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Charles Butler, al centro della sala operativa della Crimini Speciali, osservava le fotografie. Ciascuna delle pareti laterali era dedicata a una delle due donne impiccate. La sua attenzione fu attirata dalla parete posteriore. Le mosche morte intorno al cappello da baseball dello spaventapasseri costituivano un tocco di creatività. Si rivolse al detective accanto a lui. «Davvero l'ha fatto Ronald Deluthe?»
«Sì.» Riker armeggiava con un piccolo registratore. «Quel ragazzo finirà per piacermi.»
Pssst.
«Allora perché non smetti di trattarlo come se fosse un ragazzino mezzo scemo?»
«Va bene, gli offrirò una birra. È il massimo onore che posso concedere a una recluta.» Riker alzò il volume del registratore. Poche parole pronunciate in tono piatto. Era la voce dello spaventapasseri, grigia, senza una punta d'emozione, senza la profondità della disperazione.
Pssst. L'unico rumore in sottofondo.
Charles osservò le altre pareti coperte di appunti, rapporti, fax, foto. Disordine, troppe mani e troppi cervelli intenti a occuparsi di un solo caso. «Possiamo portare via questa roba?»
«No» disse Riker. «Non possiamo spostare niente. E non possiamo neppure copiarla. Ordini di Coffey. Quindi devi leggerti tutto.»
Charles comprese che il suo ruolo era quello di macchina fotocopiatrice umana. Doveva leggere tutto il materiale sull'omicidio di Kennedy Harper e immagazzinarlo grazie alla sua memoria eidetica. Gli appunti dell'autopsia erano stati appesi da Mallory, senza dubbio. Una piccola oasi di ordine.
Riker alzò il volume del registratore. «Ascolta attentamente, ancora una volta.»
Pssst.
«Intervalli regolari» disse Riker. «Sappiamo che è un rumore automatico. I tecnici sostengono che potrebbe trattarsi di un nebulizzatore per le piante. Potrebbe essere in un negozio di fiori o in un vivaio.»
«Escluderei che abbia chiamato dal posto di lavoro» disse Charles. «Se fosse nervoso, preoccupato di essere interrotto, lo capiresti dalla voce. Invece è piatta, assolutamente monocorde.» Ascoltò un altro frammento poi, Pssst. «Ecco, una pausa per prendere fiato. Il ritmo del discorso segue quel suono come se fosse la punteggiatura. Probabilmente convive con questo rumore da parecchio tempo, potrebbe essere prodotto da qualche macchinario sanitario…» Mentre parlava con Riker, Charles immagazzinava le informazioni dell'esame che Slope aveva condotto su una donna ancora viva. «Questa donna ha un cognome?»
«Sparrow» disse Riker. «Nient'altro.»
Era arrivata Mallory. Charles non sapeva da quanto. Un gatto che camminasse su un cuscino avrebbe fatto più rumore. Si chiese se si divertisse a spaventare le persone sorprendendole a quel modo. Come adesso con Riker, che improvvisamente la vide passeggiare lungo la parete. Mallory mostrò poco interesse per le foto del corpo nudo di Sparrow. Solo l'ingrandimento di una vecchia cicatrice sul fianco attirò la sua attenzione, un grosso nodo di carne cresciuto intorno a un foro. Chiuse gli occhi, un piccolo gesto significativo. Charles capì che lei e Sparrow avevano in comune molto più di un vecchio tascabile sottratto sulla scena del delitto. Mallory alzò lo sguardo e vide Charles che la fissava.
«Cosa vuoi?»
Pssst.
«C'è un dettaglio che mi incuriosisce.»
Charles ritornò alle fotografie scattate in ospedale. Il relativo rapporto, redatto nella rigida grafia di Mallory, portava la firma di Edward Slope. Indicò la fotografia della cicatrice. «Evidentemente Slope l'ha esaminata a fondo, ma nei tuoi appunti, Mallory, non c'è traccia delle sue osservazioni.»
«È una vecchia storia» disse lei. «Non ha niente a che fare con questo caso.»
«Allora sai com'è successo.»
Pssst.
Riker si allontanò da loro in tutta fretta. Era un avvertimento per Charles: stava addentrandosi nel personale campo minato di Mallory.
«È una vecchia ferita da arma da taglio. Molto vecchia. Una perdita di tempo.» Strappò la fotografia dalla parete. «Non dovrebbe nemmeno essere qui.»
«Ma hai detto a Coffey che Sparrow era abile con il coltello.»
«Nessuno era più abile di lei.» Charles intuì il lavorio di un cervello brillante dietro quegli occhi verdi.
