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TROPPI ANNI PRIMA

CAPITOLO 1

Il soffitto era bianco ma per l’uomo steso sul lettino era pieno di immagini e di specchi. Le immagini erano quelle che da mesi lo tormentavano ogni notte. Gli specchi erano quelli della realtà e della memoria, dove continuava a vedere riflesso il suo viso.

Il suo viso di adesso, il suo viso di un tempo.

Due figure diverse, la tragica magia di una trasformazione, due pedine che nel loro percorso avevano segnato l’inizio e la fine di quel lungo gioco di società che era stata la guerra. Ci avevano giocato in tanti, troppi.

Qualcuno era rimasto fermo per un giro, qualcun altro per sempre.

Nessuno aveva vinto. Nessuno, né da una parte né dall’altra.

Ma nonostante tutto, lui era tornato. Aveva conservato la vita e il respiro e la possibilità di guardare, ma aveva perso per sempre il desiderio di essere guardato. Ora per lui il mondo non andava oltre il confine della sua ombra e come punizione avrebbe continuato a correre fino al fondo della vita, a fuggire inseguito da qualcosa che si portava incollato addosso come un manifesto su un muro.

Alle sue spalle il colonnello Lensky, lo psichiatra dell’esercito, era seduto su una poltrona di pelle, una presenza amica in una posizione da cui difendersi. Erano mesi, forse anni, in realtà secoli che si incontravano in quella stanza che non riusciva a cancellare dall’aria e dalla mente il leggero odore di ruggine che si respirava in ogni ambiente militare. Anche quando invece di una caserma si trattava di un ospedale.

Il colonnello era un uomo dai radi capelli castani e dalla voce calma e un aspetto che a prima vista ricordava più un cappellano che un soldato. A volte indossava la divisa ma quasi sempre era in borghese. Abiti tranquilli, colori neutri. Un viso senza identità, una di quelle persone che si incontrano e si dimenticano subito.

Che si vogliono dimenticare subito.

D’altronde, in tutto quel tempo, aveva ascoltato la sua voce più di quanto non avesse guardato il suo viso.

«E così domani uscirai.»

Quelle parole avevano dentro il senso definitivo del congedo, il valore illimitato del sollievo, il significato inesorabile della solitudine.

«Sì.»

«Ti senti pronto?»

No! avrebbe voluto urlare. Non sono pronto, come non lo ero quando tutto questo è cominciato. Non lo sono adesso e non lo sarò mai. Non dopo aver visto quello che ho visto e aver provato quello che ho provato e dopo che il mio corpo e la mia faccia…

«Sono pronto.»

La sua voce era stata ferma. O perlomeno gli era sembrata ferma mentre pronunciava quella frase che lo condannava al mondo. E se non lo era stata, di certo il colonnello Lensky preferiva pensare che lo fosse. Come uomo e come medico aveva scelto di credere che il suo compito fosse finito, piuttosto che ammettere di aver fallito. Per questo era disposto a mentire a lui come mentiva a se stesso.

«Molto bene allora. Ho già firmato i documenti.»

Sentì il cigolio della poltrona e il fruscio dei calzoni di tela, mentre il colonnello si alzava. Il caporale Wendell Johnson si mise a sedere sul lettino e rimase un attimo immobile. Di fronte a lui, oltre la finestra aperta sul parco, spuntavano le cime verdi degli alberi a scontornare un frammento di cielo azzurro. Da quella posizione non riusciva a vedere quello che di certo avrebbe visto se si fosse affacciato. Seduti sulle panchine o adagiati nel soccorso ostile di una sedia a rotelle, in piedi sotto le piante o figli di quei pochi movimenti fragili che qualcuno chiamava autosufficienza, c’erano uomini come lui.

Quando erano partiti li avevano chiamati soldati.

Ora il loro nome era reduci.

Una parola senza gloria che attirava il silenzio ma non l’attenzione.

Una parola che significava che erano sopravvissuti, che erano usciti vivi dalla fossa infernale del Vietnam, dove nessuno sapeva che peccato doveva scontare anche se tutto intorno a lui gli dimostrava come. Erano reduci e ognuno di loro portava addosso, in modo più o meno visibile, il peso della sua personale redenzione, che iniziava e finiva entro i confini dell’ospedale militare.

Il colonnello Lensky attese che si alzasse e si voltasse, prima di avvicinarsi. Gli tese la mano e lo fissò negli occhi. Il caporale Johnson avvertì lo sforzo che stava compiendo per impedire al suo sguardo di deviare e andarsi a posare sulle cicatrici che gli deturpavano la faccia.

«Buona fortuna, Wendell.»

Era la prima volta che si rivolgeva a lui chiamandolo per nome.

Un nome non significa una persona, pensò.

Ce n’erano in giro tanti di nomi, incisi sopra tombe segnate da croci bianche, messe tutte in fila con una precisione da orologiaio. Questo non cambiava nulla. Niente sarebbe servito a riportare in vita quei ragazzi, a togliere dal loro petto senza respiro il numero che tenevano appuntato come una medaglia in onore delle guerre perse. Lui sarebbe rimasto sempre e solo uno dei tanti. Ne aveva conosciuti molti come lui, soldati che si muovevano e ridevano e fumavano spinelli e si facevano di eroina per scordare che avevano perennemente disegnato sul petto il reticolo di un mirino. L’unica differenza tra loro stava nel fatto che lui era ancora vivo, anche se in pratica si sentiva sotto una di quelle croci. Era ancora vivo, ma il prezzo che aveva pagato per questa trascurabile differenza era stato un salto nel vuoto grottesco della mostruosità.

«Grazie, signore.»

Si girò e si avviò verso la porta. Sentiva lo sguardo del dottore puntato sulla nuca. Da tempo non era più tenuto al saluto militare. Non è richiesto a chi viene ricostruito pezzo per pezzo nel corpo e nella mente con il solo scopo di permettergli di ricordare per il resto della vita. E il resto della missione era compiuta.

Buona fortuna, Wendell.

Che in realtà voleva dire: cazzi tuoi, caporale.

Percorse il corridoio verde chiaro, verniciato fino all’altezza della sua testa con smalto lucido e da lì in su con una normale pittura opaca. Nella luce incerta che filtrava dal piccolo lucernario gli riportava alla mente certe giornate tratteggiate di pioggia nella foresta, quando le foglie erano così lucide da sembrare uno specchio e la parte nascosta pareva fatta d’ombra.

Un’ombra dalla quale poteva spuntare da un momento all’altro la canna di un fucile.

Uscì all’aperto.

Fuori c’erano il sole e il cielo azzurro e alberi diversi. Alberi facili da accettare e da dimenticare. Non erano pini a macchia o bambù o mangrovie o distese acquatiche di risaie.

Non era dat-nuoc.

Questa parola gli risuonò nella testa, leggermente gutturale come nell’esatta pronuncia. Nella lingua parlata del Vietnam voleva dire paese, anche se nella traduzione letterale diventava terra-acqua, un modo estremamente realistico per comprendere l’essenza di quel territorio. Era un’immagine felice per chiunque, a patto di non doverci lavorare con la schiena curva o camminare portando sulle spalle uno zaino e un M16.

Ora la vegetazione che aveva intorno significava casa. Anche se adesso non sapeva di preciso a quale posto dare questo nome.

Il caporale sorrise perché non trovò altro modo per esprimere l’amarezza. Lo fece perché ormai quel gesto non gli provocava più dolore.

La morfina e gli aghi sotto la pelle erano un ricordo quasi sbiadito. Il dolore no, quello sarebbe rimasto una macchia gialla nella memoria ogni volta che si fosse spogliato davanti a uno specchio o che avesse cercato invano di passarsi una mano fra i capelli, trovando solo il ruvido contatto delle cicatrici da ustioni.

Si avviò per il vialetto sentendo la ghiaia scricchiolare sotto i piedi, lasciandosi il colonnello Lensky con tutto quello che significava alle spalle. Incontrò la striscia d’asfalto della strada principale e piegò a sinistra, dirigendosi senza fretta verso uno degli edifici bianchi che spiccavano in mezzo al parco, quello dove era alloggiato.

C’era tutta l’ironia del principio e della fine, in quel posto.

La storia si stava chiudendo dove era iniziata. A poche decine di miglia da lì c’era Fort Polk, il campo di addestramento avanzato prima della partenza per il Vietnam. All’arrivo erano un gruppo di ragazzi che qualcuno aveva estratto a forza dalla vita con la pretesa di trasformarli in soldati. La maggior parte di loro non era mai uscita dallo Stato in cui vivevano e alcuni nemmeno dalla contea in cui erano nati.

Non chiederti che cosa il tuo Paese può fare per te…

Nessuno se lo chiedeva, ma nessuno era pronto ad affrontare quello che il suo Paese avrebbe chiesto a lui.

All’interno del forte, nella parte sud, era stato ricostruito nei minimi particolari un tipico villaggio vietnamita. Tetti di paglia, legno, canne di bambù, rattan. Attrezzi e utensili strani, facce di istruttori dall’aspetto asiatico che in realtà erano per nascita più americane della sua. Non ci aveva trovato nessuno dei materiali e degli oggetti che gli erano familiari.

Eppure in quelle costruzioni, in quelle espressioni metafisiche di un posto lontano migliaia di miglia, c’era al tempo stesso una minaccia e un che di quotidiano.

Ecco com’è fatta la casa di Charlie, gli aveva detto il sergente.

Charlie era il soprannome con cui i soldati americani indicavano i nemici. L’addestramento era iniziato e finito. Avevano insegnato loro tutto quello che c’era da sapere. Ma lo avevano fatto in fretta e senza troppa convinzione, perché di convinzione ce n’era poca a quei tempi. Ognuno avrebbe dovuto ingegnarsi per conto suo, soprattutto a capire, fra i volti tutti uguali che aveva intorno, chi era un vietcong e chi un contadino sudvietnamita amico. Il sorriso con cui talvolta si avvicinavano era lo stesso, ma quello che portavano addosso poteva essere completamente diverso. Una bomba a mano, forse.

Come nel caso dell’uomo di colore che in quel momento veniva verso di lui, spingendo con le braccia robuste le ruote di una sedia. Fra i reduci ricoverati nell’ospedale in attesa di ricostruzione, era l’unico con cui Wendell aveva stretto amicizia.

Jeff B. Anderson, di Atlanta. Era stato vittima di un attentato mentre usciva da un bordello di Saigon. Al contrario di altri suoi compagni lui era sopravvissuto, ma era rimasto paralizzato dalla vita in giù. Niente gloria, nessuna medaglia. Solo cure e imbarazzo. Ma d’altronde in Vietnam la gloria era un fatto occasionale e le medaglie talvolta non valevano il metallo di cui erano fatte.

Jeff frenò la corsa della sedia a rotelle appoggiando le mani di piatto sulle ruote.

«Ciao, caporale. Si dicono cose strane su di te.»

«In questo posto molte delle cose che si dicono tendono a essere vere.»

«Allora è sicuro. Vai a casa?»

«Sì, vado a casa.»

La domanda successiva arrivò dopo una frazione di secondo, una sospensione breve e interminabile, perché di certo era una domanda che Jeff aveva rivolto più volte a se stesso.

«Ce la farai?»

«E tu?»

Entrambi preferirono non dare una risposta ma lasciare all’altro la facoltà di immaginarla. Quel silenzio fra loro era il riassunto di molte conversazioni precedenti. C’erano state tante cose di cui parlare e tante da maledire e quel niente di detto ne era il concentrato.

«Non so se invidiarti o no.»

«Se ti può interessare, non lo so nemmeno io.»

L’uomo sulla sedia contrasse la mascella. La voce gli uscì dalle labbra come frantumata da un’ira tardiva e inutile.

«Se solo avessero bombardato quelle maledette dighe…»

Jeff lasciò in sospeso la frase. Le sue parole evocavano fantasmi che più volte avevano cercato entrambi senza risultato di esorcizzare.

Il caporale Wendell Johnson scosse la testa.

Quello che era stato fatto apparteneva alla storia e quello che non era stato fatto rimaneva un’ipotesi senza possibilità di conferma. Nonostante i massicci bombardamenti a cui il Vietnam del Nord era stato sottoposto, nonostante il fatto che durante le incursioni aeree fosse stato sganciato il triplo delle bombe usate nella Seconda guerra mondiale, nessuno aveva mai dato l’ordine di colpire le dighe sul Fiume Rosso. Molti pensavano che sarebbe stata una mossa risolutiva. L’acqua avrebbe invaso le valli e il mondo avrebbe additato come un crimine di guerra quello che con ogni probabilità sarebbe stato un mezzo genocidio. Ma forse il conflitto avrebbe avuto un esito differente.

Forse.

«Sarebbero morte centinaia di migliaia di persone, Jeff.»

L’uomo sulla sedia a rotelle alzò uno sguardo in cui fluttuava qualcosa di indefinibile. Forse era l’estremo appello a una misericordia sospesa fra il rimpianto e il rimorso per quello che pensava. Poi girò la testa e guardò un punto lontano, oltre la cresta degli alberi.

