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È vero: Marino fa fatica ad accettare che Kay Scarpetta abbia fatto delle cose con i suoi uomini, e specialmente con Benton.
Guarda fuori. La camera è al secondo piano e dalla finestra non si vede la strada, ma solo il cielo, che è grigio. Si sente piccolo piccolo e prova un infantile desiderio di rintanarsi sotto le coperte, dormire e svegliarsi per scoprire che non è successo niente. Vorrebbe farsi una bella dormita e al suo risveglio ritrovarsi di nuovo a Richmond con Kay, impegnati a risolvere insieme un caso misterioso. Vorrebbe cancellare ieri sera. È strano, ha sognato tante volte di svegliarsi in una camera d’albergo con lei e adesso che sono insieme sta male come un cane. Pensa da dove cominciare, ma l’emozione e la paura hanno il sopravvento e gli manca la voce. Non riesce a parlare.
I suoi sentimenti nei confronti di Kay sono da sempre confusi e contraddittori. Le fantasie erotiche in cui l’ha coinvolta sono molte, spesso eccessive e incredibili, e non vuole che lei ne sappia niente. Non deve assolutamente sapere che la desidera. La speranza, però, è l’ultima a morire e Marino non riesce a parlare perché, se le racconta di ieri sera, allora Kay avrà un’idea di com’è lui a letto e anche l’ultima, più piccola speranza morirà. Confessarle nei particolari il poco che ricorda vorrebbe dire spiegarle com’è fare sesso con lui e quindi rovinare tutto, anche le sue fantasie erotiche, perché a quel punto non riuscirebbe più a fantasticare un accidente. Prende in considerazione l’ipotesi di mentire.
«Partiamo dal bar in cui sei andato con i tuoi amici» dice Kay guardandolo in faccia. «A che ora vi siete visti?»
Okay, di quello può parlare. «Verso le sette» risponde. «Prima ho visto Eise, poi è arrivato Browning. Abbiamo cenato insieme.»
«Dammi i dettagli» insiste lei senza muoversi, continuando a guardarlo. «Che cosa avevi mangiato durante il giorno e cosa hai preso per cena?»
«Allora vuoi che parta da prima ancora? A cosa ti serve sapere che cosa ho mangiato in tutto il giorno?»
«Hai fatto colazione, ieri mattina?» insiste Kay, con la stessa irremovibile pazienza che usa quando ha a che fare con una persona che ha perso tragicamente un suo caro.
«Ho preso un caffè nella mia stanza» risponde Marino.
«E poi hai pranzato?»
«No.»
«Non va per niente bene, ma di questo parleremo un’altra volta» replica lei. «Quindi alle sette, quando ti sei visto con Eise e Browning, eri a stomaco vuoto, perché in tutto il giorno avevi preso soltanto un caffè. Cos’hai bevuto?»
«Un paio di birre. Poi ho mangiato una bistecca con contorno di insalata.»
«Niente patate o pane? Niente carboidrati? E la tua dieta?»
«Be’, evitare i carboidrati è stata l’unica cosa buona che ho fatto ieri sera.»
Kay Scarpetta non dice niente e Marino intuisce che non è d’accordo sul fatto che eliminare i carboidrati sia una cosa buona. Gli risparmia la predica solo perché lo vede afflitto e sconsolato, terrorizzato al pensiero di aver fatto un’enorme sciocchezza e di rischiare una denuncia per stupro. Marino guarda il cielo fuori dalla finestra e immagina che per le strade di Richmond stia girando una volante alla sua ricerca. Magari ad arrestarlo verrà proprio il suo amico Browning.
«E poi?» insiste Kay.
Marino si immagina seduto sul sedile posteriore dell’auto della polizia, in manette. Browning potrebbe evitare di mettergliele, per rispetto, oppure fare finta di niente e rispettare le procedure. Sì, probabilmente lo ammanetterebbe.
«Hai bevuto un paio di birre, hai mangiato una bistecca e un’insalata. E poi?» Kay è implacabile, benché il suo tono sia dolce. «Quante birre, per l’esattezza?»
«Quattro, mi pare.»
«Cerca di dirmi il numero esatto, per favore.»
«Sei.»
«Bottiglie, lattine o alla spina? Medie o piccole? Quanti litri, in poche parole?»
«Sei bottiglie di Budweiser. Ti segnalo che per me non sono tante, le reggo senza problemi. Sei birre per me sono come mezza birra per te.»
«Ne dubito» replica Kay Scarpetta. «Ma lasciamo stare.»
«Non mi fare la predica» borbotta Marino lanciandole un’occhiataccia. E si chiude in un immusonito silenzio.
«Sei birre, una bistecca e un’insalata con Junius Eise e l’ispettore Browning, a partire dalle diciannove. Quando hai saputo che in giro si mormorava di un mio possibile rientro a Richmond? Mentre cenavate?»