A causa del suo handicap, quella faccia che tradiva ogni emozione, le persone comunemente credevano che Charles non fosse in grado di capire quando gli altri mentivano. Era uno sbaglio che Mallory non aveva mai commesso. Charles sapeva che lei si stava chiedendo quale mezza verità convenisse raccontargli.
«Non è stata una rissa» disse lei. «Sparrow non vide il coltello arrivare.»
«Qualche problema di vista?»
«Non esattamente.» Mallory appallottolò la fotografia, poi la rigirò tra le mani. Abbassò la voce. «O meglio, era accecata da uno scherzo.» La palla di carta sparì nel pugno di Mallory. «Quando fu accoltellata, Sparrow stava ridendo.» Mentre Charles era ancora concentrato sulla sparizione della pallina di carta nella mano di Mallory, un'altra mano puntò un indice laccato di rosso contro il suo petto. «Vedi di dimenticare quella cicatrice» ordinò. «Intesi?»
Mallory attraversò la stanza e uscì. Charles sperava che sbattesse la porta, avrebbe significato che era arrabbiata, che lui l'aveva semplicemente infastidita. Ma le cose non stavano così. L'aveva ferita. Non avrebbe mai più menzionato la cicatrice di Sparrow, mai più. Aveva capito che in qualche modo quella cicatrice era anche quella di Mallory. In ogni caso, la fotografia era ben impressa nella sua mente. Non poteva ignorarla. A quel punto cominciò a collegare tutti gli elementi, un vecchio scontrino della libreria di Warwick, la dedica a una bambina sul frontespizio di un romanzo western. Quando Mallory aveva assistito a quell'episodio di violenza?
Adesso che il campo era di nuovo sicuro, Riker gli tornò accanto spegnendo il cellulare: «Charles, ho esaudito il tuo desiderio. Ho dato a Duck Boy un vero incarico. Accompagnerà Geldorf a interrogare il detective che trovò il corpo di Natalie Homer. Contento adesso?»
Contento non era la parola giusta.
Deluthe aveva scritto in cima alla pagina il nome della persona interrogata, il primo a entrare nell'appartamento di Natalie Homer. Aveva descritto l'appartamento di Alan Parris, annotando la tappezzeria logora, i muri scrostati, la polvere e lo sporco. Era la casa di un uomo che aveva toccato il fondo prima di compiere quarantadue anni. Il fascicolo personale di Parris riportava solo i dati della sua breve carriera nella polizia di New York, ma il cestino della spazzatura, stracolmo di lattine di birra, indicava un serio problema di alcolismo. Il lavandino della cucina straripava di piatti sporchi. S'intravedeva una tazza da tè incrinata, con un disegno raffinato, forse lasciata dall'ex moglie quando il matrimonio era finito, vent'anni fa, qualche mese prima che Natalie Homer venisse uccisa.
La maglietta di Alan Parris era macchiata, i calzoncini consunti e dai buchi dei calzini uscivano tre unghie luride. Lars Geldorf lo interrogava e lui sembrava sul punto di addormentarsi. In realtà era ubriaco.
«Stai mentendo!» Geldorf alzò la voce per scuoterlo dal torpore. «Sono sicuro che uno di voi bastardi ha spifferato i particolari. Tu o il tuo collega. Vuota il sacco!» Si avvicinò a un millimetro dalla faccia di Parris: «Non farmi incazzare, figliolo, non ti piacerebbe, credimi…».
Parris si limitò a sbuffare in segno di incredulità, dimostrando una notevole pazienza nei confronti del detective in pensione e delle sue patetiche minacce.
Lars Geldorf era davvero furioso, e Deluthe prese appunti, annotando ogni singolo insulto. Alla fine Geldorf abbandonò l'appartamento.
Deluthe disse: «Ancora qualche domanda, signore». Rivolse a Parris un accenno di sorriso e l'uomo alzò gli occhi al cielo.
Deluthe smise di sorridere. «E i vicini? Ricorda di aver visto qualcuno sul pianerottolo, in prossimità della scena del delitto? Magari qualcuno che…»
«È stato tanto tempo fa, figliolo.» Parris si chinò e spostò un giornale, facendo emergere una lattina di birra. Trangugiò un sorso.
«Si prenda pure il tempo che vuole» disse Deluthe. «Ho tutta la giornata a disposizione.» Questo particolare turbò Parris. Evidendemente aveva terminato la sua scorta di birra e doveva uscire al più presto per un rifornimento. «Ho visto le fotografie della scena del delitto. Al suo posto, io non avrei dimenticato niente di quella notte.»