«Sai, ci sono momenti in cui sono soprappensiero e appoggio le mani sui braccioli per cercare di alzarmi. Poi ricordo lo stato in cui mi trovo e mi maledico.»

Tirò un profondo respiro come se avesse bisogno di molta aria per dire quello che stava per dire.

«Mi maledico perché sono così e soprattutto perché darei la vita di milioni di quelle persone pur di riavere indietro le mie gambe.»

Tornò a fissarlo negli occhi.

«Cosa è successo Wen? E soprattutto perché è successo?

«Non lo so. Credo che nessuno riuscirà mai a saperlo davvero.»

Jeff appoggiò le mani sulle ruote e mosse di poco la sedia avanti e indietro, come se quel gesto servisse a ricordargli di essere ancora vivo. O semplicemente era un momento di distrazione, uno di quelli in cui pensava di potersi alzare e andarsene con le sue gambe. Seguì i pensieri e ci volle un attimo prima che diventassero parole.

«Una volta dicevano che i comunisti mangiavano i bambini.»

Parlava e lo guardava senza vederlo, come se stesse in realtà visualizzando l’immagine che quelle parole evocavano.

«Noi i comunisti li abbiamo combattuti. Forse è per questo che non ci hanno mangiati.»

Fece una pausa e quando parlò di nuovo la voce era un sussurro.

«Solo masticati e sputati.»

Si riscosse e gli tese la mano. Il caporale la strinse trovandola salda e asciutta.

«Buona fortuna, Jeff.»

«Vattene a fare in culo, Wen. E vacci in fretta. Detesto mettermi a piangere davanti a un bianco. Sulla mia pelle sembrano nere pure le lacrime.»

Wendell si allontanò con la netta sensazione che stava perdendo qualcosa. Che entrambi stavano perdendo qualcosa. Oltre a quello che già avevano perso. Aveva fatto pochi passi quando la voce di Jeff lo costrinse a fermarsi.

«Ah, Wen.»

Si girò e lo vide, un’ombra d’uomo e di macchina contro il tramonto.

«Scopatene una anche per me.»

Fece con la mano un gesto inequivocabile.

Come risposta Wendell gli sorrise.

«Va bene. Quando succederà, sarà fatto il tuo nome.»

Il caporale Wendell Johnson si allontanò con lo sguardo fisso davanti a sé, il passo che suo malgrado era ancora quello di un soldato. Raggiunse l’alloggiamento, senza più salutare né parlare con nessuno. Entrò nella sua camera. La porta del bagno era chiusa. La teneva sempre così, perché lo specchio era piazzato di fronte all’ingresso. Preferiva evitare che il suo viso fosse la prima immagine ad accoglierlo.

Si costrinse a pensare che dal giorno dopo avrebbe dovuto farci l’abitudine. Non esistevano specchi benevoli, solo superfici che riflettevano esattamente quello che vedevano. Senza pietà, con il sadismo involontario dell’indifferenza.

Si tolse la camicia e la gettò su una sedia, lontano dalla malia autolesionista dell’altro specchio, quello all’interno dell’armadio a muro. Si levò le scarpe e si stese sul letto con le mani dietro la testa, pelle ruvida contro pelle ruvida, una sensazione alla quale era abituato.

Dalla finestra, oltre i vetri socchiusi, figlio dell’azzurro cupo che preannunciava la sera, giungeva il battere ritmato e nascosto di un picchio fra gli alberi.

tupa-tupa-tupa-tupa… tupa-tupa-tupa-tupa…

La memoria fece i suoi giri viziosi e quel suono divenne il tossire sordo di un AK-47 e subito dopo un groviglio di voci e di immagini.

«Matt, dove cazzo sono questi pezzi di merda? Da dove sparano?»

«Non lo so. Non vedo niente.»

«Tu, con l’M-79, tira una granata fra quei cespugli a destra.»

«Corsini che fine ha fatto?»

E la voce di Farrell, sporca di terra e di paura, che proveniva da un punto indefinito alla loro destra.

«Corsini è andato. Pure Mc…»

tupa-tupa-tupa-tupa…

E anche la voce di Farrell si era sciolta nell’aria.

«Wen, muoviti, portiamo via il culo da qui. Ci stanno facendo a pezzi.»

tupa-tupa-tupa-tupa… tupa-tupa-tupa-tupa…

«No, non di lì. È tutto scoperto.»

«Cristo santo, sono dappertutto.»

Riaprì gli occhi e permise alle cose che lo circondavano di tornare.

L’armadio, la sedia, il tavolo, il letto, le finestre con i vetri stranamente puliti. E anche qui odore di ruggine e disinfettante. Quella stanza era stata il suo unico riferimento per mesi, dopo tutto il tempo passato in una corsia, con medici e infermieri che si affannavano intorno a lui per cercare di alleviargli la sofferenza delle ustioni. Lì aveva permesso alla mente di rientrare quasi intatta nel suo corpo devastato, aveva recuperato la lucidità e fatto a se stesso una promessa.

Il picchio concesse una tregua all’albero che stava torturando. Gli sembrò un buon augurio, la fine delle ostilità, una parte del passato che poteva lasciare in qualche modo alle spalle.

Che doveva lasciare alle spalle.

Il giorno dopo sarebbe uscito.

Non sapeva che mondo avrebbe trovato oltre le mura dell’ospedale, né sapeva come quel mondo lo avrebbe accolto. In realtà nessuna delle due cose gli importava. Solo il lungo viaggio che aveva davanti gli interessava, perché alla fine di quel viaggio lo attendeva l’incontro con due uomini. Lo avrebbero guardato con occhi pieni di paura e di stupore, quelli che si provano davanti all’incredibile. Poi lui avrebbe parlato, a quella paura e a quello stupore.

Infine li avrebbe uccisi.

Un sorriso, di nuovo privo di dolore. Senza accorgersene scivolò nel sonno. Quella notte dormì senza sentire voci e per la prima volta non sognò gli alberi della gomma.

CAPITOLO 2

Durante il viaggio lo sorprese il grano.

Da un certo punto in poi, mentre risaliva verso nord e si avvicinava a casa, a tratti sfilava morbido ai lati della strada, docile sotto l’ombra del pullman della Greyhound che tirava dritto, spinto da benzina e indifferenza. Le striature del vento e l’ombra delle nuvole lo rendevano vivo e nel ricordo restio sotto la mano. Compagno di viaggio inatteso, caldo colore della birra fresca, ospitalità da fienile.

Conosceva quella sensazione. Un tempo aveva mangiato quel pane.

Ogni volta che con altre mani aveva passato le dita fra i capelli di Karen e aveva respirato il suo profumo buono di donna, che sapeva di ogni cosa e di nessun posto simile al mondo. L’aveva provato come una fitta dolorosa quando se n’era andato dopo essere stato a casa in licenza per un mese, una effimera illusione di invulnerabilità che l’esercito concedeva a tutti prima della partenza. Gli erano stati offerti trenta giorni di paradiso e di sogni possibili, prima che l’Army Terminal di Oakland diventasse le Hawaii e infine si trasformasse in Bien-Hoa, il centro di smistamento truppe a venti miglia da Saigon.

E poi Xuan-Loc, il posto dove tutto era cominciato, dove si era guadagnato il suo piccolo appezzamento d’inferno.

Distolse lo sguardo dalla strada e abbassò la visiera del berretto da baseball. Portava occhiali da sole tenuti con un elastico perché non aveva praticamente più orecchie su cui appoggiare le stanghette. Chiuse gli occhi e si nascose in quella fragile penombra. Ne ebbe in cambio solo altre immagini.

Non c’era grano in Vietnam.

Non c’erano donne con i capelli biondi. Solo qualche infermiera dell’ospedale li aveva, ma ormai lui non aveva quasi più sensibilità nelle dita né desiderio di toccarli. E soprattutto, ne era certo, nessuna donna avrebbe più avuto il desiderio di farsi toccare da lui.

Mai più.

Un ragazzo con una camicia a fiori e i capelli lunghi che dormiva alla sua destra, dall’altra parte del corridoio, si svegliò. Si stropicciò gli occhi e si concesse uno sbadiglio che sapeva di sudore e di sonno e di erba fumata.

Si girò e iniziò a frugare in una borsa di tela che aveva appoggiato sul sedile libero di fianco. Tirò fuori una radio portatile e l’accese. Dopo qualche miagolio di ricerca una stazione lo accettò e le note di Iron Maiden, un pezzo dei Barclay James Harvest, si unirono al rumore delle ruote e del motore e al fruscio dell’aria fuori dai finestrini.

Istintivamente il caporale si voltò a guardarlo. Quando gli occhi del ragazzo, che doveva avere più o meno la sua età, si posarono sul suo viso, la reazione fu la solita, quella che leggeva ogni volta sulla faccia della gente, quella che era stato costretto a imparare per prima, come le male parole in una lingua straniera. Il ragazzo che aveva una vita e una faccia, belle o brutte che fossero, si rituffò nella borsa, fingendo di cercare qualcosa. Poi rimase seduto di tre quarti, dandogli le spalle, ad ascoltare la musica e a guardare fuori dal finestrino dalla sua parte.

Il caporale appoggiò la testa al vetro.

Ai lati della strada sfilavano cartelloni pubblicitari. A volte con prodotti che non conosceva. Automobili in corsa superavano il pullman e alcune erano di un modello che non aveva mai visto. Una Ford Fairlane decappottabile del ’66 che veniva in senso contrario fu l’unica immagine che in quel momento la sorte concesse alla sua memoria. Il tempo, seppure di poco, era andato avanti. E insieme al tempo la vita, con tutti gli appigli fortunosi che offriva a chi doveva giorno per giorno scalarla.

Erano passati due anni. Un battito di ciglia, uno scatto indecifrabile sul cronometro dell’eternità. Eppure erano bastati a cancellare tutto. Adesso, se alzava lo sguardo, davanti a lui c’era solo una parete liscia, con l’unico supporto del suo rancore a incoraggiare la salita. In tutti quei mesi era riuscito minuto dopo minuto a coltivarlo, a nutrirlo, a farlo crescere e diventare livore allo stato puro.

E adesso stava tornando a casa.

Non ci sarebbero state braccia aperte o parole di gloria o fanfare per l’arrivo dell’eroe. Nessuno lo avrebbe mai definito in quel modo e inoltre per tutti l’eroe era morto.

Era partito dalla Louisiana, dove un mezzo dell’esercito lo aveva scaricato senza troppi complimenti davanti alla stazione degli autobus. Si era trovato solo, di colpo comparsa e non più protagonista. Intorno c’era il mondo, quello vero, quello che non lo aveva aspettato. Non c’erano più i muri anonimi ma rassicuranti dell’ospedale. Mentre era in coda per prendere il biglietto, si era sentito una figura in fila per il casting di Freaks, il film di Tod Browning. Questo pensiero lo aveva fatto sorridere per un istante, l’unica scelta che aveva a disposizione. Per non fare quello che aveva fatto per intere notti e che aveva giurato di non fare più: piangere.

Buona fortuna, Wendell…

«Sedici dollari.»

Di colpo il saluto del colonnello Lensky era diventato la voce di un impiegato, che aveva appoggiato davanti a lui il biglietto per il primo tratto di strada. Nascosto dietro la feritoia dello sportello, l’uomo non aveva guardato quella parte di viso che il caporale concedeva al mondo. In cambio gli aveva offerto l’indifferenza da anonimo passeggero che desiderava.

Ma quando aveva spinto sul piano le banconote con una mano coperta da un guanto di cotone leggero, quel tipo magro, con pochi capelli e labbra sottili e occhi senza luce, aveva sollevato la testa. Si era soffermato un attimo sul suo volto e aveva di nuovo chinato il capo. La sua voce pareva arrivare dallo stesso posto da cui veniva lui, qualunque fosse.

«Vietnam?»

Aveva atteso un attimo prima di rispondere.

«Sì.»

Il bigliettaio a sorpresa gli aveva restituito il denaro.

Non aveva nemmeno preso in esame la sua perplessità. Forse l’aveva data per scontata. Aveva aggiunto poche parole che l’avevano risolta. E che per entrambi erano diventate un lungo discorso.

«Ci ho perso un figlio, fa due anni domani. Tienili tu questi. Credo serviranno più a te che alla Compagnia.»

Il caporale si era allontanato con la stessa sensazione di quando si era lasciato Jeff Anderson alle spalle. Due uomini soli per sempre, uno sulla sua sedia a rotelle e l’altro nella sua biglietteria, in un tramonto che pareva destinato per tutti a diventare eterno.

