore è un trauma pesante, ma posso tentare un altro approccio. Se non erro, Ira ha perduto il padre a neanche un anno dalla morte di Cass Shelley. Per lui dev'essere stata una vera tragedia.»
«No, non direi. Quell'ultimo anno, il padre non aveva passato molto tempo con lui. Aveva portato Ira da un dottore di New Orleans per una terapia a base di vitamine. Ma quando la cura non diede alcun risultato, rinunciò al ragazzo. Rinunciò a tutto.»
«E lei? Anche lei ha rinunciato?»
«No. Io…» Guardò le proprie mani, strette a pugno in grembo. «Dovrà toccarlo, vero? Cass lo faceva. Sa che per lui è molto doloroso? Non lo sopporta, lo terrorizza.»
«Lo so. Sta a lei decidere.»
Darlene scosse il capo: più per indecisione che in segno di diniego. «Lui è felice nel suo mondo. Non credo che il nostro gli piacerebbe granché, lei che ne pensa?»
«Se non tentiamo, potrebbe non arrivare mai alla piena consapevolezza di cosa significhi essere…»
«Un essere umano?» ringhiò Darlene, improvvisamente aggressiva.
«Ira è come noi. Credo semplicemente che viva con un'intensità superiore alla norma. Non è corretto dire che ignori ciò che lo circonda: è terribilmente conscio di ogni dettaglio dell'universo. Il rischio di un sovraccarico di emozioni è molto concreto. Ogni tanto deve staccare la spina, chiudere i contatti con il mondo, o non riuscirebbe a sopravvivere. E lui lo sa. Ira è un essere umano particolarmente complicato.» E bellissimo, almeno secondo Charles, che era pieno di ammirazione per le sue doti straordinarie e le sue strane visioni.
«Il programma terapeutico che Ira segue attualmente è studiato per i ritardati mentali. Sono certo che stia facendo progressi, ma quel tipo di approccio ha forti limiti.» Le porse dei moduli stampati su carta intestata del Dallheim. «Forse potrebbe riempire questi con l'anamnesi di Ira, mentre io gli parlo. Val la pena tentare, non le pare?»
Prima che giungessero alla porta della camera di Ira, il ragazzo cominciò a cantare. Charles riconobbe il motivo del cimitero.
Darlene appoggiò la mano alla maniglia ed esitò. Sorrise mentre indugiava sulla soglia, godendosi la musica di quel suo figlio misterioso. Poi aprì la porta, e Ira, improvvisamente allarmato, tacque.
La porta si chiuse e Ira fu solo con l'uomo del panino. L'imponente visitatore si sedette sul letto e parlò a voce bassa per un po', mentre Ira si dondolava avanti e indietro sui talloni, senza ascoltare, bloccando tutto, cercando un posto sicuro al centro della sua testa.
L'uomo si alzò e venne verso di lui.
No! Non farlo!
Ira indietreggiò fino a trovarsi con le spalle al muro. L'uomo del panino lo afferrò per le braccia e ripeté le parole fino a che divennero reali, insinuandosi nella sua mente, ciascuna provvista di un significato e di un peso. Stava usando le parole della dottoressa Cass.
Ira rivide il volto di Cass a pochi centimetri dal suo, il suo sguardo acceso. «Di' qualcosa di vero, di reale, solo una cosa, fallo per me.»
Ora lui disse all'uomo del panino: «Ho paura».
L'uomo di colpo mollò la presa. Si infilò una mano in tasca e ne estrasse una foto della dottoressa Cass. «Guardala, Ira. Raccontami il giorno della sua morte. Io so che c'eri. Che cosa hai visto?»
Ira tacque. L'uomo del panino gli afferrò di nuovo le braccia. La sua faccia si avvicinava… gli occhi cercavano i suoi…
«Pietre!» urlò Ira. E poi si irrigidì, in attesa che l'uomo seguisse le regole del gioco.
L'uomo del panino lo lasciò andare. Un'ora passò in quel modo. L'uomo alto gli si avvicinava, e Ira si concentrava sulle parole. Se parlava, l'uomo del panino si allontanava.
«Chi gettò le pietre? Ti ricordi se c'era il vicesceriffo? Il vicesceriffo Travis?»
Ira cominciò ad agitare le mani. L'uomo gli si avvicinò. Lui si coprì le orecchie e prese a dondolare freneticamente. L'uomo del panino gli staccò le mani dalle orecchie. La voce era più alta adesso. «C'era Travis? Un uomo in divisa?»
Ira annuì, ma l'uomo gli teneva ancora le mani, perché fare un cenno con il capo non era abbastanza. C'erano regole da seguire.
«Le tirò addosso le pietre?»
«Tirò pietre al cane.»
L'uomo lasciò andare le mani di Ira e abbassò la voce. «Vedesti la gente che gettava pietre contro la dottoressa Shelley?»
«Lessero la lettera azzurra. Cass non disse nemmeno una parola. E poi fu tutta rossa. Il cane era giù per terra. E piangeva. Il vicesceriffo lo colpì con un'altra pietra. Non si mosse più. Cass era tutta rossa. Loro se ne andarono. Tutto in silenzio.»
Ira era scappato, lontano dalla casa, dai corpi sanguinanti del cane e della padrona. Si era allontanato dalla strada ed era entrato nell'acqua, avanzando, scrollando gli arti, scoprendo dove finiva il suo corpo e cominciava il bayou. Continuava a cadere, con l'acqua che gli riempiva la bocca e lo faceva soffocare. Poi arrivò suo padre, si precipitò nel fiume per tirarlo fuori e riportarlo a riva e poi a casa e a letto, continuando a ripetere: «Ira, cosa facevi laggiù?». Ma Ira non poteva rispondere. Vedeva ancora il sangue di Cass mescolarsi a quello del cane.
L'uomo del panino tornò ad avvicinarglisi. «Ho bisogno di una risposta diretta a una domanda diretta, Ira. Sai chi gettò pietre a Cass? Hai visto…»
«Papà.» Cominciò a dondolare, sempre di più, consolandosi come solo lui poteva fare. Non guardava mai fuori da sé per cercare conforto. Fuori c'era solo dolore.
«Cosa?»
«Papà gettò la prima pietra alla dottoressa Cass.» Ira sbatté la testa contro la parete.
L'uomo del panino lo fermò. «Tuo padre faceva parte del branco?»
«Sì!» urlò il ragazzo, scivolando con le spalle lungo la parete e lasciandosi cadere per terra. «Papà! Papà tirò le pietre a Cass!»
«Adesso basta!» La porta si aprì. Sulla soglia c'era Darlene, tremante, che si copriva il viso con le mani.
«Mammina, fallo andar via!»
E la sua piccola mamma cacciò quell'omone. Lo spinse fuori dalla stanza e gli sbatté dietro la porta.
Poi si avvicinò ad Ira, cadendo in ginocchio mentre lui raccoglieva le gambe al petto, chiudendosi a riccio. Le mani di lei gli sfiorarono il corpo senza mai toccarlo, limitandosi a fluttuare nell'aria come uccellini terrorizzati che non osassero posarsi sul ramo.