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Mallory aveva abbandonato gli stivali per un nuovo paio di scarpe da corsa.
Era vicina alla finestra, isolata dal resto del gruppo, e fissava lo stemma di Casa Shelley inciso sul calice che aveva in mano.
La sala da pranzo era elegante e formale. Per l'occasione era stato scelto il servizio più bello. Il lungo tavolo di palissandro era apparecchiato con argenti, cristalli e pizzi d'antiquariato.
Charles osservò Mallory che si spostava nella sala adiacente, una biblioteca dagli scaffali vuoti. L'avrebbe seguita se Augusta non gli si fosse parata davanti.
«Sta dicendo addio alla casa» gli disse la donna.
Charles assentì. Levò il bicchiere e sorrise. «A un altro vantaggioso affare immobiliare.»
Fecero tintinnare i bicchieri, e alle spalle di Augusta Henry Roth mimò: «Temo che presto o tardi toccherà a casa mia».
Charles rise. «Spero tu non abbia intenzione di bruciare questa casa o di lasciare che vada in rovina.»
«C'è una clausola restrittiva nel contratto che me lo impedisce.» Augusta sogghignò e andò a controllare il bicchiere di Riker, che rischiava di rimanere vuoto.
Il detective era seduto in una poltrona ben imbottita. L'ingessatura del braccio riportava le firme di alcune graziose infermiere, oltre a quelle degli agenti della polizia di Stato e di Lilith Beaudare. Il sergente si stava godendo la sua condizione di invalido: gli bastava uno sguardo alla tavola per vedere esaudito ogni suo desiderio. Augusta aveva sviluppato una gran simpatia per lui. Mentre lo sceriffo e la sua vice si servivano da bere, Augusta e Riker fumavano e chiacchieravano amabilmente.
Attraverso la porta aperta della biblioteca, Charles vide Mallory in piedi davanti al camino. Il vento scuoteva i vetri delle finestre in tutta la casa. Una folata entrò dalla canna fumaria e sollevò un po' di polvere dal camino.
Così sei finalmente a casa, Mallory. È andato tutto come t'aspettavi? Hai avuto la tua vendetta, ciò che più desideravi. Cosa provi adesso?
Era così chiusa e riservata.
Augusta aveva ragione. Charles non avrebbe mai ottenuto risposta a tutte le sue domande, anche perché non osava formulare quelle che maggiormente gli stavano a cuore. Gli interrogativi vorticavano nel suo cervello, ciechi come pipistrelli condannati a volare in tondo, per sempre.
Perché aveva deciso di farsi chiamare Mallory? Charles credeva che quello fosse il nome del padre, anche se lei si rifiutava di discutere l'argomento. Forse non le importava. Il suo vero padre era stato Louis Markowitz, che l'aveva allevata dall'età di dieci anni.
Mallory si girò e sorprese Charles a fissarla. Andando verso di lui, si fermò vicino alla porta e sollevò uno scatolone con gli oggetti personali di sua madre. Lo posò nell'atrio, pronto per essere caricato in macchina. Ormai la festa volgeva al termine.
Adesso che erano di nuovo tutti insieme nella stessa stanza, Augusta propose un brindisi al lungo viaggio verso casa. Charles si volse verso Mallory.
Dov'era la sua casa adesso?
L'indomani mattina sarebbe ripartita in macchina alla volta di New York, ma quanto ci si sarebbe fermata? Charles pensò che "casa" non era un luogo, ma una persona, ed era improbabile che Mallory sarebbe mai tornata a casa da lui: agli amici si facevano semplici visite. Tuttavia, la sua amicizia non era poca cosa. Già, lui non si stava accontentando, al contrario…
Già, come no. Avrebbe detto Mallory.
Charles smise di raccontarsi bugie e controllò l'orologio. Era quasi l'ora di ritirare le valigie di Riker al bed & breakfast, prima di accompagnarlo all'aeroporto.
I bicchieri erano vuoti, stavano per salutarsi quando Charles diede voce a uno degli enigmi irrisolti che gli si agitavano in testa.
«Qualcuno vuole dirmi chi ha ucciso Babe Laurie?»
A Riker la domanda non piacque, tanto che finse di non aver sentito. Henry gli rivolse un sorriso imperscrutabile. Tom Jessop era fermo con una mano sulla maniglia della porta oltre la quale Lilith si era appena dileguata.
Infine fu Jessop a parlare. «In via ufficiosa?»
«Se preferisci.»
«È stato Fred Laurie. Manca da quando è sparito il cane di Kathy. Quel bastardo aveva già tentato una volta di uccidere Cane Buono. Penso che prima di scappare abbia voluto portare a termine quel lavoretto in sospeso. Ho due testimoni che l'hanno visto nei boschi con il fucile.»