Durante il pensiero aveva cambiato autobus e compagni di viaggio e stati d’animo. L’unica cosa che non poteva cambiare era il suo aspetto. Se l’era presa comoda, perché non aveva nessuna fretta di arrivare e aveva un corpo dalla facile stanchezza e dal riposo difficile con cui fare i conti. Era sceso in motel di terz’ordine, dormendo poco e male, con i denti a tratti serrati e le mascelle contratte. E i suoi sogni ricorrenti. Sindrome da shock post-traumatico, qualcuno aveva detto. La scienza trovava sempre il modo per far diventare parte di una statistica la distruzione di una persona in carne e ossa. Ma il caporale aveva imparato a sue spese che il corpo non si abitua mai del tutto al dolore. Solo la mente talvolta riesce ad abituarsi all’orrore. E fra poco ci sarebbe stato modo di dimostrare a qualcuno tutto quello che aveva sperimentato sulla sua pelle.

Il Mississippi era diventato miglio dopo miglio il Tennessee, si era trasformato per la magia delle ruote nel Kentucky fino a promettergli davanti agli occhi il paesaggio familiare dell’Ohio. I panorami si erano catalogati intorno a lui e nella sua mente come posti stranieri, una linea che una matita colorata tracciava a mano a mano che passava il tempo sulla mappa di un territorio sconosciuto. Accanto alla strada correvano i fili della luce e del telefono. Portavano energia e parole sopra la sua testa.

C’erano case e persone come marionette nel loro teatrino che quei fili aiutavano a muoversi e a illudersi di vivere.

Ogni tanto si era chiesto di quale energia e di quali parole avesse bisogno lui in quel momento. Forse mentre era sdraiato sul lettino del colonnello Lensky tutte le frasi erano state dette e tutte le forze evocate e invocate. Era una liturgia chirurgica che la sua ragione aveva rifiutato come un credente rifiuta una pratica pagana e il dottore l’aveva celebrata invano. Aveva nascosto la sua piccola fede nel nulla in un posto sicuro della mente, un posto dove niente la potesse scalfire o annullare.

Quello che era stato non si poteva cambiare né dimenticare.

Solo ripagare.

Il leggero invito in avanti dell’autobus che rallentava lo riportò dov’era.

Il tempo diceva ora senza via di scampo e il luogo era rappresentato da un cartello stradale che gli confermava Florence. A giudicare dalla periferia, la città era come tante altre, senza la presunzione di ricordare in qualche modo la sua omonima italiana. Aveva guardato un opuscolo di viaggi, una sera, sdraiato insieme a Karen sul letto nella sua stanza. C’erano foto e occhi e pagine e mani ansiose di sfogliarle.

La Francia, la Spagna, l’Italia…

Proprio Florence, quella italiana, era stata la città sulla quale si erano soffermati di più. Karen gli aveva spiegato di quel posto cose che lui non sapeva e fatto sognare cose che non immaginava si potessero sognare.

Quella era un’epoca in cui ancora credeva che le speranze non costassero nulla, prima di imparare che invece possono costare molto care.

La vita, a volte.

Con l’ironia dell’esistenza che non esaurisce mai la vena, a una Florence c’era arrivato, dopotutto. Ma niente era come avrebbe dovuto essere. Gli tornarono alla mente le parole di Ben, l’uomo che per lui si era avvicinato di più alla figura di un padre.

Il tempo è un naufragio e solo quello che vale davvero torna a galla…

Il suo si era rivelato solo un beffardo appiglio a una zattera, un faticoso approdo alla realtà dopo essere colato a picco nella sua piccola privata utopia.

L’autista condusse docile il mezzo alla stazione degli autobus. Si arrestò con un sobbalzo accanto a una pensilina malmenata dalla ruggine e dalle insegne sbiadite.

Lui rimase seduto al suo posto, in attesa che tutti gli altri passeggeri scendessero. Una donna dall’apparente origine messicana con una bambina addormentata in braccio ebbe qualche problema a spostarsi con la valigia che portava nella mano libera. Nessuno fece il gesto di aiutarla. Il ragazzo alla sua destra raccolse la borsa e non resistette alla tentazione di lanciare verso di lui un’ultima occhiata.

Il caporale aveva deciso di arrivare a Chillicothe verso sera e dunque preferiva fare una sosta prima di passare il confine. Florence era un posto come un altro e di conseguenza era il posto giusto. Qualunque posto lo era, in quel momento. Da lì avrebbe cercato di raggiungere la sua meta con l’autostop nonostante le complicazioni che questa scelta comportava.

Sarebbe stato difficile per chiunque accettare di farlo salire in macchina.

Di solito la gente abbinava alla deturpazione fisica una propensione alla malvagità direttamente proporzionale. Senza riflettere che il male per nutrirsi deve essere seducente, accattivante. Deve attirare a sé il mondo che ha intorno con la promessa della bellezza e la premessa del sorriso. E lui ora si sentiva come l’ultima figurina mancante per completare l’album dei mostri.

L’autista lanciò uno sguardo nello specchietto dal quale poteva controllare l’interno dell’autobus e subito dopo girò la testa. Il caporale non si chiese se fosse un invito a scendere o se stesse verificando che quello che aveva intravisto nello specchietto corrispondesse a verità. In ogni caso era lui ad avere l’obbligo dell’iniziativa. Si alzò e prese la sacca dal portapacchi. Se la caricò sulla spalla, facendo attenzione a sostenere la cinghia di tela con la mano protetta dal guanto per evitare abrasioni.

Percorse il corridoio mentre l’autista, un tipo che assomigliava curiosamente a Sandy Koufax, il pitcher dei Dodgers, sembrava di colpo attratto in modo particolare dal cruscotto.

Il caporale scese quei pochi gradini interminabili e si ritrovò di nuovo solo in un piazzale, sotto un sole che era lo stesso in tutte le parti del mondo.

Diede uno sguardo in giro.

Dall’altra parte del piazzale, diviso in due dalla strada, c’era una stazione di servizio della Gulf, con un bar ristorante e un parcheggio in comune con l’Open Inn, un motel dall’aspetto malandato che prometteva camere libere e sogni d’oro.

Sistemò meglio sulla spalla la sacca con le sue cose e si avviò in quella direzione, disposto a comprarsi un poco di ospitalità senza discutere il prezzo.

Finché fosse durata, sarebbe stato un nuovo cittadino di Florence, Kentucky.

CAPITOLO 3

Il motel era, al contrario di ogni promessa, un ordinario momento di turismo a basso costo. Dappertutto il colore della necessità senza il gusto del piacere. L’uomo che lo aveva fronteggiato dietro al bancone della reception, un tipo basso e grassoccio dalla calvizie precoce che compensava con lunghe basette e baffi i pochi capelli rimasti, non aveva avuto la minima reazione visibile quando gli aveva chiesto una camera.

Solo, non gli aveva consegnato la chiave finché non aveva depositato sul banco il denaro chiesto in anticipo. Non aveva capito se fosse una prassi abituale o un trattamento di favore riservato a lui in esclusiva. In un caso o nell’altro, non gli importava.

Nella stanza c’era odore di umido e mobili da viaggio e la moquette scadente era macchiata in diversi punti. La doccia che aveva fatto, nascosto agli occhi di nessuno dietro a una tenda di plastica, era stata un’alternanza senza controllo di acqua calda e fredda. La televisione funzionava a tratti e infine si era deciso a lasciarla sintonizzata sul canale locale, dove le immagini e l’audio erano più nitidi. Stavano trasmettendo una vecchia puntata di The Green Hornet, una serie con Van Williams e Bruce Lee che era andata in onda per un solo anno, parecchio tempo prima.

Adesso era steso nudo sul letto con gli occhi chiusi. Le parole dei due eroi mascherati, lanciati con i loro vestiti sempre immacolati nella lotta contro il crimine, erano un brusio lontano. Aveva scalzato il copriletto e si era messo sotto il lenzuolo, per non avere subito lo spettacolo del suo corpo quando li avesse riaperti.

Ogni volta la tentazione era di tirare quel sottile strato di tessuto fin sopra la testa, come si fa con i cadaveri. Ne aveva visti tanti appoggiati a terra in quel modo, con un telo macchiato di sangue gettato addosso non per pietà, ma per evitare che i sopravvissuti avessero una visione chiara di quello che sarebbe potuto capitare a chiunque di loro da un momento all’altro. Troppi ne aveva visti, di morti, al punto di farne parte mentre era ancora vivo. La guerra gli aveva insegnato a uccidere e gli aveva concesso di farlo senza accusa e senza colpa per il semplice fatto di indossare una divisa. Ora tutto ciò che restava di quella divisa era una giacca di tela verde in fondo a una sacca. E le regole erano tornate quelle di sempre.

Ma non per lui.

Senza saperlo, gli uomini che lo avevano mandato ad affrontare la guerra e i suoi riti tribali gli avevano regalato qualcosa che prima aveva avuto solo l’illusione di possedere: la libertà.

Anche quella di uccidere ancora.

Sorrise all’idea e rimase steso a lungo in quel letto che senza nessuna cortesia aveva accolto decine di corpi. In quelle ore insonni, col solo biglietto di viaggio dei suoi occhi chiusi, tornò indietro nel tempo, a quando ancora di notte…

dormiva sodo, come solo i ragazzi fanno dopo una giornata di lavoro.

Un rumore sordo lo aveva svegliato all’improvviso e subito dopo la porta della stanza si era spalancata, portandogli un soffio d’aria sulla faccia e una luce puntata addosso. Dal bagliore aveva visto spuntare la minaccia brunita della canna di un fucile che si era fermata a una spanna dal suo viso. C’erano ombre dietro quella luce e nel suo cervello ancora deriso dai residui del sonno.

Una delle ombre era diventata una voce, dura e precisa.

«Non ti muovere, stronzetto, altrimenti sarà l’ultima cosa che fai da vivo.»

Mani ruvide lo avevano voltato a faccia in giù sul letto. Le braccia gli erano state tirate senza garbo dietro la schiena. Aveva sentito lo scatto metallico delle manette e da quel momento in poi i suoi movimenti e la sua vita non gli erano più appartenuti.

«Sei già stato in riformatorio. La sai quella faccenda dei tuoi diritti?»

«Sì.»

Aveva soffiato a fatica quel monosillabo, con la bocca impastata.

«Allora fai conto che te li abbia letti.»

La voce si era rivolta all’altra ombra nella stanza con un tono di comando.

«Will, dai un’occhiata in giro.»

Mentre aveva la faccia premuta sul cuscino, gli erano giunti alle orecchie i rumori di una perquisizione. Cassetti aperti e richiusi, oggetti che cadevano, fruscio di vestiti gettati all’aria. Le sue poche cose erano frugate con mani forse esperte ma di certo senza alcun riguardo.

Infine un’altra voce, con un cenno di esultanza.

«Ehi, capo, ma cosa abbiamo qui?»

Aveva sentito un passo che si avvicinava e la pressione sulle sue spalle si era alleggerita. Poi quattro mani ruvide che lo tiravano su, fino a ritrovarsi seduto sul letto. Davanti ai suoi occhi la luce illuminava un sacchetto di plastica trasparente pieno di erba.

«Ci facciamo uno spinello ogni tanto, eh? E magari questa merda la vendi pure. Mi sa che sei nei guai, ragazzo.»

In quel momento la luce della stanza si era accesa, riducendo quella della torcia a semplice accessorio. Davanti a lui c’era lo sceriffo Duane Westlake in persona. Alle sue spalle, secco e allampanato, con un filo di barba sulle guance butterate, stava Will Farland, uno dei suoi aiutanti. Il sorriso beffardo che aveva stampato sulle labbra era una smorfia senza allegria. L’unica cosa che riusciva a fare era sottolineare l’espressione malvagia dei suoi occhi.

Lui era riuscito a farfugliare solo poche parole frettolose, detestandosi per questo.

«Non è mia quella roba.»

Lo sceriffo aveva inarcato un sopracciglio.

«Ah, non è tua. E di chi sarebbe? Questo posto è magico? La fatina del dentino a te porta la marijuana?»

Aveva sollevato la testa e li aveva guardati con aria decisa che per i due era diventata subito di sfida.

«Ce l’avete messa voi, pezzi di merda.»

Il manrovescio era arrivato veloce e violento. Lo sceriffo era grosso e aveva la mano pesante. Sembrava persino impossibile che potesse essere così rapido. Aveva sentito in bocca il sapore dolciastro del sangue. E

quello rugginoso della furia. D’istinto era scattato in avanti, cercando di colpire con una testata lo stomaco dell’uomo in piedi di fronte a lui. Forse la sua era stata una mossa prevedibile o forse lo sceriffo era dotato di una agilità insolita per un uomo della sua mole. Si era ritrovato disteso a terra, con la frustrazione del nulla di fatto unita alla rabbia.

Sopra di lui erano state pronunciate altre parole di derisione.

«Il nostro giovane amico ha il sangue caldo, Will. Vuole fare l’eroe.

Forse gli serve un sedativo.»

I due lo avevano tirato in piedi senza troppi riguardi. Poi, mentre Farland lo teneva fermo, lo sceriffo aveva fatto partire un pugno allo stomaco che aveva reso l’ossigeno un sollievo sconosciuto. Era caduto a corpo morto sul letto sfatto con la sensazione che non sarebbe mai più riuscito a respirare.