«Non tirare conclusioni affrettate» replica Marino imbronciato.
Eise e Browning erano seduti di fronte a lui nel séparé, sul tavolo brillava una candela in una boccia di vetro rossa, bevevano birra. Eise gli ha chiesto che cosa pensava di Kay Scarpetta, in tutta sincerità. È davvero così brava come si dice? Marino risponde che sì, è una donna eccezionale, e che non si dà arie per niente. Non ricorda benissimo la situazione, ma sa come si è sentito quando Browning e Eise hanno cominciato a parlare di lei e gli hanno detto che stavano per ridarle il posto di direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia. Marino non ne sapeva niente, lei non aveva mai neppure accennato alla cosa. Si è sentito offeso, umiliato.
Eise poi ha detto che la trovava una bella donna, con due gran belle tette. È a questo punto che Marino ha ordinato un bourbon. Eise sorrideva e diceva che gli sarebbe piaciuto vederla senza camice. “Tu che ci lavori assieme da tanto, probabilmente non ci fai manco più caso” gli ha detto. Browning ha replicato che lui non l’aveva mai vista, che la conosceva soltanto di fama. Ma anche lui sorrideva.
Marino non aveva niente da dire, perciò si è scolato il suo primo bourbon e ne ha ordinato un altro. Il pensiero che Eise volesse portarsi a letto Kay Scarpetta lo mandava in bestia, gli faceva venire voglia di prendere a schiaffi tutti quanti. Ma si è trattenuto, è rimasto lì bravo e zitto, si è scolato un altro bourbon e ha cercato di non pensare a Kay che si toglie il camice e lo appende ordinatamente sulla sedia o all’attaccapanni dietro la porta del suo ufficio. Ha cercato di non pensare a quando sulla scena di qualche crimine si toglie la giacca, si sbottona i polsini della camicia, si rimbocca le maniche e si mette al lavoro. Kay Scarpetta è una donna disinvolta ed è pudica, non si rende nemmeno conto di quanto è bella e di come la guardano gli uomini quando si toglie il camice o la giacca, perché si concentra sul lavoro, non ci pensa. Si concentra sui morti, e i morti non guardano. Solo che Marino non è morto, è vivo e vegeto e ha gli occhi per guardare. Forse lei lo considera alla pari dei morti.
«Te lo ripeto, non ho in programma di tornare a Richmond» ribadisce Kay dalla poltrona, gambe accavallate, calzoni macchiati di fango, scarpe talmente sporche che non si capisce nemmeno più di che colore sono. «E comunque sai benissimo che se avessi in programma una cosa simile te ne parlerei, no?»
«Non si sa mai» replica lui.
«Lo sai benissimo, invece.»
«Io qui non torno. Specie dopo quello che è successo ieri.»
Bussano alla porta e a Marino va il cuore in gola al pensiero della polizia, di Browning e delle manette. Quando sente la voce del cameriere, tira un sospiro di sollievo.
«Vado io» dice Kay.
Marino resta seduto sul letto e la segue con gli occhi mentre attraversa la stanza e va ad aprire. Se fosse sola, se lui non ci fosse, probabilmente controllerebbe dallo spioncino che sia veramente il cameriere, ma siccome c’è lui, con la sua Colt .280 semiautomatica nella fondina alla caviglia, non si preoccupa. Non ci sarà bisogno di sparare a nessuno, pensa Marino, che pure avrebbe voglia di fare a botte. Sì, non gli dispiacerebbe prendere a pugni qualcuno, spaccargli la faccia.
«Tutto bene?» chiede il giovanotto in livrea entrando con il carrello.
«Sì, grazie» risponde Kay tirando fuori dalla tasca dei calzoni una banconota da dieci dollari ordinatamente piegata. «Lasci pure lì. Grazie.» Gli mette in mano la banconota.
«Grazie, signora. Buona giornata.» Il cameriere esce e chiude la porta.
Marino resta immobile e continua a guardare Kay che prende il porridge, ci mette dentro il burro, lo mischia bene e aggiunge un po’ di sale, poi apre un’altra confezione di burro, lo spalma sul bagel e versa due tazze di tè. Marino vede che sul carrello non c’è zuccheriera.
«Ecco qua» gli dice Kay posando il porridge e una tazza di tè sul comodino. «Mangia qualcosa.» Torna al carrello, prende il bagel e glielo porta. «Più mangi, meglio è. Magari ti torna pure la memoria.»
Marino si sente male alla sola vista del porridge, ma lo prende in mano comunque. Quando vi immerge il cucchiaino gli torna in mente lei che passa l’abbassalingua per terra, nel cantiere, e gli viene di nuovo nausea. Prova disgusto e rimorso: se almeno fosse stato troppo ubriaco e non fosse riuscito a… Invece no, a questo punto ne è quasi sicuro: lo ha fatto.
