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PARTE PRIMA

Ah, Dieu! Que la guerre est jolie avec ses chants ses longs loisirs.

Ah, Dio, com’è bella la guerra con i suoi canti e i suoi lunghi ozi.

Guillaume Apollinaire, Calligrammi

1

Hormuz, agosto 2002

Quando era stata varata, nel 1973, la Emerald Light, una VLCC, Very Large Crude Vessel, era un vero gioiello della più elevata tecnologia, una petroliera capace di caricare circa trecentomila tonnellate di greggio, riducendo così gli iperbolici costi di trasporto derivanti dalla forzata circumnavigazione dell’Africa. La prima conseguenza della guerra tra Egitto e Israele era stata, infatti, la chiusura del canale di Suez.

Con il passare degli anni, con il mutare degli equilibri nel Medio Oriente, e soprattutto con la riapertura del canale, quei colossi d’acciaio erano stati prossimi al disarmo e alla rottamazione, poi alcuni avevano ammainato la bandiera dèlia Major Oil Company americana a cui erano appartenuti e avevano issato il vessillo di qualche paese produttore. Per questi Stati, infatti, riuscire a esportare la maggior quantità di greggio possibile equivaleva a un maggior introito.

L’opera viva della Emerald Light in origine era di un colore verde scuro, ora interrotto da vaste chiazze scrostate, indotte dall’ossidazione.

Il vecchio logo della Chevron Oil Company si intravedeva ancora sul fumaiolo, appena nascosto da una mano di vernice di colore giallo. Sotto la scritta recante il nome della nave, sia a prora che a poppa, troneggiava la traduzione del medesimo in caratteri arabi, sebbene la nave battesse bandiera liberiana.

La superpetroliera era destinata a esportare quantità consistenti di greggio, tutte quelle che il governo di Teheran riusciva a far filtrare tra le maglie non troppo strette delle quote imposte dall’OPEC. Nulla di illegale, soltanto una palese violazione al gentlemen agreement a cui sottostavano gli Stati produttori di petrolio. E nello stesso tempo un espediente a cui i paesi del cartello ricorrevano sovente, non appena l’economia nazionale mostrava segni di difficoltà.

L’imponente sagoma della Emerald Light, con i suoi trecentosessantotto metri di lunghezza, stava all’ancora al largo dell’isola di Abu Musa, maestosa creatura d’acciaio, mentre attendeva la formazione del convoglio alla testa del quale avrebbe dovuto muovere. Non appena le altre sei navi l’avessero raggiunta, la Emerald Light avrebbe salpato per dirigersi verso lo stretto che separa il golfo Persico dal mare dell’Oman.

I contatti radio fra la terraferma e il ponte di comando si erano andati intensificando, mentre gli addetti al controllo del traffico impartivano le istruzioni necessarie agli uomini in plancia.

«Emerald Light, Emerald Light», gracchiò la radio. «Qui controllo traffico. Avete via libera per l’attraversamento dello stretto. Sarete alla testa di un gruppo di navi formato da altre tre petroliere, una nave carica di prodotti chimici e due cargo. Buon viaggio!»

La nave si trovava al traverso di Jazire-ye Qesh, e in breve avrebbe doppiato lo stretto di Hormuz, poi si sarebbe diretta verso il mare aperto. Dietro alla Emerald Light avanzava il resto del convoglio.

A bordo della Danae, una nave cisterna capace di trasportare cinquantamila tonnellate di prodotti petroliferi raffinati, la giornata si prospettava tranquilla. La Danae era la prima al seguito della EmeraldLight. Il secondo ufficiale chiamò il comandante in plancia non appena ricevette l’autorizzazione a salpare.

«Posizioniamoci a un quarto di miglio dalla poppa della VLCC», disse il comandante della Danae, «e manteniamo la distanza di sicurezza. Anche se potrebbero servire a poco alcune centinaia di metri se quel colosso che ci precede dovesse trovarsi in difficoltà.»

Il secondo ufficiale, un norvegese massiccio dal colorito rubizzo, si esibì in un gesto scaramantico, poi si rivolse al suo superiore. «Senza contare che siamo noi stessi una bomba innescata: a causa dei gas presenti nelle tanche, una nave vuota è ben più pericolosa di quanto non lo sia da carica.»

La Danae, infatti, faceva la spola tra le raffinerie del Mediterraneo, dove imbarcava benzina che veniva poi rivenduta lungo le coste del golfo Persico. Può sembrare un paradosso, ma i paesi produttori di petrolio soffrono da sempre di croniche carenze di prodotti petroliferi raffinati.

Sulla Emerald Light uno dei marinai di guardia inforcò la bicicletta, utile mezzo di locomozione per percorrere rapidamente i quasi quattrocento metri di lunghezza del ponte.

La prima esplosione scosse la poppa in prossimità della enorme pala del timone. Quindi le venti cariche poste sotto la linea di galleggiamento deflagrarono l’una dopo l’altra.

La Emerald Light emise un assordante lamento, mentre le lamiere si contorcevano, poi le vampe di fuoco invasero la coperta seminando morte e distruzione.

Sul ponte di comando, gli ufficiali e i piloti avevano avuto appena il tempo di accorgersi che, dopo la prima esplosione, la nave era diventata ingovernabile: quasi certamente la carica aveva danneggiato irrimediabilmente il timone. La successiva serie di detonazioni aveva scosso l’intero scafo ferendolo a morte.

Un giovane addetto della guardia costiera degli Emirati raccolse per primo il breve messaggio di mayday da un non meglio identificato ufficiale della Emerald. Poi un silenzio denso di tristi presagi scese sulle comunicazioni radio.

Il gigante d’acciaio ferito rallentò bruscamente, mantenendo però la linea di rotta.

A quel punto la Danae iniziò la manovra di arresto, ma fermare un gigante di cinquantamila tonnellate di stazza non era cosa semplice né immediata.

Il comandante e il secondo ufficiale della Danae rimasero a guardare increduli la fiancata della Emerald Light che sfilava miracolosamente a dritta della loro nave. Un’espressione di sollievo si dipinse sul volto dei due ufficiali quando si resero conto entrambi che il pericolo di collisione era stato scongiurato per una manciata di centimetri.

Fu in quell’istante che accadde l’irreparabile: la fiancata della EmeraldLight si aprì come una scatola di latta, riversando in mare il contenuto delle stive.

Il petrolio grezzo prese immediatamente fuoco, investendo la Danae. Nessuno ebbe il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo: la petroliera, un immenso serbatoio di vapori combustibili, esplose.

Soltanto le ultime due navi del convoglio sarebbero riuscite a evitare il lago di fiamme che si era propagato lungo la rotta: il mare era diventato in pochi secondi la scena di un’apocalisse in cui fumo e fiamme inghiottivano qualsiasi cosa.

Centinaia di migliaia di tonnellate di petrolio bruciavano nel punto più angusto dello stretto e quattro delle navi del convoglio erano scomparse in quell’inferno senza aver avuto modo di evitarlo, anzi contribuendo ad alimentare ulteriormente l’incendio.

Nessuno a bordo delle due navi sopravvissute alla strage, mentre si allontanavano dal mare in fiamme, poté rendersi conto dell’effettiva portata di quel disastro.

Nessuno si fermò a considerare il fatto che il petrolio e i prodotti chimici avrebbero bruciato ancora a lungo e che i relitti delle navi avrebbero precluso a tempo indeterminato la percorribilità di una delle più battute rotte del petrolio.

Nessuno ebbe tempo e modo di valutare immediatamente le conseguenze dell’incidente: nessuno, tranne l’autore di quel vile massacro.

2

Fronte dolomitico, 31 dicembre 1915

«Che cosa può augurarsi dall’avvento del nuovo anno un uomo in guerra?» A questo stava pensando Alberto Sciarra della Volta mentre percorreva la trincea della prima linea, cercando di portare conforto e coraggio ai propri soldati. La promozione a maggiore era arrivata subito dopo il primo assalto: a dire il vero quello scontro era rimasto una battaglia isolata, nell’ambito di un conflitto fatto di mantenimento di postazioni, attese e brevi raffiche di mitragliatrici che spazzavano il terreno di scontro. Una guerra estenuante, col nemico a pochi passi di distanza, pronto a rispondere a voce ai motteggi e agli insulti che i fanti erano soliti lanciare dalle trincee.

Quella sorta di cameratismo tra soldati e nemici non era un comportamento che gli ufficiali potessero tollerare e anche il maggiore aveva dovuto punire un giovane alpino perché si era permesso di rivolgere gli auguri di Natale a un fante austriaco appostato poco lontano.

«E se per caso domani quello a cui hai fatto gli auguri ti si parasse davanti con la baionetta spianata», aveva detto il maggiore, mentre redarguiva il soldato, «che cosa gli diresti? Non mi sbudellare, io sono quello che ti ha augurato Buon Natale? Siamo in guerra, ragazzi», aveva aggiunto rivolgendosi ai suoi. «A nessuno, per nessun motivo, è concesso di fraternizzare col nemico.»

Quella era stata una delle rare volte in cui il comandante di compagnia aveva punito uno dei suoi uomini. Per la maggior parte la truppa era composta da contadini delle valli, praticamente analfabeti, la cui indole li predisponeva più alla mungitura delle vacche o alla mietitura dei raccolti che a uccidere un loro coetaneo austriaco il quale, a sua volta, aveva delle mucche gravide e delle messi dorate che lo aspettavano a casa.

Alberto Sciarra non tornava a casa da quando era iniziata la guerra, né sapeva quando mai vi avrebbe fatto ritorno. Dopo che il tenente Cassali era stato ucciso, due mesi prima, nessuno si era dato la pena di rimpiazzarlo malgrado le insistenti sollecitazioni del maggiore, che si era visto costretto ad assegnare il comando di uno dei tre plotoni della sua compagnia a un sottufficiale. Non che questo fosse fonte di preoccupazione dal punto di vista strettamente militare: un sergente poteva avere molta più esperienza di un qualsiasi ufficiale di primo pelo. La cosa che più impensieriva il comandante era il tono confidenziale che si era instaurato tra i sottufficiali e la truppa: per definizione la figura del graduato era quella di tramite tra gli ufficiali e gli alpini.

Erano trascorse alcune ore dalla mezzanotte, quando gli uomini avevano esploso dei colpi in aria per festeggiare un anno, il 1916, che si affacciava su uno scenario ben poco rassicurante. Gli austriaci, stranamente, non avevano risposto alla salva augurale: forse anche i comandanti asburgici avevano punito i soldati a causa dello scambio di auguri natalizi.

All’improvviso, i trecento chilogrammi di esplosivo che gli austriaci avevano collocato proprio sopra alla cengia saltarono in aria con un boato. Le montagne sembrarono contenere quel rombo assordante che violava la quiete delle vette e il frastuono vagò a lungo, di valle in valle, confondendosi con la propria eco. Seguì quindi la pioggia di massi e ciottoli che rotolavano lungo i dirupi.

Nelle prime luci di quella fredda mattina del nuovo anno, gli alpini in trincea alzarono gli occhi verso un cielo livido, immobili e impotenti, sperando solamente che Iddio frapponesse la sua mano provvidenziale tra il loro rifugio e la frana provocata dall’esplosione. E Dio fu benevolo: la camera di mina che gli austriaci avevano scelto, nell’intento di distruggere le più avanzate postazioni italiane, si rivelò inefficace. La parete che avrebbe dovuto abbattersi sulle trincee occupate dagli alpini fu infatti deviata da alcuni enormi massi: l’unico risultato conseguito dai nemici fu il temporaneo isolamento di qualche postazione minore.

Alberto Sciarra osservò incredulo il fronte della valanga di roccia deviare il suo corso. Rimase immobile e in silenzio, quasi temesse che qualsiasi movimento potesse scatenare una nuova frana: il maggiore intuiva che quel primo e isolato scoppio sarebbe stato l’inizio di una guerra subdola e, nel vero senso della parola, sotterranea, la più vasta guerra di mina dell’intero conflitto.

Il colonnello Cantini visitò la prima linea il giorno seguente, il 2 gennaio 1916. Quando il comandante del battaglione alpino e il maggiore furono da soli all’interno della galleria che fungeva da alloggio, il superiore si tolse l’elmetto e sedette dinanzi a un caffè fumante.

«Che ne pensate dell’esplosione di ieri notte, maggiore?» chiese Cantini, apprezzando, più del gusto della bevanda, l’intenso calore che si sviluppava dalla gavetta di alluminio.

«Penso che sia soltanto l’inizio, signore», rispose Sciarra. «Non credo che gli austriaci abbiano fatto brillare un grande quantitativo di esplosivo: tre o quattrocento chilogrammi al massimo. Ma che cosa sarebbe successo se la carica fosse stata maggiore o se quel provvidenziale sbarramento di massi non avesse deviato il corso della frana? Io credo, signore, che quella di ieri sia stata una prova generale e che la rappresentazione vera e propria debba ancora andare in scena.»

«E quindi?»

«E quindi, signor colonnello, ritengo che nei prossimi mesi assisteremo a un singolare modo di combattere: non aperto come quello per cui siamo addestrati, ma altrettanto pericoloso e letale.»

«Anche se sono d’accordo con voi, maggiore, spero che il tempo non vi dia ragione. Conosco la guerra di mina sin troppo bene per non temerla.»

Cantini bevette ancora una sorsata di caffè, poi riprese: «A giorni dovrebbe essere aggregato alla vostra compagnia il sostituto del povero tenente Cassali. Si tratta di un giovane volontario straniero. Per quel poco che ho avuto modo di sapere, un valoroso soldato».

«Uno straniero, avete detto, signore?»

«Sì, maggiore, si tratta di un ufficiale rumeno arruolato nei ranghi della nostra brigata. Anch’egli, come voi, di nobili origini.»

«Non nego, signore, che avrei preferito un compatriota. Ma capisco le esigenze della guerra e sono pronto ad accettare chiunque, purché si tratti di una persona determinata a fare il proprio dovere di soldato.»

«Da quanto ho saputo, mi sento di poter garantire per lui: il tenente Minhea Petru è già stato impegnato al fianco delle nostre truppe, e si è sempre comportato con onore. Mi è stato riferito che, a onta della giovane età, sia da considerarsi un veterano.»

«E voi dite che ha scelto volontariamente la sua destinazione? È forse un pazzo a scegliere questo inferno?»

«Avete ragione, maggiore, ma quale fronte è un luogo piacevole per un soldato?»

«Mi auguro sia un ufficiale esperto e non un giovane con velleità suicide», Sciarra abbozzò un sorriso, «e che non sia necessario un interprete per far comprendere agli uomini gli ordini del loro ufficiale.»

«Petru parla un ottimo italiano. A proposito di dimestichezza con le lingue, maggiore, dal comando della brigata mi chiedono conferma sulle vostre capacità di poliglotta. A loro risulta che voi ve la caviate ottimamente con l’inglese, col francese e col tedesco, per non parlare dell’arabo.»

«Confermo, signor colonnello. La mia famiglia, da generazioni, si occupa di trasporti marittimi e, per tradizione, ai maschi vengono insegnate diverse lingue sin dalla tenera età. Credo di aver trascorso più anni all’estero che nella mia Genova: sono in grado di parlare senza inflessioni straniere il tedesco, l’arabo e l’americano, non l’inglese», precisò Sciarra, «e so leggere e scrivere correttamente in queste lingue. Col francese me la cavo un po’ meno bene, ma comunque saprei come districarmi in una conversazione.»

Il commercio per mare era il motivo per cui la famiglia dei marchesi Sciarra della Volta aveva abbandonato la nativa Palermo e si era trasferita a Genova, dove il bisnonno di Alberto aveva fondato un’agenzia marittima che, nel corso delle due generazioni seguenti, era diventata una tra le più rinomate e attive nel campo. I marchesi Sciarra della Volta erano ormai una famiglia molto in vista a Genova, una città che nei primi anni del secolo aveva assistito al rinascere dei suoi traffici marittimi. L’antica repubblica marinara, raccolta tra i monti e il mare azzurro, sembrava essere risorta ai fasti del passato: la città sbocciava e cresceva, austera ed elegante, offrendo ai suoi abitanti un tenore di vita sempre più alto.

Tutto questo sino a quel maledetto maggio del 1915.

Da allora tutto era stato cancellato dal freddo dei ghiacciai e dalla minaccia di morte che incombeva costante sugli uomini impegnati al fronte.

3

Tabarqa, 1347

Gli occhi sottili di Hito Humarawa percorsero le coste rocciose dell’Ifrikyia, e volsero un ultimo saluto alla terra che lo aveva visto vincitore. Un denso pennacchio nero di fumo si innalzava sopra ai resti di Tabarqa. Il fuoco avrebbe vinto la peste e, entro poco tempo, i veneziani si sarebbero impossessati di ciò che rimaneva della città, diventandone finalmente padroni.

Le tenui brezze autunnali delle coste africane avevano lasciato spazio a un clima più rigido, ma gli uomini mancavano da troppo tempo da Venezia: per questo motivo Humarawa aveva deciso di prendere il largo ugualmente, malgrado l’approssimarsi della cattiva stagione. Ormai lui e i suoi guerrieri avrebbero avuto ben poco da fare sotto le mura della città capitolata.

La soddisfazione della vittoria non riusciva a colmare il vuoto che aleggiava nel cuore del samurai. Strano, un uomo che era incapace di amare stava provando sentimenti profondi e contraddittori per il suo più valoroso nemico. Il Muqatil gli mancava, così come manca lo scopo di una vita, il traguardo che ci si è prefissati. La meta di Humarawa poteva dirsi raggiunta e, adesso che il Muqatil era stato sconfitto, al guerriero giapponese la vita appariva insulsa.

Wu, il gigantesco pirata di origine cinese, inseparabile ombra del suo padrone, interruppe i pensieri che affollavano la mente del samurai: «Contro chi potremo combattere da oggi in poi, mio signore? Chi riuscirà a respingere i nostri assalti con altrettanta arguzia ed esperienza? È strano, sino a ieri avrei dato qualsiasi cosa pur di passare a fil di lama il Muqatil e i suoi uomini. Oggi mi sembra che una parte della mia esistenza non abbia più senso».

«Come sta la bambina?» chiese Humarawa, cercando di cambiare discorso.

«Continua a non parlare. Rimane in silenzio nella cabina che le abbiamo assegnato, avvinghiata alla sua balia. Le poche volte che è salita sul ponte è rimasta muta a guardare il mare.»

La bimba teneva lo sguardo fisso in direzione della terraferma. Gli occhi del colore dell’acqua profonda sembravano voler imprimere nella mente i particolari del paesaggio che lentamente si allontanava a poppa. Le coste di Tabarqa stavano ormai scomparendo all’orizzonte.

Il samurai le si fece vicino. Raramente si era trovato a esprimersi con toni diversi da quelli in uso tra soldati. Adesso il guerriero indomito e senza paura pareva in imbarazzo nel rivolgere la parola a una bambina di dieci anni.

«Tu… tu parli la lingua dei cristiani, Celeste?» chiese titubante Humarawa.

Gli rispose solamente un impenetrabile silenzio.

«Io non conosco a sufficienza la tua lingua, piccola», disse il giapponese con le poche parole che conosceva in arabo.

Una lacrima scese lungo le gote della bimba, lambendole le labbra, ma negli occhi color cobalto balenò per un istante un lampo d’orgoglio e di sfida; quindi Celeste fuggì, correndo sul ponte della galea. Si arrestò solo quando la cinsero le braccia della donna che dalla nascita aveva provveduto a lei.