Questo spiegava la scomparsa del cane. Ma non era ancora…
«Per me funziona.» Augusta sfregava il dito sul suo bicchiere, come per cancellare una macchia immaginaria.
Mallory, lo sguardo fisso su un'asse del parquet, disse: «Suppongo che il movente sia il figlio di Babe».
«Sì, sono propenso a crederlo anch'io» concluse lo sceriffo. «In realtà il ragazzo era figlio di Fred. Probabilmente i due Laurie si sono messi a litigare… ed è finita male. Ho già consegnato il mio rapporto, ed emesso un mandato d'arresto per Fred Laurie.»
Mallory e Augusta si scambiarono uno sguardo che Charles non seppe decifrare. Dopo un minuto capì, ma fece un grosso sforzo per bloccare l'idea che si andava formando nella sua mente. Smise di chiedersi quanti corpi potessero giacere all'estremità del Finger Bayou.
Quel che era certo era che Fred Laurie non aveva ucciso il fratello.
«Quali sono le prove a carico di Fred Laurie?» domandò, sapendo bene di alienarsi le simpatie di tutti i presenti. «Non c'è bisogno di qualcosa in più di un semplice sospetto per ottenere un mandato?»
«C'è la confessione che Travis ha reso in punto di morte» disse Jessop. «Ha dichiarato che Fred è l'assassino. Riker era presente, ha firmato una dichiarazione che lo conferma.»
Charles si voltò verso Riker, che però stava osservando la sua scatola di fiammiferi con un'attenzione degna di un'opera d'arte.
Lo sceriffo ruppe il silenzio. «Ehi, Riker, perché non torniamo in paese a prendere le valigie? Poi ti accompagno in aeroporto.»
Riker annuì. Jessop si rivolse a Mallory: «Tornerai per il processo? Non che ci manchino i testimoni. Fanno a gara per denunciarsi l'un l'altro».
Lei scosse il capo. «Ho chiuso con questo posto.»
Dopo che si furono scambiati gli ultimi addii, e che Riker se ne fu andato con lo sceriffo, Charles sollevò il pesante scatolone con gli effetti di Cass e lo depositò sul sedile posteriore della Mercedes.
Qualcosa aveva preso a ticchettare come un orologio.
Guardò Mallory con sospetto: aveva forse nascosto una bomba fra gli oggetti di sua madre?
«È il metronomo» spiegò lei. «Si dev'essere sganciato il pendolo.»
Mentre prendevano posto sui sedili anteriori lui le chiese: «Ricordi qualcosa delle lezioni di piano di Ira?».
Lei annuì. «Suonavamo insieme. Allora a casa c'erano due pianoforti, quello a coda di mia madre e una vecchia pianola. A volte Ira e io ci sfidavamo, per vedere chi suonava più in fretta.»
Il metronomo batteva quattro quarti.
«Mallory, perché Ira venne a casa tua quel giorno? Tua madre continuava a dargli lezioni di piano anche dopo che il padre decise di fargli interrompere la terapia?»
«La terapia non fu interrotta. Ira aveva nostalgia di mia madre. Continuò a presentarsi a casa ai soliti orari. Suo padre avrebbe dovuto badare a lui quando Darlene lavorava, ma non era granché come babysitter. Quando Ira bussava alla porta, mia madre lo accoglieva con gioia.»
Charles aveva la chiavetta dell'accensione in mano. Il metronomo stava rallentando il battito. Gli uccelli cantavano con foga.
«Non mi hai mai chiesto se sia stata io a uccidere Babe Laurie» disse Mallory inaspettatamente.
«Non era necessario. Fu colpito con un sasso da dietro, non è nel tuo stile. Se lo avessero trovato con un bel foro di pallottola in fronte, sarebbe stato molto diverso.» Si voltò per dare un ultimo sguardo a Casa Shelley mentre inseriva la marcia. «Chissà perché ho avuto la sensazione di essere il solo in quella stanza a non sapere il nome dell'assassino.»
«Non è vero, Charles. Riker e Augusta hanno le loro idee, ma si sbagliano.»
«E lo sceriffo?»
Mallory si scostò. «Non interessa a nessuno chi abbia fatto fuori Babe Laurie. Credimi, non ha alcuna importanza.»
«Sono stufo di sentirlo ripetere. A me interessa.» Portò la macchina fuori del cortile e poi la bloccò sulla strada sterrata. «Stai dicendo che lo sceriffo lo sa, e ha deciso di non far niente in proposito?»
Mallory tacque. Charles si diede dello stupido. Perché le aveva rivolto quella domanda? Il suo codice d'onore le vietava di fare la spia.