«Giusto, figliolo. Ma la fuga di notizie non fu colpa mia.» Parris osservò la porta d'ingresso socchiusa e alzò la voce, intuendo che Geldorf fosse là fuori, in ascolto. «E puoi dire a quel vecchio bastardo che non ero io di guardia sul pianerottolo, ma il mio collega. È possibile che abbia lasciato entrare qualcuno…» Poi borbottò: «Ma è solo un'ipotesi. Harvey non ha più parlato di quella notte. Abbiamo lavorato insieme per anni e non ne abbiamo mai parlato».
«Mi ascolti bene, Parris: se il suo collega era di guardia alla porta, allora lei è rimasto nell'appartamento tutto il tempo.»
«No, solo qualche minuto. Io ho trovato il corpo. Dio, quell'odore, da svenire. Quando tornai a casa quella notte, me lo sentivo sui vestiti, nei capelli. Lo sento ancora adesso. Mi sembra di vedere gli scarafaggi che si arrampicano sulle mie gambe, e tutte quelle mosche, almeno un milione, Cristo santo.»
«Quindi è uscito, ha chiuso la porta e ha aspettato i detective e la Scientifica?»
«No, figliolo, non è andata così. Non avevo visto che aveva le mani legate. Io e Harvey concordammo che si trattava di suicidio. Come ho detto, sono stato lì solo pochi minuti, e per i suicidi non si scomoda la Scientifica. La centrale si limitò a mandare i detective.»
Deluthe tornò agli appunti del giorno prima. «Non c'era nessun altro sulla scena del delitto?»
«Il fotografo, è arrivato anche lui, ma era soltanto un ragazzo. Era più giovane di me, e io avevo appena ventidue anni. Si è sentito male e ha fatto cadere la macchina fotografica, l'ha rotta. Allora me ne sono fatta prestare una dai vicini, poi mi hanno mandato a comprare dei rullini. Due volte, ci sono andato.»
«Ascolti Parris, il suo collega le riferì della presenza di civili sulla scena mentre lei era via? Il suo collega si chiama Harvey…» Deluthe controllò gli appunti, come se non ricordasse il nome del suo superiore. Riker era stato molto chiaro, nessuno doveva sapere del collegamento tra Loman e quel caso. Indicò una pagina bianca. «Loman, giusto? Harvey Loman. È stato di guardia per tutto il tempo?»
«Sì, anzi no… A pensarci bene, no. Quando sono tornato dal negozio stava all'altra estremità del pianerottolo e discuteva con una signora anziana.» Parris fece una pausa, poi si coprì gli occhi con le mani. «Oh, cazzo!»
Deluthe spostò la matita sul taccuino. «Come dice?»
«C'erano due ragazzini appena fuori dalla porta, un maschio e una femmina. Harvey… Loman non li aveva visti. La porta era aperta per via del tanfo, e quei bambini corsero dentro l'appartamento prima che potessi fermarli. Chissà che incubi avranno avuto. Mi è spiaciuto, ma non avevo…»
«Quindi il suo collega non aveva le cose sotto controllo. Ha sbagliato, e lei non voleva cacciarlo nei guai, giusto? Mi sta ascoltando, Parris?»
La testa di Parris dondolava sul petto, come se non riuscisse più a reggerne il peso. «Geldorf adesso è cattivo, ma allora era anche peggio. Avrebbe inchiodato Harvey al muro se avesse saputo dei bambini. Quel vecchio stronzo si crede Dio. Odio i detective, senza offesa, figliolo…»
«I bambini videro i capelli nella bocca della vittima?»
«Sì, hanno visto tutto. Il corpo non era ancora stato tirato giù, i detective stavano scattando le fotografie.»
La porta si aprì, ma nessuno dei due se ne accorse. Geldorf era in piedi sulla soglia. Sorrideva e Deluthe sapeva perché. Un altro poliziotto aveva sbagliato quella notte, adesso nessuno poteva più dire che era tutta colpa di Geldorf.
Pssst.
Charles Butler studiava i messaggi dell'uomo che seguiva Kennedy Harper. In confronto, quelli lasciati a Natalie Homer erano quasi poetici. Si rivolse a Riker. «Hai detto a Deluthe di chiedere se la porta di Natalie fosse chiusa a chiave quando arrivò la polizia?»
«No, Deluthe non può chiedere una cosa del genere, e spero che Parris non ne parli affatto.» Riker spense il registratore. «Abbiamo la vecchia dichiarazione della padrona di casa, disse che la porta era chiusa a chiave.»
«Sicuramente lo era quando ha chiamato la polizia, ma quando sono arrivati…»
Il detective mise una mano sulla spalla di Charles. «Se la porta non era chiusa a chiave quando è arrivato il primo poliziotto, allora otto milioni di newyorkesi avrebbero potuto avere accesso alla scena del delitto e restringere i sospetti a un fidanzato con le chiavi diventa impossibile. Il procuratore non lo accetterebbe se il caso finisse in tribunale. Capisci il problema?»