Humarawa tacque. Il giapponese sapeva che avrebbe tenuto fede per sempre all’ultima promessa fatta al più valoroso tra i guerrieri che avesse mai conosciuto. A qualunque costo.

Celeste aveva ancora lo sguardo appannato dal pianto quando, avvicinatasi di nuovo al samurai, si rivolse a lui nella lingua dei veneziani. Il piglio fiero ereditato dal padre attraversò i suoi occhi: «Mia madre è morta per l’epidemia che avete diffuso a Tabarqa. Tu hai ucciso mio padre e distrutto la nostra città. Io ti odio!»

Humarawa rimase impassibile. Non era capace di provare risentimento nei confronti della bambina: alcune delle cose di cui lo accusava corrispondevano a verità, ma una folla di pensieri nuovi e sconosciuti si affacciarono alla mente del guerriero.

«Se si trattasse di un giovane», si trovò a pensare Humarawa, «saprei come catturare il suo interesse: saprei insegnargli l’arte del combattimento e renderlo partecipe di ogni mio segreto… ma con una fanciulla… non so davvero come fare. Avrò tempo e modo di pensarci. Questa non è che una tra le tante battaglie che ho disputato. E certo non si tratterà della più difficile.»

In cuor suo, Humarawa cercava soltanto di convincersi della facilità di un compito arduo come quello di educare una bambina priva dei genitori.

4

Agosto 2002

La città sembrava immersa in una sostanza fluida, appiccicosa e invisibile, una specie di melassa bollente che rallentava e rendeva difficoltoso ogni movimento. Le strade erano pressoché deserte e le poche persone che avevano il coraggio di affrontare l’afa erano costrette a frequenti soste all’ombra.

La temperatura oltre i quaranta gradi centigradi e l’umidità prossima al cento per cento avevano messo in ginocchio New York.

In Federal Plaza, al trentaseiesimo piano dell’edificio, sede del Federal Bureau of Investigation, una decina di uomini pareva immune dall’epidemia di «apatia da calore» che aveva colpito la metropoli. L’unica eccezione rispetto alle altre riunioni che avevano tenuto con ogni tempo e in ogni luogo era costituita dalla concessione che il direttore generale aveva appena fatto ai propri collaboratori: nel corso di quel meeting avrebbero potuto levare le giacche e rimboccare le maniche delle camicie.

Il direttore generale dell’Agenzia era un uomo rigoroso, altrimenti non sarebbe mai arrivato a dirigere la più efficiente polizia federale del mondo. Conrad Deuville, questo il nome di colui che era seduto a capo del grande tavolo ovale per presiedere la riunione dei vertici dell’FBI, aveva una serie di precise convinzioni. Il rispetto della forma da parte dei suoi diretti sottoposti faceva parte di queste.

«Merda!» esclamò Deuville, mostrando la prima pagina del giornale ai suoi collaboratori. «Dio stramaledica questa manica di figli di puttana che risponde al nome di eletta casta dei giornalisti! Ci mancavano anche loro, come se non ne avessimo abbastanza!»

Le prime pagine di tutti i quotidiani del mondo erano dedicate al terribile incidente del golfo Persico e alle ripercussioni gravissime che aveva prodotto sui mercati internazionali. Primo fra tutti il prezzo del petrolio che aveva iniziato una vertiginosa salita sin dai primi minuti seguiti al naufragio. In qualche ora era arrivato alla cifra, mai nemmeno pensata in precedenza, di settantadue dollari al barile, e la corsa non pareva volersi arrestare. Alcuni analisti calcolavano che l’escalation non si sarebbe fermata prima dei settantacinque-ottanta dollari: un prezzo giudicato ai limiti dell’insostenibilità per qualsiasi economia.

L’attentato nello stretto di Hormuz stava mettendo in ginocchio il mondo occidentale e i paesi fornitori di petrolio.

L’elicottero per trasporto truppe si alzò in volo alle 5.22 del mattino. Deidra Blasey sapeva, così come ne erano convinti i diciannove marine ai suoi ordini seduti a bordo, che per gli EOD non esistevano missioni di routine. La bonifica di un campo minato o la neutralizzazione di una trappola esplosiva rappresentavano un rischio enorme sia in guerra che in pace. E un artificiere dei marine, Deidra era solita ripeterlo, doveva essere pronto a ogni evenienza: sia mentre si paracadutava dietro le linee nemiche da un Hercules che volava a bassa quota, sia se si immergeva per neutralizzare un muro di mine subacquee che precludevano l’accesso a un porto.

I soldati sottoposti al colonnello Blasey o «Mrs Fuse», come veniva chiamata dagli addetti ai lavori — letteralmente Signora Spoletta —, erano considerati tra i più affidabili al mondo quando si trattava di maneggiare esplosivi, sminare e bonificare territori. Grazie a loro erano state rese nuovamente calpestabili vaste zone sparse in ogni angolo del mondo. I luoghi in cui era chiamata a operare la squadra speciale dei marine, il cui motto era: «Nervi d’acciaio», erano accomunati dagli invisibili meccanismi di innesco delle mine. Qualche ordigno del valore di pochi dollari, ma di potenza subdola e devastante, poteva ridurre un plotone di soldati a un gruppo di storpi. «Un solo militare ferito è più pesante di cento morti», aveva l’abitudine di ripetere un vecchio stratega.

Le pale dell’elicottero fecero vorticare nuvole di sabbia, poi il velivolo si posò con la leggerezza di un insetto nella radura, a pochi passi dal fiume Tigri, che delimita il confine con l’Iraq. I marine scesero rapidi.

Prima di impartire l’ordine di muoversi il sergente Kingston verificò minuziosamente l’equipaggiamento che avevano appena scaricato. Quindi il sottufficiale si rivolse al suo comandante. Se non fosse stato per il rombo dei rotori, la zona attorno al villaggio di Faysh Kabur avrebbe risonato della stentorea voce di Kingston.

Deidra Blasey fece un cenno d’assenso con il capo coperto dall’elmetto e il plotone di sminatori si mise lentamente in marcia.

L’intera fascia di confine tra Iraq e Turchia era disseminata di mine di ogni tipo. Un’avanzata americana sembrava ormai imminente. Il compito degli sminatori era quello di aprire delle brecce nei campi minati per poi lasciar penetrare gruppi di commando, o le teste di ponte degli occidentali, in territorio iracheno.

Nella sede del Bureau in Federal Plaza, a New York, Deuville colori la frase con l’esclamazione che gli era usuale: «Merda! Il solito Jordan Cruner è l’unico a mettere in relazione l’attentato al convoglio del golfo Persico con quelli avvenuti lo scorso marzo al palazzo delle Nazioni Unite e alla sede irachena qui a New York. Non solo, l’informatissimo giornalista sostiene l’idea che un potente serial bomber si diverta a far saltare gli interessi musulmani nel mondo e a prendere per il naso il corpo di polizia federale deputato a proteggere i cittadini. Mi sembra inutile fare presente che quel corpo siamo noi. Io mi chiedo, invece, come faccia Cruner ad andare di pari passo con ogni nostra conclusione. Già dobbiamo fare i conti con i capi di governo che ci tengono il fiato sul collo, mentre siamo alle prese con una crisi senza precedenti: diverse decine di morti ammazzati e un pazzo che si diverte a piazzare esplosivi in ogni angolo del mondo. Ci mancava soltanto il solerte giornalista! Merda!»

La telecamera si attardò per qualche istante sulla scena alle spalle di Cruner. Il vento caldo del golfo Persico scompigliava i capelli castani del giornalista. Il rogo del convoglio ardeva ormai da sei giorni e sembrava impossibile arginare il fronte di fuoco.

Il cameraman alzò il pollice e Cruner incominciò a parlare: «Come potete vedere alle nostre spalle, le cinque navi coinvolte in quello che appare ormai come un sanguinoso attentato dalle conseguenze catastrofiche continuano a bruciare nel punto più angusto dello stretto di Hormuz. Una prima ispezione aerea effettuata da una delegazione congiunta arabo-americana ha stimato che saranno necessari almeno quattro mesi, una volta domato l’incendio, per sgombrare il canale dai relitti. Se si calcola che at traverso lo stretto di Hormuz transita la maggioranza dell’intero traffico mondiale di greggio, possiamo immaginare quali saranno le conseguenze di questo disastro. Per tornare al misterioso attentatore, alcune attendibili fonti rivelano potrebbe trattarsi della stessa persona che ha collocato alcuni mesi or sono i due ordigni nella città di New York. Come i nostri telespettatori ricorderanno, l’ufficio iracheno presso le Nazioni Unite e la delegazione a New York dello Stato arabo furono colpiti simultaneamente nel mese di marzo, e una dozzina di addetti diplomatici perse la vita in quegli attentati. Alcune testate giornalistiche, tra cui la nostra K.C. News, oltre all’FBI, ricevettero una rivendicazione dell’attentato da parte di un sedicente ‘Giusto in nome di Dio’. Sappiamo che un nuovo biglietto è giunto alla direzione generale del Federal Bureau of Investigation nelle scorse ore. La firma in calce alla rivendicazione è costituita da un antico sigillo raffigurante una stella a sei punte: l’esagramma di Re Salomone. Jordan Cruner, K.C. News, Ra’s al Khaymah, Emirati Arabi Uniti».

Oswald Breil si massaggiò il braccio destro: l’arto gli doleva ancora per le ferite riportate nel corso dell’attacco al palazzo delle Nazioni Unite. Le indagini che avevano stabilito l’identità dell’autore del primo dei due attentati — un magnate giapponese legato indissolubilmente alla Yakuza, la mafia nipponica — avevano dimostrato che tra l’attacco missilistico da parte dell’elicottero e le due esplosioni, una al dodicesimo piano del Palazzo di Vetro e l’altra nella sede irachena presso le Nazioni Unite, non vi era alcun nesso. Si trattava di una serie incredibile di coincidenze assolutamente imprevedibili.

Una coincidenza… l’ennesima coincidenza. Ma Breil sapeva bene che, nel suo lavoro, non c’era spazio per le coincidenze.

L’argomento sul quale sia i media che le istituzioni avevano evitato di soffermarsi era il motivo che poteva spingere un esponente di spicco della malavita giapponese a pilotare un elicottero e a lanciare missili nel centro di Manhattan: quel motivo si chiamava Oswald Breil.

L’ex premier israeliano stava seguendo le immagini che riprendevano l’immenso rogo di Hormuz; poi, con la voce di Jordan Cruner come sottofondo, l’emittente mandò in onda l’immagine del sigillo. Oswald si fece ancora più attento.

Breil conosceva bene quel simbolo: lo aveva visto raffigurato su un antico anello che lui stesso aveva consegnato a una vecchia amica, proprio un istante prima che l’elicottero aprisse il fuoco. Subito dopo l’Anello dei Re era andato smarrito. Si trattava di un’altra coincidenza?

Dal momento dell’attentato Breil aveva abbandonato ogni incarico pubblico in Israele, e si era rifugiato presso la coppia che lo aveva adottato quando i suoi genitori erano morti in un incidente d’auto. Il piccolo uomo affermava di aver bisogno di un periodo di riflessione, nonostante, o forse proprio a causa di queste pressioni che lo volevano di nuovo alla guida del governo israeliano.

A dire la verità, una persona che raramente aveva conosciuto la paura come Oswald aveva il timore che la calma di cui godeva vicino a Ezer e Lilith Habar fosse contagiosa. I due coniugi avevano lasciato Tel Aviv da diversi anni per trasferirsi a Denver, in Colorado, dove Ezer era stato il direttore del Rocky Flats Plant, un importante centro di produzione di energia nucleare. Oswald ricordava bene la meravigliosa atmosfera che regnava in casa degli Habar sin da quando era ragazzino: accanto a Lilith e a suo marito il tempo sembrava rallentare, fermarsi a riflettere, concedersi pause impensabili nella frenetica vita quotidiana.

«Fermo!» Il gesto della mano del sergente Kingston fu eloquente quanto il tono della voce. Il giovane marine rimase immobile, con la gamba destra sospesa per aria: una bella statuina in divisa ritratta nell’atto di compiere un passo.

Kingston si chinò con cautela davanti al soldato. Le sue dita accarezzarono con circospezione un sasso poco più piccolo del palmo di una mano. Il pollice e l’indice si serrarono sul bordo del sasso, quindi Kingston lo lanciò in una zona sgombra, quasi stesse giocando a far rimbalzare dei ciottoli levigati sulla superficie del mare.

Non appena toccò terra, quella che pareva una pietra esplose con un boato assordante.

La voce di Kingston si alzò non appena l’eco dell’esplosione si attenuò: «Mina di tipo SB33 di costruzione italiana. Misura circa nove centimetri di diametro per tre e mezzo di altezza. Pesa centocinquanta grammi ed è in grado di provocare amputazioni traumatiche. Ricordate bene: chiunque sia capace di disseminare di mine di questo tipo non ha nessun interesse che le sue vittime vengano seppellite sotto mezzo metro di terra. Al nemico interessiamo storpi e zoppi, bisognosi di cure e di arti artificiali. Ricordatelo bene, ragazzi, e prestate la massima attenzione a tutto quello su cui appoggiate ogni parte del vostro corpo. Nell’incertezza di che cosa ci troveremo sotto ai piedi dobbiamo muoverci come farfalle e non sottovalutare alcun dettaglio».

5

Fronte dolomitico, giugno 1916

Il maggiore Sciarra osservò l’ufficiale rumeno. Il tenente Minhea Petru stava sull’attenti di fronte al suo superiore. Poco di lato, la stufa a legna emanava un piacevole calore.

Lo slargo della galleria nella quale era stato posto il comando consisteva in una stanza di pochi metri quadrati. Sotto lo strato di carta catramata si intuiva la grezza roccia dolomitica.

Minhea Petru aveva un viso simpatico e occhi vivaci di colore marrone che ora soppesavano ogni particolare dell’uomo di fronte a lui, il quale sarebbe diventato molto più che il suo comandante.

Il fisico adetico e possente di Petru si intuiva anche sotto il pastrano che copriva la divisa grigioverde da poco adottata dall’esercito italiano, in sostituzione di quella blu usata sino ad allora: era stato un ex alpino in congedo, tale Luigi Brioschi, a dimostrare allo stato maggiore dell’esercito che quel colore confondeva la mira dei cecchini. Nel corso di alcune prove di tiro, i bersagli in grigioverde erano stati colpiti meno volte di tutti gli altri.

Una fascetta col tricolore rumeno, posta sopra la tasca pettorale sinistra, oltre a rappresentare l’unica nota di risalto nella piatta monocromaticità della divisa, stava a indicare le origini dell’ufficiale volontario.

«La vostra nazione sembra sul punto di scendere in guerra», disse il comandante di compagnia. «Qualora questo dovesse avvenire, che cosa accadrà al vostro distaccamento presso la mia compagnia?»

«Ho espressamente richiesto di non venire trasferito in caso di coinvolgimento della mia patria nel conflitto, signor maggiore. Sono venuto in Italia quando avevo pochi mesi e mi sento di appartenere alla vostra gente. Non prendete questa mia affermazione come disfattista, signore, ma non credo che la Romania potrebbe resistere più di pochi mesi a un eventuale attacco austroungarico. E questo per una serie di motivi che vanno dalla sua posizione geografica nel bel mezzo delle nazioni nemiche alla scarsa efficienza del suo esercito e, non ultimo, al carattere non aggressivo dei suoi abitanti.»

La pacata linearità di questo discorso fece sì che la prima impressione del maggiore riguardo al suo subalterno fosse positiva.

Forse avrebbe trovato nel giovane tenente rumeno un valido appoggio.

«Conoscete l’uso delle mine, tenente?» chiese il maggiore.

«Sono abbastanza esperto di esplosivi, signore. A essere sincero non ho eccessive conoscenze di gallerie e di scavi, ma posso sempre imparare.»

«Bene, tenente Petru, ritengo sia il caso che uno dei nostri sottufficiali vi affianchi per rendervi edotto dei segreti della guerra di mina. Vi sarà molto utile.»

Erano trascorsi diversi mesi da quel primo incontro. Il tenente Minhea Petru si dimostrava di giorno in giorno un ufficiale valido, attento, e un ottimo combattente. Anche quando la Romania era scesa in guerra a fianco degli alleati, nell’agosto del 1916, l’ufficiale era rimasto fedele alla promessa fatta di non richiedere il trasferimento. E le parole che il sottoposto aveva rivolto allora al maggiore erano state profetiche: esattamente sei mesi dopo la dichiarazione di guerra all’impero austroungarico la Romania era stata invasa dall’esercito nemico.

Le gallerie di mina erano simili a un labirinto che si dipanava nelle viscere delle montagne dolomitiche. Dovevano servire a raggiungere, scavando nel cuore delle rocce, le zone sottostanti alle postazioni nemiche. Qui giunti, sia pure con tutte le difficoltà di individuare esattamente la posizione, gli scavatori lasciavano il posto agli artificieri. Questi ultimi riempivano la camera di scoppio con centinaia, a volte migliaia di chilogrammi di esplosivo, facendo saltare in aria tutto ciò che si trovava sopra alla galleria, armi e fanti compresi.

Le operazioni dovevano essere svolte con grande prudenza: se il nemico avesse scoperto degli scavatori all’opera, avrebbe immediatamente posto in atto le strategie del caso. Strategie che andavano dall’assalto alla galleria alla simultanea costruzione di un cunicolo chiamato «di contromina», che aveva lo scopo di intercettare e minare quella costruita dagli avversari.

La guerra di mina assomigliava così a una delicata partita a scacchi. In palio non c’era la caduta di un re intarsiato in legno, ma la vita di migliaia di soldati impegnati — ormai da molti mesi — in una guerra difficile e logorante.

Alberto Sciarra della Volta si accostò al cannocchiale a periscopio che consentiva di osservare ciò che succedeva al di là dei sacchi di sabbia che proteggevano la trincea.

Un comandante doveva saper cogliere ogni rumore sospetto e prendere nota di ogni elemento dissonante con la natura del luogo: un cumulo di detriti che somigliava a una frana lungo un crinale poteva invece essere il punto in cui veniva scaricata la risulta per la costruzione di una galleria.

«Guardate laggiù, tenente Petru», disse il maggiore, lasciando il cannocchiale al subalterno. «Osservate quella piccola frana a mezza costa, sembra originata dal nulla: non vi sono, sopra di essa, rocce instabili o appena smottate.»

«Avete ragione, comandante», rispose l’ufficiale rumeno. «Sono giorni che guardo in quella direzione e mi sembra che i detriti siano aumentati in maniera inspiegabile.»

«Credo dovremo dare un’occhiata di persona.»

L’enorme quantità di terra e sassi derivanti dallo scavo era l’unico indizio capace di rivelare la frenetica attività che si stava svolgendo all’interno della montagna: quella di centinaia di uomini armati di picconi e martelli che combattevano senza sosta contro la dura roccia dolomitica. Dietro di loro si muoveva una fila pressoché ininterrotta di «anime del purgatorio»: così venivano chiamati i militari che, dotati di secchi, avevano il compito di raccogliere i detriti e trasportarli fuori dalla galleria in una delle tante discariche improvvisate lungo le coste delle montagne. Era stato proprio uno di questi ammassi di pietre che aveva alimentato i sospetti del comandante italiano: subito un plotone era stato sollecitato a una sortita esplorativa.

I soldati incaricati del sopralluogo avevano aggirato la montagna muovendosi come felini in caccia e ricorrendo, almeno in quattro occasioni, alle funi e ai chiodi da roccia per superare le asperità di scoscesi dirupi.