«Non vuoi darmi neppure un indizio, Mallory?»
Lei lo guardò un attimo, forse misurando la sua lealtà, come se ce ne fosse bisogno dopo tutto quello che avevano passato. Il metronomo batté il tempo. Charles aspettava un altro battito, ma i secondi scorrevano lenti. Ancora un tic.
«Non ci sono prove» disse Mallory.
«Non voglio far arrestare nessuno. Mi basta sapere chi è stato.»
«Ti ho detto che l'ospedale stava informatizzando il vecchio archivio cartaceo. Quando l'addetta ha scansito i risultati delle prime analisi di Ira, deve aver letto la segnalazione della malattia venerea. Quindi ha inserito nel database una nota riguardante la violenza su minore. Quando mi sono collegata al computer dell'ospedale, la cartella di Ira non era ancora registrata. C'era solo l'appunto dell'addetta, il nome di Ira e la malattia.»
«Violenza su minore? Ma Ira non era più un bambino» replicò Charles. Poi alzò una mano. «No aspetta, ho capito. Correggimi se sbaglio. So che la diagnosi di autismo fu cambiata in quella di ritardo mentale. Questo fatto e la dipendenza di Ira dalla madre comportano lo status legale di minore. Esatto?»
«Esatto. Così quando Darlene ha portato Ira al pronto soccorso per le fratture alle mani, la segnalazione del computer ha fatto sì che l'ospedale fosse obbligato a chiamare lo sceriffo.»
Il metronomo smise di battere.
Riker aveva appreso l'arte di far le valigie con una sola mano in dieci minuti netti. Aprì il primo cassetto, prese la biancheria e la infilò nella borsa. Di solito, non si muoveva tanto in fretta, ma non voleva perdere tempo. Le fibbie di metallo si chiusero con uno scatto. Fatto.
Troppo tardi.
Merda.
«Quanta fretta!» Charles Butler era appoggiato allo stipite della porta.
Riker si lasciò sprofondare sul letto accanto alla valigia. Sentiva il bisogno di farsi un bicchierino. Aveva sperato di potersi sedere in una comoda sedia al bar dell'aeroporto e magari scambiare due chiacchiere con Jessop.
«A proposito della confessione di Travis.» Charles si chiuse la porta alle spalle. «Perché hai assecondato la menzogna dello sceriffo?»
«Credo che tu lo sappia.» Il detective si rese conto che sapere e credere erano cose diverse nel contesto dello strano rapporto che Charles aveva con Mallory. La lealtà incondizionata di Charles nei confronti di lei l'avrebbe portato a crederla innocente, a dispetto di qualsiasi prova. Riker coltivava una forma di lealtà più pragmatica. Se Mallory avesse sparato a un'anziana suora in sedia a rotelle, lui avrebbe pensato a un caso di legittima difesa.
«Così credi ancora che sia stata Mallory» sospirò Charles.
«Aveva un movente, l'opportunità di commettere il delitto e nessun alibi.» Riker si stava sforzando di non apparire sarcastico. La devozione di Charles nei confronti della ragazza lo commuoveva profondamente.
«Avrebbe ucciso Babe perché faceva parte del branco che uccise sua madre? Anche Travis ne faceva parte, eppure Mallory gli ha salvato la vita. Non poteva avere la minima idea di chi fossero i componenti del gruppo. Al momento dell'omicidio lei era in casa, chiusa in un…»
«Poteva sentire tutto dalla sua camera, Charles. Ascolta gli uccelli.»
Charles si voltò verso la finestra chiusa. L'albero del cortile era pieno di uccelli che cantavano. E, ora che faceva attenzione, poteva sentire Betty sul portico del bed & breakfast. Stava salutando un nuovo ospite. Riuscì ad afferrare qualche parola della conversazione.
«Augusta mi ha fatto fare il giro di Casa Shelley» disse Riker. «Ho visto la camera della bambina. Hai notato la finestrella nello sgabuzzino? È molto comune nelle case costruite prima della diffusione della luce elettrica. Mallory non avrebbe potuto vedere niente, la finestra è troppo in alto per una bambina. Ma scommetto che sentì qualcosa, forse non la voce di Travis, ma qualcosa, probabilmente solo poche parole. Magari non capì subito quel che stava accadendo, ma collegò ogni cosa quando più tardi sfondò la porta e vide la madre morente. Credimi, Mallory aveva più elementi su cui lavorare di quanti ne avesse lo sceriffo.»
«Travis gettò le pietre solo al cane. C'era anche Alma, ma lei il sasso se lo portò a casa. Se Mallory sentì…»
«Charles, sei patetico.»