Lo sceriffo si era rivolto al suo aiutante con il tono con cui si chiede a un bambino se ha fatto i compiti.

«Will, sei sicuro di aver trovato tutto quello che c’era da trovare?»

«Forse no, capo. È meglio che dia un’altra occhiata a questa topaia.»

Farland aveva infilato una mano nel giubbotto e ne aveva estratto un oggetto avvolto in un foglio di plastica trasparente. Si era rivolto allo sceriffo, continuando tuttavia a guardare lui negli occhi.

Il suo ghigno derisorio si era allargato.

«Guardi un po’ che cosa ho trovato, capo. Non le sembra una cosa sospetta?»

«Che cos’è?»

«A prima vista direi un coltello.»

«Fammi vedere.»

Lo sceriffo aveva estratto dalla tasca un paio di guanti in pelle e li aveva indossati. Poi aveva preso l’involucro che il suo aiutante gli porgeva e aveva iniziato a svolgerlo. Il fruscio della plastica aveva a poco a poco rivelato il luccichio di un lungo coltello con il manico in plastica nera.

«Will, ma questa è una spada. E a occhio e croce una lama come questa potrebbe aver fatto fuori quei due straccioni di hippy, l’altra sera al fiume.»

«Già. Potrebbe.»

Steso sul letto, lui aveva iniziato a capire. E aveva avuto un brivido, come se la temperatura nella stanza si fosse abbassata di colpo. Per quanto glielo permetteva la voce rotta dal pugno ricevuto, aveva abbozzato una debole protesta.

Ancora non sapeva quanto sarebbe stata inutile.

«Non è mio. Non l’ho mai visto.»

Lo sceriffo lo aveva guardato con un espressione di ostentato stupore.

«Ah no? Ma se è pieno delle tue impronte.»

I due si erano avvicinati e lo avevano girato a pancia sotto. Tenendo il coltello per la lama, lo sceriffo lo aveva costretto a stringere il manico. La voce di Duane Westlake era calma, mentre pronunciava la condanna.

«Mi sono sbagliato prima, quando ti ho detto che sei nei guai. In realtà sei nella merda fino al collo, ragazzo.»

Poco dopo, mentre lo trascinavano via per caricarlo sull’auto, aveva avuto la netta percezione che la sua vita, come l’aveva conosciuta fino a quel momento, fosse finita per sempre.

«…della guerra del Vietnam. Continua la polemica per la pubblicazione da parte del “New York Times” dei Pentagon Papers. È previsto un ricorso alla Corte Suprema per la ratifica del diritto a farlo da parte…»

La voce impostata di uno speaker delle Daily News, che la targhetta identificava come Alfred Lindsay, lo riscosse dal torpore senza riposo in cui era scivolato. Il volume della Tv si era alzato da solo, come se fosse animato da una volontà propria. Come se la notizia fosse qualcosa che doveva assolutamente sentire. L’argomento era sempre e ancora la guerra, che tutti volevano nascondere come sporcizia immobile sotto il tappeto e che strisciando da serpente riusciva sempre a sporgere la testa oltre i bordi.

Il caporale conosceva quella storia.

I Pentagon Papers erano il risultato di un’indagine accurata sulle cause e sulle modalità che avevano portato gli Stati Uniti a trovarsi coinvolti in Vietnam, un’inchiesta voluta dal segretario della Difesa McNamara e realizzata da un gruppo di trentasei esperti, funzionari civili e militari, sulla base dei documenti governativi da Truman in poi. Come un coniglio dal cilindro dei giornalisti, era emerso in modo evidente che l’amministrazione Johnson aveva in piena coscienza mentito all’opinione pubblica riguardo alla conduzione del conflitto. Pochi giorni prima il «New York Times», che ne era venuto in qualche modo in possesso, aveva iniziato a pubblicarli.

Con le conseguenze che erano facilmente immaginabili.

E infine sarebbero state, come succedeva di solito, solo parole. Che tanto dette quanto scritte avevano sempre lo stesso peso.

Che ne sapevano quelli della guerra? Che ne sapevano di cosa voleva dire trovarsi migliaia di miglia lontano da casa, a combattere contro un nemico invisibile e dalla volontà incredibile, che nessuno poteva pensare fosse disposto a pagare un prezzo così alto per avere in cambio così poco?

Un nemico che in fondo ai loro pensieri tutti rispettavano, anche se nessuno avrebbe avuto mai il coraggio di confessarlo.

Ce ne sarebbero voluti trentaseimila di esperti scaldasedie, civili o militari che fossero. E ancora non avrebbero capito o deciso nulla, perché non avevano mai sentito l’odore del napalm o dell’ agent orange, il diserbante che veniva usato in dosi massicce per distruggere la foresta intorno al nemico. Non avevano sentito il tac-tac-tac-tac delle mitragliatrici, il rumore sordo di un proiettile che buca un elmetto, le grida di dolore dei feriti, che sembravano così forti da arrivare fino a Washington e che invece a malapena riuscivano a raggiungere i barellieri.

Buona fortuna, Wendell…

Scostò il lenzuolo e si mise a sedere sul letto.

«Vai a fare in culo, colonnello Lensky. Tu e le tue sindromi del cazzo.»

Tutto era alle spalle, ormai.

Chillicothe, Karen, la guerra, l’ospedale.

Il fiume seguiva il suo corso e solo la riva conservava il ricordo dell’acqua passata.

Aveva ventiquattro anni e non sapeva se quello che aveva davanti si potesse ancora chiamare futuro. Ma per qualcuno quella parola avrebbe presto perso ogni significato.

A piedi scalzi, si avvicinò al televisore e lo spense. Il viso rassicurante dello speaker venne risucchiato dal buio e divenne un pallino luminoso al centro dello schermo. Come tutte le illusioni durò qualche istante, prima di sparire del tutto.

CAPITOLO 4

«Sei sicuro che non vuoi che ti porti fino in città?»

«No, qui è perfetto. Molte grazie, signor Terrance.»

Aprì la portiera. L’uomo al volante lo guardò con un sorriso nel viso abbronzato, sollevando le sopracciglia con aria interrogativa. Nella luce del cruscotto, di colpo gli ricordò un personaggio di Don Martin.

«Volevo dire molte grazie, Lukas.»

L’uomo gli fece un gesto sollevando il pollice verso l’alto.

«Così va bene.»

Si strinsero la mano. Poi il caporale sfilò la sacca dallo spazio dietro i sedili, uscì dalla macchina e chiuse la portiera. La voce dell’uomo al volante gli giunse attraverso il finestrino aperto.

«Qualunque cosa tu stia cercando, ti auguro di trovarla. O che lei trovi te.»

Le ultime parole quasi si persero nel brontolio delle marmitte. In un istante il mezzo con cui era arrivato divenne il suono di un motore che si allontanava, un sentore di carburante disperso dal vento e dalla distanza.

Una luce di fanali che la sera inoltrata inghiottiva come se fosse il suo pasto abituale.

Sistemò la sacca sulla spalla e iniziò a camminare. Un passo dopo l’altro, sentendo come un animale la vicinanza, i profumi, i posti. Tuttavia non c’erano ansia o euforia per quel ritorno.

Solo determinazione.

Poche ore prima, nella sua stanza al motel, aveva trovato nell’armadio una scatola da scarpe vuota, dimenticata da qualche ospite precedente. Sul coperchio c’era il marchio delle Famous Flag Shoes, che si compravano per corrispondenza. Il fatto che fosse ancora lì, la diceva lunga sull’accuratezza delle pulizie all’Open Inn. Aveva tolto le alette al coperchio e aveva scritto sul fondo bianco CHILLICOTHE in lettere maiuscole, ripassandole più volte con un pennarello nero che aveva nella sacca. Era sceso alla reception con la borsa in spalla e quel cartello come ipotesi di viaggio in mano. Dietro al banco, una ragazza anonima con le braccia troppo magre e i capelli lunghi e lisci e un nastro rosso intorno alla testa aveva sostituito il tipo con baffi e basette. Quando si era avvicinato per restituire la chiave, aveva perso la sua espressione incantata da Flower Power e lo aveva guardato con una traccia di timore negli occhi scuri.

Come se stesse andando verso di lei con l’intenzione di aggredirla. Stava imparando a fare i conti con questo atteggiamento. E sospettava fosse un bilancio che non sarebbe mai andato in pareggio.

Eccola, la mia fortuna, colonnello…

Aveva avuto per un attimo la tentazione maligna di spaventarla a morte, di ripagare con la stessa moneta quella repulsione e quella diffidenza istintive che aveva provato per lui. Ma non era né il momento né il posto per andarsi a cercare delle grane.

Aveva appoggiato con ostentata delicatezza la chiave sul piano di vetro, davanti a lei.

«Ecco la chiave. La camera fa schifo.»

La sua voce calma e le sue parole avevano fatto sobbalzare la ragazza.

Lo aveva guardato un poco allarmata.

Muori, stronza.

«Mi dispiace.»

Lui aveva scosso la testa in modo impercettibile. L’aveva fissata, lasciandole immaginare gli occhi nascosti dietro le lenti scure.

«Non dire così. Lo sappiamo tutti e due che non te ne frega niente.»

Aveva girato le spalle ed era uscito dal motel.

Oltre la porta a vetri aveva ritrovato il sole del piazzale. Alla sua destra c’era la stazione di servizio con l’insegna arancione e azzurra della Gulf.

Un paio di macchine erano in fila per entrare nel lavaggio e le pompe parevano avere un afflusso di mezzi sufficiente a farlo sperare in un risultato entro tempi ragionevoli. Si era incamminato verso un coffee shop sormontato da una insegna fatta a freccia che lo presentava al mondo come Florence Bowl e che proponeva cucina casalinga e breakfast a tutte le ore.

Lo aveva superato augurando ai clienti all’interno che il caffè e il cibo fossero migliori della fantasia di chi aveva trovato il nome del locale.

Era sfilato davanti alle proposte di Canada Dry e Tab e Bubble Up e ai suggerimenti per gli hamburger. Aveva ignorato le offerte di pneumatici a metà prezzo e STP e cambi d’olio scontati e si era piazzato all’uscita dell’area di servizio, in modo da essere bene in vista sia per le macchine che uscivano dal parcheggio del ristorante sia per quelle che lasciavano le pompe dopo aver fatto rifornimento.

Aveva gettato la sua sacca a terra e ci si era seduto sopra. Aveva teso il braccio, cercando di fare in modo che il cartello con la scritta fosse il più evidente possibile.

E aveva atteso.

A volte qualche macchina aveva rallentato. Una si era addirittura fermata ma quando si era alzato per raggiungerla e il guidatore lo aveva visto in faccia, era ripartito come se avesse incontrato il diavolo.

Era ancora seduto sulla sacca con il suo patetico cartello proteso, quando l’ombra di un uomo si era stampata sull’asfalto davanti a lui. Aveva sollevato il capo e si era trovato di fronte un tipo che indossava una tuta nera con degli inserti rossi. Sul petto e sulle maniche aveva dei marchi colorati di sponsor.

«Pensi di riuscire ad arrivarci a Chillicothe?»

Lui aveva abbozzato un sorriso.

«Se continua così direi di no.»

L’uomo era alto, sulla quarantina, con un fisico asciutto e con barba e capelli rossicci. Lo aveva guardato un istante prima di proseguire. Poi aveva abbassato la voce di un tono, come per minimizzare quello che stava per dire.

«Non so chi ti ha conciato in quel modo e non sono affari miei. Solo una cosa ti chiedo. E se non mi dici la verità me ne accorgerò.»

Si era concesso una pausa. Per soppesare le parole. O forse perché avessero più peso.

«Hai dei guai con la legge?»

Lui si era tolto il berretto e gli occhiali e lo aveva guardato.

«No, signore.»

Suo malgrado, il tono di quel «No, signore» lo aveva identificato senza possibilità di dubbio.

«Sei un soldato?»

La sua espressione era sembrata una conferma più che esauriente. La parola Vietnam non venne pronunciata ma galleggiava nell’aria.

«Lotteria?»

Aveva scosso la testa.

«Volontario.»

D’istinto aveva chinato la testa mentre pronunciava questa parola, quasi fosse una colpa. E si era subito pentito. Aveva rialzato il viso e piantato gli occhi in quelli dell’uomo in piedi davanti a lui.

«Come ti chiami, ragazzo?»

La domanda lo aveva sorpreso. L’uomo aveva colto la sua esitazione e aveva scrollato le spalle.

«Un nome vale l’altro. È solo per sapere come rivolgermi a te. Io sono Lukas Terrance.»

Si era alzato e aveva stretto la mano che l’altro gli porgeva.

«Wendell Johnson.»

Lukas Terrance non aveva mostrato perplessità per i guanti di cotone.

Aveva indicato con un cenno del capo un grande pick-up nero e rosso che portava sulle fiancate gli stessi marchi che aveva sulla tuta. Era fermo a una pompa alle loro spalle e un inserviente di colore gli stava facendo il pieno. Al traino aveva un carrello con sopra una monoposto per le corse negli ovali su terra. Era uno strano mezzo, con le ruote scoperte e la cabina di guida che sembrava a malapena poter contenere un uomo. Una volta ne aveva vista una simile sulla copertina di «Hot Rod», una rivista di motori.