Charles annuì. «L'uomo che ha ucciso Natalie Homer l'amava in maniera ossessiva. Le ha spezzato la trachea a mani nude, un atto di passione. Dubito che in seguito ne abbia fatto un'abitudine. A livello emozionale, lo spaventapasseri è all'opposto.» Indicò il rapporto dell'autopsia di Kennedy Harper. «E la data, l'anniversario, fa pensare che l'omicidio sia stato progettato a lungo. L'assassino della Harper è ossessionato dall'atto in sé. Una donna impiccata, le candele, un barattolo di mosche… Lo spaventapasseri prepara il palcoscenico e se ne va. È un uomo freddo, e molto malato.»
«Poniamo di riuscire a evitare un processo…»
«Saggia decisione.»
«Potremmo cercare di ottenere una confessione.»
«Niente di più facile, dovete solo prenderlo. Vi dirà tutto quello che sa. In realtà lo sta già facendo, ma nessuno lo sta a sentire.» Charles prese il sacchetto di plastica con il messaggio macchiato di sangue. Si irrigidì osservando come quella grafia ricordasse quella di Mallory.
«Sei anche calligrafo?» chiese Riker.
«No, mi dispiace. E non sono neppure un esperto di riti vudù.» Charles mostrò a Riker il sacchetto e i solchi sul retro della carta. «Se avesse calcato di più avrebbe strappato il foglio. Credo che questo significhi rabbia e frustrazione.»
«Ha appeso il biglietto al collo di una donna con una spilla da balia, quando lei era viva. Sì, probabilmente era arrabbiato.»
«Ma non lo era con Kennedy Harper. Non credo che si sia posto il problema di far del male a quella donna. Per lui era solo un oggetto, una sorta di bacheca. Ma ritengo che abbia un conto in sospeso con la polizia. Sapeva che sarebbe andata al dipartimento più vicino. Il messaggio era per voi.» Charles si diresse verso la parete dedicata a Sparrow e osservò le foto della donna in coma. «Un taglio recente, opera di un rasoio, sul braccio. Un salto di qualità per il pedinatore, frustrato perché la polizia non aveva ancora recepito il suo messaggio. A proposito, perché Sparrow non ha denunciato quell'aggressione?»
«Per via dei suoi trascorsi da puttana: era sicura che i poliziotti non avrebbero mosso un dito per proteggerla. E aveva ragione.»
Riker offrì una tazza di caffè a Charles che sedeva impacciato a quel piccolo tavolo, progettato per corporature normali. Ma l'uomo aveva chiesto un posto appartato e non esisteva posto più tranquillo di una cella. «Possiamo proseguire a casa tua, se preferisci.»
«No, va tutto bene, davvero.» Charles sorseggiava il caffè fingendo che fosse buono. «Ancora una domanda.»
«Spara.» Il detective girò la sedia e si mise a cavalcioni abbracciando lo schienale di legno. «Tutto quello che vuoi.»
«Mi pare di capire che l'interesse di Louis nei confronti di Mallory sia cominciato prima della notte in cui la portò a casa.»
La pressione sanguigna di Riker ebbe un'impennata. Brillante deduzione, Charles! Una stazione di polizia era il posto migliore per domande così difficili.
«Resterà tra noi?»
«Certo.»
«Una notte, un'assistente sociale arrivò alla stazione di polizia. Lou le doveva un favore, così lei gli chiese di trovare una bambina, una bambina molto speciale. Credo che Kathy avesse nove o dieci anni. Usava le gallerie della metropolitana per muoversi in città, ma raramente saliva su un treno. Quella sera, aveva giocato a rimpiattino in un tunnel con un addetto alle pulizie. Era rimasta sui binari fino a un attimo prima che il treno la travolgesse e solo allora era balzata via…» La teoria di Riker era che quella notte la bambina avesse deciso di morire.
«A quel poveretto per poco non venne un infarto. Era preoccupato che la piccola finisse sul binario elettrificato, così chiamò la polizia, che bloccò il transito. Sei poliziotti non riuscirono ad acchiapparla. A quel punto arrivò l'assistente sociale. Kathy le andò incontro spontaneamente. La donna era alta, bionda…»
«Come la tua amica Sparrow.»
«Sì. Kathy fu felice di andare via con lei. Continuò a stringerle la mano anche mentre compilavano le carte al riformatorio. La piccola fu lavata, nutrita e preparata per la notte. Cinque minuti dopo, non appena l'assistente se ne fu andata, Kathy scappò. Niente signora bionda, niente Kathy. Le guardie non hanno mai capito come abbia fatto a uscire senza farsi notare. E stata l'unica che è riuscita a scappare da quel posto.»