Stavano affrontando un passaggio relativamente poco pericoloso: una gola stretta e in leggera pendenza dove il sole non riusciva mai a fare capolino tra le due sentinelle di roccia dolomitica che costituivano i limiti del passaggio medesimo. La scarsa difficoltà aveva indotto gli uomini del drappello a non assicurarsi con le funi.

Gli scarponi da rocciatore del tenente Petru persero aderenza sulla spessa lastra di ghiaccio che copriva il fondo della gola. In un primo momento l’ufficiale rumeno parve impegnato in improbabili passi di danza, ma in pochi istanti perse l’equilibrio e si ritrovò a terra.

Avrebbe potuto trattarsi di una banale caduta se il corpo di Petru non avesse cominciato a scivolare sulla superficie levigata del ghiaccio. Soltanto pochi metri separavano il tenente da un profondo burrone e la incontrollabile velocità di caduta aumentava a ogni centimetro.

Il maggiore Sciarra si mosse fulmineo, senza un istante di esitazione: il comandante, che marciava in testa al plotone, si lanciò a terra a sua volta, recuperando con lo slancio la distanza che lo separava da Petru. Quando gli fu vicino afferrò fermamente il tenente per gli abiti con una mano, mentre con l’altra alzava la piccozza al cielo. Quando la piccozza si abbatté sul ghiaccio, emise una nota sonante e argentina: quel suono, purtroppo, stava a significare che la punta non era riuscita a fare presa e che non sarebbe quindi riuscita a fermare la caduta dei due corpi verso il baratro.

Il resto del plotone era rimasto impietrito a guardare i due ufficiali che, avvinghiati l’uno all’altro, continuavano a scivolare inesorabilmente.

La piccozza del comandante incideva il ghiaccio emettendo un fastidioso stridore, come il gesso che geme al contatto della lavagna. Ancora pochi metri ed entrambi sarebbero precipitati.

Le gambe di Petru penzolarono sul limite del baratro profondo centinaia di metri. La mano del maggiore della Volta si mosse con la forza della disperazione. La piccozza si levò nuovamente verso il cielo e ricadde come un maglio d’acciaio. La punta ruppe lo strato gelato, incuneandosi per diversi centimetri nella coltre candida. Il braccio di Sciarra si tese per il contraccolpo e i corpi dei due uomini parvero saldarsi ancor più indissolubilmente. Quando la loro corsa verso il vuoto finalmente si arrestò, Petru si trovava ormai con buona parte del busto oltre il margine del precipizio.

Rimasero così per qualche istante, nel timore che qualsiasi movimento potesse essere loro fatale. Quindi le forti mani del maggiore si strinsero attorno al manico della piccozza e cominciarono a conquistare la via verso la salvezza.

Negli occhi di Petru non c’era paura. Osservava il suo comandante quasi incredulo: quell’uomo non aveva esitato a rischiare la propria vita per salvarlo.

Sciarra si accorse dello sguardo del suo sottoposto, non c’era bisogno di parlare per capire quanta riconoscenza si celasse negli occhi del rumeno.

Gli altri componenti del plotone non avevano perso tempo: si erano assicurati con le funi e si dirigevano verso il bordo del precipizio. Le mani di uno degli alpini strinsero quelle del comandante.

Una notte priva di luna era scesa repentina tra le vette. La temperatura, mite durante il giorno, si era abbassata improvvisamente di molti gradi.

Il comandante era nascosto dietro un grande masso. A poca distanza da lui si trovava il tenente Petru con un manipolo di uomini.

Il maggiore Sciarra era quasi certo che la galleria austriaca corresse nelle vicinanze delle trincee dove erano situati il comando di battaglione e il campo di montagna che ospitava tre compagnie di alpini. Più di cinquecento uomini stavano rischiando la vita.

Il maggiore, che teneva la pistola in pugno, la mosse per dare il segnale. Nel più assoluto silenzio Petru e sei alpini sgattaiolarono fuori dai rispettivi nascondigli. Il maggiore si teneva sulla destra del drappello che, complice l’oscurità della notte, si andava avvicinando a una zona pietrosa a mezza costa sul Piccolo Lagazuoi.

L’entrata della galleria era camuffata con un telo sul quale era stato dipinto un fondale roccioso. L’unica nota fuori luogo era data dai due militari austriaci posti di sentinella.

Uno dei soldati batté i piedi rumorosamente, poi disse una frase volgare al collega auspicando un’improbabile presenza femminile. Improvvisamente alcune ombre presero corpo nel buio. Due mani forti premettero simultaneamente le bocche delle sentinelle e le lame delle baionette si infilarono nelle loro gole.

Il maggiore e il tenente adagiarono i corpi a terra, quindi fecero cenno ai loro uomini di procedere verso l’ingresso della galleria.

Il telo era inchiodato a un pannello di legno: una sorta di porta mimetica dotata di cardini e catenaccio.

L’interno della galleria era rischiarato da lanterne a olio poste a distanza regolare.

«Dobbiamo contare i passi e vedere sino a che punto sono arrivati per cercare di calcolare quanto gli manca per raggiungere la nostra base», disse il maggiore con un filo di voce. «Voi», aggiunse indicando due alpini, «rimarrete a presidiare l’ingresso. Non vorrei fare la fine del topo in una galleria austriaca… occhi aperti!»

Con le armi in pugno i sei uomini si addentrarono nel cunicolo.

A differenza di quelle costruite dagli italiani, le gallerie austriache avevano una sezione inferiore: 80x180 centimetri, invece dei 190x190 di quelle italiane. Questa caratteristica, insieme al fatto che gli alpini erano molto più veloci dei loro nemici nelle escavazioni, aveva alimentato un senso di orgoglio e di superiorità nei soldati italiani che li faceva sentire quasi imbattibili.

«Novecentoventi», contò a mente il tenente Petru, quando una voce sconosciuta echeggiò alle sue spalle.

«Deponete le armi o apriamo il fuoco», disse in italiano qualcuno dall’inconfondibile inflessione teutonica.

Istintivamente, i sei uomini si gettarono a terra, rivolgendo le armi verso la nuova minaccia.

L’ufficiale austriaco si trovava alla fine del rettilineo fiocamente illuminato dalle lampade a olio, lungo una cinquantina di metri. La luce era insufficiente per determinare il numero degli uomini che lo accompagnavano.

L’ordine di aprire il fuoco da parte del maggiore Sciarra giunse immediato, ma gli austriaci non si fecero sorprendere: una scarica di fucileria partì alla volta degli alpini appiattiti sul fondo dell’angusta galleria.

Due di loro furono falciati dalla prima raffica, poi, in quello spazio ristretto, si scatenò l’inferno.

Pochi minuti più tardi, dopo essersi battuti come leoni, i quattro italiani rimasti ascoltarono impotenti il rumore metallico del percussore che colpiva il vuoto all’interno delle canne scariche dei loro fucili.

«Ci arrendiamo, cessate il fuoco», disse la voce del comandante.

«Gettate a terra le armi e avanzate lentamente!» rispose l’ufficiale austriaco.

Come fantasmi nella nebbia il maggiore e i suoi uomini si mossero con le mani alzate verso il nemico.

«Guardate qui, tenente Blasko», disse uno dei soldati rivolto all’ufficiale. «Sembra che ce ne sia ancora uno vivo.»

Il tenente Petru scattò come una molla, colpendo al capo un soldato austriaco con il calcio del suo fucile, ma il tentativo di fuga fu immediatamente bloccato e l’ufficiale rumeno si ritrovò sotto la minaccia delle armi dei suoi avversari.

Il comandante del drappello austriaco si fece vicino, e osservò il nemico con aria di disprezzo. «Ah, un servo rumeno», disse in ungherese rivolto a Petru.

Quello rimase immobile.

«Merda rumena e traditrice», disse ancora il tenente ungherese, sputando sulla faccia del giovane ufficiale.

Petru accennò una reazione, tentando di divincolarsi dalla presa dei soldati che lo bloccavano.

Nel tentativo di liberarsi alcune cuciture della divisa cedettero, e l’ufficiale nemico si accorse che Petru teneva dei fogli nascosti tra la fodera e la stoffa della giacca.

«Bene, fammi vedere che cosa nascondi qui.» Le mani dell’ungherese si insinuarono nella stoffa, impossessandosi dei fogli.

«Non c’è abbastanza luce per vedere quello che hai nascosto con così grande cura. Lo farò più tardi all’accampamento…»

«Blasko… Blasko…» disse Petru, come se avesse l’intenzione di imprimersi per sempre nella memoria il nome dell’ufficiale.

«Tenente Béla Blasko, del 43° fanteria imperiale. Tanto non avrai modo né tempo per raccontarlo.»

Così dicendo Blasko fece per colpire con un calcio il prigioniero. Petru si mosse con l’agilità di una fiera: chiuse come in una morsa la gamba dell’ungherese tra il braccio e il corpo. A questo punto il maggiore Sciarra si scagliò contro i due militari che avevano preso il suo subalterno.

Sempre stringendo il tenente Blasko, Petru guadagnò una posizione più favorevole. Quando il rumeno fu certo che nessuno dei nemici si frapponeva tra lui e l’uscita della galleria, alzò una gamba dell’ungherese con violenza. Blasko si librò per un istante a mezz’aria, cadendo poi pesantemente al suolo. Il colpo che ricevette alla nuca non fu però sufficiente a fargli perdere del tutto i sensi: «Sparate, idioti!» gridò l’ufficiale ai suoi, «sparate, non fate fuggire il rumeno!»

Ma Minhea Petru era già scomparso dietro un’ansa della galleria.

«Voi, maggiore, scommetto avrete molte cose da raccontare al mio comando», disse Béla Blasko, battendo sul palmo aperto della mano le carte appena sequestrate a Petru.

Per tutta risposta, Sciarra iniziò quella che sarebbe diventata la litania che l’ufficiale italiano avrebbe recitato al nemico per tutto il tempo della sua prigionia.

«Maggiore alpino Alberto Sciarra della Volta, matricola numero 23B875574. Queste sono le uniche informazioni che sono autorizzato a darvi.»

6

Mar Mediterraneo, 1348

«Pensa, Wu…» disse Humarawa rivolto al suo scudiero, «… pensa al modo in cui la nostra gente festeggia l’avvento di un nuovo anno… pensa alle luci, ai fuochi magici, all’allegria… Come tutto è diverso adesso, qui. Siamo soli in questo mare lontano, persino il calendario è differente dal nostro.»

«Hai nostalgia della tua terra, mio signore?»

«No, Wu. Non è nostalgia. Penso solo alle sorprese che è capace di riservare la vita.» Il samurai tacque, quasi volesse riordinare le idee, poi riprese. «Venezia mi ha dato una possibilità di riscatto dopo la fuga dal mio paese e mi ha accolto come un figlio. E come tale penso di essermi comportato: mi sono battuto in nome del leone di San Marco. Ho solcato questi mari annientando la minaccia dei pirati. Ho comandato truppe d’assedio ed equipaggi di guerrieri pensando che questo fosse lo scopo della mia vita: combattere e vincere il nemico. Sarà forse il passare degli anni, ma mi sento stanco, Wu.»

La bocca deforme del gigante cinese si aprì in un sorriso: la cicatrice che lo deturpava era dovuta a una ferita che aveva subito nel corso dell’unico combattimento in cui Wu si era visto costretto a soccombere. Era stato Alessandro Crespi, un mercante veneziano, a ridurlo così. Lo stesso mercante che, anni prima, aveva convinto il suo signore a fuggire dal Giappone per cominciare una nuova vita nella lontana Venezia.

«Non giudicare le mie parole come irriverenti, mio signore», disse Wu, con un tono ossequioso che mal si accompagnava al suo fisico da orco, «non è certo l’avvicinarsi delle quaranta primavere la causa della tua stanchezza. Sono le nuove responsabilità che ora ti pesano addosso…»

«Che cosa vuoi dire, Wu?» Gli occhi neri e sottili del samurai si fecero penetranti, pur tradendo una delle rare espressioni divertite di Humarawa.

«Voglio dire, insomma, mio signore… il debito d’onore nei confronti del tuo grande nemico…» Wu sembrava un pentolone d’olio pronto a infiammarsi. «Non sono abile con le parole», sbottò Wu a quel punto, «ma, insomma, quella bambina ha cambiato il tuo sguardo, nobile Hito Humarawa.»

Gli occhi dei due orientali corsero lungo il ponte della galea, sino a posarsi su una figura che osservava il mare a poppa. Da quando erano partiti Celeste trascorreva là molte ore in preda alla malinconia.

Hito si incamminò in direzione del giardinetto della nave da guerra.

«Devo parlarti, Celeste. Devo dirti delle cose importanti», disse il samurai con dolcezza.

La figlia del Muqatil aveva abbandonato i modi aspri dei primi giorni di navigazione. Piano piano aveva capito che quell’uomo era un valoroso guerriero e non l’abietto untore colpevole della diffusione della peste a Tabarqa. Certo, non poteva amare una persona che, in qualche modo, era responsabile della morte dei suoi genitori, ma l’odio di Celeste andava trasformandosi in un sentimento sempre più simile all’amicizia e alla fiducia. La bimba alzò gli occhi del colore del mare e, senza esitazione, sostenne lo sguardo dell’uomo.

«Tra qualche giorno arriveremo a Venezia. Il padre di tua madre Diletta, Angelo Campagnola, è una delle persone più influenti della città. Fa parte del Consiglio dei Dieci, il governo della Repubblica, capisci, ed è lui che influenza ogni decisione del doge. Ho giurato al Muqatil che mai ti avrei consegnato a tuo nonno, ma per rispettare questo patto avrò bisogno del tuo aiuto.»

Il Consiglio dei Dieci era stato istituito nel 1310 per punire i responsabili di una sanguinaria congiura capitanata da Bajamonte Tiepolo. Da allora, con alterne vicende, era stato il sinistro compagno di ogni veneziano. Spesso, pur di tenere fede al suo compito istituzionale di garante della sicurezza della Repubblica, il Consiglio si era macchiato di ogni tipo di orrenda nefandezza: i decem sapientes agivano con la stessa intransigenza dei membri del Tribunale ecclesiastico dell’Inquisizione. La città era disseminata di «buche» ove comuni cittadini deponevano denunce anonime. I numerosi scritti delatori giungevano quindi all’esame del Consiglio, che aveva facoltà di decidere se archiviare o dare corso alla denuncia. Un «lettore», scelto tra i Dieci Sapienti, assumeva l’incarico di enunciare gli esposti all’assemblea. Il Consiglio a maggioranza decideva sulla fondatezza di ciò che aveva appena appreso: in caso di mancato interesse la denuncia veniva arsa su due candele che rimanevano sempre accese durante le sedute del tribunale.

Angelo Campagnola faceva parte del Consiglio sin dal giorno in cui il doge aveva ripristinato l’istituzione, qualche anno addietro.

Da quando la sua unica figlia Diletta, anni prima, era fuggita con il più temuto tra i pirati saraceni, il nobile veneziano viveva nel timore di vedere infangata la propria reputazione e di perdere il proprio potere. Ma tale timore si era dimostrato infondato: pochi conoscevano la vera storia di sua figlia e coloro che erano al corrente della vicenda avevano testimoniato solidarietà verso il potente, oltraggiato da una figlia indegna e per questo giustamente rinnegata.

Campagnola camminava nervosamente sulla banchina del porto: una staffetta lo aveva appena avvisato dell’arrivo della nave.

Le ultime notizie che aveva ricevuto da Tabarqa dicevano che la città era in ginocchio, devastata dall’assedio e dall’epidemia di peste.

Angelo Campagnola non riusciva a trattenere l’impazienza, mentre la galea procedeva alle manovre di ormeggio. Il suo più grande desiderio era che Tabarqa fosse caduta. Ciò avrebbe sancito la fine del pirata che aveva razziato per anni i mari della Serenissima. Inoltre, con la morte del Muqatil, il nobile veneziano avrebbe potuto cancellare la macchia che oscurava il suo onore: la vergogna di aver dato alla luce una figlia degenere.

Campagnola non dedicò nemmeno un pensiero alla sorte di Diletta: sua figlia era solo uno sgradevole ricordo che, complice l’ambizione, era stato quasi del tutto cancellato dalla sua mente.

«Humarawa», chiamò Campagnola a gran voce, varcando per primo la passerella di legno che collegava la murata della galea a terra. «Quali notizie mi portate, mio fedele guerriero?» chiese il veneziano non appena si trovò davanti Hito Humarawa.

«Tabarqa è caduta. Le nostre truppe hanno preso possesso della città da circa un mese», rispose il samurai con voce piana e priva di enfasi.

«Che ne è stato di quella che non posso più chiamare figlia e del suo maledetto compagno?»

«Ho saputo da un prigioniero che Diletta ha contratto il morbo e che non è sopravvissuta. Il Muqatil, invece…» Humarawa ebbe un istante di esitazione, «è morto con le armi in pugno.»

«E quale sorte è toccata a quella bambina figlia del Diavolo?»

«Credo abbia fatto la stessa fine di sua madre e della maggior parte della popolazione della città: uccisa dalla peste.»

«Mi congratulo con te, mio fido Humarawa», disse Campagnola sinistramente rassicurato. «Chiederò al doge che venga indetta una giornata di festa per celebrare la sconfitta del Muqatil. Per quanto riguarda te e i tuoi uomini, farò in modo che il vostro valore venga riconosciuto e premiato.»

«Non sono state le nostre armi a sconfiggere quella gente, bensì il flagello della peste. Altrimenti, credo che ci troveremmo ancora fuori dalle mura a cingere la città in un inutile assedio.»

«Poco importa se siano state le armi o il contagio: in ogni caso si è trattato della mano di Dio che ha voluto liberarci di un terribile nemico», disse il Campagnola. «E se devo ringraziare la peste per aver ridotto allo stremo il Muqatil, sarò per sempre infinitamente grato a quel morbo.»

«Ho visto gente morire fra atroci tormenti. Ho visto padri abbandonare figli ancora in vita tra le fiamme nella vana speranza di scampare al contagio. Perdonami, Campagnola, ma mi sembra immorale rendere grazie a un flagello che colpisce indiscriminatamente uomini, donne e bambini innocenti.»

«Siamo tutti nelle mani di Dio…» disse il veneziano allargando le braccia in segno di misericordia.

Il gigantesco Wu era rimasto in disparte. Accanto a lui un fanciullo dai capelli neri e riccioluti e dagli occhi azzurri sembrava voler trovare riparo dietro l’imponente mole del cinese.

Il colore di quegli occhi accese un lampo nella memoria del nobile veneziano.

«Chi sarebbe quel… quel bambino che accompagna il tuo scudiero, Humarawa?» chiese il Campagnola.

«È stata un’idea dello stesso Wu, signore», rispose prontamente il samurai. «Dice che non riesce ad adempiere a tutte le sue mansioni e che gli acciacchi dell’età e gli strati di adipe lo affaticano sempre più. Per questo mi ha chiesto di essere affiancato da un apprendista al quale insegnare la non facile arte di stare al mio fianco e che gli sia d’aiuto nei compiti più gravosi.»

Lo sguardo del Campagnola si fece attento, il suo viso, magro e pallido, si contrasse in una smorfia crudele. Non emise parola, ma i suoi occhi indugiavano con attenzione su Celeste.

Le giornate di festa per celebrare la sconfitta del Muqatil, la peggiore minaccia dei mari, furono addirittura tre. Venezia salutò lo scampato pericolo addobbando se stessa e i suoi abitanti come per il carnevale, ricorrenza peraltro imminente.