«Non riesco a mangiare» dichiara.
«Prova a buttarne giù un boccone» insiste Kay, seduta dritta in poltrona come un giudice, guardandolo negli occhi.
Marino assaggia il porridge e si sorprende di trovarlo buono. È piacevole, saporito, gli scalda lo stomaco. Lo finisce e attacca il bagel. Mangia, sentendosi addosso lo sguardo di Kay, che lo osserva senza parlare. Sa benissimo perché sta zitta e lo fissa. Non le ha ancora detto la verità. Non le ha rivelato i particolari che distruggerebbero anche l’ultima speranza. Se li saprà, non starà mai con lui. Al solo pensiero, non riesce più a masticare.
«Ti senti un pochino meglio?» chiede Kay. «Bevi il tè» gli suggerisce. È veramente come un giudice, seduta lì sotto la finestra grigia, vestita di scuro. «Finisci il bagel e bevi almeno una tazza di tè. Sei disidratato e hai bisogno di calorie. Ho dell’Advil, se vuoi.»
«Sì, grazie» risponde lui, masticando.
Kay prende un flacone di pillole dalla borsa di nylon nera. Marino finisce di masticare, beve un sorso di tè e la guarda che si avvicina, apre il flacone con il tappo di sicurezza e gli posa due pillole nel palmo della mano. Ha mani agili e forti, piccolissime in confronto alle sue, che sono grosse e ruvide, mentre lei ha la pelle vellutata.
«Grazie» le dice.
Kay torna a sedersi. Starà lì un mese, se necessario. E forse dovrei lasciarcela stare, pensa Marino. Non se ne andrà, se non le dico tutto. Vorrei che la piantasse di guardarmi a quel modo.
«Ti è tornata la memoria?» gli domanda.
«Credo di aver rimosso tutto. Succede, sai?» replica, finendo il tè per buttare giù le pillole.
«Succede di rimuovere tutto, succede di ritrovare piano piano la memoria e succede di far fatica a parlare di certe cose. Dunque: eri con Eise e Browning e sei passato dalla birra al bourbon. Che ore erano?»
«Le nove e mezzo, le dieci. Mi è squillato il cellulare. Era Suz, sconvolta. Mi ha detto che aveva bisogno di parlare e mi ha chiesto di andare a casa sua.» Si interrompe per vedere la sua reazione, ma Kay rimane imperturbabile.
«Vai avanti.»
«So a cosa stai pensando. Stai pensando che non ci sarei dovuto andare, visto che avevo bevuto.»
«Non ti preoccupare di quello che penso io» replica lei dalla sua poltrona.
«Mi sentivo benissimo.»
«Quanto avevi bevuto?»
«Un po’ di birra e un paio di bourbon.»
«Un paio?»
«Non più di tre.»
«Sei birre equivalgono a 120 grammi di alcol puro. Tre bourbon sono altri 100 grammi, più o meno. Dipende dalla generosità del barista» calcola Kay Scarpetta. «Diciamo che hai assunto 220 grammi di alcol nell’arco di tre ore e che ne hai metabolizzati 20, 25 grammi all’ora: vuol dire che ne avevi in corpo almeno 155, quando sei uscito dal bar.»
«Cazzarola» esclama Marino. «Avrei fatto volentieri a meno di questi calcoli. Mi sentivo benissimo, te l’assicuro.»
«Reggi bene l’alcol, okay. Ma legalmente eri ubriaco» rimarca lei. «Se ti fossi messo alla guida di un mezzo avresti rischiato l’arresto. Immagino che tu sia arrivato a casa Paulsson senza problemi, comunque. A che ora?»
«Le dieci e mezzo, più o meno. Ma non è che guardassi l’orologio ogni cinque minuti.» La fissa, tetro, appoggiandosi ai cuscini. Sta per arrivare alla parte peggiore, e ha una voglia matta di scappare.
«Ti ascolto» dice Kay Scarpetta. «Come ti senti? Vuoi qualcos’altro? Ti verso ancora un po’ di tè?»
Marino fa di no con la testa e si accerta di aver inghiottito bene le pillole, preoccupato che gli restino nell’esofago e gli provochino un’ulcera. Come se non fosse già abbastanza malmesso.
«Ti sta passando il mal di testa?»
«Sei mai andata dallo strizzacervelli?» le chiede di punto in bianco. «Perché è così che mi sento. Come se fossi dallo strizzacervelli. Dico così per dire perché non ci sono mai stato, ma immagino che ci si senta come mi sento io adesso. Tu che cosa ne pensi?» Non sa nemmeno perché l’ha detto, gli è venuto istintivo. La guarda, arrabbiato e disperato. Farebbe qualsiasi cosa, pur di non affrontare la parte peggiore.