«Era Malcolm, e non Babe, il burattinaio che guidava le azioni della folla inferocita.»
«Tutti i membri della folla sono responsabili, lo dice la legge. Anche quella di Mallory!» Riker rimase per un po' in silenzio, cercando di calmarsi.
«Comunque hai ragione, Charles» proseguì. «Malcolm fece in modo di coinvolgere nell'omicidio ogni possibile testimone, chiunque avrebbe potuto parlare allo sceriffo di quella lettera, la lettera azzurra. Anche se alcuni di loro non scagliarono neppure una pietra, tutti assistettero alla morte di Cass. Non fecero nulla per aiutarla. Non dissero una parola. Nessuno di loro può dirsi innocente.»
Riker si avvicinò alla finestra e la aprì. Giù in strada lo sceriffo era appoggiato alla macchina.
«Ehi Tom, due minuti, va bene?»
«Fa' con comodo.»
Riker richiuse la finestra e si girò, deciso a liquidare Charles Butler. Con garbo, raccomandò a se stesso.
«Certo, credo che sia stata lei. Ecco perché ho confermato la bugia dello sceriffo. In quel momento ero così contento che Mallory non avesse fatto fuori tutto il paese…»
Charles si limitava a fissarlo con occhi tristi.
«Cosa vuoi da me?» Riker prese la valigia e la posò vicino alla porta. Niente da fare: Charles continuava a sbarrargli l'uscita.
«Non ritratterò quella dichiarazione, Charles. È inutile. Allo sceriffo non interessa chi abbia ucciso Babe Laurie. Non interessa a nessuno.» A nessuno, tranne che a lui stesso e a Charles. Ma Mallory ormai ne era fuori. Non l'avrebbero processata per omicidio.
«Non è stata Mallory» dichiarò Charles.
Dal suo tono Riker seppe che era vero.
Decise di mentire: «Sappiamo che Babe Laurie violentò due bambini. Ma è probabile che le sue vittime siano state molte di più. Quell'omicidio fu un bene per tutti».
No, un omicidio non era mai giustificabile. Era il delitto peggiore.
«A conferma della tua tesi hai solo la dichiarazione di Jimmy Simms» disse Charles. «Lui raccontava e tu scrivevi, vero? Ma Jimmy era sconvolto, piangeva, scommetto che non era del tutto coerente.»
«Stai insinuando che potrei essermi perso qualcosa?»
Charles rimase zitto.
«Charles, perché mi stai facendo questo?»
«Volevo solo essere sicuro che stavolta fossi tu a fingerti cieco. E così, non vuoi sapere chi ha ucciso Babe Laurie? Non ti importa? Bene.»
Charles si voltò per andarsene.
«Aspetta. Chi è stato?»
«E se fosse stato lo sceriffo? È solo un'ipotesi, bada. A proposito, ti ho detto che aveva un movente e nessun alibi? Ma sono certo che saresti felice di perdonarlo, come eri disposto a fare con Mallory. È uno dei vantaggi di fare il tuo mestiere, evidentemente: i tuoi amici possono uccidere qualcuno e passarla liscia.»
«Lo sceriffo? Vuoi dire…»
«Non ti dirò chi è stato. Io lo so, ma a te non importa.»
«Chi lo ha ucciso, Charles?»
«Non importa, sono le tue precise parole.» Spalancò la porta.
«Non farmi impazzire. Chi…?»
«Fai buon viaggio, Riker.»
Si richiuse la porta alle spalle.
Riker non sentiva più gli uccelli. Rimase fermo accanto alla finestra e guardò in giù, verso l'auto dello sceriffo. I poliziotti non potevano uccidere i loro indiziati, per nessuna ragione e in nessuna circostanza: era la legge di Riker. Ma finalmente aveva ritrovato la fiducia in Mallory. I suoi sospetti sul conto dell'uomo che lo aspettava giù da basso erano il male minore: conviverci sarebbe stato infinitamente più facile.
Grazie, Charles.
Ira dormiva in un soffice nido di bende bianche e lenzuola di lino. Sua madre era seduta di fianco al letto e stava leggendo una rivista. Darlene Wooley, oggi, non indossava il tailleur, ma una semplice gonna e una camicetta scura, che accentuava il pallore della sua pelle.
Charles si chiese se negli ultimi quattro giorni avesse visto la luce del sole.
Darlene alzò lo sguardo e gli sorrise. Ripiegò una pagina della rivista per tenere il segno, poi guardò Ira come se temesse che il fruscio della carta avesse potuto disturbare il suo sonno. Con un cenno invitò Charles a seguirla fuori della camera, nel corridoio.
Con precauzione accostò la porta, dicendo: «È il primo giorno che è uscito dalla terapia intensiva. Il dottore dice che sta recuperando bene».