Alessandro Crespi sorrise, osservando dal suo palazzo sulla riva degli Schiavoni il corteo di imbarcazioni che procedeva lungo il Canal Grande.

In piedi sulla tolda della nave ammiraglia, Hito Humarawa sembrava quasi a disagio, oggetto dell’ovazione della gente che affollava la banchina e le barche che ingombravano il canale. Al fianco del samurai, oltre all’immancabile Wu, si trovavano il doge e alcuni tra i più alti esponenti dell’aristocrazia cittadina.

Crespi richiuse la finestra e tornò al tavolo lungo e stretto, ove si attardava quando doveva cimentarsi con la contabilità. Un non facile esercizio, data la vastità degli affari di uno dei mercanti più ricchi di Venezia.

Crespi aveva ancora molte spedizioni da controllare, resoconti da verificare, conti da sistemare. Ancora il sorriso apparve sulle labbra del mercante: doveva a Hito Humarawa buona parte della sua posizione sociale. Se non fosse stato per il tesoro che avevano portato via dal Giappone, quando il samurai, prefetto di una grande provincia, era caduto nel disonore e aveva deciso di scappare, forse non sarebbe mai diventato il grande mercante che era.

Era pur vero che la mente fervida di Alessandro Crespi aveva saputo far fruttare al meglio quella fortuna inizialmente costituita da oro puro e pietre preziose. Una ricchezza alla quale Humarawa non aveva mai prestato alcun interesse: per essere appagato sembrava che al samurai fosse sufficiente il contatto con la lama fredda di una katana.

Perso nei suoi ricordi, Crespi si affacciò nuovamente alla finestra e il suo sguardo per un attimo incrociò quello dell’amico giapponese.

Il veneziano era un uomo che non conosceva scrupoli o indugi quando si trattava di raggiungere uno scopo, ma la mancanza di emozioni che esprimevano gli occhi sottili del samurai aveva sempre avuto il potere di metterlo a disagio. Questa volta, però, a Crespi parve che lo sguardo del giapponese fosse acceso di una nuova luce.

«La vita è davvero strana. Chissà che cosa sta pensando adesso Hito Humarawa e chissà cosa penserebbero i suoi parenti se sapessero la verità. In fondo l’ex daimyo della prefettura di Matsue non solo non si è tolto la vita per riparare al disonore, ma è divenuto un eroe per i veneziani.»

Humarawa distolse lo sguardo dalla facciata dell’elegante palazzo nel quale risiedeva assieme ad Alessandro Crespi e al suo scudiero. Le urla di incitamento si levavano ai lati dell’imbarcazione che li stava trasportando lungo il canale gremito di folla.

Accanto al samurai, il doge e Angelo Campagnola salutavano agitando la mano, quasi fosse loro il merito della vittoria. Sul volto del membro del Consiglio dei Dieci aleggiava un sorriso di trionfo.

«La vittoria… la vittoria…» si trovò a pensare Humarawa con quel senso di malinconia che assale quando si è finalmente superato un ostacolo importante. Le voci gli giungevano attutite.

«Ma posso dire veramente di aver superato l’ostacolo?» si chiese Humarawa.

«Dio ti abbia in gloria, orientale», gridò una donna sporgendosi da un ponte. «Ho due figli che vanno per mare: prima o poi si sarebbero imbattuti nel Muqatil. Ti ringrazio con tutto il mio cuore di madre.»

«Pensa invece, donna», avrebbe voluto rispondere, «che dal mio peggior nemico io ho ereditato un cuore di padre…»

La mente del guerriero corse a Celeste: sapeva che d’ora in poi avrebbe dovuto misurarsi con un sentimento nuovo e sconosciuto. Riusciva a dare un nome a quella sensazione, ma persino una macchina da guerra quale lui era aveva paura nel pronunciare la più semplice delle parole: affetto.

Celeste si spostò dalla finestra della camera che le era stata assegnata in casa di Alessandro Crespi. La nave da parata sulla quale sfilava Humarawa era appena transitata. Accanto al giapponese si trovava colui che le avevano detto essere il padre di sua madre. Aveva un aspetto del tutto sinistro.

Le ritornarono alla mente le ultime ore trascorse con i suoi cari.

Sua madre, la moglie del grande Muqatil, la persona che più amava al mondo, sempre pronta a correre in suo aiuto, aveva sul volto il colore grigio della morte. Le vene parevano esploderle sotto la pelle sottile. La peste la stava portando via. Pregandola di non avvicinarsi troppo, quell’angelo aveva pronunciato a fatica un’ultima frase: «Abbi coraggio, piccola mia, e cammina sempre a testa alta. Tuo padre avrà cura di te sino a che vivrà».

Poi i medici avevano allontanato la sua bambina.

Celeste ora ricordava le parole con cui suo padre le aveva annunziato il distacco da entrambi.

«Non ho mai smesso di amarti per un attimo, figlia mia», le aveva detto il Muqatil, la notte prima che lei lasciasse la città di Tabarqa. «È per questo che io desidero sopra a ogni cosa che tu non debba morire. La nostra città sta per cadere, vittima non del disonore, ma del male assassino. Domani ti affiderò alle mani di una persona d’onore che si prenderà cura di te.»

La piccola si era raggomitolata tra le forti braccia del guerriero e aveva provato a protestare per la decisione del padre.

«Non voglio, padre. Non posso perdere le due persone che amo di più al mondo. Preferisco morire qui con voi.»

«Tu non immagini che cosa significhi la parola morte, bimba mia…»

«Lo so, invece. In poche ore sono stata allontanata dal letto di mia madre morente e adesso mio padre mi vuole abbandonare nelle mani di uno sconosciuto.»

«Tuo padre non vuole lasciarti, Celeste… non lo vorrebbe mai. Sono costretto a farlo perché tu sopravviva.»

Celeste lo abbracciò e provò un’altra volta a contrastare il volere del guerriero.

«Così ho deciso», disse il Muqatil con tono che non ammetteva repliche.

Un pianto sommesso scosse l’esile corpo della bambina.

Da quel momento sembravano passati secoli, mentre erano trascorsi soltanto pochi mesi. Celeste si era guardata intorno curiosa mentre percorreva per la prima volta le calli e i canali: quello che aveva sentito dire su Venezia corrispondeva a verità. Si sentiva attratta dal modo di vivere di quella gente, così diverso da tutto ciò che aveva finora conosciuto. Il fatto di essere stata travestita da giovinetto non le pesava più di tanto. Humarawa aveva deciso che fosse più prudente non mostrarla in giro vestita con abiti femminili e lei aveva obbedito: il sangue del più grande guerriero di ogni tempo correva nelle sue vene e gli insegnamenti militari di Wu erano stati il più piacevole dei passatempi. Le lezioni si erano tenute, sotto lo sguardo attento di Humarawa, già dagli ultimi giorni della navigazione verso Venezia, e avevano impegnato il tempo e i pensieri della fanciulla dalle prime ore del mattino fino al tramonto.

Angelo Campagnola distolse lo sguardo dalla casa lungo il Canal Grande. Aveva scorto Alessandro Crespi affacciato al balcone e gli era anche sembrato di vedere la figura di un bambino dietro una delle imposte del piano alto, quello riservato alla servitù.

Lo sguardo penetrante del giovinetto, che Humarawa sosteneva essere l’aiutante del suo scudiero, gli tornò alla mente.

«Un giudice ha il dovere di indagare su tutte le questioni che non gli sembrano chiare», si disse l’anziano membro del Consiglio dei Dieci.

Non appena terminata la festa, Campagnola si sarebbe dato da fare per sapere qualcosa di più su quel ragazzino che, stranamente, era capace di provocare in lui un senso di disagio.

Il giorno seguente avrebbe richiesto le informazioni necessarie.

Fu allora che accadde qualcosa di incomprensibile per coloro che incedevano sulle imbarcazioni: la folla assiepata lungo le calli e sui ponti parve di colpo impazzire e la gente si mise a correre urlando in preda al terrore.

Le prime case incominciarono a cadere come fossero state castelli di carta, poi fu come se una mano gigantesca e invisibile stesse percuotendo il suolo: il terremoto del 25 gennaio avrebbe causato gravi danni ed enormi lutti all’intera popolazione della città lagunare.

La paura si impadronì di Angelo Campagnola e l’angoscia provocata dallo spettacolo di edifici che si accartocciavano, avvolti in una polvere densa, si sovrappose all’inquietudine causata dallo sguardo degli occhi colore del mare del giovane al seguito di Humarawa.

7

Ottobre 2002

«A causa dei loro peccati furono affogati e poi introdotti nel Fuoco, e non trovarono nessun soccorritore…»

Conrad Deuville lasciò cadere pesantemente sul tavolo le foto che ritraevano l’immane rogo che ardeva nel golfo Persico, in prossimità dello stretto di Hormuz, e che per le sue drammatiche conseguenze era ormai considerato il più grave disastro navale avvenuto in tempo di pace.

«Si prende gioco di noi!» esclamò il direttore dell’FBI, rivolgendosi ai membri del suo gabinetto. «Ecco che cosa voleva dire nel suo primo delirante messaggio. E adesso vuole metterci di nuovo alla prova con un terribile enigma.»

Lo staff personale del direttore, composto da nove persone, e da ognuno dei responsabili dei cinque dipartimenti in cui era suddiviso l’FBI, non aveva mai abbassato la guardia. L’attentato contro le sedi irachene a New York risaliva ormai a sette mesi prima, e non ci voleva un osservatore particolarmente attento per accorgersi che le indagini erano a un punto morto: nelle mani degli inquirenti c’erano soltanto alcuni oscuri messaggi di rivendicazione, un intero piano del palazzo delle Nazioni Unite in via di rifacimento a seguito dell’esplosione e le carcasse di cinque navi affondate a Hormuz.

I mezzi di recupero, giunti da ogni parte del mondo, stavano cercando di rimuovere l’ammasso di lamiere contorte, tra mille difficoltà e nel minor tempo possibile. Ma il tempo intercorso era comunque troppo e gli investigatori annaspavano nel buio.

«Il presidente mi sommerge di telefonate, non passa giorno che il Congresso non debba rispondere a interpellanze sullo stato delle nostre indagini e sulle disponibilità energetiche del paese», disse Deuville furibondo. «Dai giorni successivi all’attentato, il prezzo del petrolio grezzo si è attestato attorno ai settanta dollari al barile: buona parte delle economie occidentali è in ginocchio. Come se non bastasse, la CIA — visto che l’ultimo attentato è avvenuto fuori dagli Stati Uniti — sta facendo pressioni affinché le alte sfere estromettano l’FBI dalle indagini. Insomma, ho paura che ci resti davvero poco tempo prima di ritrovarci a dirigere il traffico in qualche crocevia di Washington.»

Così dicendo Deuville indicò il viavai di auto in Pennsylvania Avenue. Dalle finestre della sala riunioni all’ultimo piano dell’Edgar Hoover Building, il palazzo ove si trovava la sede centrale del Federal Bureau, si poteva godere di un’ottima vista sull’intera città di Washington. Le auto incolonnate sembravano seguire il corso di un fiume in piena e le luci rosse dei fanali posteriori parevano occhi di animali travolti dall’onda.

«Dopo la nostra ultima riunione a New York, il Giusto, come ormai lo chiamano tutti i media, non si è più fatto vivo se non per rivendicare l’attentato a Hormuz. Poche ore fa ho personalmente ricevuto», dicendo questo Deuville mise alcune fotocopie sul tavolo, «un suo nuovo e farneticante messaggio. Come potete vedere dalle copie in vostro possesso, la missiva si chiude con l’inconfondibile firma di quel figlio di puttana: la stella a sei punte marcata in ceralacca.»

Nella stanza scese un silenzio carico di frustrazione: ognuno dei collaboratori di Deuville stava probabilmente pensando la stessa cosa. Erano mesi che cercavano di braccare quel terrorista e, per ora, non avevano in mano altro che un pugno di mosche.

Fu Andrew Chandler, responsabile del controspionaggio, a rompere per primo il silenzio. «Anche questa volta», disse il caposettore dell’FBI, «il Giusto si serve di versetti del Corano e forse, come è successo per Hormuz, in quelle frasi potrebbe celarsi la sede del prossimo attentato.»

Così dicendo Chandler lesse ad alta voce la frase posta al centro della pagina dattiloscritta: «Rivelammo a Mosè e a suo fratello: ‘Preparate, in Egitto, case per il vostro popolo, fate delle vostre case luoghi di culto e assolvete all’orazione. Danne la lieta novella ai credenti’. In verità col vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal Ricordo di Allah e dall’orazione. Ve ne asterrete?»

Gli occhiali dalla montatura sottile lasciavano intravedere gli occhi dalla forma allungata e il colore azzurro chiaro dell’iride. L’aria da studiosa della brillante dirigente Cassandra Ziegler, responsabile dell’ufficio Affari pubblici dello staff esecutivo di Conrad Deuville, contrastava col suo aspetto avvenente. Cassandra svolgeva un ruolo essenziale al vertice della struttura federale: era una sorta di braccio esecutivo del direttore. E in più di una occasione il suo acume e le sue capacità di donna avevano tolto d’impiccio l’intero staff da situazioni a dir poco imbarazzanti nei confronti dei referenti politici.

Poteva apparire strano, ma la sua bellezza le aveva creato più di un problema nel mondo del lavoro: erano ancora poche le persone disposte a credere che una bella ragazza potesse essere anche intelligente. Così Cassandra aveva dovuto faticare parecchio per dimostrare le sue capacità. Adesso, oltrepassati da poco i quaranta, era ancora una donna dotata di grande fascino ed era riuscita, con continui esami sul campo, a superare la diffidenza che pareva sorgere ogni volta che qualche collaboratore o superiore la guardava nei suoi bellissimi occhi.

«Permettimi di non essere del tutto d’accordo con te, Andrew», disse Cassandra rivolta a Chandler. «Io non penso che il Giusto voglia mostrare solamente una pista agli inquirenti. Credo invece che questi messaggi siano l’espressione della sua natura narcisistica. Una sorta di indicazione che gli dia modo di dire: ‘Guardate la mia grandezza, quello di cui vi avevo avvertito si è puntualmente avverato’.»

«Narciso o no», intervenne il direttore dell’FBI, «noi siamo qui a brancolare nel buio, mentre quel pazzo sta piazzando le sue micidiali cariche esplosive in qualche parte del mondo. A proposito, i nostri hanno appena finito di vagliare ore e ore di videocassette registrate dalla sicurezza in aeroporti, valichi di confine e stazioni ferroviarie nel raggio di cento chilometri da Hormuz. Senza contare le riproduzioni delle telecamere interne ed esterne al palazzo delle Nazioni Unite. Il Giusto sa come eludere qualunque sofisticato sistema di controllo: nessun evento fuori dalla norma né persone sospette sono stati ripresi dalle telecamere nei giorni precedenti gli attentati.»

L’aria calda e umida non contribuiva a mitigare l’amarezza che Deidra Blasey provava in quel momento. L’aeroporto internazionale del Cairo era lo specchio del caos che regnava nella città che più al mondo aveva il potere di mettere a disagio il colonnello degli artificieri dei marine. Quella maledetta metropoli le aveva portato via il suo unico figlio. Per fortuna mancavano poche ore alla partenza del volo militare che avrebbe ricondotto a Fort Lejeune lei, la sua squadra e alcuni giornalisti che documentavano le azioni di guerra: non avrebbe resistito ancora per molto in quel luogo.

Il sergente Kingston parlò come se conoscesse i pensieri del suo superiore: «Certo che non deve essere facile per lei, colonnello, ritornare da queste parti».

Deidra Blasey represse a stento una risposta carica di rancore e si limitò a un cenno di assenso col capo.

Il Cairo Maadi Tower Casino era un hotel molto elegante e apparteneva a una multinazionale a capitale arabo-francese. Era dotato di centosettanta camere, tre suite e un casinò tra i più frequentati della capitale egiziana. Dalle finestre delle stanze si poteva godere la vista del Nilo e, in lontananza, si scorgevano le sagome delle piramidi. La struttura alberghiera distava una dozzina di chilometri dal centro della città e una quarantina di minuti dall’aeroporto internazionale.

L’ora non era quella in cui le sale da gioco si riempivano di avventori: all’interno del casinò si trovavano in quel momento un centinaio di persone e quasi altrettanti dipendenti.

Al tavolo numero 6 di roulette americana, un anziano arabo stava perdendo la sua partita contro il calcolo delle probabilità. La pallina saltellò sui numeri. Nella sala scese il silenzio: l’arabo aveva puntato qualcosa come centomila dollari in una sola mano. La bianca sfera d’avorio parve esitare, entrò e uscì più volte dagli alloggiamenti, compì una piroetta e andò a posarsi nello scasso del doppio zero.

E in quell’istante scoppiò il finimondo.

Almeno quindici cariche d’alto potenziale esplosero simultaneamente. L’intero stabile del Cairo Maadi Tower Casino sembrò accartocciarsi su se stesso, quindi l’edificio collassò avvolto in una nuvola di polvere e fumo.

Il velivolo militare americano era in fase di decollo quando sorvolò a bassa quota ciò che restava del Maadi Tower.

«Guardi laggiù, sergente Kingston», disse Deidra Blasey indicando il luogo dell’attentato, «dev’essere successo qualche cosa di molto grave.»

Altri occhi, a bordo dell’aereo, si soffermarono sulla scena e l’operatore della K.C. News riuscì a mettere mano alla telecamera e a riprendere per qualche secondo il luogo del disastro.

Jordan Cruner si era appena appisolato. Le voci concitate dei suoi colleghi di viaggio, seduti nelle ultime file, lo svegliarono.

«Ma che cosa avete da gridare?» chiese Cruner con aria seccata.

Fu l’operatore a metterlo al corrente di quello che avevano appena intravisto sotto di loro.

«C’erano almeno una decina di mezzi di soccorso e ne stavano arrivando molti altri da ogni direzione», disse il tecnico.

Cruner non chiese permesso a nessuno dei membri del personale di bordo e, preso il telefono cellulare, compose il numero della redazione della K.C. News al Cairo: doveva sapere che cosa era successo là sotto e, qualsiasi cosa fosse stata, la K.C. News sarebbe, come sempre, arrivata per prima.

Pochi istanti più tardi Cruner si apprestava a registrare un servizio dalla carlinga dell’aereo.

L’espressione del direttore dell’FBI era imperscrutabile. La comunicazione era nelle sue mani da qualche minuto, il tempo necessario per leggerla almeno un paio di volte. Infine Deuville rilesse, scandendo le parole, il punto nodale della missiva alla responsabile degli Affari pubblici dell’FBI: «La Commissione anti-terrorismo, in rappresentanza del Congresso degli Stati Uniti, ha deliberato, in data 15 ottobre 2002, che le indagini sugli attacchi terroristici compiuti dal sedicente ‘Giusto in nome di Dio’ siano svolte dalle agenzie governative preposte al controllo del territorio al di fuori di quello nazionale. Gli attentati, infatti, sono stati compiuti per lo più oltre i confini degli Stati Uniti d’America. Con la presente si invita quindi codesto Ufficio federale a consegnare quanto in suo possesso, nonché i risultati delle indagini sino a ora svolte. Si ammonisce altresì codesto Ufficio di voler ottemperare alla delibera del Congresso e di abbandonare le indagini in corso, dandone opportuna informazione all’Agenzia titolata a indagare.

«Siamo fuori, Cassandra!» disse Deuville, rivolgendosi alla sua collaboratrice con aria più malinconica che infuriata.