«Non voglio parlare di me» replica Kay Scarpetta. «Non sono uno strizzacervelli, lo sai benissimo. Non siamo qui per capire le motivazioni profonde di quel che hai fatto o non hai fatto, ma che cosa hai fatto e quali possono essere le conseguenze. Freud non c’entra niente.»
«Lo so. So che cosa dobbiamo capire e perché. Il problema è che non so che cosa è successo. Non lo so veramente, capo» mente.
«Torniamo a dove ci siamo interrotti. Sei andato a casa sua. Come ci sei andato? Non avevi la macchina.»
«In taxi.»
«Hai la ricevuta?»
«Forse. Nella tasca della giacca.»
«Speriamo che tu l’abbia tenuta.»
«Dovrei avercela.»
«Dopo guardiamo. Che cosa è successo a quel punto?»
«Sono sceso dal taxi e ho suonato il campanello. Lei è venuta alla porta e mi ha aperto.» La parte peggiore, la più oscura, incombe come un cielo coperto di nuvoloni plumbei e forieri di tempesta. Marino respira profondamente, con la testa che gli pulsa.
«Stai tranquillo, Marino, con me puoi parlare» lo rassicura lei. «Cerchiamo solo di capire che cosa è successo esattamente. Non mi interessa altro.»
«Suzanna… aveva un paio di anfibi neri, di pelle, con la suola rinforzata. Militari, da paracadutista. E una maglia mimetica.» Si sente risucchiare in un vortice pericoloso. «Nient’altro. Io sono rimasto stupefatto, te lo puoi immaginare. Non capivo perché si fosse vestita così. Non pensavo che avesse delle idee… tutt’altro. Invece ha chiuso la porta e mi ha messo subito le mani addosso.»
«Dove?»
«Mi ha detto che le ero piaciuto dal primo momento che mi aveva visto» spiega, abbellendo lievemente le parole di Suzanna, ma non tanto perché il senso delle sue parole era quello: voleva stare con lui, lo desiderava da quel pomeriggio, quando lui era andato con Kay Scarpetta a casa sua per parlare di Gilly.
«E ti ha messo le mani addosso. Dove? In che parte del corpo?»
«In tasca. Mi ha infilato le mani nelle tasche dei pantaloni.»
«Davanti o dietro?»
«Davanti.» Abbassa gli occhi e sbatte le palpebre guardandosi le tasche dei pantaloni neri.
«Quelli che hai su adesso?» domanda Kay Scarpetta, sempre guardandolo in faccia.
«Sì. Non ho avuto il tempo di cambiarmi, stamattina. Non sono nemmeno tornato in albergo, non c’era tempo. Ho preso un taxi e sono venuto direttamente all’istituto.»
«Va bene, a questo arriveremo poi» replica Kay. «Ti ha messo le mani in tasca. E dopo?»
«Perché vuoi sapere tutto?»
«Lo sai benissimo» risponde lei con il tono calmo e pacato di sempre, continuando a fissarlo.
Marino ripensa a Suz che gli infilava le mani nelle tasche e lo attirava a sé ridendo, dicendogli che era un bell’uomo, e chiudeva la porta con un calcio. Gli sale nella mente la stessa nebbia che avvolgeva la città quando lui era sul taxi diretto a casa sua, consapevole di andare verso l’ignoto ma desideroso di andarci. Ripensa a Suz che lo accompagna nel salotto, con le mani nelle sue tasche, ridendo, con addosso soltanto una maglietta mimetica e anfibi militari, e poi lo abbraccia, morbida, sensuale, strusciandoglisi contro.
«È andata in cucina a prendere una bottiglia di bourbon e ha riempito due bicchieri» dice. Sente la propria voce, ma non vede niente. È in una specie di trance. «Io le ho detto che avevo già bevuto abbastanza. Cioè, forse non gliel’ho detto, perché ero un tantino sottosopra. Non so cosa dirti, è la verità: ero sottosopra. Le ho chiesto come mai si era vestita così e lei mi ha risposto che a Frank piaceva, che la faceva sempre vestire così. Che facevano tanti giochetti.»
«E Gilly era in casa, quando facevano questi “giochetti”?»
«Come, scusa?»
«Non importa, ci arriviamo dopo. Che tipo di “giochetti”?»
«Erotici.»
«Voleva farli anche con te?» domanda lei.
La camera è buia e Marino sente il peso dell’oscurità, non riesce a visualizzare quello che ha fatto perché è insopportabile e l’unica cosa cui riesce a pensare mentre cerca di essere il più sincero possibile è che non c’è più speranza. Kay, una volta saputo che cosa è successo, non starà mai con lui, e lui dovrà abbandonare ogni speranza. Sapendo come sarebbe farlo con lui, Kay non si lascerà mai tentare.
«È importante, Marino» gli dice a bassa voce. «Parlamene.»