«Mi fa piacere sentirlo. Ho buone notizie per lei. Mi permetta di offrirle un caffè.»
Mentre percorrevano il corridoio, lui notò che gli abiti le stavano larghi e che le sue unghie erano state rosicchiate fino alla carne, senza pietà.
«Sa,» disse Darlene «quando è sveglio lascia che gli tenga la mano. Sono sicura che detesta ancora essere toccato. Lo fa per farmi un regalo.»
Le sue dita salirono meccanicamente alla bocca. Ma poi, consapevole dello stato delle sue unghie, affondò tutte e due le mani nelle tasche della gonna. «Quando Ira era piccolo, mi portava regolarmente dei fiori dal giardino di Cass. Ho sempre pensato che fosse un'idea della dottoressa, un aspetto della terapia. Ma Mallory mi ha detto di no. Quando è passata di qua l'altra sera, mi ha detto che Ira chiedeva a Cass il permesso di cogliere fiori per sua madre.»
Charles pensò che fosse una storia bellissima. E, se l'aveva inventata Mallory, era ancora più bella.
Nella luce fluorescente della caffetteria l'incarnato di Darlene pareva ancora più pallido. Charles la accompagnò al tavolo più vicino. Temeva che, se non si fosse seduta, sarebbe caduta. Quand'era l'ultima volta che aveva dormito?
«Aspetti qui, vado a prenderle un caffè.»
Ma poi mise sul vassoio anche una porzione di verdure, e un piatto di carne che galleggiava in una salsa acquosa. Il pièce de résistance fu una fetta di torta al cioccolato avvolta nel cellophane. Voleva farla ingrassare.
Quando depose il vassoio sul tavolo, Darlene scoppiò a ridere.
Era un progresso.
Una volta seduto, Charles le porse la lettera di ammissione al Centro Dallheim.
Lei la lesse in silenzio, poi il foglio le cadde di mano. «Lo vogliono! Vogliono Ira!»
«Oh, sì. Sono molto interessati al suo caso. Ma adesso mangi qualcosa.»
Per giorni aveva tormentato il direttore del progetto con storie raccolte grazie a Betty, Mallory e Augusta, trasformando Ira in qualcosa di più di un semplice numero: un essere umano.
«Comincerà non appena starà abbastanza bene da potersi spostare fino a New Orleans. Non le sarà permesso di vederlo per i primi tre mesi. Ma dopo potrà portarlo a casa ogni fine settimana.»
«Capisco. Lei pensa che ci sia davvero una possibilità che Ira un giorno riesca a badare a se stesso?»
«Grazie a lei. Se non avesse continuato la terapia, a quest'ora sarebbe una causa persa. La prego, mangi qualcosa. Ci potrebbero volere anni di lavoro, ma col tempo acquisterà autonomia.»
«Così, se mi dovesse accadere qualcosa…»
«Non sarà ricoverato in un manicomio statale.»
Per qualche momento sembrò felice. Poi la tristezza di sempre affiorò nel suo sguardo.
«Bene… splendido.» Era più calma adesso. «C'è qualcosa che devo fare. Ho solo bisogno…»
«Assaggi la carne, Darlene. Sono molto curioso di scoprire a quale specie appartenga.»
Lei impugnò forchetta e coltello e fece per affettarla. All'improvviso le vennero a mancare le forze, e le posate caddero nel piatto.
«Non è molto allettante, vero? Mi dispiace.»
«Devo assolutamente parlare allo sceriffo» biascicò. «C'è qualcosa…»
«Ha sentito che lo sceriffo pensa che sia stato Fred Laurie a uccidere Babe?»
«Non è stato Fred.» Con la mano urtò la tazza di caffè e un fiotto di liquido scuro si sparse sul tavolo.
«Lo so.» Charles strappò qualche tovagliolo dal contenitore metallico al centro del tavolo e asciugò il caffè versato. «Ma, vede, la sua teoria piace davvero a tutti. Sarà difficile forzare lo sceriffo ad accettare la sua confessione. Adesso provi i legumi.»
«Lei sapeva…» Si passò una mano tra i capelli, le dita sottili come artigli. «Io volevo dirlo a Tom. Ogni giorno, ho desiderato dirglielo. Non riesco a dormire la notte. Continuo a sentire il rumore del sasso che colpisce il cranio di Babe.»
«Non deve raccontarmi niente di tutto questo.»