Contemporaneamente, presso la sede della Central Intelligence Agency a Langley, in Virginia, George Glakas, seduto alla sua scrivania, stava esprimendo tutta la sua soddisfazione nel leggere la medesima lettera.

«E adesso siete fuori, cari i nostri cugini federali», disse tra sé Glakas, sorridendo a denti stretti. «Da questo momento in poi il ‘Giusto in nome di Dio’ è affar nostro, anzi è affare di mia esclusiva competenza.»

Glakas conservava un ricordo confuso dell’invasione della sua terra d’origine. Aveva solo sei anni quando i turchi avevano occupato circa il quaranta per cento dell’isola di Cipro. Il caposettore della CIA ricordava la fusoliera bianca dell’aereo americano che avrebbe condotto lui, suo padre e suo fratello negli Stati Uniti: sua madre era rimasta uccisa in quello che venne definito un «tragico incidente», innescato da un mezzo corazzato delle truppe turche sbarcate a Cipro in quel lontano 1974.

Giunto in America, Glakas aveva cambiato l’ellenico nome di Iorgos con il più americano George e si era preparato a quel genere di rapida integrazione che solo gli Stati Uniti sono in grado di garantire a chi cerca di ricostruirsi una vita. Affermare che George «Iorgos» Glakas c’era riuscito corrispondeva a una assoluta verità.

I tre dipartimenti nei quali è diviso il braccio operativo della CIA rispondono al nome di Intelligence, Operazioni e Scienze e tecnologie. Nell’organigramma dell’agenzia governativa, ogni dipartimento è diviso in settori. George Glakas occupava, a soli trentaquattro anni, il prestigioso ruolo di capo della squadra antiterrorismo.

«Anche se», confessò ancora Glakas a se stesso, commentando le azioni del Giusto, «è ora che anche quei figli di puttana musulmani imparino a conoscere che cosa sono capaci di fare le bombe terroriste: quasi ogni giorno degli innocenti sono vittime delle loro mani assassine. E molti di questi non potranno mai raccontare a nessuno che cosa si prova a morire per mano di un fanatico integralista islamico.»

Glakas ripiegò la lettera della Commissione.

8

Tønder, Prussia, maggio 1917

Era passato quasi un anno da quando gli austriaci l’avevano catturato sulle Dolomiti, ma il maggiore Sciarra non si sarebbe mai abituato alle faticose e interminabili giornate da forzato; anche se agli ufficiali prigionieri, soprattutto a coloro che gli austroungarici ritenevano degni, venivano destinati compiti meno gravosi di quelli assegnati ai soldati semplici.

Insieme a lui c’erano almeno una cinquantina di deportati di guerra: per la maggior parte inglesi e francesi. Sciarra era il più alto in grado e, secondo le regole del campo, a lui spettavano il comando sul gruppo di prigionieri e la responsabilità di ogni loro atto dinanzi ai carcerieri.

Grazie alla perfetta conoscenza del tedesco, il maggiore italiano era stato incaricato dell’organizzazione della manutenzione e delle pulizie dell’intera base: gli austriaci erano certi che alla fine della guerra — una guerra che sicuramente avrebbero vinto — il fatto che dei prigionieri fossero venuti a conoscenza d’importanti segreti militari non sarebbe stato in alcun modo rilevante.

La sorveglianza, in realtà, non era molto opprimente: il gruppo nella base d’aviazione di Tønder godeva di una certa libertà.

Il campo era simile a una piccola città, dotato di una fabbrica per la produzione di gas, di una centrale elettrica, di serbatoi interrati per il combustibile e di una serie di edifici che erano stati ultimati all’inizio della guerra. Le due baracche che ospitavano i prigionieri si trovavano nella stessa area in cui alloggiavano i seicento militari in servizio nella base. A poca distanza dal recinto in filo spinato che circondava le baracche svettava un grande capannone che veniva chiamato Toska: un gigantesco hangar nel quale trovavano ricovero le aeronavi.

Ogni mattina, domeniche incluse, Alberto Sciarra della Volta e il plotone di prigionieri vi venivano scortati da una mezza dozzina di soldati. Quella era la prima e più importante tappa della loro quotidiana routine. Seguivano poi le pulizie degli uffici, delle altre aviorimesse, dei dormitori, dei magazzini e dei piazzali. Alcuni degli uomini venivano anche utilizzati per mettere in ordine gli alloggi ufficiali. Le sentinelle restavano a sorvegliare i prigionieri con le armi spianate sino al termine di un massacrante turno di lavoro che non durava mai meno di quattordici ore.

Sciarra sedette per terra, poggiando la schiena alla parete del capannone. Estrasse la gavetta Negedly in ferro stagnato e affondò il cucchiaio nella brodaglia incolore con lo stesso entusiasmo con cui un aspirante suicida pensa al nascere di una nuova vita.

Gli occhi dell’ufficiale italiano corsero lungo i centonovantotto metri dello Zeppelin L30. Si soffermarono su ognuno dei sei motori Maybach da duecentoquaranta cavalli ciascuno, capaci di spingere quel sigaro di ventiquattro metri di diametro a una velocità massima di cento chilometri orari. Nei diciannove palloni aerostatici disposti all’interno dell’enorme fusoliera erano contenuti oltre cinquantaseimila metri cubi di una miscela di idrogeno: gas infiammabile e detonante. La pericolosità di questa sorta di bomba innescata trovava la sua giustificazione d’essere non appena il dirigibile si librava in volo: l’aeromobile si alzava con leggerezza, era facilmente manovrabile e possedeva una notevole autonomia. Quella immensa balena argentata aveva tutte le caratteristiche per diventare una nuova e temibile arma da guerra.

Il volo inaugurale era stato effettuato a maggio dell’anno precedente e, da allora, l’aeronave L30 aveva portato a termine una trentina di missioni di ricognizione e ben dodici attacchi aerei.

Ma c’era un segreto di cui erano partecipi soltanto gli uomini della base, prigionieri inclusi: lo Zeppelin contrassegnato con la sigla L30 aveva un gemello. Entrambe le aeronavi portavano gli stessi numeri identificativi — LZ62 — sul ventre e sulla coda: in tal modo sarebbero state un ottimo mezzo per confondere il nemico ignaro. La segnalazione di due attacchi, a breve distanza di tempo ma in due luoghi diversi, da parte di quello che pareva lo stesso dirigibile, avrebbe tratto in inganno riguardo alla velocità del velivolo e alle sue reali prestazioni.

Inoltre gli obiettivi dei dirigibili erano per lo più totalmente disarmati di fronte a quel tipo di incursioni: gli Zeppelin giungevano sulle aree da bombardare all’improvviso, e restavano a quote che rendevano pressoché vana ogni reazione dell’antiaerea. Nel capiente vano dell’L30 venivano caricate circa cinquanta bombe ad alto potenziale, tra dirompenti e incendiarie. Nessun aereo avrebbe mai potuto trasportare un tale carico distruttivo.

Il maggiore Sciarra si sentiva suo malgrado complice del successo di quella perfetta macchina da guerra, anche se il suo personale contributo consisteva nel maneggiare una ramazza e dirigere una squadra di spazzini.

Assorto com’era, non si accorse subito del sopraggiungere di un suo compagno di prigionia.

Grénoire Padget era un capitano belga, catturato nel 1914 quando le truppe austroungariche, nel corso dei primi giorni di guerra, avevano invaso il suo paese. Sedette a fianco dell’italiano distogliendolo dai suoi pensieri. Entrambi osservavano uno dei militari che, con piglio marziale, puntava il moschetto Mannlicher sul drappello di prigionieri che si apprestava a godere dell’agognata mezz’ora di riposo per il pranzo.

«Se avessi io per le mani un bel fucile ti farei vedere, caro il mio aguzzino», disse sottovoce il capitano belga e poi aggiunse: «Mi hanno detto che tutto è pronto per domani sera, maggiore».

«Voi sapete che non sono d’accordo, capitano», rispose Sciarra in francese. «Ma non posso certo dissociarmi dal progetto. Ritengo che un tentativo di sabotaggio che non preveda un piano di fuga accurato equivalga per noi tutti a un sicuro suicidio.»

«Avete ragione, maggiore Sciarra, ma la nostra esistenza, relegati a pulire la merda degli austriaci, non si può certo chiamare vita. Preferisco tentare di manomettere queste macchine dispensatrici di morte che non lucidare i cessi e gli stivali degli ufficiali della base.»

A quel punto il carceriere diresse l’arma verso di loro e gridò con aria minacciosa, scandendo bene le parole: «Dovete parlare tedesco! Alla prossima parola straniera vi sbatterò in cella di rigore per una trentina di giorni. Voglio proprio vedere se la dieta a pane e acqua e il buio vi convinceranno a rispettare le regole!»

Sciarra e il capitano Grénoire Padget interruppero la loro conversazione: una eventuale punizione da parte dei carcerieri e la conseguente defezione anche di un solo partecipante avrebbero potuto compromettere l’intero piano.

«Dov’è Grénoire?» La voce dell’ufficiale italiano era un sibilo, appena percettibile nella notte scura, ma i toni erano secchi e affilati come una lama d’acciaio.

«Non lo so, signor maggiore», rispose un artigliere inglese. «Era dietro di me sino a poco fa…»

Non potevano fermarsi, non adesso. Sia che il capitano belga ci fosse, sia che non ci fosse.

Il piano che lo stesso Padget aveva contribuito a progettare prevedeva un’incursione all’interno dell’impianto di produzione d’idrogeno. Con rudimentali cariche esplosive si sarebbero dovuti sabotare i grossi cilindri d’acciaio che contenevano il gas altamente infiammabile con cui venivano riempiti i serbatoi dei dirigibili. A seguito dell’incendio che si sarebbe sviluppato, l’intero contingente di soldati della base sarebbe stato impegnato in tutt’altre faccende che quella di dedicarsi alla ricerca di alcune decine di fuggitivi. Da quel momento in poi i prigionieri sarebbero stati liberi di correre il più lontano possibile.

Sciarra si era subito detto perplesso rispetto all’attuabilità del piano: sempre ammesso che fossero riusciti ad abbandonare la base di Tønder e sfuggire alla rete di controlli e posti di blocco, come avrebbero potuto trenta prigionieri che ancora indossavano la tenuta da reclusi raggiungere le linee amiche? Il primo avamposto alleato distava diverse centinaia di chilometri.

L’unico aspetto positivo del piano era costituito dal sabotaggio alla fabbrica di produzione di idrogeno che avrebbe obbligato a terra i dirigibili per parecchio tempo.

Sciarra, inizialmente, aveva manifestato i suoi dubbi, poi si era uniformato al volere della maggioranza: pareva che quegli uomini non sopportassero più la prigionia e fossero disposti a qualsiasi azione, anche la più pericolosa, pur di oltrepassare il filo spinato che soffocava la loro vita.

Il colonnello Eberhard Meyer era il pilota di dirigibili più decorato dell’aviazione teutonica: anche per questo motivo era stato nominato comandante della base di Tønder. Aveva sostituito il colonnello di fanteria Carroll, uomo debole e privo del carisma necessario a mandare avanti una tra le strutture più importanti per le strategie militari dell’impero.

Meyer era un ufficiale tutto d’un pezzo, pronto a mettere da parte qualsiasi scrupolo pur di raggiungere i suoi scopi. Il colonnello fece un cenno all’uomo che stava in piedi dinanzi a lui ed entrambi uscirono dall’ufficio del comandante.

La notte scura li avvolse e i due vennero affiancati da un drappello composto da una trentina di fucilieri.

Il buio sarebbe stato loro amico: un fedele complice che avrebbe celato i movimenti dei trenta fuggitivi.

Qualche giorno prima Pilou, un simpatico caporale di cavalleria francese, aveva trafugato una cesoia nell’hangar, l’aveva custodita nella patta dei calzoni e adesso la stava estraendo con la sacralità con cui un prete alza le ostie sull’altare.

«Taglia!» ordinò Sciarra.

Il primo dei cavi venne tranciato di netto dalla cesoia; seguirono gli altri, sino a quando nel reticolato non fu aperto un varco sufficiente per far passare un uomo alla volta.

I fuggitivi avevano concordato che, dopo il sabotaggio ai serbatoi di idrogeno, avrebbero cercato di manomettere anche i tre Zeppelin che si trovavano ormeggiati a mezz’aria, ancorati a una specie di ventosa d’acciaio che avvolgeva buona parte delle prore. Quelle che parevano immense creature argentate in preda a un sonno profondo erano sorvegliate da due uomini armati, in quel momento distratti da una bottiglia di liquore e da un cane randagio.

Sciarra osservò la disposizione delle sentinelle lungo il perimetro: sulle garitte tutto sembrava tranquillo e nulla lasciava presagire che i loro carcerieri sospettassero qualcosa. I potenti fari all’acetilene, usati anche nelle postazioni di contraerea, erano spenti.

I prigionieri avevano incominciato a sentire il profumo della libertà non appena si erano lasciati alle spalle la recinzione delle baracche: pur sapendo che dovevano ancora portare a termine la parte più pericolosa del piano, il semplice gesto di recidere il filo spinato li aveva fatti sentire più vicini alla fuga.

Sciarra alzò la mano destra e fece cenno ai suoi di fermarsi: dovevano restare nascosti dietro il muro dell’hangar nel quale si trovavano i sette biplani Albatros D3. Lì avrebbero ripassato un’ultima volta le modalità di assalto alla fabbrica di gas, distante poche decine di metri.

Gli uomini si erano appena radunati quando il fascio di luce ferì l’oscurità della notte illuminando ogni anfratto del campo.

La voce del colonnello Meyer si levò alta, amplificata dal megafono in rame che l’alto ufficiale stringeva nella mano sinistra: «Maggiore Sciarra della Volta, dite ai vostri di evitare inutili spargimenti di sangue. Siete circondati. Arrendetevi!»

Pilou, come tutti del resto, era rimasto colpito fisicamente da quella luce bianca: gli occhi gli dolevano e, istintivamente, alzò la mano che ancora stringeva la cesoia per pararsi la vista.

Il primo colpo di fucile ruppe il silenzio sino all’istante in cui il sibilo della pallottola non si spense tra gli occhi del caporale francese.

Poi si scatenò l’inferno: gli austriaci, appostati da ore, nel timore che Pilou impugnasse un fucile avevano aperto il fuoco sui trenta prigionieri disarmati. Simili a squali accecati ed eccitati dal gusto del sangue, i fucilieri continuavano a premere il grilletto senza nemmeno prendere la mira.

La pioggia di proiettili investì il drappello, schegge incandescenti si alzavano dal selciato, molti dei fuggiaschi caddero sotto i primi colpi.

Il maggiore italiano rimase in piedi agitando le mani, ma le sue parole: «Cessate il fuoco, siamo disarmati!» non riuscivano a sovrastare il frastuono degli spari.

La sparatoria durò alcuni interminabili secondi, poi si spense.

Sciarra si tastò le spalle, le braccia e le gambe: era miracolosamente illeso. Sorte peggiore era toccata ad alcuni dei suoi compagni di prigionia: nove di loro non si sarebbero rialzati mai più.

Pochi istanti più tardi l’ufficiale italiano veniva ammanettato e stava per essere condotto verso la cella di rigore quando un secco comando del colonnello Meyer diede ordine al plotone che lo scortava di fermarsi.

«E così abbiamo mal riposto la nostra fiducia in voi, maggiore Sciarra della Volta», disse Meyer riponendo nella fondina la sua pistola Mauser 7,63 ancora fumante. «Credevamo che la vostra lealtà di ufficiale fosse…»

«Sono un ufficiale e come tale ho giurato fedeltà al mio paese, colonnello. Quel giuramento è l’unico a cui io intenda prestare fede», lo interruppe l’italiano.

«Bene, ma questa vostra encomiabile fedeltà vi costerà cara, maggiore. L’evasione e il sabotaggio sono puniti con la morte.»

Fu allora che Sciarra comprese il motivo per cui Meyer poteva parlare anche di un sabotaggio che nessuno, ancora, aveva compiuto, ma che costituiva il nodo focale del loro piano: nella luce bianca del faro, il maggiore italiano distinse chiaramente la sagoma di Padget che tentava di nascondersi tra i militari austriaci ai quali aveva appena consegnato, con un vile tradimento, i suoi compagni.

9

Venezia, febbraio 1348

In dialetto veneziano il termine «giròn» viene usato per indicare la parte tonda del remo prima che questo, allargandosi, vada a formare la pala. Donato Bioca si era guadagnato quel soprannome sin da piccolo, da quando aveva percosso a sangue, con un remo usato come un bastone, alcuni suoi coetanei. L’abitudine alla violenza non era scomparsa con l’età, anzi: protetto dalla copertura fornitagli dall’essere al servizio del Consiglio dei Dieci, era diventato sempre più aggressivo, pericoloso e poco raccomandabile.

Giròn si inchinò dinanzi al suo benefattore: grazie a quell’uomo poteva continuare impunemente a dare sfogo alla sua indole malvagia.

«Voglio sapere ogni cosa del ragazzino dagli occhi blu che il giapponese conduce con sé», disse l’uomo riccamente vestito.

«Avete già qualche idea, signoria?» chiese Giròn, sperando che le sue indagini fossero facilitate da una spiata o dalla presenza di qualche prova compromettente.

«Niente, Giròn. Solo una serie di congetture e sensazioni», rispose Campagnola.

Nella mente rude di Donato Bioca ogni richiesta di Campagnola corrispondeva al più vincolante degli ordini. Pochi minuti più tardi una nebbia sottile accolse Giròn nelle calli della città.

«No. Non così, Celeste!» disse con aria severa Humarawa, «ricordati che la parata è importante quanto l’affondo: una buona difesa è la migliore arma per sferrare un attacco.»

Così dicendo il giapponese afferrò pazientemente l’elsa della katana che la bambina teneva in mano e impartì una breve ma esauriente lezione di scherma alla figlia del Muqatil.

«Chiedo scusa, signore», disse il gigantesco Wu, che era rimasto in disparte sino a quel momento, «è meglio che il nostro apprendista abbia un nome maschile, dato che come assistente scudiero lo abbiamo presentato alla città. Se continuate a chiamarlo — o a chiamarla — Celeste, alimenteremo nuovi sospetti e in breve tempo la verità verrà a galla con conseguenze che proprio non riesco a immaginare. Lo sguardo che Campagnola ha rivolto alla bambina non mi è affatto piaciuto.»

«Hai ragione, Wu», disse il giapponese, quindi si esibì in un buffo inchino rivolto a Celeste. «Dunque, damigella, a voi il piacere della scelta. Con quale nome vorreste essere chiamata dai veneziani?»

Nell’ascoltare quelle parole, la faccia deturpata di Wu si distese in un sorriso: non aveva mai visto il suo signore allegro come da quando Celeste era entrata nella loro vita.

«Adil!» esclamò quella senza esitazione. «Nella città di Tabarqa c’era un bambino di nome Adil con cui giocavo…» All’improvviso alcune nubi scure parvero affollare i suoi pensieri. «La peste si è presa anche lui, insieme ai miei cari.»

«Forza, Adil», la distolse Humarawa. «Mettiti in guardia e preparati a far vedere al maestro i tuoi progressi.»

Con la massima serietà e con la determinazione di chi non vuole cedere alla sofferenza, Celeste, o meglio, Adil, riprese la posizione di guardia.

Humarawa parve studiare per un istante i lati deboli del piccolo avversario che gli stava di fronte, quindi fece balenare in aria la sua lama. Il rumore secco del metallo provocò un sorriso nel duro volto del giapponese: la sua allieva aveva risposto con una perfetta parata al suo affondo.