Marino deglutisce, e gli pare di avere le pillole ferme nel gargarozzo, che non vanno né su né giù. Avrebbe voglia di bere un’altra tazza di tè, ma non riesce a muoversi. Kay Scarpetta è seduta diritta, non scomoda ma con l’aria determinata, le mani posate sui braccioli. Ha il tailleur sporco di fango. È attenta ma rilassata, e non lo perde di vista un secondo.
«Voleva che la inseguissi» inizia Marino. «Io ho bevuto un altro bourbon e le ho chiesto che cosa intendeva. Lei mi ha detto che dovevo andare in camera sua, nascondermi dietro la porta, aspettare cinque minuti e poi andarla a cercare. Cinque minuti esatti, mi ha raccomandato. Dovevo cercarla come per… come se avessi voluto ucciderla. Le ho detto di no, che non mi andava bene. No, questo forse non gliel’ho detto.» Emette un respiro profondo. «L’ho pensato, ma non credo di averglielo detto, perché ero sottosopra.»
«Che ore erano?»
«Non saprei. Ero lì da un’oretta, penso.»
«Ti ha infilato le mani nelle tasche appena sei entrato in casa, verso le dieci e mezzo, e ti ha proposto il giochetto un’ora dopo? Che cosa avete fatto nel frattempo?»
«Abbiamo bevuto. In salotto, seduti sul divano.» Non la guarda, non ne ha il coraggio. Non riuscirà mai più a guardarla negli occhi.
«Con le luci accese o spente? E le tende erano aperte o chiuse?»
«C’era il caminetto acceso e le luci erano spente. Le tende non mi ricordo se erano aperte o chiuse.» Ci riflette un attimo. «Chiuse.»
«Che cosa avete fatto sul divano?»
«Abbiamo parlato. E ci siamo un po’ baciati, immagino.»
«Non immaginare, dimmi com’è andata. Cosa vuol dire che vi siete “un po’” baciati?» chiede Kay. «Sii più specifico. Eravate vestiti o spogliati? Avete avuto un rapporto sessuale orale?»
Marino si sente avvampare. «No, no. Ci siamo baciati, normalmente, ci siamo accarezzati un po’. Insomma, i soliti preliminari. Eravamo lì sul divano e lei esce fuori con la storia del giochetto.» È paonazzo. Sa che Kay lo vede avvampare e si rifiuta di guardarla.
Le luci erano spente e il bagliore del fuoco nel camino giocava sul corpo di Suz. Quando lei ha cominciato ad accarezzarlo, gli ha fatto un po’ male e un po’ piacere, poi solo male. Le ha detto di fare piano, che gli faceva male, ma lei è scoppiata a ridere e gli ha risposto che a lei piaceva farlo così, rude, selvaggio. Non voleva morderla? E lui le ha detto che no, non voleva morderla, non gli piaceva. Vedrai che ti piace, ha insistito lei, non sai che cosa ti perdi se non l’hai mai fatto così, rude, selvaggio. E intanto luce e ombra giocavano sulla sua pelle, e lui cercava di tenerle la bocca occupata, e accavallava le gambe per difendersi, perché lei gli faceva male. “Ma allora non sei un vero uomo!” gli diceva, cercando di farlo sdraiare sul divano e di fargli vincere i suoi timori. Lui le guardava i bei denti, bianchi e tremava sempre di più.
«Il giochetto è incominciato sul divano?» domanda Kay Scarpetta dalla sua poltrona.
«Abbiamo iniziato a parlarne lì. Poi mi sono alzato in piedi e lei mi ha accompagnato in camera sua, mi ha detto di stare fermo dietro la porta e di aspettare cinque minuti.»
«Continuava a offrirti da bere?»
«Forse sì. Mi sembra che mi abbia versato un bicchierino.»
«Ti sembra solo? Cerca di ricordare. Un bicchierino o un bicchierone?»
«Quella donna esagera, qualsiasi cosa faccia. Direi che mi ha offerto tre bourbon molto generosi, prima di portarmi in camera sua e farmi nascondere dietro la porta. Da lì in poi, non ricordo veramente più niente» dice. «Da lì in poi, la nebbia si fa fitta. E forse è una fortuna.»
«No, non è una fortuna. Sforzati di ricordare. Dobbiamo sapere che cosa è successo. Voglio soltanto accertare i fatti, non me ne frega niente del perché. Marino, credimi, non mi puoi dire niente che io non abbia già visto o sentito. Tieni presente che non mi turbo facilmente.»
«Lo so benissimo, capo. Forse sono io che mi turbo. Credevo di essere disinibito e invece non lo sono. Mi ricordo che ho guardato l’orologio e non riuscivo a leggere l’ora. Mi è calata la vista, d’accordo, ma vedevo anche doppio. E poi ero agitato, agitatissimo. Non so come ho fatto a stare al gioco, davvero.»