Terrance aveva chiarito la sua posizione.

«Sto andando a nord, al Mid-Ohio Speedway, verso Cleveland.

Chillicothe non è proprio di strada, ma posso fare una piccola deviazione.

Se ti va bene viaggiare senza fretta e senza aria condizionata, posso darti un passaggio.»

Aveva risposto all’offerta con una domanda.

«Lei è un pilota, signor Terrance?»

L’uomo si era messo a ridere. Ai lati degli occhi, sul viso abbronzato, gli si era formata una ragnatela di rughe.

«Oh no. Sono solo una specie di tuttofare. Meccanico, autista, uomo di griglia. Di partenza e di barbecue, se serve.»

Aveva fatto un gesto con le mani, un gesto che riassumeva i fatti della vita.

«Jason Bridges, il mio pilota, sta viaggiando comodo su un aereo, in questo momento. A noi maestranze spetta la fatica, ai piloti la gloria. Ma se devo essere onesto, di gloria non ne arriva molta. Come pilota è una mezzasega. Tuttavia continua a correre. Cose che succedono, quando hai un padre con il portafoglio gonfio. Le auto si comprano, le palle no.»

L’inserviente aveva finito il rifornimento e si era girato a cercare con lo sguardo l’autista del pick-up. Quando lo aveva individuato gli aveva fatto un gesto eloquente, indicando la fila di auto in attesa. Terrance aveva battuto le mani cancellando così tutte le parole precedenti.

«Bene, si va? Nel caso la tua risposta sia affermativa, da questo momento puoi anche chiamarmi Lukas.»

Aveva raccolto la sacca da terra e lo aveva seguito.

La cabina di guida era un caos di carte stradali, riviste di parole crociate e numeri di «Mad» e «Playboy». Terrance gli aveva fatto posto sul sedile del passeggero spostando una confezione di biscotti Oreo e una lattina vuota di Wink.

«Devi scusarmi. Non abbiamo mai molti passeggeri su questa carretta.»

Avevano lasciato alle spalle con calma la stazione di servizio e poi Florence e infine il Kentucky. Presto, quei momenti e quei posti sarebbero stati solo ricordi. E nemmeno dei peggiori. Quelli belli, quelli veri, quelli che avrebbe accarezzato tutta la vita come gatti sulle ginocchia, stava andando a crearseli.

Era stato un viaggio piacevole.

Aveva ascoltato gli aneddoti del suo autista sul mondo delle corse e in particolare sul pilota che seguiva. Terrance era un brav’uomo, scapolo, in pratica senza fissa dimora, che viveva da sempre nell’ambiente delle gare senza mai avere trovato uno spazio in quelle veramente importanti, come la NASCAR o la Indy. Citava nomi di piloti famosi, gente del calibro di Richard Petty o Parnelli Jones o A J. Foyt come se li avesse conosciuti di persona. E forse li aveva conosciuti davvero. In ogni caso sembrava gli facesse piacere pensarlo e a tutti e due andava bene così.

Nemmeno una volta avevano accennato alla guerra.

Passato il confine, il pick-up con il suo guscio da corsa al seguito aveva imboccato senza fretta e senza aria condizionata la Route 50, che portava dritto a Chillicothe. Seduto al suo posto, con il finestrino aperto, mentre seguiva i racconti di Terrance, a poco a poco aveva visto il tramonto prepararsi a diventare notte, con quella tenace luminosità persistente tipica delle sere d’estate. I posti d’un tratto erano diventati familiari e infine era apparso un cartello con la scritta «Benvenuti nella Ross County».

Era a casa.

O meglio, era dove voleva arrivare.

Un paio di miglia dopo Slate Mills aveva chiesto al suo stupito compagno di fermarsi. Lo aveva lasciato alla sua perplessità e al resto del suo viaggio e adesso camminava come un fantasma in aperta campagna.

Solo le luci di un gruppo di case che sulla cartina stavano sotto il nome di North Folk Village apparivano in lontananza a indicargli la strada. E ogni passo sembrava molto più faticoso di tutti quelli che aveva stampato nel fango del Nam.

Finalmente arrivò a quella che era stata la sua meta fin da quando era partito dalla Louisiana. A poco meno di un miglio dal Village, imboccò un viottolo sterrato sulla sinistra e dopo qualche centinaio di iarde raggiunse un capannone in muratura, cintato da una rete metallica. Sul retro c’era uno spiazzo illuminato da tre lampioni, dove, fra cataste di tubi per ponteggi, erano parcheggiati un’autogru a otto ruote, un furgone Volkswagen, un Mountaineer Dump Truck con la pala dello spartineve.

Quella era stata la sua casa per tutto il tempo in cui aveva vissuto a Chillicothe. E sarebbe stato il suo appoggio per l’ultima notte che ci avrebbe trascorso.

Dall’interno della costruzione non usciva luce a rivelare presenze.

Prima di proseguire, si accertò che non ci fosse nessuno nelle vicinanze.

Infine si avviò, costeggiando la recinzione sulla destra fino al lato più in ombra. Arrivò a una macchia di cespugli che lo proteggeva dalla vista.

Appoggiò la sacca a terra e tirò fuori un paio di pinze che aveva comprato in un emporio durante il viaggio. Tagliò la rete quel tanto che gli bastava per permettergli di entrare. Immaginò la figura robusta di Ben Shepard in piedi davanti all’apertura e sentì con le orecchie del ricordo la sua voce sibilante che se la prendeva con «quei maledetti figli di puttana che non hanno rispetto per la proprietà altrui».

Appena dentro, si avviò verso una piccola porta in ferro, accanto al portone scorrevole dipinto di blu che era l’ingresso carraio del capannone.

Sopra era appesa una grande insegna bianca con una scritta azzurra.

Diceva a chiunque fosse interessato che quel posto era la sede della «Ben Shepard – Demolizioni Ristrutturazioni Costruzioni». Non aveva più la chiave ma sapeva dove il suo vecchio datore di lavoro ne lasciava una di riserva, sempre che avesse conservato quell’abitudine.

Aprì lo sportello dell’estintore. Subito dietro al fusto rosso c’era la chiave che cercava. La prese con un sorriso sulle labbra martoriate e andò ad aprire la porta. Il battente scivolò verso l’interno senza cigolii.

Un passo e fu dentro.

La poca luce che riusciva a entrare dall’esterno, attraverso i vetri posti in alto sui quattro lati, rivelava un capannone pieno di attrezzi e macchinari.

Caschi da lavoro, tute appese, due betoniere di diversa capienza. Alla sua sinistra un lungo bancone pieno di strumenti per la lavorazione del legno e del ferro.

Il caldo umido, la penombra, l’odore, erano oggetti familiari. Ferro, cemento, legno, calce, cartongesso, lubrificante. Il vago afrore di corpi sudati dalle tute appese ai ganci. Invece il gusto che sentiva in bocca era del tutto nuovo. Era il gusto acido della lacerazione, il rigurgito di tutto quello che gli era stato strappato. La vita di tutti i giorni, l’affetto, l’amore.

Quel poco che aveva conosciuto quando Karen gli aveva insegnato che cosa meritasse quel nome.

Avanzò nella semioscurità, badando a dove metteva i piedi, verso una porta sul lato destro. Sforzandosi di non pensare che quel posto ruvido e spigoloso per lui aveva significato tutto quello che altri ragazzi trovavano in una bella casa dalle pareti tinteggiate di fresco e in una macchina parcheggiata nel garage.

Oltre quella soglia, attaccata al muro del capannone come un mollusco a uno scoglio, c’era un’unica grande stanza con una sola finestra protetta da un’inferriata. Un angolo cottura e un bagno ai lati opposti completavano la pianta della sua dimora abituale. Quando di quel posto era diventato custode, operaio e unico inquilino.

Arrivò alla porta e la spinse.

E rimase a bocca aperta per lo stupore.

Qui le forme erano più nette. La luce dei lampioni del parcheggio che entrava dalla finestra mandava quasi tutte le ombre a rintanarsi negli angoli.

La stanza era in perfetto ordine, come se fosse uscito ore e non anni prima. Non c’era per aria l’idea pruriginosa della polvere e saltavano agli occhi i segni di una pulizia frequente e accurata. Solo il letto era coperto da un telo di plastica trasparente.

Stava per muovere un nuovo passo nella sua vecchia casa, quando di colpo sentì qualcosa urtarlo e strisciargli veloce in mezzo alle gambe.

Subito dopo una sagoma scura saltò sul letto, facendo frusciare la plastica.

Chiuse la porta, si avvicinò al tavolino da notte e accese la lampada accanto al letto. Dalla luce tenue che si aggiunse a quella esterna emerse il muso di un grosso gatto nero, che lo guardava con due enormi occhi verdi.

«Walzer. Cristo santo, ci sei ancora.»

Senza paura, l’animale si avvicinò camminando leggermente di traverso per annusarlo. Lui allungò la mano per afferrarlo e il micio si lasciò prendere senza accennare reazione. Si sedette sul letto e se lo tirò sulle ginocchia. Iniziò a grattarlo con delicatezza sotto il mento e quello subito si mise a ronfare, come sapeva avrebbe fatto.

«Ti piace ancora, eh? Sei rimasto il godurioso filosofo che eri.»

Mentre lo accarezzava, con l’altra mano arrivò al punto dove avrebbe dovuto esserci la zampa posteriore destra.

«Vedo che non ti è ricresciuta, nel frattempo.»

Legata al nome di quel gatto c’era una strana storia. Stava facendo per conto di Ben una riparazione nello studio della dottoressa Peterson, la veterinaria. Era arrivata una coppia con un gattino avvolto in una coperta tutta insanguinata. Un cane di grossa taglia era entrato nel loro giardino e lo aveva azzannato, forse facendogli pagare la sola colpa di esistere. Il gatto era stato visitato e subito dopo sottoposto a un intervento chirurgico, ma non era stato possibile salvargli la zampa. Quando la dottoressa era uscita dalla sala operatoria e lo aveva annunciato ai proprietari, i due si erano guardati con l’aria imbarazzata.

Poi la donna, una tipa slavata con un twin-set azzurro, che cercava invano di correggere col rossetto due labbra troppo sottili, si era rivolta con voce dubbiosa alla veterinaria.

«Senza una zampa, dice?»

Subito si era girata per cercare conferma nell’uomo che era al suo fianco.

«Che ne pensi, Sam?»

L’uomo aveva fatto un gesto vago.

«Be’, di certo quella povera bestiola soffrirebbe, senza una zampa.

Sarebbe menomato a vita. Mi chiedo se a questo punto non sarebbe addirittura meglio…»

Aveva lasciato la frase in sospeso. La dottoressa Peterson lo aveva guardato con aria interrogativa e aveva aggiunto in vece sua l’ultima parola.

«Sopprimerlo?»

I due si erano consultati con uno sguardo già pieno di sollievo. Non gli sembrava vero di aver trovato quella scappatoia, di poter spacciare come la proposta di una fonte autorevole quella che in realtà era una decisione già presa.

«Vedo che anche lei è d’accordo, dottoressa. Allora lo faccia pure. Non soffrirà vero?»

Gli occhi azzurri della veterinaria in quel momento erano di ghiaccio e la sua voce li aveva coperti di brina. Ma i due avevano troppa fretta di lasciare quel posto per accorgersene.

«No, non soffrirà.»

I due avevano pagato ed erano usciti un poco più in fretta di quanto sarebbe stato logico attendersi, accostando con delicatezza la porta. Poi un rumore di auto che giungeva da fuori aveva confermato la condanna senza possibilità di grazia per quella povera bestia. Lui aveva assistito alla scena, senza smettere di lavorare. Solo a quel punto aveva lasciato il gesso che stava impastando in un secchio e si era avvicinato a Claudine Peterson.

Tutti e due erano bianchi, lei per via del camice e lui per i segni di polvere che aveva sui vestiti.

«Non lo uccida, dottoressa. Lo prendo io.»

Lei lo aveva guardato senza parlare. I suoi occhi lo avevano frugato a lungo, prima di rispondere. Poi aveva detto due sole parole.

«Va bene.»

Si era girata ed era rientrata nello studio, lasciandolo solo e padrone di un gatto con tre zampe. Proprio da quello era nato il suo nome. Crescendo, il suo modo di camminare gli aveva ricordato il tempo del walzer: un-due-tre, un-due-tre, un-due-tre…

E Walzer era rimasto.

Stava per spostare il gatto, che continuava a fare le fusa beato di fianco a lui sul letto quando, di colpo, la porta venne spalancata da un calcio.

Walzer si spaventò e con un guizzo agile sulle sue tre zampe corse a rintanarsi sotto il letto. Una voce imperiosa si riversò nella stanza e in quello che restava delle sue orecchie.

«Chiunque tu sia, è meglio se vieni fuori con le mani bene in vista e senza fare movimenti bruschi. Ho un fucile e sono intenzionato a usarlo.»