«Forse aveva imparato da Wichita Kid.»
Riker si bloccò. Da quanto tempo la porta era aperta. Da quanto?
Jack Coffey, in piedi sulla soglia, disse: «Ci sono visite».
E poi, come se Charles Butler sapesse quanto fossero pericolosi quei western, continuò: «Mi spiace, davvero».
Quando Riker tornò alla scrivania, un suo vecchio amico lo stava aspettando. Non c'era nulla nell'espressione di Heller che facesse capire se portasse buone o cattive notizie. Era un genio nel mascherare le emozioni. Gli mostrò un biglietto da visita: «Tu conosci questo tizio, vero?».
Riker afferrò il biglietto e lesse il nome ad alta voce: «Warwick libri usati». Gli si chiuse lo stomaco mentre si sedeva. Aveva la bocca secca. «Sì, l'ho interrogato.»
Heller girò lentamente la sedia, guardando verso la finestra. «John Warwick è arrivato mentre ero qui, e Janos me l'ha rifilato. Tutto eccitato, mi sventola il giornale in faccia e farnetica di un libro. Non chiede se l'abbiamo trovato, dice che l'ho trovato io nell'appartamento di Sparrow. Lo rivuole indietro. Pare che la prostituta l'abbia rubato dal suo negozio un'ora prima di essere uccisa.» Si voltò a guardare stancamente la scrivania e il detective. «Warwick dice che puoi garantire per lui perché sei tu che hai raccolto la deposizione.»
«Certo.» Riker si portò l'indice alla tempia, in un gesto che significava che il vecchio era un po' suonato.
«Probabilmente il libro è andato distrutto nell'incendio, ma non l'ho detto a Warwick.»
«Gliel'ho detto io» disse Heller. «E hai ragione, è fuori di testa. È scoppiato a piangere, credo che quel libro fosse importante per lui… e anche per Sparrow.»
«Credo di sì.» Riker ripensò alla propria giacca completamente abbottonata nell'afa della scena del delitto. Heller, un uomo a cui non sfuggiva nulla, sicuramente aveva notato quella stranezza e la macchia umida che si era formata sull'indumento.
Heller diede un'occhiata a un taccuino aperto sul suo tavolo. «Warwick ha detto che il libro s'intitolava Ritorno a casa, l'autore è un certo Jack Swain.» Poi alzò lo sguardo: «Ma credo che tu lo sappia già».
Quell'uomo aveva fatto sospendere più di un poliziotto per aver rubato cianfrusaglie dalla scena del delitto. Se Heller lo avesse sospettato di aver sottratto una prova, la loro ventennale amicizia non lo avrebbe trattenuto dal prendere i provvedimenti necessari.
Si fissarono in silenzio, per troppo tempo.
«Dopo che Warwick se n'è andato,» riprese Heller «sono tornato al laboratorio e ho dato un'occhiata alla cenere e ai frammenti. Alcune riviste erano intatte, ma non c'era traccia del libro. È strano… Di solito, rimane qualcosa almeno del dorso. Posso fare dei test, se vuoi.»
Riker scosse la testa, stava confessando la sua colpevolezza.
Heller annuì, poi strappò il foglio dal taccuino e lo buttò nel cestino. «D'accordo, questo è tutto.» Senza salutare, si alzò dalla sedia e si diresse alla porta.
Riker sapeva che non sarebbe stato radiato perché mancavano le prove, ma l'amicizia con Heller era finita. Ed era esattamente quello che era venuto a dirgli.
Il caffè Regio, a McDougal Street, era pieno di gente che parlava ogni tipo di lingua straniera. Charles Butler esaminò la sala da pranzo affollata, quadri e mobili eclettici. Vide una persona che conosceva a un tavolo d'angolo. Anthony Herman era un folletto, alto poco meno di un metro e mezzo, naso carnoso e orecchie a sventola, quasi perpendicolari alla testa. I capelli castani erano pettinati all'indietro e mettevano in mostra una fronte appuntita, segno palese di stregoneria, anche se la sua vera professione sarebbe stata giudicata noiosa dai più. L'omino si aggiustò il nodo della cravatta rossa cercando di nascondersi dietro un menu, nonostante l'ora di cena fosse passata da un pezzo.
Quando Charles lo raggiunse al tavolo, il commerciante di libri antichi gli passò un pacchetto di carta marrone. «È tutta la collana. Non aprirlo qui.»