Sudato marcio, ha cercato di capire che ore erano e, non riuscendo a leggere l’orologio, ha iniziato a contare fino a sessanta, ma perdeva continuamente il filo e doveva ricominciare daccapo. A un certo punto ha deciso che cinque minuti erano passati di sicuro. In preda a un’eccitazione mai provata con nessuna donna, è uscito dal suo nascondiglio dietro la porta e si è reso conto che la casa era buia. Non vedeva più in là del proprio naso, gli toccava andare a tastoni. A un certo punto gli è venuto in mente che lui non sentiva lei, ma lei sentiva lui e, ubriaco, affannato e agitatissimo, si è reso conto che oltre all’eccitazione provava anche paura. Non vuole ammettere con Kay Scarpetta di aver avuto paura. A un tratto ha perso l’equilibrio e si è ritrovato lungo disteso per terra. Non sa quanto tempo è rimasto lì. Forse a un certo punto si è addirittura addormentato.
Quando si è svegliato, la pistola non c’era più. Aveva il cuore in gola e il respiro corto, era lungo disteso sul parquet, sudato, le orecchie tese a captare dov’era il nemico. Il buio era così profondo che sembrava spesso, vellutato, come una coperta nera sopra di lui. Si sentiva soffocare. Ha tentato di alzarsi in piedi senza far rumore, senza farsi scoprire. Il nemico era in agguato e lui era senza pistola. Ha cominciato ad avanzare tastoni, con le orecchie tese, pronto a colpire: se lui non l’avesse colto di sorpresa, il nemico l’avrebbe ammazzato.
Si è mosso lentamente come un gatto, concentrato sul nemico, cercando di farsi venire in mente come mai era lì, con chi era e con chi ce l’aveva. Possibile che fosse da solo, senza rinforzi? O quelli che erano con lui erano già morti tutti? Possibile che fosse l’unico vivo? Stava per morire, se lo sentiva, perché la sua pistola non c’era più, e nemmeno la radio, chissà dove diavolo erano finite. Poi si è sentito colpire, è svenuto, un drappo nero gli ha coperto gli occhi, la testa, togliendogli il respiro. Ha sentito male, un dolore bruciante, mentre l’oscurità lo avvolgeva e lo stringeva e ansimava in maniera spaventosa.
«Non so che cosa è successo dopo» dice, sorprendendosi di avere una voce tranquilla, visto che si sente sull’orlo della pazzia. «Non so più niente. Mi sono risvegliato nel letto.»
«Vestito?»
«No.»
«Dov’erano i tuoi vestiti, la tua roba?»
«Su una sedia.»
«Su una sedia? Piegati e ordinati?»
«Sì, abbastanza. C’erano i vestiti e sopra la pistola. Mi sono tirato su a sedere nel letto e ho visto che non c’era nessuno» racconta.
«L’altra parte del letto era disfatta? Ci aveva dormito qualcuno o no?»
«Era tutto un gran casino, un groviglio di lenzuola. Ma non c’era nessuno. Mi sono guardato intorno e non sapevo più dov’ero. Poi mi è venuto in mente che avevo preso un taxi per andare a casa di Suz Paulsson e che lei mi aveva aperto là porta vestita a quel modo. Ho visto un bicchierino di bourbon sul comodino dalla mia parte e un asciugamano sporco di sangue. Mi è venuto un colpo. Ho cercato di alzarmi, ma non ci riuscivo. Non riuscivo a muovermi.»
Si rende conto di avere la tazza piena e sta male al pensiero di non essersi accorto che Kay Scarpetta si è alzata a versargli dell’altro tè. O è stato lui a riempirsi di nuovo la tazza? Non crede. Gli pare di non essersi mosso. Guarda l’orologio: sono passate più di tre ore da quando è rientrato in albergo con Kay Scarpetta.
«È possibile che ti abbia messo qualcosa nel bourbon?» gli domanda. «Non credo che riusciremmo ad accertarlo con un’analisi, purtroppo: ormai è passato troppo tempo. Dipende da cosa ti ci ha messo.»
«Per fare un esame tossicologico, tanto vale chiamare subito la polizia. Sempre che non l’abbia già fatto lei.»
«Parlami dell’asciugamano sporco di sangue. Com’era?»
«Non so di chi fosse il sangue, forse mio. Avevo male alla bocca.» Se la tocca. «Un male terribile. Ho capito che a lei piace il sesso rude, ma devo dire che… Cioè, non so che cosa le ho fatto io, perché non l’ho vista, era nel bagno. L’ho chiamata per capire dov’era e lei si è messa a urlare e mi ha detto che me ne dovevo andare via subito, che l’avevo… Insomma, un sacco di brutte cose.»
«Immagino che tu non abbia pensato di portarti via l’asciugamano.»
«C’è voluta tutta che chiamassi un taxi e portassi via le chiappe. Per la verità, non ricordo neppure di averlo chiamato, ma visto che poi sono arrivato all’istituto… Comunque no, l’asciugamano non l’ho preso.»