Rimase un attimo immobile.

Poi, senza dire una parola, si alzò, avviandosi con calma verso la porta.

Poco prima di affacciarsi nel riquadro illuminato, tese le braccia verso l’alto. Quello era l’unico movimento che ancora gli procurava un poco di dolore.

E una marea di ricordi.

CAPITOLO 5

Ben Shepard si spostò dietro una betoniera, cercando di tenersi nella posizione migliore per avere sotto tiro la porta. Una goccia di sudore polveroso lungo la tempia gli ricordò quanto il capannone fosse caldo e umido. Per un attimo ebbe la tentazione di asciugarla ma preferì non staccare le mani dal Remington. Chiunque ci fosse in quella stanza, non sapeva come avrebbe reagito all’intimazione di uscire. Ma soprattutto non sapeva se fosse armato o no. Ad ogni modo, l’uomo era stato avvisato. Lui reggeva fra le mani un fucile a pompa e non gettava mai parole al vento.

Aveva fatto la guerra in Corea. Se quel tipo o quei tipi non credevano che fosse davvero intenzionato a usarlo, si sbagliavano di grosso.

Non successe nulla.

Aveva preferito non accendere luci. Nella penombra, il tempo sembrava un fatto personale fra lui e il battito del suo cuore. Attese per degli istanti che parevano covati dall’eternità.

Era stato un caso che fosse lì a quell’ora.

Stava tornando dopo una serata al bowling con la squadra per cui giocava. Era sulla Western Avenue ed era appena uscito dal North Folk Village quando sul cruscotto del suo vecchio furgone la spia dell’olio si era accesa. Se avesse continuato, avrebbe corso il rischio di grippare. A poche decine di iarde c’era il viottolo che portava al suo capannone. Lo aveva imboccato al volo, invadendo l’altra corsia per fare una larga curva e non essere costretto a frenare. Subito dopo aveva spento il motore e messo in folle per sfruttare l’abbrivio e arrivare fino al cancello.

Mentre si avvicinava all’edificio sentendo il pietrisco sotto gli pneumatici rollare con un suono sempre più grave a mano a mano che perdeva velocità, per un attimo gli era parso di vedere una luminosità scialba trasparire dai vetri. Questo aveva interrotto di colpo dei pensieri non proprio edificanti rivolti a qualunque divinità fosse preposta alla cura degli automobilisti.

Aveva subito fermato il furgone. Aveva sfilato da dietro i sedili il Remington e controllato che fosse carico. Era sceso senza sbattere la portiera e si era avvicinato camminando sul ciglio erboso, per non far rumore con le scarpe pesanti. Quando se ne era andato, un paio d’ore prima, poteva aver dimenticato la luce accesa.

Di certo era così.

Ma in ogni caso aveva preferito sincerarsene stando al sicuro dalla parte giusta della canna di un fucile. Come diceva il suo vecchio, di troppa prudenza non era mai morto nessuno.

Aveva proseguito costeggiando la rete e aveva trovato la recinzione tagliata. Poi aveva visto la stanza sul retro illuminata e un’ombra passare davanti alla finestra.

Le mani posate sul calcio del Remington avevano iniziato a inumidirsi oltre il dovuto. Aveva buttato rapidamente lo sguardo in giro.

Non aveva notato macchine parcheggiate nelle vicinanze e questo fatto lo lasciava perplesso. Il capannone era pieno di materiali e attrezzi. Il loro valore non era elevato, ma avrebbero in ogni caso potuto fare gola a un ladro. Però era tutta roba piuttosto pesante. Gli sembrava strano che qualcuno avesse deciso di venire a ripulirgli il magazzino a piedi.

Aveva superato il varco nella rete e raggiunto l’ingresso accanto al passo carraio. Quando aveva spinto il battente, l’aveva trovato aperto. Al tatto aveva sentito la chiave nella toppa e nella scarsa luce dei lampioni riverberata dal muro chiaro aveva percepito lo sportello dell’estintore socchiuso.

Strano. Molto strano.

Solo lui conosceva l’esistenza della chiave di riserva.

Incuriosito e circospetto in egual misura aveva percorso la sua piccola gimkana furtiva attraverso i materiali ammassati all’interno, fino a spalancare la porta della stanza sul retro con un calcio.

E ora teneva un fucile puntato verso una porta aperta.

Una figura d’uomo con le mani alzate comparve sulla soglia. Fece un paio di passi e si fermò. Ben si mosse di conseguenza, in modo da continuare a essere protetto dalla massa tozza e goffa della betoniera. Da quel punto poteva tenere sotto tiro le gambe di quel tipo e se solo avesse tentato un movimento brusco lo avrebbe abbassato di dieci pollici.

«Sei solo?»

La risposta era arrivata subito. Calma e tranquilla, apparentemente sincera.

«Sì.»

«Bene, ora esco. Se tu o qualche tuo amico avete intenzione di farmi un brutto scherzo, ti faccio un buco nella pancia grosso come un tunnel della ferrovia.»

Attese un attimo e poi uscì con cautela allo scoperto. Teneva il fucile all’altezza del fianco saldamente puntato verso lo stomaco dell’uomo. Fece un paio di passi verso di lui, fino ad arrivare a vederlo bene in viso.

E quello che vide gli depose un velo di brividi sulle braccia e sul collo.

L’uomo aveva il viso e la testa completamente sfigurati da quelle che sembravano le cicatrici di ustioni tremende. Dalla faccia proseguivano sul collo e si perdevano nel colletto aperto della camicia. L’orecchio destro era del tutto assente mentre di quell’altro ne era rimasto solo un pezzo, attaccato come una beffa al cranio dove la pelle rimarginata a grana grossa aveva sostituito i capelli.

Solo la zona intorno agli occhi era integra. E adesso quegli occhi lo seguivano mentre si avvicinava, più ironici che preoccupati.

«E tu chi diavolo sei?»

L’uomo sorrise. Ammesso che quello che gli appariva sul viso quando cercava di farlo si potesse chiamare sorriso.

«Grazie, Ben. Almeno non mi hai chiesto che cosa sono.»

L’uomo abbassò le braccia, senza chiedere l’autorizzazione a farlo. Solo in quel momento Ben si rese conto che sulle mani portava dei guanti di tessuto leggero.

«Lo so che sono difficile da riconoscere. Speravo che almeno la mia voce fosse rimasta la stessa.»

Ben Shepard sgranò gli occhi. La canna del fucile si abbassò suo malgrado, come se di colpo le braccia fossero diventate così molli da non riuscire a sorreggerlo. Poi la parola gli arrivò come se non ne avesse avuto il dono prima.

«Cristo santo benedetto, Little Boss. Sei tu. Credevamo tutti che fossi…»

La frase rimase in sospeso, come in sospeso erano rimaste le loro vite per tutto quel tempo. L’altro fece un gesto vago con la mano.

«Morto?»

La frase successiva gli uscì dalle labbra come un pensiero ad alta voce e una speranza sottoterra.

«E secondo te non lo sono?»

Ben si sentì di colpo vecchio. E capì che la persona che aveva di fronte si sentiva molto più vecchia di lui. Ancora confuso da quell’incontro inatteso, senza sapere bene che fare o che dire, si avvicinò al muro e tese una mano verso un interruttore. Una improbabile luce di servizio si diffuse per l’ambiente. Quando fece per accenderne un’altra, Little Boss lo fermò con un gesto.

«Lascia stare. Ti garantisco che aumentando la luce non miglioro.»

Ben si accorse di avere gli occhi umidi. Si sentì inutile e stupido. Infine fece l’unica cosa che l’istinto gli dettava. Appoggiò il Remington su una pila di casse, si avvicinò e abbracciò con delicatezza quel soldato che negli occhi aveva solo cose distrutte.

«Cazzo, Little Boss, che bello sapere che sei vivo.»

Sentì le braccia del ragazzo circondargli le spalle.

«Little Boss non esiste più, Ben. Ma è bello essere qui con te.»

Rimasero un istante così, per un affetto che era quello fra un padre e un figlio. Con l’assurda speranza che quando si fossero staccati sarebbe stato un qualunque giorno del passato, e tutto era normale e Ben Shepard, imprenditore edile, si attardava nel capannone per dare le istruzioni al suo operaio per il giorno dopo.

Si sciolsero dall’abbraccio e furono di nuovo quelli di adesso, uno di fronte all’altro.

Ben fece un cenno con la testa.

«Vieni di là. Deve essere rimasta qualche birra. Se ti va.»

Il ragazzo sorrise e gli rispose alla luce della loro vecchia confidenza.

«Mai rifiutare una birra da Ben Shepard. Potrebbe incazzarsi. E non è un bello spettacolo trovarselo di fronte in quelle condizioni.»

Si spostarono nella stanza sul retro. Little Boss andò a sedersi sul letto.

Fece un verso di richiamo e subito Walzer uscì dal suo nascondiglio e gli saltò in grembo.

«Hai lasciato tutto com’era. Perché?»

Ben si diresse verso il frigorifero e fu contento che Little Boss non lo vedesse in faccia mentre rispondeva.

«Premonizioni da veggente o incrollabili speranze di un vecchio.

Chiamale come preferisci.»

Chiuse lo sportello e si girò con due birre in mano. Col collo di una bottiglia indicò il gatto, che accettava con le sue semplici implicazioni feline le carezze sulla testa e sul collo.

«Ho fatto pulire periodicamente la tua stanza. E ogni giorno ho rimpinzato quella bestiaccia che tieni sulle ginocchia.»

Porse al ragazzo sul letto la sua birra. Poi raggiunse una sedia e per qualche istante bevvero in silenzio. Tutti e due sapevano di essere pieni di domande alle quali ognuno avrebbe faticato a dare una risposta.

Poi Ben capì che doveva essere lui il primo.

Controllando a fatica il desiderio di guardare da un’altra parte, chiese.

«Cosa ti è successo? Chi ti ha conciato così?»

Il ragazzo si prese un tempo lungo come una guerra, prima di rispondere.

«Non è una storia breve, Ben. E piuttosto brutta. Sei sicuro di volerla sentire?»

Ben si appoggiò allo schienale della sedia e la inclinò fino ad appoggiarsi al muro.

«Io ho tempo. Tutto il tempo…»

«…e tutti gli uomini che ci servono, soldato. Finché tu e i tuoi compagni non avrete capito che in questo Paese sarete sconfitti.»

Era seduto a terra, appoggiato a un mozzicone d’albero senza fronde avvinghiato al terreno da radici inutili, le mani legate dietro la schiena.

Davanti a lui l’alba stava salendo. Alle spalle sentiva la presenza del suo compagno, anche lui immobilizzato nello stesso modo. Era da un po’ che non parlava e non si muoveva. Forse era riuscito ad assopirsi. Forse era morto. Entrambe le ipotesi erano plausibili. Da due giorni stavano fermi in quel posto. Due giorni di cibo scarso, di sonno spezzato dalle fitte ai polsi e dai crampi al sedere. Ora aveva sete e fame e i vestiti erano incollati alla pelle per il sudore e la sporcizia. E uomo con la fascia rossa intorno alla testa si era chinato su di lui e aveva tenuto sospese davanti ai suoi occhi le loro piastrine di riconoscimento. Le aveva lasciate oscillare con un effetto quasi ipnotico. Poi le aveva girate a proprio favore, come per controllare i nomi, anche se li ricordava benissimo.

«Wendell Johnson e Matt Corey. Che ci fanno due bravi ragazzi americani, in mezzo a queste risaie? Non avevate niente di meglio da fare a casa vostra?»

Certo che ce l’avevo, testa di cazzo pezzo di merda.

Aveva urlato quella frase solo nella sua testa. Aveva imparato a sue spese qual era il prezzo delle parole espresse, con quella gente.

Il guerrigliero era un tipo secco, dall’età indefinibile, con occhi piccoli e infossati. Un poco più alto della media. Variava un buon inglese sporcato da un accento gutturale. Era passato del tempo

quanto?

da quando il suo plotone era stato annientato dall’attacco improvviso dei vietcong. Erano morti tutti, tranne loro due. E subito dopo era iniziato un calvario di continui spostamenti, di zanzare, di marce esauste fatte di passi guidati dalla volontà, ancora uno, ancora uno, ancora uno…

E di botte.

Ogni tanto avevano incontrato altri gruppi di combattenti. Uomini con i visi tutti uguali che trasportavano armi e rifornimenti in bicicletta per sentieri quasi invisibili tracciati fra la vegetazione.

Quelli erano gli unici momenti di sollievo

dove ci portano Matt?

Non lo so.

Hai idea di dove siamo?

No, ma ce la caveremo Wen, stai tranquillo

e di riposo.

L’acqua, l’acqua benedetta che altrove arrivava con il semplice gesto di aprire un rubinetto, era un attimo di paradiso in terra che i loro carcerieri sembravano dispensare con un piacere sadico.

Il suo carceriere non aveva atteso una risposta. Sapeva che non sarebbe arrivata.