Quando la lezione di scherma fu terminata, Humarawa e Wu si ritrovarono da soli nella vasta sala d’armi, al piano terreno della casa di Alessandro Crespi.

«Tu credi che sia giusto, mio signore?» chiese il cinese.

«Giusto che cosa, Wu?» disse il samurai di rimando.

«Avviare una bambina all’uso delle armi. Forse sarebbe meglio che apprendesse l’arte del canto e del ricamo.»

«Un precettore sta già impartendo a Celeste lezioni di aritmetica e di scrittura. Voglio che alla piccola sia data la migliore istruzione possibile ma, se le mie previsioni si riveleranno esatte, ritengo che anche la conoscenza delle armi le sarà utile. Nel mondo in cui dovrà vivere bisogna sapersi difendere per non soccombere. Credo che anche suo padre converrebbe con me che stiamo facendo la cosa giusta.»

«Strana cosa il destino, mio signore. Chi avrebbe mai detto che proprio tu ti saresti preso cura dell’unica figlia del tuo nemico.»

«Il Muqatil è stato per me qualcosa di più di un nemico: è stato la ragione della mia vita. Per lui, devo essere sincero, non ho mai provato odio, ma profondo rispetto. Non credo che incontreremo mai più un uomo così leale.»

«Lo penso anch’io, mio signore. Così come sono convinto che, da quando il Muqatil non c’è più, una parte della vostra vita se ne è andata con lui. Per fortuna è arrivata questa bambina a riempire le vostre… le nostre giornate.»

«Via, Wu, smettila di dire eresie…»

La voce di Crespi, sopraggiunto nella sala d’armi, interruppe la conversazione dei due asiatici.

«Un certo Bioca, un tipo poco raccomandabile del quale il Consiglio dei Dieci si serve per le sue più losche missioni, oggi mi ha avvicinato in San Marco.»

«Non c’è bisogno che tu mi dica quello che il Bioca voleva sapere…» disse Humarawa.

«Già, quello che in città tutti chiamano il Giròn mi ha fatto un sacco di domande su Wu, ma il suo vero interesse era Celeste.»

«Sei riuscito a tenere a freno la curiosità di quell’uomo?» chiese Humarawa, assumendo un’espressione che avrebbe messo all’erta chiunque avesse cercato di sbarrargli il passo. «A questo proposito volevo dirti, Alessandro, che da oggi la bambina verrà chiamata, da tutti noi e in ogni occasione, col nome di Adil.»

«Mi sembra una decisione saggia, Hito. Di fronte alle incalzanti domande del Giròn non sapevo che nome attribuire al giovane apprendista. Comunque credo di essermela cavata piuttosto bene.»

Una barca che trasportava legname transitò in quel momento lungo la riva degli Schiavoni. L’uomo che remava parve rallentare il ritmo della vogata quando giunse dinanzi al palazzo di Crespi. Il marinaio lasciò la presa dei remi, si asciugò il sudore con un panno lercio e sbirciò con un interesse sospetto l’approdo della casa, a cui si accedeva direttamente dal canale mediante una grande porta in legno, in quel momento spalancata.

Donato Bioca aveva visto abbastanza: non avrebbe avuto bisogno di chiavi per entrare nel palazzo. Il Giròn conosceva modi molto più sbrigativi, anche se spesso si trattava di sistemi non proprio legali. Quella sera ne avrebbe sperimentato uno.

Il palazzo che Alessandro Crespi aveva comprato qualche anno prima occupava l’isolato posto tra riva degli Schiavoni, ramo Pescaria, la calle del Forno e il Canal Grande. La facciata che si apriva lungo il «corso» principale della città lagunare era finemente decorata. La casa era appartenuta a un nobile ossessionato dal vizio del gioco e per questo caduto in disgrazia. Crespi, astuto mercante e oculato gestore delle risorse di Humarawa, aveva pensato bene di farsi avanti col nobile giocatore ed era riuscito ad accaparrarsi l’elegante dimora a un prezzo assai conveniente.

Celeste godeva di una certa libertà: le era stata assegnata una piccola stanza che non doveva dividere con nessuno, posta al terzo dei quattro piani della casa. La finestra lasciava penetrare i raggi del pallido sole invernale.

Ascoltando i discorsi dei domestici aveva capito che negli ultimi anni una morsa di gelo aveva avvolto l’Europa: gli inverni erano sempre più rigidi e le estati brevi e piovose.

Il pensiero della fanciulla corse ai tanti senzatetto che il terremoto aveva provocato. Per fortuna la casa di Crespi aveva retto alle scosse del 25 gennaio.

Celeste si ritirò nella sua stanza. Provava quasi vergogna ad ammetterlo, ma quel genere di vita non le dispiaceva affatto: la bellezza di Venezia la metteva di buonumore. Humarawa, Crespi e persino il rude Wu erano molto gentili con lei. Gli insegnamenti che riceveva riempivano le sue giornate.

Ma nonostante ciò, ogni tanto la malinconia e il rimpianto la vincevano. «Padre mio, madre mia…» mormorava mentre un velo di tristezza calava sui suoi occhi, «non so da dove mi stiate guardando adesso, ma mi pare di sentire le vostre amate mani che mi guidano e mi proteggono.»

La bimba si alzò, si passò una mano tra i capelli neri e crespi. Celeste non si era ancora abituata ai capelli corti. Guardò la sua immagine riflessa nella tinozza di rame nella quale era appena stata versata l’acqua calda e incominciò a spogliarsi.

«Adil!» esclamò cercando di insegnare a se stessa il suo nuovo nome. «Adil!» ripeté ancora, mentre il suo sguardo correva al basso ventre, dove cominciava a spuntare una leggera peluria.

Donato Bioca era riuscito a introdursi, non senza fatica, fino al terzo piano del palazzo e ora, appiattito contro il muro, spiava attraverso la porta socchiusa della stanza colei che aveva creduto essere un fanciullo. I suoi sforzi erano stati premiati e già pregustava la soddisfazione che la riconoscenza del nobile Campagnola gli avrebbe procurato.

Aveva ragione il componente del Consiglio a nutrire sospetti sul giovane apprendista: se non si ingannava, quello che Giròn aveva appena avuto modo di osservare era ben diverso dal corpo di un giovinetto.

Bioca si fregò le mani: la storia della figlia rinnegata e del pirata saraceno con il quale si diceva che lei avesse generato una figlia del Demonio una decina d’anni prima gli era giunta alle orecchie. Forse quel giovane apprendista… quella giovane apprendista…

Un colpo sordo e letale lasciò in sospeso per sempre il quesito. Il pugno serrato di Wu aveva raggiunto Donato Bioca in pieno viso. Una sorta di maglio di acciaio era calato tra l’osso dello zigomo e l’attaccatura della mascella frantumando sia l’uno che l’altra in una miriade di piccoli pezzi. La testa era schizzata all’indietro, torcendosi di lato in maniera innaturale.

L’intervento fulmineo di Wu aveva mandato all’altro mondo il malvivente in una frazione di secondo.

Crespi si chinò sul corpo che giaceva privo di vita in un corridoio della casa. Ne illuminò il volto con una lucerna e quindi emise il suo verdetto: «Si tratta del Giròn», affermò il veneziano senza esitazione, rivolto a Humarawa. «È lo stesso uomo che in piazza San Marco mi ha fatto tutte quelle domande. Dobbiamo agire con molta attenzione: la sua presenza in casa nostra e proprio di fronte alla stanza di… Adil è la prova che Campagnola sospetta qualche cosa.»

10

Marzo 2003

Deidra Blasey si volse verso la distesa di divise color cachi. Molti dei marine tenevano il capo chino in quel lembo di deserto dimenticato dal Dio dei cristiani. Quei ragazzi stavano pregando, affidando al vento sabbioso di al Ratka, nell’Iraq meridionale, i loro desideri e le loro speranze.

Il colonnello Deidra Blasey con gesto meccanico si segnò con la croce quando il cappellano militare alzò le braccia al cielo e impartì la benedizione alla truppa. Poco dopo quei giovani soldati sarebbero saliti a bordo dei mezzi militari e avrebbero marciato verso Baghdad.

Il compito principale del plotone di Deidra poteva dirsi compiuto: gli accessi alle strade di grande percorrenza erano stati bonificati. Le vie di comunicazione verso la capitale avrebbero dovuto essere spianate, fatta eccezione per le mine disseminate dall’esercito iracheno in ritirata.

Deidra e i suoi, da quel momento in avanti, avrebbero operato nelle retrovie, tenendosi però sempre pronti a intervenire anche in prima linea.

La vista dei giovani marine riaprì la ferita nel cuore della donna. Chissà se suo figlio Martell si era inginocchiato e aveva pregato Dio, prima che una bomba lo facesse saltare in aria.

«Siamo a buon punto, signore.» Le parole del sergente Kingston avevano il potere di farle mettere da parte le sue fragilità di madre e di ricondurla alla realtà. «Pare che l’aviazione stia radendo al suolo ogni obiettivo strategico. Le bombe intelligenti stanno facendo piazza pulita», disse il corpulento sottufficiale, con un sorriso soddisfatto.

«Io non riesco a provare molta soddisfazione per il progresso delle bombe intelligenti, sergente», disse il colonnello. «Il loro progredire va di pari passo con quello delle mine: mentre alcuni mostrano entusiasmo per nuovi e sempre più sofisticati ordigni, altri muoiono mettendo il piede su un detonatore nascosto.»

Quindi Deidra si volse verso la coda di veicoli militari che, con i fari accesi, andavano incontro all’alba nel deserto. «Dio benedica quei ragazzi», disse ancora il colonnello dei marine e, insieme al sergente Kingston, rimase a osservare la lunga fila di Hummer e mezzi pesanti in marcia verso Baghdad.

Cassandra Ziegler entrò nell’ufficio del direttore con l’aria di chi sta cercando un complice per un colpo grosso.

«Per quanto ne so, non penso che il Congresso potrebbe accusarci di depistaggio…» esordì l’avvenente collaboratrice di Deuville.

«Che cosa intendi dire, Cassandra?»

«Che il Giusto in nome di Dio continua a spedire a noi i suoi messaggi. Nulla ci vieta, prima di passarli ai cugini della CIA, di dargli un’occhiatina…»

«Non credo che questo comportamento sia del tutto in linea con le volontà del Congresso…»

«L’ultima rivendicazione è stata inoltrata alla CIA poche ore dopo l’avvenuto ricevimento da parte del nostro ufficio postale interno», continuò la donna. «Nessuno ci potrà mai accusare di ingerenza in un’indagine federale.»

«Che cosa diceva la nuova dichiarazione dell’attentatore?» In parte tranquillizzato dalle ragioni addotte dalla sua sottoposta, Deuville cominciava ad appassionarsi al gioco.

La città di Arbil, nel Nord dell’Iraq, era passata sotto il controllo delle milizie curde verso la metà del mese di marzo. Gli iracheni rimasti avevano approfittato dei pochi giorni di tregua, garantiti dalla presenza delle truppe americane al fianco di quelle curde, per sistemare i loro affari. Tutti sapevano che, non appena gli americani avessero lasciato alle truppe alleate la gestione completa del territorio, si sarebbero scatenate ritorsioni e vendette. Quasi tutti gli iracheni avevano quindi deciso di radunare le proprie cose e mettersi in marcia lungo l’unica direttrice che si potesse seguire, quella che dirigeva a sud, essendo le frontiere settentrionali ormai chiuse.

Una interminabile fila di disperati si era incamminata con ogni mezzo verso la speranza di un futuro migliore.

«…coloro che hanno creduto sono emigrati e hanno combattuto sulla via di Allah, questi sperano nella misericordia di Allah. Ecco quello che scrive il nostro uomo. Come sempre le parole sono tratte dal Corano e per la precisione dalla seconda sura, intitolata Al-Baqara, cioè ‘La Giovenca’», commentò Cassandra Ziegler. «Questo messaggio è preceduto dalla rivendicazione del precedente attentato al Cairo Maadi Tower Casino. Lo chiudono la solita firma del Giusto in nome di Dio e il sigillo con la stella a sei punte. Inutile dirti che sulla busta, sul foglio e sul sigillo in ceralacca non si è riscontrata nessuna traccia, impronte, residui di saliva o altro materiale organico. Il testo è stato stampato da una normale stampante a getto d’inchiostro, senza alcuna particolarità nella scrittura. La ceralacca è di una marca comune e la si può trovare in qualunque grande magazzino del paese.»

«Insomma, l’unico elemento di cui disponiamo è, ancora una volta, il messaggio coranico dell’attentatore», disse Deuville.

«Purtroppo sì, per quanto labile sia. In realtà, l’unica cosa che appare inequivocabile è l’intenzione dell’assassino di voler colpire ancora.»

Il flusso interminabile degli sfollati avanzava lentamente: quella povera gente non aveva alcuna certezza, non sapevano neppure quale sarebbe stata la loro meta. Alcuni dei rari viaggiatori incontrati lungo la strada riferivano che Baghdad era caduta, altri che gli americani erano alle porte della capitale. Ma tutto ciò sembrava poco importante: agli iracheni in fuga premeva solo di allontanarsi il più possibile dalla minaccia curda. Nessuno ebbe modo di accorgersi della fotocellula nascosta sul ciglio della pista che costeggiava per lunghi tratti il fiume Tigri.

L’apparecchio elettronico era stato programmato per contare sino a trecento passaggi dinanzi al suo occhio senza vita. E così fece.

Nel momento in cui i sensori identificarono il trecentesimo impulso, settanta metri della strada si impennarono come nei fotogrammi al rallentatore di un film, ondularono per qualche secondo, quindi tutto venne scagliato in aria dalla violenza dell’esplosione.

Quando l’asfalto, il terreno e le rocce ricaddero a terra, si schiantarono sui corpi degli sfollati.

L’attentato uccise centoventi persone innocenti, o meglio, colpevoli di voler sfuggire al giudizio sommario dell’evolversi della guerra in Iraq.

«La ringrazio, agente speciale, per la sua arguzia.» Definire ironico il tono con cui il caposettore Glakas si rivolgeva a un suo sottoposto suonava come un eufemismo.

«L’intera CIA si era fermata nell’attesa che il suo acume investigativo ci indicasse una pista da seguire. Sono spiacente di comunicarle che eravamo giunti alle sue stesse conclusioni da qualche mese… forse anche di più. Almeno da dopo il primo attentato in Medio Oriente, a Hormuz», continuò Glakas con fare acido. «Uno screening delle persone che potevano trovarsi nei pressi della scena degli attentati è stata una delle prime indagini che ho richiesto. In questo momento, credo si trovino nella regione qualche cosa come duecentomila militari americani, senza contare i ‘trasfertisti’ per lavoro, i diplomatici e gli uomini d’affari. Ognuno di essi è libero di muoversi a proprio piacimento all’interno delle zone oggetto di attentati. Tutto questo supponendo che il Giusto sia un cittadino americano, altrimenti il numero dei potenziali attentatori raggiungerebbe cifre iperboliche.»

Deidra Blasey si assestò sul capo il cappello a falde larghe dei marine e si girò in modo da prestare il fianco alle raffiche di vento. La polvere rossa vorticava attorno a lei, infilandosi come un insetto molesto in ogni zona scoperta della sua pelle.

Jordan Cruner le si avvicinò da dietro, e le piazzò sotto al mento un microfono ad alta sensibilità, la cui parte terminale era costituita da una voluminosa palla gialla in materiale fonoassorbente. Intanto un cameraman iniziava la ripresa.

«Quanto durerà questa guerra, colonnello Blasey?»

Deidra era stata presa alla sprovvista, altrimenti avrebbe opportunamente evitato quel ficcanaso di Cruner. «Non credo che un mio parere personale, Cruner, riesca a dare una risposta esauriente alla sua domanda. Altro genere di pareri, quelli ufficiali di un colonnello dei marine, non sono autorizzata a fornirli.»

«Vuol dire che…»

Cruner non finì la frase. Il razzo terra-terra iracheno esplose a pochi metri da loro. Prima di perdere i sensi, Deidra distinse la telecamera, che saltò per prima, poi fu la volta della testa del cameraman, spazzata via dal tronco in una frazione di secondo.

Il dolore che Deidra sentiva alla gamba non le pareva insopportabile. Con l’ultimo barlume di lucidità la donna si chiese come mai stesse perdendo i sensi per così poco.

11

Tønder, Prussia, maggio 1917

Alberto Sciarra della Volta pensava che una corte marziale avrebbe tenuto le proprie assise con maggiore rispetto per le formalità. I tre ufficiali austriaci che si trovò davanti sembravano, invece, avere solo una gran fretta. Sedevano dietro un tavolo da pranzo all’interno della sala mensa.

La sentenza che condannava l’ufficiale italiano a morte venne letta senza enfasi né esitazione dal colonnello Meyer, il più alto in grado tra i componenti della improvvisata corte.

Quasi certamente, identica sorte sarebbe toccata agli altri prigionieri graduati, compagni dell’italiano nel corso dello sfortunato tentativo di fuga. Sciarra li aveva visti, ammanettati, accedere sotto scorta a una stanza attigua alla propria.

L’ufficiale italiano era rimasto impassibile per tutto il tempo della lettura del verdetto. Aveva manifestato un moto di stizza solamente quando lo avevano accusato di essere l’ideatore del piano di fuga che comprendeva il sabotaggio della fabbrica per la produzione di idrogeno: sapeva bene che in quell’impresa, che era costata molte vite, lo aveva trascinato il capitano Padget. Il traditore Padget.

La porta di una delle celle di reclusione ruotò sui cardini senza emettere alcun cigolio.

Il maggiore Sciarra udì delle grida provenire dal corridoio: un uomo era stato prelevato e opponeva resistenza ai carcerieri che lo stavano conducendo via a forza.

Sciarra riconobbe subito l’accento inglese di un sergente maggiore dello Yorkshire che aveva partecipato al tentativo di fuga.

Poi tutto tacque fino al momento in cui una voce ruppe il silenzio. «Avete sentito, maggiore?» chiese la voce di un sottufficiale, anche questo di nazionalità britannica, rinchiuso nella cella vicina. «Hanno portato al patibolo il sergente Govert. Dopo toccherà a me.»

La scarica di fucileria echeggiò tra le pareti anguste della prigione.

«Fatti coraggio!» furono le sole parole che Sciarra riuscì a pronunciare, prima che la grande porta a sbarre del corridoio venisse aperta di nuovo.

«Soltanto voi e io abbiamo visto chi è stato l’infame. Scommetto che adesso è di nuovo nella baracca e sta cominciando a coltivarsi la fiducia dei prigionieri appena arrivati per poi tradirli alla prima occasione. Dio lo maledica.

«Addio, maggiore», disse il sottufficiale quando i soldati lo fecero alzare.

«Addio», rispose Sciarra e, in preda all’angoscia, attese gli spari che avrebbero posto fine alla vita del suo compagno di prigionia.

Dopo sarebbe toccato a lui.

L’attesa della morte logora il corpo e la mente più di ogni cosa. L’ufficiale italiano aveva chiesto perdono per i suoi peccati a un Dio nel quale non aveva mai creduto sino in fondo. Poi si era seduto con le spalle contro il muro e il volto verso la porta: voleva guardare negli occhi l’uomo che lo avrebbe condotto al patibolo. Ma nessuno si era più presentato a prelevarlo.

Era ormai buio e Sciarra tentò di immaginare che ore fossero. L’italiano pensò che, data l’ora tarda, la sua esecuzione sarebbe stata rinviata al giorno seguente: i prigionieri avrebbero dovuto assistervi e la sua morte sarebbe stata un monito per tutti.