«Sei venuto direttamente all’istituto?» Kay Scarpetta aggrotta la fronte perplessa.
«Mi sono fermato a prendere un caffè a un Seven-Eleven e ho chiesto al tassista di lasciarmi a un paio di isolati di distanza in maniera da poter fare due passi e schiarirmi le idee. Un po’ mi ha snebbiato, ma… cioè, mi sentivo lievemente meglio, ma quando sono entrato e l’ho vista, mi è venuto un colpo.»
«Hai controllato i messaggi sul tuo cellulare, prima di venire all’istituto?»
«Può darsi, non mi ricordo.»
«Immagino di sì, altrimenti non avresti saputo della riunione.»
«No, che c’era la riunione lo sapevo da ieri» replica Marino. «Eise al bar mi ha raccontato di aver scritto un’e-mail a Marcus, dandogli delle informazioni importanti.» Si sforza di ricordare. «Sì, ecco com’è andata. Appena ha letto l’e-mail, Marcus gli ha telefonato dicendogli che avrebbe indetto una riunione per stamattina, raccomandandogli di essere in istituto in maniera che, se avesse avuto bisogno di lui, potesse convocarlo perché spiegasse lui la situazione.»
«Dunque tu sapevi della riunione già da ieri sera» conclude Kay Scarpetta.
«Sì. Eise me l’ha accennato e mi ha fatto capire che tu ci saresti stata. Quindi ho pensato che avrei dovuto presenziare anch’io.»
«Sapevi che era alle nove e mezzo?»
«Evidentemente sì. Mi dispiace, sono annebbiato, non ricordo bene. Comunque sì, della riunione ero già al corrente.» La guarda, cercando di capire che cosa ha in testa. «Perché? Qual è il problema?»
«Marcus mi ha parlato della riunione soltanto alle nove di stamattina» risponde lei.
«Ti tiene sulla corda, cerca di darti meno spazio che può» conclude Marino, pensando che il dottor Marcus è un essere spregevole. «Senti, saliamo sul primo aereo e torniamocene in Florida. Lasciamolo nella merda.»
«Stamattina all’istituto la Paulsson ti ha parlato?»
«Mi ha visto e ha tirato dritto. Ha fatto finta di non conoscermi. Non capisco niente, capo. So solo che è successo qualcosa che sarebbe stato meglio non succedesse e ho paura che sia una cosa talmente tremenda che la pagherò carissima. Ho fatto tante stronzate nella vita, ma ho paura che questa sia la peggiore.»
Kay Scarpetta si alza lentamente dalla poltrona. Ha l’aria stanca, ma attenta e concentrata. Marino intuisce che è preoccupata e che sta riflettendo. Probabilmente vede le cose in maniera diversa da lui. Guarda meditabonda dalla finestra, si avvicina al carrello e si versa l’ultima goccia di tè nella tazza.
«Ti ha fatto male, vero? Ti ha lasciato dei segni?» chiede, in piedi accanto al letto, guardandolo fisso. «Fammeli vedere.»
«Non ci penso nemmeno! No, no, non posso» risponde lui lamentoso, come fosse un bambino di dieci anni. «Scordatelo. Non se ne parla neanche.»
«Vuoi che ti aiuti, sì o no? Non pensi che nella mia vita ne abbia già viste di tutti i colori?»
Marino si copre il viso con le mani. «Non posso.»
«Allora chiama la polizia, così ti portano in centrale, ti fotografano le lesioni e aprono un’inchiesta. È questo che vuoi? Non è una cattiva idea, tenuto conto del fatto che la Paulsson potrebbe averti preceduto. Ma io non credo che si sia rivolta alla polizia.»
Marino abbassa le mani e la guarda. «Perché?»
«Perché non lo credo? Molto semplice. Tutti sanno che sei alloggiato qui. Browning sa in che albergo stai e conosce tutti i tuoi numeri di telefono. Come mai non è venuto nessuno ad arrestarti? Non pensi che avrebbero fatto qualcosa, se la mamma di Gilly Paulsson avesse chiamato il 911 dicendo che tu l’avevi violentata? E perché non si è messa a gridare, quando ti ha visto in istituto, stamattina? Incontri uno che la sera prima ti ha stuprato e tiri dritto come se niente fosse?»
«Io la polizia non la chiamo» dichiara fermamente Marino.
«Infatti. Quindi fai vedere a me i segni che ti ha lasciato.» Va verso la poltrona, prende la borsa di nylon nera, la apre e tira fuori una fotocamera digitale.
«Cristo!» esclama Marino, come se Kay Scarpetta gli stesse puntando contro una pistola, anziché una macchina fotografica.
«Secondo me, la vittima sei tu» dice Kay. «Anche se lei vuole farti credere il contrario. Perché?»
«Cosa cazzo ne so io? Senti, no, lascia perdere.»