Un assegno molto generoso attraversò il tavolo e andò a finire nella tasca di Herman. L'omino si guardava intorno come se tutti i presenti fossero lì per osservare quello scambio, prendere appunti e scattare fotografie compromettenti. La punta dei piedi sfiorava nervosamente il pavimento e le mani tamburellavano sul tavolo. «Se dici ad anima viva che mi sono messo a cercare questa…»
«Mi ucciderai» disse Charles. «Non preoccuparti. La tua reputazione è salva.» Appoggiò il pacco di libri. «Come hai fatto a trovarli così in fretta?»
«Un collezionista» borbottò Herman. «Possiede tutti i western che siano mai stati scritti. Sono dovuto andare fino in Colorado, ecco perché il conto è salato. I libri non mi sono costati nulla, li ho vinti a biliardo giocando contro un cowboy convinto che quella roba fosse arte.»
Mentre Charles si sforzava d'immaginarselo con la stecca da biliardo in mano, Herman continuò: «Quel collezionista ha anche altri libri rari, ma se li vuoi, questa volta vai tu a giocare a biliardo con quello stronzo».
«Immagino che tu non li abbia neppure aperti…» Charles osservò Herman che abbassava lo sguardo. «Oppure mi sbaglio?»
«Solo un'occhiata sull'aereo.» La bocca dell'omino prese una piega disgustata, come per dire Che razza di domande! Charles avrebbe dovuto saperlo, Herman non apprezzava il ciarpame.
Aprì il pacchetto, ignorando le proteste di Herman che lo supplicava di non farlo in un luogo pubblico. Dopo aver sfogliato un capitolo del primo volume, Charles sorrise. Herman evidentemente era un altro avido lettore: la lettura rapida è un talento che accomuna i collezionisti. «Roba leggera, vero? Un sacco di spazi bianchi. Quanto è durato il viaggio, tre o quattro ore?»
«E va bene.» Herman abbassò lo sguardo. «Li ho letti tutti e dodici.»
«Eppure, sicuramente ti eri portato qualcos'altro da leggere…»
«È colpa tua, Charles. Dovevo capire perché li volessi a tutti i costi, e poi mi sono lasciato coinvolgere.»
«Non sono un granché.»
«Lo stile è pessimo, la trama debole. Sono brutti libri, davvero molto brutti.»
«Ma li hai letti tutti?»
«Perché insisti?»
«Che mi dici dell'episodio in cui lo sceriffo sfugge all'imboscata?»
«Oh, quella è la parte migliore.» Il sarcasmo di Herman era sorprendentemente soave, e il sorriso arguto. «No, aspetta! Il meglio comincia con Una capanna ai confini del mondo. Nel libro precedente, Wichita Kid viene morso da un lupo rabbioso. L'animale ha la schiuma alla bocca e tutto il resto…»
«Ma non esisteva un vaccino contro la rabbia all'epoca di Wichita.»
«Lo so» disse Herman, che conosceva la storia, quella con la "S" maiuscola. «Allora la rabbia era una condanna a morte.»
«Dunque è stato curato con un rimedio naturale o qualcosa del genere?» chiese Charles.
Herman sorrideva evasivo. «Sbagliato.»
«So che nell'ultimo libro è ancora vivo, quindi la rabbia non può averlo ucciso…» Charles si allungò sulla sedia e sorrise della propria curiosità, un'altra vittima di Jack Swain.
Poi sparse i libri sul tavolo per avere una visione d'insieme, e studiò le copertine colorate, pistole e cavalli lanciati al galoppo, per l'orrore di Anthony Herman. «Conosco qualcuno che adorava questi libri. Li leggeva e rileggeva. Ora che hai avuto la possibilità di conoscerli, riesci a immaginare il perché?»
«Non saprei…» Herman era allibito. «L'unica ragione per leggere questa robaccia è scoprire che cosa succede nel libro successivo. Ma leggerli più di una volta…»
«Eppure dev'esserci una spiegazione.» Charles impilò i libri, poi guardò Herman. «Allora?»
«Allora,» disse Herman, solenne «forse la spiegazione sta nella redenzione finale di Wichita Kid.»
Riker aveva finito il primo drink mentre leggeva la trascrizione dell'interrogatorio. Quel rapporto esprimeva una cura maniacale per i dettagli, compresi i piedi sporchi di Alan Parris. «È tutto quello che vi siete detti, parola per parola?»
«Sono capace di prendere appunti.» Deluthe sorseggiò la birra, poi, con fare casuale, domandò: «Allora, quante possibilità ho di entrare nella Crimini Speciali?».
«In questo momento? Nessuna. Non hai esperienza, ragazzo.» Solo pochi detective erano promossi al primo grado, e solamente dieci venivano ammessi nella Crimini Speciali. «Non prendiamo reclute alle prime armi. E poi tu hai… venticinque, ventisei anni? Qui siamo tutti sulla quarantina. C'è solo una persona della tua età.»