«Ma sì che devo» esclamò lei, un po' troppo forte. La gente seduta al tavolo vicino si girò a guardarla. Darlene abbassò il capo. «Voglio raccontarglielo.» La sua voce, adesso, era un sospiro. «Ho bisogno di parlare con qualcuno.» Giocherellò con la fede nuziale, facendola scorrere lungo il dito. «Vidi che Babe lasciava la macchina alla stazione di servizio. Si stava dirigendo al ponte sull'Upland Bayou. Io l'ho seguito mentre i dottori stavano operando mio figlio. Ma non è quel che crede, non è per quello che aveva fatto alle mani di Ira.»
Anche l'anello era troppo largo adesso, c'era così poca carne intorno alle ossa.
Charles fissava il proprio riflesso nel portatovagliolo di metallo. Non riusciva più a guardarla negli occhi. Stava soffrendo troppo mentre gli raccontava la violenza commessa sulla strada che portava a Casa Shelley.
«Non sapevo se l'avessi ucciso o no. Urlai quando vidi tutto quel sangue e corsi all'auto. Ero certa che qualcuno mi avesse sentita o vista. Lo lasciai lì per strada e tornai all'ospedale ad aspettare lo sceriffo. Ero certa che da un momento all'altro Tom sarebbe entrato ad arrestarmi. Quando il dottore venne nella sala d'aspetto per parlarmi, non notò che c'era del sangue fresco sul mio tailleur: era quello di Babe, mischiato a quello di Ira.»
Si coprì il volto con le mani dalle unghie martoriate.
«Mangi qualcosa.» Era quel che gli diceva sempre sua madre nei momenti di difficoltà.
Darlene prese la forchetta e distrattamente rigirò i piselli. «Mi sentivo impazzire all'idea di quel che sarebbe accaduto a mio figlio se io fossi finita in prigione. Non ce la facevo più a resistere.»
La forchetta le scivolò di mano e i piselli si sparpagliarono sul tavolo. «Ma non gli dissi niente. Chi avrebbe badato a Ira?»
Darlene spinse di lato il piatto e prese la confezione di cellophane con la torta. «Come ha fatto a scoprirlo, Charles?»
«Questo è l'ospedale dove Cass fece fare i test sul sangue di Ira. Quando lei lo ha portato qui per le fratture alle mani, il medico ha consultato il computer e le ha chiesto se Ira avesse seguito la cura per la sifilide. I dati a video erano incompleti, e il medico necessitava di un'anamnesi il più possibile accurata: è la procedura normale.»
«È stata l'infermiera dell'accettazione, non un dottore.» Con le mani cercava di aprire l'involucro della torta, senza riuscirci.
«Non sapevo di cosa stesse parlando quella donna. Le dissi che c'era un errore. Ira era stato curato per l'epatite, non per la sifilide.»
Charles si chiese se fosse il caso di aiutarla ad aprire l'involucro.
«Be', per me non aveva senso, allora l'infermiera mi portò nel seminterrato, dove tengono l'archivio cartaceo.»
L'involucro resisteva. Lei cercò di sfondarlo con un dito, dimenticando di non avere più unghie. «Trovammo una cartella che corrispondeva al numero di Ira sul computer. Non c'erano nomi, solo date e parametri per i test effettuati su un bambino di sei anni, un ragazzo di tredici e uno di diciannove. L'archivista disse all'infermiera che erano nella stessa cartella perché il medico, Cass Shelley, stava cercando di ricostruire il percorso dell'infezione.»
«Il ragazzo di tredici anni era Jimmy Simms.»
«Lo immaginai. E Babe aveva compiuto diciannove anni proprio allora. Tutti in paese sapevano della sua festa per lo scolo. Era una leggenda. E poi ci fu la cerimonia pubblica di guarigione. Ira non fu più lo stesso, dopo. Così pensai che avesse stuprato mio figlio in quell'occasione. Gli aveva fracassato le mani. Avevo buone ragioni per crederlo colpevole, no?»
«Non ne sembra più così sicura adesso.»
«Dopo che l'ho ucciso…» Non volendo incontrare i suoi occhi, fissò l'invincibile involucro di cellophane. «Voglio dire, più tardi, quella stessa sera, mi resi conto che mio marito doveva essere al corrente della sifilide di Ira. Devono notificarlo ai genitori, no? E questo spiega il suo litigio con Cass. Forse lei lo accusò di aver violentato il suo stesso figlio.»
La fede nuziale le scivolò dal dito e rotolò sul tavolo.
«Deve essere andata così» disse, torcendo fra le mani la busta con la torta, sbriciolandola. «Ira ora è sano. Mio marito lo fece curare, prima di schiantarsi contro quel palo del telefono.»
«Quindi adesso crede di aver ucciso l'uomo sbagliato?»