«Marino, sei ancora annebbiato dopo tutto l’alcol che hai ingurgitato ieri sera, ma non sei uno stupido.»
La guarda, poi abbassa gli occhi sulla macchina fotografica. Kay Scarpetta, al centro della stanza, con il tailleur schizzato di fango, lo guarda negli occhi.
«Ci stiamo occupando della morte di sua figlia, Marino. È chiaro che ha in mente qualcosa: un risarcimento in denaro, attenzioni particolari o non so cosa. Ma lo scoprirò, stanne pure certo. Togliti la maglia, i pantaloni e tutto quello che devi: voglio vedere che cosa ti ha fatto quella donna ieri sera nel corso dei suoi “giochetti” erotici.»
«Che cosa penserai poi di me?» domanda lui, togliendosi lentamente la polo, attento a non sfregare la stoffa sulle abrasioni, sui morsi e sui succhiotti.
«Dio santissimo! Stai un attimo fermo, per favore. Maledizione, perché non me li hai fatti vedere subito? Guarda che ti devi disinfettare, se non vuoi che ti venga un’infezione. E ti preoccupi che quella chiami la polizia? Ma sei matto?» Mentre parla, scatta una serie di fotografie.
«Il problema è che non so che cosa le ho fatto io» replica Marino, un po’ più calmo perché la reazione di Kay non è stata brutta come pensava.
«Se le avessi fatto la metà di quello che ha fatto lei a te, ti farebbero male i denti.»
Marino si concentra sui propri denti, ma non sente niente. Non gli fanno male.
«Fammi vedere la schiena» dice Kay.
«La schiena non mi fa male.»
«Piegati in avanti e fammela vedere lo stesso.»
Marino ubbidisce e la sente spostare delicatamente i cuscini. Poi sente le sue dita calde sulle scapole, le sue mani sulla pelle nuda che lo spingono con dolcezza in avanti. Cerca di ricordare se è la prima volta che Kay Scarpetta gli tocca la schiena con le mani nude e decide che sì, non è mai successo prima: altrimenti se lo ricorderebbe.
«Ai genitali ti ha fatto male?» gli domanda, come se niente fosse. Siccome lui non risponde, dice: «Marino, ti ha fatto male anche ai genitali? C’è qualcos’altro che devo fotografare, o peggio ancora disinfettare? Vogliamo fare finta che io non sappia che sei provvisto di organi genitali come il resto della popolazione maschile su questa terra? Senti, è evidente che ti ha fatto male anche ai genitali, altrimenti mi avresti risposto di no e l’avremmo finita lì. Dico bene?»
«Dici bene» borbotta lui, coprendosi il pube con le mani. «Sì, mi ha fatto male. Ma penso che tu abbia raccolto già abbastanza prove del fatto che Suz Paulsson mi ha procurato delle lesioni, indipendentemente dal fatto che io ne abbia procurato a lei.»
Kay Scarpetta si siede sul bordo del letto, a meno di un metro da lui, e lo guarda fisso negli occhi. «Preferisci dirmelo a parole, in che stato ti ha ridotto? Descrivimelo, così poi decidiamo se è il caso che ti tiri giù i pantaloni.»
«Mi ha morsicato dappertutto. Ho dei lividi.»
«Sono un medico» gli ricorda Kay.
«Lo so, capo. Ma non sei il mio medico.»
«Se tu morissi, lo sarei. Se ti avesse ammazzato, credi che non avrei voluto vedere come ti aveva ridotto? Per fortuna non sei morto, ma hai subito delle violenze, che ti hanno lasciato gli stessi segni che avrei visto se alla fine lei ti avesse anche ammazzato. Mi rendo conto che è un discorso assurdo: suona ridicolo persino a me che te lo sto facendo. Ma vorrei che mi facessi vedere le lesioni che quella donna ti ha procurato, in maniera che io possa decidere se è il caso di curarle o di fotografarle.»
«Curarle? E come?»
«Probabilmente basterà un po’ di Betadine. Scendo a comprarne una boccetta in farmacia.»
Marino cerca di immaginare che reazione avrà Kay, se lo vedrà. Non glielo ha mai visto, non ha la minima idea di come sia. Probabilmente non è né superiore alla norma né inferiore alla norma, e se è nella norma va bene, ma forse lei è abituata a qualcosa di diverso, si aspetta qualcosa di diverso. Meglio evitare, insomma. Poi, però, gli viene in mente la polizia, si immagina già seduto in manette sulla volante, fotografato da un agente in una cella, al banco degli imputati… Si abbassa la zip dei pantaloni.
«Ti avverto che, se ti metti a ridere, io non ti rivolgo più la parola» dice. È paonazzo, sudato. Il sudore gli fa bruciare le ferite.
«Povero Marino!» esclama Kay Scarpetta. «Quella donna è una psicopatica.»