«Mi dispiace molto che gli altri tuoi compagni siano morti.»

«Non credo», gli era sfuggito dalle labbra.

Aveva subito teso i muscoli del collo, aspettando come replica uno schiaffo. Invece sul viso del vietcong era apparso un sorriso che solo la luce beffarda degli occhi riusciva a trasformare in crudele. In silenzio si era acceso una sigaretta. Poi aveva risposto con una voce neutra che suonava stranamente sincera.

«Ti sbagli. Davvero mi sarebbe piaciuto avervi vivi. Tutti.»

Aveva usato lo stesso tono di voce quando aveva detto

«Non preoccuparti, caporale. Ora sarai curato…»

e subito dopo aveva sparato in testa a Sid Margolin, che era steso a terra e si lamentava per una ferita alla spalla.

Da un punto dietro di lui era arrivato il brusio miagolante di una radio.

Poi un altro guerrigliero, un ragazzo molto più giovane, aveva raggiunto il suo comandante. I due avevano scambiato un frettoloso dialogo, nella lingua incomprensibile di un Paese che mai sarebbe riuscito a capire.

Poi il capo era tornato a rivolgersi a lui.

«Quella di oggi è una giornata che si preannuncia piuttosto divertente.»

Aveva piegato le ginocchia e si era accucciato davanti a lui, in modo da poterlo vedere bene in viso.

«Ci sarà un attacco aereo. Ce ne sono tutti i giorni. Ma il prossimo sarà in questa zona.»

In quel momento aveva capito. C’erano uomini che andavano in guerra perché ci dovevano andare. Altri che sentivano di doverci andare. L’uomo con la fascia rossa c’era perché gli piaceva. Quando la guerra fosse finita, probabilmente se ne sarebbe inventata un’altra, forse solo sua, pur di continuare a combattere.

E a uccidere.

Quel pensiero gli aveva dipinto in faccia un’espressione che l’altro aveva frainteso.

«Che c’è? Ti stupisci, soldato? Credi che le scimmie gialle, i Charlie, come ci chiamate, non siano in grado di svolgere operazioni di intelligence?»

Gli aveva dato con il palmo della mano un buffetto sulla guancia, tanto più beffardo in quanto lieve come una carezza.

«E invece ne siamo capaci. E oggi avrai modo di scoprire per chi combatti.»

Si era rialzato di scatto e aveva fatto un gesto. Subito quattro uomini armati di AK-47 e fucili erano arrivati di corsa e li avevano circondati, tenendoli sotto tiro. Un quinto si era avvicinato e aveva sciolto loro i polsi. Con un gesto brusco li aveva invitati a sollevarsi.

Il comandante aveva indicato il sentiero davanti a loro.

«Da quella parte. In fretta e in silenzio, per favore.»

Li avevano spinti senza troppi riguardi verso la direzione indicata.

Dopo pochi minuti di marcia a passo veloce erano sbucati in una vasta radura sabbiosa, costeggiata sul lato alla loro destra da quella che sembrava una piantagione di alberi della gomma, posti a una distanza così regolare da sembrare un puntiglio della natura nel caos della vegetazione tutto intorno.

Erano stati separati e legati a due tronchi quasi alle estremità opposte della radura, in modo che fra loro ci fosse una lunga linea di alberi.

Subito dopo aver sentito i lacci assicurargli i polsi, un bavaglio gli era stato stretto sulla bocca.

La stessa sorte era toccata al suo compagno, che per un accenno di ribellione si era preso un colpo con il calcio del fucile in mezzo alla schiena.

L’uomo con la fascia rossa si era avvicinato con la sua aria sorniona.

«Voi che lo usate con tanta facilità dovreste sapere che effetto fa il napalm. La mia gente lo sa da tempo…»

Aveva indicato un punto imprecisato nel cielo di fronte a lui.

«Gli aerei arriveranno di là, soldato americano.»

Gli aveva rimesso al collo la piastrina di riconoscimento. Quindi gli aveva girato le spalle e se n’era andato, seguito dai suoi uomini, silenziosi come solo loro sapevano essere. Erano rimasti soli, a guardarsi da lontano e a chiedersi perché e che cosa e quando. Poi da quel punto oltre gli alberi, nel cielo davanti a loro, era arrivato il rumore di un motore. Il Cessna L-19 Bird Dog era uscito come il frutto di un sortilegio dal bordo della vegetazione. Era in missione di ricognizione e stava volando a bassa quota. Li aveva quasi superati quando di colpo il pilota aveva compiuto una virata, facendo scendere ancora di più l’apparecchio. Tanto da permettergli di vedere con chiarezza la sagoma dei due uomini all’interno della carlinga. Poco dopo, finito il gioco di prestigio, il velivolo era tornato a inseguire il cielo da cui era venuto. Il tempo era trascorso nel silenzio e nel sudore in quantità indefinibili. Poi un sibilo e una coppia di Phantom era arrivata a una velocità che la loro paura aveva scomposto in fotogrammi e aveva portato con sé il tuono. Solo dopo, per una bizzarria, il lampo. Aveva visto il bagliore crescere e diventare una striscia di fuoco che avanzava come danzando dopo aver divorato tutto sulla sua strada e la striscia era arrivata su di loro e aveva investito…

«…in pieno il mio compagno, Ben. Lui è stato letteralmente incenerito.

Io ero più lontano e sono stato solo colpito da un’ondata di calore tale da ridurmi in questo stato. Non so come ho fatto a salvarmi. E non so quanto tempo sono rimasto lì prima che arrivassero i soccorsi. Ho dei ricordi molto confusi. So che mi sono svegliato in un ospedale, coperto di bende e con degli aghi infilati nelle vene. E credo che ci vogliano le vite di molti uomini per provare il dolore che ho provato io in quei pochi mesi.»

Il ragazzo fece una pausa. Ben capì che era per lasciargli assimilare quello che gli aveva appena detto. O per prepararlo alla conferma successiva.

«I vietcong ci hanno usati come scudi umani. E quelli del ricognitore ci hanno visti. Sapevano che eravamo lì. E hanno attaccato lo stesso.»

Ben si guardò la punta delle scarpe. In quel momento qualunque cosa avesse detto a proposito di quell’esperienza sarebbe stata inutile.

Decise di tornare al presente e a tutte le sue incertezze.

«Che hai intenzione di fare ora?»

Little Boss sollevò le spalle, con noncuranza.

«Ho solo bisogno di un appoggio per qualche ora. Devo vedere un paio di persone. Poi passerò a prendere Walzer e me ne andrò via.»

Il gatto, indifferente come tutti i suoi simili, si alzò dalle ginocchia del suo padrone e sistemò le sue tre zampe in una posizione più comoda sul letto.

Ben staccò la sedia dal muro e la lasciò ricadere a terra.

«Sento che stai per cacciarti nei guai.»

Il ragazzo scosse la testa, nascosto dietro al suo non sorriso.

«Io non posso cacciarmi nei guai.»

Si sfilò i guanti di cotone e tese verso Ben le mani coperte di cicatrici.

«Vedi? Niente impronte digitali. Cancellate. Qualsiasi cosa tocchi, non lascio tracce.»

Parve riflettere un istante, come se finalmente avesse trovato per se stesso la definizione giusta.

«Io non esisto più. Sono un fantasma.»

Lo guardò con occhi che chiedevano molto anche se erano disposti a concedere poco.

«Ben, dammi la tua parola d’onore che non dirai a nessuno che sono stato qui.»

«Nemmeno a…?»

Lo interruppe secco, preciso. Prima ancora che avesse il tempo di terminare la frase.

«A nessuno, ho detto. Mai.»

«Altrimenti?»

Un attimo di silenzio. Poi dalla sua bocca martoriata uscirono parole fredde come quelle dei morti.

«Ti uccido.»

Ben Shepard capì che per il ragazzo il mondo era scomparso. Non solo quello che aveva dentro, ma anche quello che gli stava intorno. Un brivido gli percorse la schiena. Era partito con uomini del suo Paese per combattere una guerra contro altri uomini che gli avevano ordinato di odiare e uccidere. Dopo quello che era successo, le parti si erano invertite.

Era tornato a casa e per tutti lui era diventato il nemico.

CAPITOLO 6

Seduto nell’oscurità attendeva.

Da tanto tempo aspettava quel momento e adesso che era arrivato la fretta o l’ansia erano del tutto assenti. Gli sembrava che la sua presenza in quel posto fosse del tutto normale, prevista, contemplata. Come l’alba o il tramonto o qualsiasi altra cosa che doveva essere e che ogni giorno, giorno dopo giorno, era.

Appoggiata sulle ginocchia teneva una Colt M1911, l’arma d’ordinanza dell’esercito. Il buon Jeff Anderson, che era stato privato delle gambe ma non della sua natura di maneggione, gli aveva procurato quella pistola senza fare domande. E, forse per la prima volta in vita sua, non gli aveva chiesto niente in cambio. L’aveva tenuta nella sacca, avvolta in uno straccio, per tutto il viaggio.

L’unica cosa leggera che portasse con sé.

La stanza in cui si trovava era un salotto con un divano e due poltrone al centro, disposti a ferro di cavallo in favore del televisore accostato al muro. Un ordinario arredamento di una ordinaria casa americana, nella quale era chiaro che viveva un uomo da solo. Pochi quadri dozzinali alle pareti, un tappeto che non ispirava un senso di pulizia, qualche piatto di un vecchio pasto nell’acquaio. E odore di sigarette dappertutto.

Davanti a lui, sulla destra, la porta della cucina. A sinistra, un’altra porta attraverso la quale, dopo aver percorso un piccolo vestibolo, si entrava in casa dall’ingresso in giardino. Alle sue spalle, protetto da una sporgenza di muro, l’accesso alle scale che portavano al piano di sopra. Quando era arrivato e si era accorto che la casa era deserta, aveva forzato la porta sul retro e aveva rapidamente perlustrato l’interno.

Mentre lo faceva, aveva nelle orecchie la voce del sergente istruttore a Fort Polk.

Prima di tutto, ricognizione dei luoghi.

Dopo aver preso coscienza della disposizione delle stanze, aveva scelto di attendere nel salotto perché poteva tenere sotto controllo sia l’ingresso principale che quello di servizio.

Scelta strategica della posizione.

Si era seduto sul divano e tolto la sicura alla pistola. Il colpo era scivolato in canna con un rumore secco come la sua bocca.

Controllo dell’efficienza delle armi.

E mentre aspettava, il suo pensiero era ritornato a Ben.

Aveva ancora negli occhi la sua espressione quando lo aveva minacciato.

Nessuna traccia di paura, solo di delusione. Aveva cercato invano di cancellare quelle due parole cambiando discorso. Chiedendo quello che in realtà avrebbe voluto chiedergli dal primo istante del loro incontro.

«Come sta Karen?»

«Bene. Ha avuto il bambino. Te l’aveva scritto. Perché dopo non ti sei fatto vivo con lei?»

Aveva fatto una pausa e poi aveva proseguito, con un tono più basso.

«Quando le hanno detto che eri morto, ha pianto tutte le lacrime che si potevano piangere.»

C’era una nota di rimprovero in quelle parole e in quella voce. Lui si era alzato di scatto, indicando se stesso con le mani.

«Ben, mi vedi? Le cicatrici che ho sul viso le ho su tutto il corpo.»

«Lei ti amava.»

Ben si era corretto subito.

«Lei ti ama.»

Lui aveva scosso la testa, come per scacciare un pensiero molesto.

«Ama un uomo che adesso non esiste più.»

«Io sono certo che…»

Lo aveva fermato con un gesto della mano.

«Le certezze non sono di questo mondo. E quelle poche quasi sempre sono negative.»

Si era girato verso la finestra, perché Ben non lo vedesse in viso. Ma soprattutto per non vedere quello di lui.

«Oh sì, io lo so che succederebbe se andassi da lei. Mi butterebbe le braccia al collo. Ma per quanto?»

Si era girato di nuovo verso Ben. Prima, d’istinto, si era nascosto per un attimo. Ma ora doveva tornare a guardare la realtà in faccia e lasciare che la realtà vedesse in faccia lui.

«Ammesso che tutti gli altri problemi fra di noi fossero risolti, suo padre e tutto il resto, per quanto tempo durerebbe? Io me lo sono chiesto ogni momento, fin dalla prima volta che mi hanno permesso di guardarmi in uno specchio e ho scoperto quello che sono diventato.»

Ben aveva visto nei suoi occhi lacrime che erano diamanti da poco prezzo. Gli unici che poteva permettersi con la paga da soldato. E aveva capito che quelle parole le aveva già ripetute nella sua testa centinaia di volte.

«Te lo immagini cosa vorrebbe dire svegliarsi la mattina e come prima cosa vedere il mio viso? Quanto durerebbe, Ben? Quanto?»

Non aveva atteso risposta. Non perché non volesse saperla, ma perché la sapeva già.

La sapevano tutti e due.

Aveva di nuovo cambiato discorso.

«Sai perché sono partito volontario per il Vietnam?»