«E guarda caso Kathy Mallory è figlia dell'ex capo…»
«Sei fuori strada, Deluthe. Mallory è cresciuta alla Crimini Speciali. Quando era ancora alle elementari aveva più esperienza di te in questo momento.»
«D'accordo.» La barista era stata presentata a Ronald Deluthe come ex collega di Riker. Peg Baily riuscì a intromettersi nella conversazione mentre serviva al detective un bicchiere di bourbon. «Quella ragazzina era il nostro tecnico informatico. A quei tempi, avevamo computer scassati di seconda mano. Il più delle volte non funzionavano. Mallory li ha riparati quando non aveva ancora tredici anni.» Peg diede una birra a Deluthe: «Se ti stai chiedendo come abbia raggiunto il primo grado, la risposta è che ha catturato l'assassino di suo padre. Non è da tutti».
Peg Baily si allontanò per riempire un altro bicchiere e Riker finì la storia, soppesando le parole. «Nessuno ha mai messo in dubbio il suo diritto di far parte della Crimini Speciali.» Riker si avvicinò a Deluthe e la sua faccia si distese. Addirittura sorrideva. «Ora, visto che sei il genero del vice procuratore, dovrai fare ancora meglio per meritarti la promozione.»
«E se divorziassi?»
«Sarebbe già qualcosa.» Riker prese alcuni fogli dalla tasca della giacca e li sbatté sul bancone. «Questo è il tuo rapporto sui poliziotti coinvolti nel caso di Natalie Homer. Avevamo già queste informazioni. Mallory le ha scaricate dal computer, le ci sono voluti due minuti.»
«Volevate solo tenermi impegnato.»
Riker ignorò la protesta e allargò i fogli sul bancone. «Non servono a niente, perché sono solo la versione ufficiale. Un'occhiata ai documenti originali sarebbe stata molto più utile. Comunque si può imparare parecchio dalle dichiarazioni ufficiali. Adesso t'insegno a leggere fra le righe.» Mise da parte il primo foglio: «C'erano cinque poliziotti sulla scena del delitto, tre detective e due agenti. Quattro di loro hanno lasciato il distretto contemporaneamente. Un fatto strano».
«L'ho notato» disse Deluthe, sulla difensiva. «Ma non ha niente a che vedere con il delitto. E successo sei anni dopo.»
«Quattro poliziotti che se ne vanno nello stesso mese. Questo vuol dire che l'ufficio Affari Interni li teneva sott'occhio.»
«Non ci sono accuse a loro carico, niente che…»
«Deluthe, questa è una favola. Allora, vuoi la tua storia della buona notte o lasciamo perdere?»
«Come non detto.»
«Bevi, e stai zitto.» Riker seguiva con il dito le righe del testo. «Allora, uno degli agenti in uniforme, Alan Parris, è stato licenziato per insubordinazione. Falso. Bisogna sparare a un sergente per essere cacciati con un'accusa del genere.» Riker voltò pagina. «La settimana prima il suo collega, il tuo capo, Harvey Loman, è stato trasferito a un altro distretto. Questo vuol dire che Loman ha fatto un accordo con gli Affari Interni. In buona sostanza, ha venduto il collega.»
Passò alla pagina successiva. «Qui invece abbiamo un detective che ha dato le dimissioni per andare a lavorare come investigatore privato. Vuoi la verità? L'hanno costretto. Non avevano prove per incastrarlo, e quell'uomo è finito a pulire cessi. E morto alcolizzato, anni fa.»
L'ultima pagina. «E qui c'è un altro detective morto, un suicidio. Quattro su cinque hanno lasciato il dipartimento nello stesso periodo. Quello che si è ucciso, probabilmente, sarebbe finito in carcere. Era l'ultimo della lista, con nessuno da tradire. Se non fosse morto, sarebbe stato il capro espiatorio, l'unico a pagare.»
Naturalmente Riker stava solo raccontando una storia che, a suo tempo, aveva fatto il giro del dipartimento. Non erano brillanti deduzioni. «Il tuo interrogatorio ad Alan Parris ha senso solo sulla carta. I due testimoni, i bambini nel corridoio. Parris non ti ha dato nemmeno un'informazione che ti permetta di rintracciarli. Fumo negli occhi. Anche Parris è sospettato.»
«Ma il profilo dei serial killer dell'FBI…»
«Ecco un'altra bella favola.»
I ricordi di quella sera stavano svanendo a poco a poco dalla mente di Stella. Cercava di scacciare l'immagine della metropolitana invasa da insetti morti e passeggeri impazziti.