Sentiva i passi ritmici e pesanti della sentinella davanti all’ingresso della prigione. La notte scorreva lenta: si rese conto che erano avvenuti due cambi della guardia. Dovevano essere passate almeno otto ore quando, all’improvviso, il passo del carceriere si fermò di colpo e l’italiano percepì un rumore sordo. Poi di nuovo il silenzio.

La chiave entrò nella toppa, chi stava aprendo la porta parve esitare un istante. L’ufficiale italiano si schiacciò contro il muro: forse si era sbagliato e avevano deciso di fucilarlo nottetempo. Sciarra si insospettì quando si accorse che il nuovo arrivato non portava alcuna lampada: l’operazione era avvenuta al buio.

«Maggiore Sciarra», chiese una voce ben conosciuta anche se sommessa.

«Sono io», rispose l’ufficiale italiano, incredulo.

«Non avrete pensato che avrei lasciato l’uomo a cui devo la vita languire in una fetida prigione? Sono venuto a portarvi via, comandante!»

«Petru!? Tenente Minhea Petru, che cosa ci fate qui?»

«Sono arrivato su un’auto di rappresentanza, con una divisa da capitano-ispettore austriaco. Grazie alla mia ottima conoscenza del tedesco mi hanno creduto quando ho chiesto i documenti necessari per effettuare l’ispezione alla contabilità della base. Finora nessuno ha avuto sospetti su di me, anche se credo che non ci metteranno molto a trovare il cadavere del vero ispettore dietro a una collinetta a un paio di chilometri da qui. Presto, abbiamo poco tempo, maggiore.»

Il colonnello Meyer riagganciò la cornetta del telefono con un moto di stizza. Il pilota tedesco uscì dall’ufficio che occupava quando non si trovava in missione a bordo del dirigibile L30 impugnando il calcio della sua Mauser. Qualche secondo più tardi le sirene del campo presero a suonare.

«Hanno trovato il corpo dell’ispettore prima di quanto potessi prevedere», disse il tenente Petru preoccupato. «Cerchiamo un nascondiglio. Al riparo sarà più facile pensare a come uscire da questo guaio.»

Era passata circa un’ora da quando era scattato l’allarme. Gli austriaci avevano scoperto l’evasione del condannato a morte e avevano collegato il falso ispettore alla fuga del maggiore Sciarra. Dei due fuggiaschi non c’era però traccia e un plotone di militari stava procedendo al rastrellamento della zona occupata dai dirigibili.

Meyer impartiva ordini con il suo tono rude. Sembrava su tutte le furie: la sua pelle chiara aveva assunto toni rossastri e i baffi a manubrio, ai quali dedicava una cura maniacale, sembrava fossero passati nel vortice di un uragano. La canna della pistola Roth-Steyer 8 millimetri premuta sotto il suo naso non ebbe certo il potere di placare l’agitazione dell’ufficiale.

«Adesso il colonnello Meyer ci porterà in salvo, non è vero?» Meyer, dall’espressione che vide balenare negli occhi di Minhea Petru, si rese conto che il falso ispettore non aveva nessuna intenzione di scherzare.

La sagoma scura di uno dei due dirigibili gemelli L30 si stagliava nel buio. Era ancorato al traliccio come una nave alla banchina del porto. La più grande delle quattro gondole, quella dove si trovava il ponte di comando, era a poca distanza dal terreno: lo Zeppelin era pronto a prendere il volo per una nuova missione di guerra.

«Non ce la farete mai!» disse Meyer quando si rese conto che, sotto la minaccia delle armi, i due fuggiaschi lo stavano conducendo verso il dirigibile.

«Se voi non aveste scoperto le mie finte credenziali, signor colonnello, adesso noi non saremmo qui, ma sull’auto di servizio di un ispettore dell’esercito austroungarico. Purtroppo il mio piano è andato a monte e quindi siamo stati costretti a scegliere questa soluzione di ripiego», disse Petru con un’espressione scanzonata. Quindi, premendo la pistola contro il ventre dell’ufficiale tedesco aggiunse: «Diteci che cosa dobbiamo fare per far alzare questo gigante da terra. E fatelo subito, colonnello Meyer».

I militari della base sembravano animali in gabbia: le loro armi erano impotenti contro quei due uomini pronti a tutto, anche a uccidere con un colpo alla nuca il loro comandante, un eroe dell aviazione.

Gli austriaci tenevano i moschetti puntati, obbedienti all’ordine che era stato loro impartito di non aprire il fuoco: negli anni gli Zeppelin avevano dimostrato a tutti quanto il gas volatile e la struttura che lo imprigionava fossero amici del fuoco. Un solo colpo di fucile nel punto sbagliato sarebbe stato in grado di provocare un disastro.

Non appena i prigionieri giunsero all’interno della gondola, Petru ordinò a Meyer di accendere i sei propulsori. Qualche minuto più tardi, l’aeronave L30 si librava come uno scuro fantasma nel nero della notte nordica.

Sciarra e Petru rimasero a guardare i militari immobili sotto di loro. Solo quando la gigantesca sagoma fu fuori dal tiro dei moschetti, chi comandava gli uomini a terra diede l’ordine di aprire il fuoco.

12

Venezia, febbraio 1348

La festa era in pieno svolgimento nella sala illuminata da oltre duemila candele, quando Campagnola si fece vicino a Crespi.

«Mi hanno detto che il povero Giròn era un vostro buon amico, Crespi», disse il nobile veneziano a bruciapelo, non distogliendo mai lo sguardo da quello del mercante.

«Quanto vi è stato riferito non corrisponde al vero, signoria. Conoscevo il Bioca come molti in città. Ma non esisteva tra di noi alcun vincolo di amicizia. Mi dispiace comunque che abbia fatto una fine così brutta», rispose Crespi senza abbassare gli occhi.

«Già, lo hanno trovato con l’osso del collo spezzato e il volto massacrato che galleggiava in un canale. Anch’io sono dispiaciuto per lui.»

«C’è da dire che Donato Bioca non era una persona molto amata.»

«Se ogni persona poco amata dovesse subire analogo trattamento, Crespi, le calli e i canali non basterebbero a contenerne i corpi.»

«Già, signoria. Anche per voi non deve essere facile rivestire un ruolo come quello a cui dedicate ogni attimo della vostra nobile vita.» L’ironia di Crespi era talmente velata che forse il Campagnola non la percepì neppure.

«Vi sono grato per il riconoscimento. Ma cambiamo discorso. Che dice Humarawa, adesso che la minaccia del Muqatil è definitivamente scomparsa?»

«Come tutti gli uomini, anche Hito Humarawa desidera riposarsi: ha passato anni a dare la caccia per il mare a quel pirata. Adesso credo voglia soltanto godersi un po’ di tranquillità.»

«Tranquillità e fama. Tutti i veneziani hanno eletto il vostro amico giapponese e il suo gigantesco compare a salvatori della patria. Ma io ho la sensazione che persone come Humarawa non riescano a stare troppo a lungo lontano dalla battaglia. E alcuni fatti sembrano darmi ragione.» Il tono astioso non sfuggì a una persona attenta come Alessandro Crespi.

«Quali fatti, signoria?»

«Quale motivo avrebbe avuto per condurre con sé… quel giovane scudiero, mi pare si chiami Adil, se Humarawa non avesse l’intenzione di riprendere prima o poi le armi?»

«In guardia, Crespi!» si disse il mercante. «La questione sta davvero a cuore a Campagnola. E il cuore di Campagnola è arido come un lago prosciugato dal male. Come fa a essere già a conoscenza del nome che Humarawa ha attribuito non più di pochi giorni or sono alla figlia del Muqatil?»

Crespi cambiò discorso, quindi sfoggiò un sorriso di circostanza e si allontanò dal nobile, dopo averlo salutato.

Nelle prime ore del mattino seguente, poco lontano dal luogo ove veniva tenuta la festa, l’affondo di Adil superò la guardia dell’avversario e si arrestò a un soffio dal ventre del cinese.

«Molto bene, Adil!» disse Wu non riuscendo a nascondere la soddisfazione sotto la sua espressione severa. «Continui a fare notevoli progressi nel maneggiare le armi. Sei davvero un ottimo allievo.»

Adil sorrise e ripose la wakizashi con la quale si stava allenando.

Humarawa entrò nella sala d’armi del palazzo, seguito da Alessandro Crespi.

«Adesso basta, Wu. Lascia che… il giovane Adil si riposi qualche istante, prima che arrivi il suo precettore a impartirgli lezioni di lettura e di conto.»

I giorni passavano velocemente nel palazzo nobiliare sulla riva degli Schiavoni. Celeste viveva giornate piene: anche l’arte della guerra era per lei un gioco, ma vi si impegnava sino in fondo. A volte pensava a quale reazione avrebbe avuto suo padre nel vederla con una katana in mano intenta a menar fendenti o a parare i colpi che Wu e Humarawa si limitavano ancora a mimare. Quasi certamente il Muqatil sarebbe stato fiero di lei, anche se per la sua piccola Celeste avrebbe forse sognato un futuro diverso.

Ogni volta che pensava ai suoi cari, la sua mente continuava a sentire un’incurabile malinconia: erano ormai trascorsi mesi da quando era giunta a Venezia, ma le attenzioni e l’affetto che i suoi ospiti le riservavano non riuscivano a cancellare il ricordo dei volti sorridenti dei suoi genitori.

Spesso quei volti le apparivano in sogno. La maggior parte delle volte si trattava di fugaci apparizioni, ma quella notte non fu così: nel dormiveglia, madida di sudore, si convinse che sua madre, Diletta, fosse proprio lì davanti a lei e le stesse parlando.

«Guardati da tuo nonno, piccola mia. Anche se nelle tue vene scorre il suo stesso sangue, stai lontana da quell’uomo. Non esiterebbe a ucciderti, solo per cancellare l’onta del passato.»

La madre le appariva con la stessa espressione sofferente che aveva sul letto di morte.

«La vita ha in serbo per te grandi soddisfazioni», continuò Diletta nel sogno. «Ma dovrai conquistare ogni cosa a caro prezzo e, quando tutto ti sembrerà perduto, il Muqatil uscirà dalle tenebre per illuminare il tuo cammino. Il morbo che mi ha portata via sta arrivando a reclamare vite anche a Venezia.»

Celeste si destò profondamente scossa. Istintivamente guardò nella direzione dalla quale sua madre le aveva parlato, ma la sola cosa che vide fu l’impenetrabile cortina del buio della notte.

La giovane impiegò molto tempo prima di riaddormentarsi: le parole che quella figura eterea aveva pronunciato continuavano a risuonarle nel cuore. Poi, finalmente, un sonno senza sogni si impadronì di lei.

Era da poco passata l’alba quando un gran trambusto nei canali la svegliò di soprassalto. Celeste si affacciò alla finestra. Nel freddo frizzante della mattina di marzo notò un inusuale viavai di imbarcazioni lungo il Canal Grande. I barcaioli si fermavano a parlare concitati con quelli che provenivano dal senso opposto, e tutti gesticolavano animatamente in preda a una grande agitazione.

Un terribile presentimento si impadronì della mente della bambina: le parole che la madre le aveva detto in sogno all’improvviso assunsero il loro terribile significato.

«Strana la vita», disse a se stesso Campagnola, inarcando le sopracciglia, «non ho mai esitato dinanzi allo sguardo di nessuno, eppure non riesco a togliermi dalla mente gli occhi di quel ragazzino e il disagio che riescono a provocarmi.»

La morte del suo tirapiedi non lo aveva scosso più di tanto: Giròn gli aveva comunicato che avrebbe tentato di introdursi nel palazzo del Crespi la notte in cui era stato ucciso, ma Campagnola non avrebbe potuto giurare che il Bioca ci fosse mai arrivato: erano molte le persone che avrebbero spezzato volentieri l’osso del collo a quell’attaccabrighe.

«Eppure», si disse ancora Campagnola, «gli occhi di quello che deve per forza essere il figlio di Satana continuano ad apparirmi come la più terrificante delle allucinazioni. Da quando quel bambino è arrivato a Venezia in città è successo di tutto.»

In quell’istante la mano di un servitore bussò alla porta del giudice veneziano.

«Che succede?» chiese il Campagnola con aria seccata, deciso a far pagare l’impudenza di chi lo aveva distolto dai suoi pensieri.

«Perdonate, signoria», disse il servo chinando il capo, ma non celando l’inquietudine. «Nella notte un uomo è morto nella calle dei Pellai e due donne, due cugine, han patito la medesima sorte in San Marco in Boccalama.»

«Cos’è questa novità, servo?» chiese il Campagnola, mentre di nuovo la visione degli occhi del piccolo Adil gli apparve come un presagio di sventura. «Mi distrai dalle mie occupazioni per raccontarmi il bollettino dei decessi?»

«Perdonatemi, signoria. Tutti e tre i defunti presentavano gli stessi sintomi.»

«E quali erano questi sintomi, di grazia?» Un terribile sospetto stava prendendo corpo nei pensieri del nobile veneziano.

«La peste, signoria. Sono morti di peste.» Così dicendo il servo si segnò due volte.

13

Settembre 2003

Deidra Blasey respirò a pieni polmoni l’aria carica dei profumi di un’estate che sembrava non volesse finire.

I postumi delle fratture non erano ancora scomparsi, sebbene le cure e le assidue sedute di fisioterapia stessero dando i loro frutti.

Pensava a quanto repentino fosse il passare da una situazione di equilibrio al dolore più insopportabile: quella terribile sensazione Deidra l’aveva già sperimentata diverse volte nella sua vita. L’ultima era stata quando il missile terra-aria era esploso a poca distanza dal luogo in cui l’inviato della K.C. News la stava intervistando.

In poche frazioni di secondo si era trovata a terra, con le orecchie che le dolevano, le membra dilaniate del cameraman sopra di lei, sentendo che un liquido della medesima temperatura del suo corpo le colava addosso. Inizialmente non aveva provato dolore, anche se aveva la certezza di essere stata colpita. Aveva girato la testa, non riuscendo a liberarsi del corpo dell’operatore, e aveva visto Cruner, il corrispondente della K.C. News, sorreggersi una gamba insanguinata. L’arto, privo del sostegno delle ossa, sembrava un cilindro di gommapiuma. Le era parso che Cruner avesse problemi anche all’altra gamba: non poteva esserne certa, ma aveva avuto l’impressione che fosse di materiale artificiale, forse una protesi.

«Mantieni la calma, colonnello Blasey», si era detta per farsi coraggio. «Sembra che le tue condizioni non siano disperate. Respira forte e cerca di toglierti questo peso di dosso.»

Deidra si era accorta che non poteva muovere il braccio sinistro e che il liquido che la ricopriva era il sangue che sgorgava dal corpo del cameraman a cui l’esplosione aveva reciso il capo.

Deidra era riuscita a spostare il fardello che le impediva di respirare con la forza di un solo braccio. Le voci dei soccorritori le giungevano ovattate. Il colonnello dei marine si era resa conto confusamente che anche la sua gamba sinistra era stata colpita: uno spezzone di tibia fuoriusciva dai pantaloni della tuta da combattimento come lo spuntone dell’albero di maestra di un veliero affondato in acque basse.

Quando le mani del primo soccorritore si erano posate su di lei, Deidra Blasey aveva perso conoscenza.

Dopo sei mesi, nel corso dei quali aveva subito tre operazioni alla gamba e due al braccio sinistro, Deidra si muoveva con una certa disinvoltura tra gli attrezzi ginnici della palestra di riabilitazione. Tra poco l’avrebbero finalmente dimessa.

Le ore e i minuti che la separavano da quel momento le sembrarono interminabili: Deidra li scandì quasi uno a uno, nell’attesa di ritornare dopo tanto tempo alla sua quotidiana esistenza. Sapeva che New York l’avrebbe accolta con la solita indifferenza, ma aveva bisogno di sentirsi nuovamente attiva per non cadere nel baratro della depressione. In altre occasioni erano stati i marine a tirarla fuori dal tunnel. E ancora una volta, Deidra sperava che sarebbero «arrivati i nostri» per impedirle di annegare in un dolore capace di far vacillare anche la mente più forte.

Una voce amica e stentorea la accolse ancor prima che avesse sceso i gradini della clinica: «Bentornata tra noi, signore!»

Il sergente Kingston stava in piedi accanto a un’auto di servizio che recava sulle portiere la scritta: CORPO DEI MARINE, BASE DI FORT LEJEUNE. Il sottufficiale vestiva la divisa da parata con il cappello bianco e la giacca blu elettrico, e sfoggiava un sorriso smagliante. Deidra non si accorse subito del braccio del sergente ripiegato dietro la schiena. Soltanto quando gli fu vicina Kingston estrasse il mazzo di fiori che aveva tenuto nascosto.

Il colonnello non riuscì a reprimere il gesto di abbracciare il suo subalterno, lasciando Kingston visibilmente imbarazzato.

Una volta in macchina, fu il sottufficiale a parlare. «Ancora un mesetto di convalescenza e poi riprenderà il lavoro, vero, colonnello?»

«Non ne posso più di riposo forzato, sergente. Credo che sin dalla settimana prossima comincerò a frequentare la base. Certo, farò le cose per gradi, ma un altro mese di pareti bianche, pollo lesso e passato di verdure riuscirebbe a mandarmi all’altro mondo.»

«Certo che lo ha davvero visto da vicino.»

«Che cosa?»

«L’altro mondo!» rispose Kingston con un’aria assorta. «Destino peggiore è toccato a quel povero operatore della K.C. News. Pare invece che Cruner sia stato dimesso da circa un mese: la sua frattura alla gamba non era molto grave e il conduttore televisivo non ha riportato altri traumi.»

«Non so quale santo devo ringraziare per essere ancora viva.» Gli occhi del colonnello Blasey si illuminarono di una strana luce.

Le mani dalle dita sottili, avvolte nei guanti di lattice, mossero un libro nello scaffale della libreria che si trovava sulla destra di un armadio a muro. L’ordine regnava assoluto anche sui ripiani del mobile. Il volume si mosse come animato da un meccanismo a molla, emise un leggero suono metallico e la parete posteriore dell’armadio scivolò di lato con un sommesso ronzio.

La stanza segreta era grande poco meno di una normale autorimessa. Anche all’interno di quella stanza tutto era meticolosamente in ordine. Alcuni ripiani di metallo occupavano l’intera parete destra. Sulle mensole erano disposti diversi pani d’esplosivo al plastico, detonatori, inneschi e micce sufficienti a radere al suolo parecchi isolati. L’attentatore andò alla scrivania, posta in fondo alla stanza segreta. Estrasse da un cassetto una scatola in avorio e la aprì. L’Anello dei Re emise un bagliore sinistro. L’uomo prese una stecca di ceralacca e cominciò a scaldarla al calore della fiamma di un accendino: l’attentatore si apprestava ad apporre il suo sigillo a un nuovo messaggio di morte. Le gocce incandescenti indugiarono qualche istante, poi caddero sulla carta, formando una bolla fluida del colore del sangue. Lo stemma del Re si impresse a testimonianza della sua macabra promessa.

Un tremito, simile a una scarica elettrica, l’aveva scossa quando aveva aperto la lettera. Cassandra Ziegler la stringeva ancora nella mano destra, mentre entrava nell’ufficio del direttore Deuville.

«Era un po’ di tempo che non si faceva vivo, il nostro amico», disse la donna, accomodandosi sulla poltroncina che il suo superiore le indicava.