«Ho sentito che Ira le ha detto che fu suo padre a lanciare la prima pietra. Rappresenta una prova, no? Cass stava per rendere pubblica l'intera sporca faccenda, così mio marito…»
Le mani riposavano sul piano del tavolo troppo stanche per lottare ancora.
«Suo marito non fece del male a Ira» chiarì Charles, coprendole un mano con la sua. «Probabilmente gli dissero che Cass lo aveva accusato. Qualcosa di simile accadde al vicesceriffo Travis. Malcolm gli lesse la lettera di Cass, e lo indusse a credere che la dottoressa intendesse accusare lui, Travis, di aver violentato un ragazzo: Jimmy, immagino. In punto di morte Travis disse che Cass, con la sua scienza, stava per rovinarlo. Era innocente, ovvio, ma l'accusa, una volta pubblica, sarebbe stata di per sé un marchio infamante, indelebile. Malcolm gli ficcò la paura nella mente, e una pietra in mano.»
Con un sasso e un'idea fissa in mente anche Darlene si era macchiata di un crimine orribile… Ma Travis aveva colpito solo il cane.
«Nell'archivio del laboratorio di analisi c'è il referto negativo dell'esame del sangue di suo marito.»
«La lettera di cui Malcolm si servì per manipolare mio marito?»
«Credo di sì. La data coincide con quella del linciaggio. Una copia di quel referto era destinata a suo marito. Ma quando gli fu spedita, Cass era già morta.»
«Fu per questo che si uccise?»
«Sì» rispose Charles. «Forse suo marito e Cass litigarono quando lei gli chiese di sottoporsi a un prelievo di sangue. Si sarà sentito offeso. Era innocente, ma lei voleva eliminarlo dalla lista dei sospetti. Cass aveva i risultati degli esami in mano quando si recò dal vero violentatore di bambini, ed era furibonda.»
«Allora era Babe.»
«Non c'è modo di saperlo per certo.»
«Chi altro potrebbe esser stato?» strillò Darlene. «Babe prese l'infezione prima degli altri!» La sua voce echeggiava acuta al di sopra del brusio della caffetteria. Le mani si allargarono nell'aria come per riprendere le parole e abbassarne il volume. Tutt'intorno le conversazioni si interruppero e i giornali dei clienti solitari si abbassarono sui tavoli.
Strinse le labbra. A stento aveva ripreso il controllo. «So che Babe era il ragazzo di diciannove anni citato in quella cartella. Nel suo caso la sifilide era in uno stadio molto più avanzato. Me lo disse l'infermiera.»
«Quella cronologia, in sé, non prova nulla su chi contagiò chi.»
«Se solo Ira me l'avesse detto…»
«I bambini sono i migliori cospiratori» commentò Charles. «È così facile spaventarli, che non parlano quasi mai. Jimmy non parlò, e nemmeno Babe, all'epoca in cui gli toccò subire uno stupro.»
«Babe?»
«Secondo l'autopsia, il suo era uno stadio di sifilide molto avanzato. Ma lavorando solo su un cadavere, il patologo non aveva modo di accertare la data dell'infezione. Il coroner non sapeva delle convulsioni, della debolezza, degli attacchi d'ira che affliggevano Babe da anni. Babe Laurie doveva essere un bambino quando contrasse la malattia.»
«Ma com'è possibile? Qualcuno l'avrebbe saputo.» Esclamò Darlene e poi gelò. Perché? Lei aveva forse saputo qualcosa di Ira? E i genitori di Jimmy Simms, avevano saputo quel che era stato fatto al loro figlio?
«Sono certo che Malcolm sapesse» affermò Charles. «Babe deve aver manifestato l'intera gamma dei sintomi. Ma se il fratello lo avesse fatto curare per una malattia venerea in tenera età, sarebbe scattata un'indagine.»
«Ma Cass stava curando Babe quando…»
«Quando era un adolescente e lo si poteva spacciare per un frequentatore di prostitute. Tom Jessop mi disse che Cass lo salvò dalla strada per curarlo. Le lesioni dovevano già essere evidenti allora. Quando ebbe i risultati degli esami, si rese conto della gravità della malattia e fece il collegamento con Jimmy Simms. L'epatite la condusse a Ira. D'un tratto Cass si ritrovò con un sacco di domande da fare a Malcolm.»
La busta di cellophane era scoppiata; la torta sbriciolata era finalmente fra le mani di Darlene. «Significa che la dottoressa andò a quella riunione con l'intenzione di affrontare Malcolm?»
«Dall'età di cinque anni, Babe fu allevato da suo fratello. Malcolm ebbe ogni opportunità di…»
Darlene strinse la mano e le briciole le scivolarono fra le dita. «Dunque Babe si limitò a fare quel che era stato fatto a lui.»