Aveva passato un'ora al bar. Sullo sgabello vicino sedeva un turista con indosso una maglietta con lo slogan della città: «Amo New York».
New York fa schifo.
Le bruciava la gola per via delle sigarette fumate e dell'insetticida che aveva respirato nel metrò. Il cervello galleggiava nel rum, il mondo vorticava. Non avrebbe dovuto ordinare tutti quei cocktail. Ma voleva risparmiarsi l'umiliazione di scoppiare a piangere in un locale affollato di turisti. Il rum era più piacevole del Valium, l'aveva aiutata a trattenere le lacrime. Un uomo la strattonò mentre raggiungeva il bagno. Stella si voltò per insultarlo, ma il tipo era già sparito in mezzo alla folla.
Stupidi turisti.
Un altro uomo approfittò di un momento di distrazione per palparle il seno e poi sparì. Stella appoggiò la testa al bancone.
Non devo piangere, non devo piangere.
Non pianse. Prese le chiavi di casa e lasciò il bar. Dopo aver percorso mezzo isolato, notò un uomo con una strana andatura. Marciava come un soldato. No, come un soldatino giocattolo. Movimenti meccanici.
Dopo una svolta a sinistra, l'uomo si fermò sotto un lampione. Fu a quel punto che lo riconobbe. Un borsone grigio. Era il porco che le aveva toccato il seno al bar.
L'uomo girò sui tacchi, e di colpo invertì la direzione di marcia. Stella vide il lampeggiante e fece per raggiungere i due poliziotti impegnati nella perquisizione di un ragazzo appoggiato al cofano della volante. Si voltò per cercare il suo uomo. Lo vide scappare, a passo di marcia. Aveva vinto lei. Una piccola vittoria, da assaporare.
Pochi minuti più tardi apriva la porta di casa, la giacca appoggiata sul braccio. Quella giacca doveva essere magica, per essere sopravvissuta incolume fino alla fine di quella giornata. Aprì la porta d'ingresso e le sembrò di entrare in una serra. Rispetto all'esterno, c'erano almeno dieci gradi in più. Quel monolocale era arredato nello stile tipico degli studenti. Mobili scadenti, recuperati dalla strada un attimo prima che passasse il camion dell'immondizia. Le poche piante erano morte. Persino quelle finte, mai spolverate, avevano preso il colore della morte.
Si sfilò la gonna, che appese all'attaccapanni vicino alla giacca portafortuna. Accese il condizionatore e rimase sotto il getto d'aria fredda mentre si toglieva la camicia. Prima di buttarla sul divano letto, notò una macchia nera sul tessuto, una grossa "X" disegnata con un pennarello a punta spessa.
«Cristo, adoro questa città.»
Perché non se ne andava da New York? Fissò la foto appesa alla parete: la nonna e la mamma le sorrisero. Le due donne nutrivano grandi speranze per lei.
Afferrò la camicia e intanto scuoteva la testa, come se con quel gesto potesse cancellare la "X". Sprofondò nel divano e scoppiò a piangere. Voleva dimenticare quella giornata. Chi aveva marchiato la sua camicia? Qualcuno all'audizione? Poteva essere chiunque fra le persone ammassate nella sala d'attesa. Aveva indossato la giacca prima di salire sul palco, prima di recitare quegli stupidi versi a un regista che non l'aveva degnata di uno sguardo. No, era successo in metropolitana. Magari era stato lo stesso tizio della pioggia di insetti, oppure uno dei clienti del bar. Sì, quel turista che l'aveva strattonata… «Stronzo.» Un altro sospetto, il pervertito che le aveva toccato il seno. «Stronzo numero due.» Afferrò la camicia e la buttò nella spazzatura. Improvvisamente ispirata, decise di fare un po' di pulizia. Si turò il naso prima di affrontare il frigorifero: l'odore di latte rancido le dava la nausea. Sui ripiani era allineato un bel repertorio di schifezze: formaggi ricoperti di muffa e frutta andata a male. Nel congelatore, un inverno artico aveva imprigionato mezzo pacchetto di piselli in un blocco di ghiaccio, conservandolo per le generazioni future. Buttò tutto in un sacchetto di plastica, il primo passo per ricominciare da capo. Domani ci sarebbe stata un'altra audizione, e il suo vestito portafortuna aveva superato indenne una delle giornate peggiori della sua vita.
La "X" sulla camicia era coperta di immondizia, latte cagliato, tappi di bottiglia, carta di caramelle e contenitori di cibo da asporto. Stella non vide il biglietto piegato nella tasca della camicia, perso nel disordine della sua vita. E così non lesse mai il messaggio: «Posso toccarti ogni volta che voglio».