«No. Non sono mai riuscito a capire il senso di quella decisione.»

Era tornato a sedersi sul letto e ad accarezzare Walzer. Gli aveva raccontato tutto quello che era successo. Ben era rimasto ad ascoltare in silenzio. Mentre parlava, lo aveva solo guardato in viso, facendo scorrere gli occhi sulla sua pelle martoriata. Quando aveva finito, Ben si era coperto il viso con le mani. La sua voce era filtrata attraverso la barriera delle dita.

«Ma non pensi che Karen…»

Di scatto si era rimesso in piedi e si era avvicinato alla sedia dove stava seduto il suo vecchio datore di lavoro. Come per sottolineare meglio le sue parole.

«Credevo di essere stato chiaro. Non sa che sono vivo e non deve saperlo.»

A quel punto anche Ben si era alzato e in silenzio lo aveva abbracciato di nuovo, con più forza questa volta. Lui non era riuscito a ricambiare quella stretta. Era rimasto con le braccia abbandonate lungo i fianchi, finché l’altro si era staccato.

«Ci sono cose che nessuno dovrebbe provare nella vita, mio povero ragazzo. Non so se è giusto che io lo faccia. Per te, per Karen, per il bambino. Ma per quello che mi riguarda io non ti ho mai visto.»

Quando era uscito, Ben era davanti alla porta del capannone. Non gli aveva chiesto né dove andasse né cosa ci andasse a fare. Ma nei suoi occhi c’era l’amaro convincimento che presto lo avrebbe saputo. Sentiva lo sguardo suo malgrado complice seguirlo mentre si allontanava.

In quel momento c’erano due sole cose certe, per tutti e due.

La prima era che Ben non lo avrebbe tradito.

La seconda che non si sarebbero rivisti mai più.

Aveva attraversato la città e percorso a piedi il tragitto fino alla casa al fondo di Mechanic Street. Preferiva farsi qualche miglio piuttosto che chiedere in prestito un’auto a Ben. Voleva evitare in qualunque modo di coinvolgerlo oltre il dovuto in quella brutta storia. E non aveva la minima intenzione di farsi beccare mentre cercava di rubare un’auto.

Mentre camminava, Chillicothe gli era sfilata immobile intorno senza accorgersi di lui, come sempre. Era solo un posto qualunque in America, quello dove si era accontentato di un briciolo di speranza quando molti ragazzi della sua età si muovevano con noncuranza fra cumuli di cose sicure.

Aveva percorso strade ed evitato persone e schivato luci e ogni passo era un pensiero e ogni pensiero…

Il motore di una macchina nel vialetto lo riportò all’attenzione che per un attimo aveva perso. Si alzò dal divano e si avvicinò alla finestra. Scostò una tendina che odorava di polvere e guardò fuori. Una Plymouth Barracuda ultimo modello era parcheggiata con il muso puntato verso la saracinesca del garage. Le luci dei fari morirono sul cemento e uno dopo l’altro dalla macchina scesero Duane Westlake e Will Farland.

Erano tutti e due in divisa.

Lo sceriffo era un poco più corpulento dell’ultima volta che lo aveva visto. Troppo cibo e troppa birra, forse. Forse sempre più pieno di merda.

L’altro era rimasto magro e allampanato e maledetto come lo ricordava.

I due si avvicinarono chiacchierando alla porta d’ingresso.

Non riusciva a credere alla sua fortuna.

Aveva ipotizzato di dover fare due visite, quella notte. Ora il caso gli stava offrendo su un piatto di platino la possibilità di evitarne una. E di fare in modo che ognuno dei due sapesse…

La porta si aprì e prima che la luce invadesse la stanza ebbe modo di vedere le sagome dei due uomini stampate nel riquadro che la luce aveva ritagliato sul pavimento.

Il chiaro e lo scuro.

Il grosso e il secco.

Il male e il peggio.

Si spostò verso le scale e per qualche istante rimase appoggiato al muro ad ascoltare le loro voci. Il dialogo passò nella sua testa come le pagine di un testo teatrale che una volta Karen gli aveva fatto leggere.

Westlake.

«Che ne hai fatto di quei ragazzi che abbiamo fermato? Chi sono?»

Farland.

«Quattro vagabondi di passaggio. Solita roba. Capelli lunghi e chitarre.

Non abbiamo niente contro di loro. Però, in attesa di accertamenti, stanotte la passeranno al fresco.»

Una pausa. Ancora Farland.

«Ho detto a Rabowsky di metterli in cella con qualcuno tosto, se capita.»

Udì un risolino che sembrava lo squittire di un topo. Di certo uscito dalle labbra sottili del vicesceriffo.

Di nuovo Farland.

«Stanotte invece dell’amore faranno la guerra.»

Westlake.

«Magari gli viene la voglia di tagliarsi i capelli e di cercarsi un lavoro.»

Dal suo nascondiglio sorrise con l’amaro in bocca.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Solo che quelli non erano lupi. Erano sciacalli, della peggior specie.

Si sporse con cautela, protetto dalla penombra e dal riparo offerti dal muro. Lo sceriffo andò ad accendere la televisione, gettò il cappello sul tavolo e si lasciò sprofondare in una poltrona. Poco dopo alla luce della stanza si aggiunse il baluginare dello schermo.

E il commento di una partita di baseball.

«Cristo, siamo già quasi alla fine. E stiamo perdendo. Lo sapevo che giocare in California ci avrebbe detto male.»

Si girò verso il suo secondo.

«Se vuoi, c’è della birra in frigo. Intanto che ci vai, prendimene una.»

Lo sceriffo era il capo assoluto e ci teneva a sottolinearlo, anche in caso di ospitalità. Si chiese se si sarebbe comportato nello stesso modo se invece del suo sottoposto ci fosse stato in quella stanza il giudice Swanson.

Decise che quello era il momento. Uscì dal suo nascondiglio con la pistola puntata.

«La birra può aspettare. Alzate le mani.»

Al suono della voce, Will Farland, che stava alla sua destra, ebbe un sussulto. E quando si rese conto del suo aspetto, sbiancò in viso.

Westlake aveva girato la testa di colpo. Vedendolo, rimase un attimo interdetto.

«E tu chi cazzo sei?»

Domanda sbagliata, sceriffo. Sei sicuro di volerlo sapere?

«Per ora non ha importanza. Alzati e mettiti al centro della stanza. E tu vai di fianco a lui.»

Mentre i due si muovevano come aveva loro ordinato, Farland, provò a far scivolare la mano verso la fondina della pistola.

Prevedibile.

Fece un paio di rapidi passi di lato in modo da inquadrarlo completamente e scosse la testa.

«Non ci provare. Quest’arma la so usare molto bene. Mi credi sulla parola o vuoi che te lo dimostri?»

Lo sceriffo sollevò le mani in un gesto che voleva essere tranquillizzante.

«Senti amico, cerchiamo di stare tutti calmi. Io non so chi tu sia e cosa cerchi, ma ti ricordo che la tua presenza in questa casa già costituisce un reato. Inoltre stai minacciando con un’arma due rappresentanti della legge.

Non pensi che la tua posizione sia già abbastanza grave? Prima di fare altre cazzate ti consiglio di…»

«I suoi consigli portano male, sceriffo Westlake.»

Stupito nel sentir pronunciare il suo nome, l’uomo aggrottò le sopracciglia e inclinò un poco la grossa testa di lato.

«Ci conosciamo?»

«Le presentazioni rimandiamole a dopo. Ora Will siediti per terra.»

Farland era troppo interdetto per essere incuriosito. Girò gli occhi verso il suo superiore, incerto sul da farsi.

La voce che si sentì arrivare addosso cancellò ogni dubbio.

«Non è più lui che comanda, pezzo di merda. Sono io adesso. Se preferisci finire a terra da morto, sono in grado di accontentarti.»

L’uomo si piegò sulle lunghe gambe e si sedette aiutandosi con la mano appoggiata sul pavimento. A quel punto, con la canna della pistola, lo indicò allo sceriffo.

«Adesso, con calma e senza movimenti bruschi, sfilagli le manette dalla cintura e legalo con le mani dietro la schiena.»

Westlake si fece rosso in viso per lo sforzo, mentre si piegava ed eseguiva l’ordine. Il doppio e secco clack delle manette che si chiudevano segnò l’inizio della prigionia del vicesceriffo Will Farland.

«Adesso prendi le tue e mettitene una al polso destro. Poi girati tenendo le braccia dietro la schiena.»

C’era rabbia negli occhi dello sceriffo. Ma di fronte a quegli stessi occhi c’era anche una pistola. Obbedì all’ordine e subito dopo una mano sicura fece scattare l’altra manetta al polso libero.

E quello fu l’inizio della sua prigionia.

«Siediti accanto a lui, adesso.»

Lo sceriffo non poteva aiutarsi con le mani. Piegò le ginocchia e cadde a terra in un modo goffo, appoggiando con violenza la sua mole contro la spalla di Farland. Per poco non finirono tutti e due distesi sul pavimento.

«Chi sei?»

«I nomi vanno e vengono, sceriffo. Solo i ricordi restano.»

Sparì per un attimo dietro il muro che nascondeva le scale. Quando tornò reggeva in mano una tanica piena di benzina. Durante l’ispezione della casa l’aveva trovata nel garage, accanto a una falciatrice. Di certo era una riserva che lo sceriffo si teneva in casa per non restare a secco quando tosava il prato. Questa insignificante scoperta gli aveva fatto venire in testa una piccola idea e messo addosso una grande gioia.

Infilò la pistola nella cintura e si avvicinò ai due uomini. Con calma iniziò a versare loro addosso il contenuto della tanica. I loro vestiti si macchiarono di scuro mentre l’odore acre e oleoso della benzina si spargeva nella stanza.

Will Farland si scostò d’istinto per evitare di prendere il getto sul viso e diede una testata alla tempia dello sceriffo. Westlake non ebbe nessuna reazione. Il dolore era stato anestetizzato dal panico che iniziava ad affiorare nei suoi occhi.

«Che cosa vuoi? Soldi? Non ho molto in casa, ma in banca…»

Il vice interruppe per una volta il suo capo, con una voce resa stridula dalla paura.

«Anche io ne ho. Quasi ventimila dollari. Te li darò tutti.»

Che ci fanno due bravi ragazzi americani in mezzo a queste risaie?

Mentre continuava a versare addosso ai due il liquido della tanica, gli fece piacere pensare che le loro lacrime non fossero causate solo dai vapori della benzina. Parlò con il tono rassicurante che un giorno qualcuno gli aveva insegnato.

Non preoccuparti, caporale. Ora sarai curato…

«Già. Forse possiamo metterci d’accordo.»

Un barlume di speranza arrivò a confortare il viso e le parole dello sceriffo.

«Certo. Domani mattina ci accompagni in banca e ti prendi un sacco di soldi.»

«Sì, potremmo fare così…»

La voce che concedeva l’illusione sparì di colpo.

«Ma non lo faremo.»

Con il residuo di benzina contenuto nel fusto segnò sul pavimento una striscia che arrivava fino alla porta. Mise la mano in tasca e ne estrasse uno Zippo. Un odore nauseabondo si aggiunse a quello pungente che già riempiva la stanza. Farland si era liberato nei calzoni.

«No, ti prego, non farlo, non farlo per l’amor di…»

«Chiudi quella bocca di merda!»

Westlake aveva interrotto quell’inutile piagnucolio. Recuperò un poco di orgoglio con la forza dell’odio e della curiosità.

«Chi sei, bastardo?»

Il ragazzo che era stato un soldato lo guardò un istante in silenzio.

Gli aerei arriveranno di là…

Poi disse il suo nome.

Lo sceriffo sgranò gli occhi.

«Non è possibile. Tu sei morto.»

Fece scattare l’accendino. Gli occhi terrorizzati dei due uomini erano fissi sulla fiamma. Sorrise e per una volta fu contento che il suo sorriso fosse una smorfia.

«No, figli di puttana. Voi siete morti.»

Con un gesto plateale, aprì la mano più del dovuto e lasciò cadere lo Zippo a terra. Non sapeva quanto sarebbe durata per i due uomini la caduta dell’accendino. Ma sapeva bene quanto poteva essere lungo quel breve tragitto.

Niente tuono, per loro.

Solo il rumore metallico dello Zippo che batteva sul pavimento. Poi un luminoso sbuffo caldo e subito dopo una lingua di fiamma che avanzava danzando fino a inghiottirli come un anticipo dell’inferno che li attendeva.

Rimase a sentirli urlare e a vederli agitarsi e bruciare finché nella stanza non si sparse l’odore della carne ustionata. Lo respirò a pieni polmoni, godendo del fatto che questa volta la carne non era la sua.

Poi aprì la porta e uscì in strada. Cominciò a camminare lasciandosi la casa alle spalle, sentendo le grida accompagnarlo come una benedizione mentre si allontanava.

Poco dopo, quando le grida cessarono, seppe che la prigionia dello sceriffo Duane Westlake e del suo vice Will Farland era finita.