«Per l’esattezza dallo scorso marzo», suggerì Deuville, e si accinse ad ascoltare l’ultimo messaggio del terrorista.

Cassandra appoggiò gli occhiali sulla punta del naso e lesse: «Gloria a Colui che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea alla Moschea remota di cui benedicemmo i dintorni, per mostrargli qualcuno dei Nostri segni. Egli è Colui che tutto ascolta e tutto osserva», quindi la donna recitò a memoria la sura dalla quale era stata tratta quella frase. «Si tratta del verso iniziale della sura diciassettesima chiamata dell’Al Isrâ’, ovvero del ‘Viaggio Notturno’.»

«Hai idea di che cosa ci voglia dire quel pazzo?»

«Assolutamente no, a parte il riferimento al viaggio, che sembra sin troppo palese. Il Giusto ci ha insegnato che può colpire in ogni angolo del pianeta e in ogni momento: difficile prevedere dove e quando. Però, prima di passare alla concorrenza la posta che il Giusto continua a recapitarci, ho provveduto a far avere l’originale agli esperti della Scientifica. Spero che almeno questa volta ci possano essere d’aiuto.»

«Stai lavorando su qualche indizio in particolare, Cassandra?»

«No, nessuno. O meglio, molti… troppi indizi: almeno trentamila militari americani sono compatibili, erano cioè in condizione di raggiungere facilmente le località dove il Giusto ha colpito con i suoi attentati. Senza contare qualche migliaio di civili. Se aggiungi i non americani, il numero di papabili Giusti si alza esponenzialmente. Restringendo il campo il più possibile — ad esempio pensando che debba trattarsi di un militare o comunque di persona esperta nel maneggio di esplosivi — la cifra dei sospettabili si mantiene oltre le dodicimila unità sparse sulla faccia del pianeta, appartenenti a diverse razze. Credo non sarebbero sufficienti tutti i nostri effettivi per tenerli sotto controllo.»

«Questo vale sia per noi che per i nostri cuginetti incaricati delle indagini. Mi piacerebbe proprio sapere se alla Central Intelligence Agency sono più a buon punto rispetto a noi.»

Glakas sorrise, osservando il timbro di protocollo della lettera: una missiva della massima importanza aveva impiegato ventisette ore per passare dalla sede dell’FBI alla scrivania del suo ufficio a Langley, in Virginia. Il dirigente della CIA ne era certo: in quelle ventisette ore la busta e il foglio erano stati oggetto di una rigorosa vivisezione da parte del reparto scientifico dei federali.

Glakas avrebbe potuto scommettere qualsiasi cosa sul fatto che i cugini non avevano trovato nessun indizio: il Giusto era scrupoloso e attento. Sembrava impossibile potesse cadere nel banale errore di dimenticare materiale organico o altre tracce su una delle sue asettiche lettere.

Se l’attentatore non aveva intenzione di scoprirsi, sarebbe toccato a lui lanciare esche… senza fretta, però. Adesso Glakas voleva togliersi il gusto di osservare dalla prima fila lo spettacolo pirotecnico che il Giusto aveva organizzato per la prossima rappresentazione.

Oswald Breil sedeva sulla sedia, con i piedi che penzolavano a un paio di centimetri dal pavimento. Era rilassato e assaporava il piacere di quelle giornate passate insieme ai suoi due vecchi genitori adottivi.

«Tu non sai, Oswald, quanto riempia di gioia il mio cuore il fatto di averti qui con noi. Ti ho immaginato tutti questi anni a metter radici a Hotzeplotz, e invece adesso sei qui… come quando eri bambino. Che grande felicità.» La signora Habar aveva usato il termine che in lingua yiddish significava una via di mezzo tra «in capo al mondo» e «Dio sa dove».

«Non mi sgriderai per non aver detto il Mairev, le preghiere della sera, Mame Lilith, vero?» rispose Oswald.

«No di certo, Oswald. Dio ti ha fatto dono di una grande saichel, una immensa intelligenza che tu hai messo al servizio della nostra gente, sino a portarti alla guida dello Stato di Israele. Noi siamo fieri di te, Oswald», disse Lilith, con la voce rotta dalla commozione.

«E io sono grato a Dio che mi ha dato due genitori come voi, Mame-loshen», disse Oswald stringendo le mani della donna tra le sue. Da sempre la chiamava così, da quando, bambino, gli aveva insegnato una lingua che lui sentiva davvero materna.

Cassandra Ziegler osservò il foglio inviato dal Giusto al Federal Bureau of Investigation. Alzò gli occhi verso il cielo, come se da lassù qualcuno potesse darle la soluzione dell’enigma. E forse fu dal cielo che le arrivò il suggerimento. Il suo sguardo si fermò su un punto indefinito nel muro, quindi Cassandra si rivolse al suo superiore: «Credo… credo… che avremo bisogno di un vero esperto in materie mediorientali, qualcuno che conosca la mentalità di chi è in guerra da sempre con gli arabi. Cerca di capirmi, Conrad, non sto parlando di uno dei tanti criminal-psicoanalisti, ma di qualche cosa di più…»

«Sì, certo», ironizzò Deuville, «e che magari sia dotato di sagacia e acume, capacità di indagare a fondo, arguto e, per finire, abbia notevoli conoscenze in ogni campo…»

«Esatto, direttore. Proprio così!»

«E dove andresti a trovare Superman? A Smallville?»

«In questo momento mi risulta che si trovi a Denver, in Colorado, ospite dai suoi genitori adottivi. Forse l’unica cosa che gli manca è il fisico di Clark Kent, ma credo che il nostro uomo possieda tutti gli attributi richiesti per lottare ad armi pari con il Giusto. Hai capito di chi sto parlando, Conrad, non è vero?»

Sul pullman turistico c’erano quarantanove persone, per lo più donne col capo coperto dal chador e bambini. Un secondo pullman, del tutto identico al primo, ma con a bordo una decina di passeggeri in meno, lo seguiva a distanza ravvicinata.

La giornata era stata intensa e piacevole: la gita alle cascate del Niagara organizzata dal Centro islamico canadese si era rivelata un successo.

I due mezzi svoltarono a sinistra in Winston Churchill Boulevard e imboccarono South Sheridan Way. Ormai pochi metri li separavano dalla sede del Centro, nella città di Mississauga, nell’Ontario.

Da lì erano partiti alle prime luci dell’alba di un giorno festivo per la comunità musulmana: «Tanto poi in pullman si riuscirà a recuperare un po’ di sonno perduto», avevano pensato in molti.

Il grandioso spettacolo delle cascate, la gita sul barcone tra gli spruzzi di schiuma, il pranzo al sacco, la visita ai negozi di souvenir avevano reso il viaggio indimenticabile.

Quando tutti erano risaliti sui pullman per rientrare a Mississauga, l’umore della comitiva era alle stelle.

A bordo, l’eccitazione per l’arrivo aveva prodotto una certa agitazione. Quasi certamente per gli autisti giunse benvenuto il rumore dei freni, che segnava la fine del viaggio davanti al numero 2200 di Sheridan Way.

Ma fu un sollievo che durò meno di qualche secondo.

Le mani dalle dita sottili composero l’ultima cifra di un numero telefonico sulla tastiera di un cellulare e, contemporaneamente, il Giusto sollevò lo sguardo restando ipnotizzato a osservare la pioggia di fuoco che, dall’interno dei due pullman, si irradiava tutto intorno.

I grossi mezzi parvero sollevati dalla mano di un gigante, quindi ricaddero a terra pesantemente, mentre le carrozzerie squarciate andavano scurendosi tra le fiamme.

Sessantadue persone avrebbero avuto nella mente l’immagine delle cascate del Niagara come estremo ricordo della loro esistenza terrena. I venti sopravvissuti avrebbero portato per sempre il marchio indelebile che la vile mano del Giusto aveva voluto imprimere sulla loro carne.

Come quasi ogni famiglia israeliana, anche quella degli Habar aveva pagato il proprio tributo al terrorismo: una figlia della sorella di Ezer era morta dilaniata nell’esplosione di un autobus provocata da un attentatore suicida.

Lilith si asciugò le lacrime, mentre dalla televisione Jordan Cruner della K.C. News, dinanzi alle carcasse dei due pullman ancora fumanti, illustrava le modalità dell’attentato.

«Su questi due mezzi», diceva Cruner con lo sguardo nell’obiettivo della telecamera, «viaggiavano circa novanta persone, per la prevalenza donne e bambini. Novanta innocenti di ritorno da una giornata spensierata. Non è ancora possibile stilare un bilancio definitivo di questa nuova tragedia, ma anche questa volta pare che a firmare la strage sia la mano di colui che si fa chiamare ‘il Giusto in nome di Dio’. Da indiscrezioni dell’ultima ora sembra però che gli inquirenti siano propensi a seguire la pista di un’organizzazione terroristica: appare sempre più improbabile che un attentatore solitario, come si definisce il Giusto, possa colpire con assoluta precisione in angoli opposti del mondo. Restituisco la linea alla sede di New York, Jordan Cruner, K.C. News, Mississauga, Canada.»

Ezer Habar allungò la mano e, con un gesto affettuoso, strinse quella della moglie. Quindi, insieme a Oswald, i due coniugi restarono impietriti a guardare i servizi relativi al nuovo attentato.

«Quel simbolo… il sigillo del Re!» esclamò Lilith, mentre la K.C. News mandava in onda la riproduzione del sigillo con cui l’attentatore firmava le sue rivendicazioni. «Quella è l’ultima cosa della quale ho parlato con tuo padre, Oswald. Ricordo bene, ci trovavamo a cena a casa nostra a Tel Aviv. Alcuni giorni più tardi i tuoi genitori rimasero coinvolti nell’incidente in cui persero la vita a Bucarest. Da allora per noi sei stato come un figlio.»

«Dicevi che mio padre ti parlò del sigillo, proprio di quel sigillo? Ne sei sicura, Mame-loshen

«Ne sono certa. Appena ho visto la stella a sei punte di Re Salomone con quegli strani caratteri ai lati, mi si è aperto uno spiraglio nella memoria. Il sigillo che hanno mostrato in televisione corrisponde a quello ritratto in un’istantanea che tuo padre mi fece vedere proprio quella sera. Eravamo a tavola e ricordo che introdusse l’argomento citando un’antica favola ebraica che parla di Salomone e di Asmodeo, il capo dei demoni, che si contendono l’anello. E poi ci fece vedere il disegno di un antico anello d’oro. Sulla sommità dell’anello era raffigurato il sigillo di Re Salomone contornato da quei segni incomprensibili.»

Cassandra Ziegler aveva appreso per telefono la notizia del nuovo attentato in Canada pochi minuti dopo l’esplosione. Una seconda telefonata, sempre dalla sede centrale, l’aveva informata che un jet dell’FBI era stato messo a sua disposizione, qualora avesse voluto raggiungere la città canadese ove aveva avuto luogo la strage.

Non appena era salita sul bireattore Cessna, Cassandra aveva comunicato il cambio di destinazione al pilota: l’aeroporto di Denver, in Colorado, invece che quello internazionale di Toronto.

Il pilota non aveva fatto una piega: era abituato a mutare destinazione e piani di volo. I pezzi da novanta dell’FBI parevano ossessionati dall’essere seguiti ovunque.

Cassandra sprofondò in uno dei sedili vicino al finestrino mentre lo steward le serviva un drink: a parte il personale di bordo, era sola.

Le ruote si staccarono da terra e la donna provò un moto di ottimismo simile a quello che accompagna i parenti del malato nel viaggio verso la speranza.

Ecco che cosa rappresentava per lei l’incontro con Oswald Breil: il consulto con il luminare, unico sulla faccia della terra in grado di estirpare il male. E il male aveva un solo nome, per quanto stridente potesse suonare l’accostamento: il Giusto in nome di Dio.

George Glakas aveva colto l’approvazione nelle parole del suo superiore in merito alla scelta operativa con cui aveva deciso di affrontare la minaccia terroristica.

«Fino a quando quel matto continuerà a mettere bombe fuori dagli Stati Uniti, noi americani non correremo eccessivi pericoli e quindi non dovremo subire troppe pressioni da parte del Congresso o della presidenza», gli aveva confessato soltanto un’ora prima il vicedirettore della CIA. «Dopo il primo attentato al palazzo delle Nazioni Unite sembrava che per i nostri politici fosse esploso un nuovo 11 settembre nel salotto di casa. Poi il Giusto si è concentrato in Medio Oriente, e allora è scesa una cortina di silenzio da parte dei governanti. Fatta eccezione per le richieste di informative provenienti da alcuni governi arabi in buoni rapporti col nostro — richieste a cui abbiamo naturalmente risposto in maniera evasiva — sembra che le gesta del Giusto in nome di Dio non suscitino grande interesse.»

Il vicedirettore dell’Agenzia si era poi esibito in una delle frasi a effetto con cui amava esordire. Il numero due della CIA reputava ogni sua massima come degna delle migliori interpretazioni da kolossal hollywoodiano: «Non c’è un modo etico per fare una guerra, e di fatto siamo in guerra con la cultura islamica ormai da anni». Quindi si era concesso una breve pausa, quasi a voler sottolineare la sua frase, e aveva continuato: «La differenza sostanziale tra le bombe del Giusto e il terrorismo arabo è che le prime non colpiscono i nostri concittadini, ma gli islamici, anche se egli usa le stesse armi dei terroristi integralisti. C’è poi da dire che i metodi del Giusto sono più… puliti. Ultimamente i terroristi suicidi sono soliti arricchire i loro ordigni con bulloni e chiodi intrisi in una soluzione di veleno per topi: una tra le sostanze anticoagulanti più reperibili e a buon mercato. Così facendo ogni ferita, anche la più insignificante, si trasforma in un trauma emorragico. Si dice anche che gli aspiranti suicidi affetti da virus HIV siano i meglio accolti nelle organizzazioni integraliste: lo scoppio trasforma ogni brandello del terrorista in un’arma virale. Anche la più superficiale delle ferite potrebbe essere sufficiente per contrarre il virus dell’Aids».

A questo punto era giunto il momento di tirare le somme e di dare un’impronta meno teorica alle sue direttive. «Un elicottero la sta aspettando per condurla sul luogo dell’attentato. Mi raccomando, George, mi trovi quel figlio di puttana!»

L’elicottero si mise in posizione per l’atterraggio: George Glakas accantonò il ricordo della conversazione avuta con il suo superiore.

Il caposettore della CIA non aveva certo badato ai preamboli quando si era messo in contatto via radio con l’antiterrorismo canadese: «Tra una decina di minuti sorvolerò la zona dell’attentato. Trovatemi un luogo dove atterrare nelle vicinanze e, se fosse distante, mandate una macchina a prendermi. È necessario che io giunga il più in fretta possibile sul luogo del disastro».

«E chi cazzo sarebbe questo Glakas?» aveva gridato al telefono il funzionario, intento a non calpestare preziosi indizi e evitare le ampie chiazze di sangue tra i rottami dei due pullman. «Va bene, capisco… i buoni rapporti con la CIA e l’aiuto che ci possono fornire… ho capito, signore… lo farò atterrare nel vicino campo sportivo e lo manderò a prendere con un’auto. Basta che quello yankee non venga qui a giocare all’ispettore dei telefilm. Siamo già nella merda sino al collo. Vedesse che disastro, signore.»

George Glakas non aveva nessuna intenzione di giocare al perfetto investigatore. Si era recato a Mississauga perché così gli era stato ordinato. Inoltre era curioso di vedere come avrebbero reagito gli islamici «occidentalizzati» a un attentato di cui erano proprio loro le vittime prescelte.

E lui sarebbe stato in prima fila a osservare la scena. Una scena fatta di urla strazianti, di persone che accorrevano sul luogo così come si trovavano, in abiti da casa o da lavoro, per scoprire di avere perduto in un attimo una moglie, un figlio o un parente stretto.

Glakas mostrò il tesserino di riconoscimento agli agenti canadesi che presidiavano il luogo dell’attentato. Poco prima di giungere nei pressi dei resti dei pullman ricevette una breve telefonata.

«L’esca è stata lanciata», gli sussurrò al telefono la voce di uno dei suoi migliori informatori.

Questo significava che, nei circuiti del mercato illegale, era stata fatta circolare la voce che c’era disponibilità di un grosso quantitativo di esplosivo, messo in vendita dopo il trafugamento di un camion militare russo.

«Chi era alla porta, Mame-loshen?» aveva chiesto Oswald a Lilith Habar.

L’anziana donna aveva dipinta in volto un’espressione rassegnata che sembrava dire: «Me l’aspettavo».

«C’è una agente federale che chiede di te, Oswald», aveva risposto Lilith.

Oswald si era alzato dalla poltrona. Non sapeva perché, ma ebbe subito la sensazione che quella visita inaspettata lo avrebbe scosso dallo stato di torpore a cui si stava abbandonando.

Cassandra Ziegler era in piedi al centro della sala e tentava di vincere l’imbarazzo osservando i quadri alle pareti. Indossava un paio di pantaloni neri e un maglione a girocollo dello stesso colore. Ma la semplicità dell’abbigliamento non riusciva a nascondere l’avvenenza del dirigente dell’FBI.

La donna si mosse verso Oswald non appena questi varcò la soglia. Tenne la mano tesa verso il basso, per non mettere in imbarazzo il piccolo uomo. Oswald sentì le dita affusolate avvolgere le sue. Era una stretta amica e sincera.

«Sono Cassandra Ziegler», disse con il suo meraviglioso sorriso. «Attualmente rivesto l’incarico di addetta agli Affari pubblici per il direttore dell’FBI, Deuville. Credo che la sua esperienza ci potrebbe essere molto utile per scongiurare una grave minaccia, dottor Breil.»

Oswald fece cenno alla donna di sedersi. Breil ascoltò a lungo e con attenzione ogni parola di Cassandra, interrompendola ogni tanto solo per ricevere chiarimenti e delucidazioni. Quindi si passò la mano sul volto, quasi a voler cancellare l’abulia nella quale si era cullato e disse: «È strano, in poche ore il sigillo di Re Salomone è entrato ancora una volta di prepotenza nella mia vita e temo che quell’antico anello abbia il potere di portare con sé un mare di guai», disse scuotendo la testa con un’ingannevole aria di rassegnazione.

Oswald Breil, se voleva, poteva essere brillante padrone di ogni situazione. E Cassandra Ziegler sapeva che non doveva farsi sviare dalle movenze quasi infantili: il piccolo uomo che le stava davanti era considerato uno tra i più temuti al mondo.

«Quando lei è apparsa stavo proprio pensando che questa forzata inattività mi potrebbe dare l’opportunità di approfondire alcune antiche vicende di… ehm… famiglia, anche queste legate all’Anello dei Re. Coincidenza nella coincidenza, viene a chiedermi di aiutarla a far luce sugli attentati che hanno per firma proprio il medesimo sigillo. Credo che non ci sia modo per me di sfuggire al destino.» Breil allargò le braccia, abbandonando l’espressione sorniona, e ne assunse improvvisamente una seria e perspicace. I suoi occhi neri si serrarono mentre riprendeva: «Accetto, Cassandra. L’unico prezzo che chiedo in cambio è un aiuto per arrivare a conoscere l’aspetto ‘familiare’ legato a quel sigillo. Avremo modo e tempo per parlarne ma Lilith Habar, nostra padrona di casa e colei che mi ha fatto da madre, sostiene che proprio dell’Anello di Re Salomone le aveva parlato mio padre pochi giorni prima di morire, a Bucarest, in un incidente. Al momento della sua morte mio padre era l’inviato del Mossad in Romania. Io avevo quattordici anni».