Charles continuò: «Malcolm era un seduttore nato. I tempi combaciano. Probabilmente si dedicò al nipote Jimmy quando Babe divenne troppo grande per i suoi gusti. E poi Ira, la sera dello spettacolo…».
Il bambino doveva essersi terrorizzato quando Babe lo aveva sottoposto all'imposizione delle mani. Doveva aver urlato. Malcolm aveva cercato di calmarlo e lo aveva portato in un posto tranquillo. Forse Ira aveva gridato, ma chi poteva immaginare la vera ragione di quelle grida? Nessuno, nemmeno il padre, che quella sera era tra il pubblico, forse a pochi passi dal luogo dello stupro.
Darlene scuoté adagio il capo.
«Dev'essere stato duro per Babe veder morire Cass Shelley» disse Charles. «Cass era stata il suo medico, un tempo. Forse la sola a preoccuparsi di quel che gli accadeva. Poi è comparsa Mallory, l'immagine stessa della madre. E Ira ha cominciato a suonare quelle note al piano, ripetendole all'infinito. Le stesse note del vecchio disco inceppato che fece da accompagnamento alla lapidazione. Babe è andato fuori di testa. Ha gridato a Ira di smetterla. Ma Ira ha continuato a suonare. A quello stadio della malattia, Babe non era in grado di controllare gli attacchi di rabbia. Così ha sbattuto il coperchio del piano sulle mani di Ira, per far cessare la musica. Quando la musica è cessata, Babe se ne è andato.»
«Ma Babe stava aspettando Mallory. Le aveva teso un agguato!»
La tazza da caffè s'infranse sul pavimento.
La sala per un attimo si zittì. Gli occhi erano puntati sulla macchia scura che s'allargava sul pavimento e su quella donna che sembrava una pazza pericolosa.
«Dubito che Babe volesse fare del male a Mallory» disse Charles. «Forse delirava, credendola Cass, la sua antica fonte di conforto. Oppure era lucido e voleva parlare con Mallory del giorno in cui era morta sua madre. Questo spiegherebbe il litigio che è scoppiato fra i fratelli prima in piazza e poi alla stazione di servizio. Ma non lo sapremo mai. È complicato interpretare il pensiero di chi è morto.»
Darlene scoppiò in singhiozzi. Finalmente la gente seduta intorno a loro era tornata a rivolgere gli occhi alle proprie cose. In quel posto le lacrime erano di casa e quelle di Darlene parvero rasserenare tutti. Erano la prova che in lei non c'era nulla di pericoloso, solo tanto dolore.
Charles attese pazientemente che finisse di piangere. Quando si fu ricomposta, andò a prenderle un'altra fetta di torta e le aprì l'involucro.
Lei cercò di sorridere, ma non ci riuscì. «A nessuno importa chi abbia ucciso Babe Laurie, tranne che a lei.»
«Oh, non è vero» replicò Charles. «Tutti quelli che hanno sostenuto questa tesi cercavano solo di proteggere una persona a loro cara.»
Be', Mallory poteva aver pensato che lo sceriffo avesse ucciso Babe Laurie. Quando Charles aveva insistito, non lo aveva forse spinto verso Jessop? Ma Charles rimaneva incerto. Era sempre così difficile capire quando Mallory stesse mentendo. Tom Jessop si sarebbe potuto difendere da un'eventuale falsa accusa; ma se Darlene fosse finita in prigione, chi si sarebbe preso cura dell'antico compagno di giochi di Mallory? Tipico da parte sua trovare l'espediente…
«Charles, cosa crede che farà di me il tribunale?» Il suo tono era calmo, adesso.
«Tom Jessop è un brav'uomo. Avrà molto peso in quel che le accadrà.» Jessop avrebbe certo sostenuto la tesi di una temporanea incapacità d'intendere. «Penso che possa sperare nella sospensione della pena.»
«E se lei fosse nella giuria?»
«Chiederei una libbra della sua carne? No.»
La vita di Babe sarebbe stata un vero inferno se gli fosse stato concesso di continuarla. Le migliori cure mediche del mondo avrebbero mitigato le sofferenze, ma non annullato il danno. «Tuttavia, l'uccisione di Babe mi rattrista, in particolare, il modo in cui morì.» aggiunse Charles.
«Tutto solo e spaventato» disse lei, con un cenno di assenso. «A dissanguarsi per strada, come un cane.»
Era d'accordo con lui, ne condivideva la tristezza, in volto aveva un'espressione di vero dolore. E pietà? Sì. Anche quella. Ora al mondo c'era almeno una persona che avrebbe pianto Babe Laurie. La sua stessa assassina avrebbe visitato la sua tomba, portandogli qualche mazzo di fiori.