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PARTE SECONDA

Quest’anno pestifero incombe sul genere umano, e minaccia la luttuosa strage, e l’aria densissima favorisce la morte. Le spietate Parche si affrettano a spezzare i fili delle vite umane: tutti, se potessero, in una sola volta.

Francesco Petrarca

14

Altopiano del Sinai, 5 giugno 1967

Asher Breil aveva trentotto anni e comandava una squadriglia composta da quattro caccia intercettori Dassault-Breguet Mirage III, quando giunse l’ordine di decollare. Erano le 7.45 del mattino e Mordecai (Motti) Hod, comandante in capo della Israel Air Force, comunicò che l’operazione chiamata in gergo «Moked» era iniziata. Simultaneamente tutte le forze aeree d’attacco disponibili si alzarono in volo dai vari aeroporti militari e dalle piste nascoste nelle località desertiche di confine.

L’ordine era stato quello di dirigere verso ovest. Ulteriori istruzioni sarebbero state impartite nel corso della missione. E le istruzioni erano arrivate pochi minuti dopo il decollo: attaccare ogni aereo, postazione o mezzo militare egiziano, siriano, iracheno e giordano. L’obiettivo di ciascuna pattuglia venne comunicato in codice ai rispettivi comandanti.

Asher non si soffermò a chiedere ulteriori spiegazioni: la tensione era diventata insopportabile ormai da tempo, sfociando in quotidiani scontri lungo il confine e, il 7 aprile, nell’abbattimento di sei Mig siriani da parte della IAF.

Asher Breil, senza battere ciglio, diede ai suoi l’ordine di attaccare: conosceva la sensazione che prova un soldato di fronte alla battaglia. Il capitano Breil, prima di arruolarsi in aeronautica, aveva fatto parte dell’Haganah, l’esercito clandestino in vita prima che venisse costituito lo Stato di Israele, e non aveva dimenticato gli ideali e gli entusiasmi della sua giovinezza.

A questo pensava mentre portava il propulsore del Mirage al massimo.

Erano trascorsi vent’anni da quando Ben Gurion, il 14 maggio del 1948, aveva proclamato la nascita dello Stato di Israele.

Dopo essersi distinto nella difesa della neonata nazione, Asher Breil aveva riposto il fucile e si era apprestato a vivere in pace nella sua terra.

Ma quel desiderio era destinato a rimanere tale.

Così nel 1951, contemporaneamente alla richiesta di arruolamento nell’aeronautica, si era offerto di entrare a far parte dell’appena costituito Mossad: Breil in quei pochi anni si era reso conto che la pace in Israele equivaleva alla più palese delle utopie.

Le due carriere erano andate avanti in maniera parallela: i due padroni della sua vita non esercitavano attività concorrenziali, anzi tutt’altro. Il capitano era un ottimo pilota di caccia pronto a difendere i confini del suo paese e spesso veniva anche destinato a operazioni di ricognizione aerea a lungo raggio per conto del Mossad.

Per quei particolari tipi di missione, il Mirage III del comandante di squadriglia Breil veniva configurato con cinque fotocamere alloggiate nel muso e due lanciatori di chaff, le sottili strisce di alluminio che, una volta lanciate dal velivolo, erano in grado di confondere i sensori di cui era dotata la maggior parte dei missili. Tre serbatoi ausiliari, per un totale di tremila litri, completavano l’equipaggiamento e riuscivano quasi a raddoppiare l’autonomia del velivolo, stimata attorno ai milleduecento chilometri.

Il Mirage III era una macchina da guerra perfetta, capace di raggiungere una velocità pari al doppio di quella del suono. Grazie alle sue ali di dimensioni abbastanza ridotte (otto metri e venti di apertura alare per quindici di lunghezza), l’aeromobile di costruzione francese disponeva di un’ottima manovrabilità. Il governo francese aveva deciso di far pagare a Nasser, primo ministro egiziano, alcune impopolari prese di posizione da cui erano sorte feroci dispute; per questo motivo l’aviazione israeliana era stata equipaggiata con quello che in molti consideravano uno dei migliori aerei da caccia in circolazione.

La quota operativa del Mirage si poteva facilmente attestare sopra ai diecimila metri, sino a raggiungere, come massimo, i diciassettemila. Era stato da quelle altezze che il capitano Breil aveva spesso ripreso le difese nemiche, i campi di addestramento o i movimenti di truppe: immagini considerate della massima importanza per i servizi di sicurezza.

Ora, però, il pulsante sulla cloche non comandava l’obiettivo di una delle potenti macchine da presa, ma un cannone da 30 millimetri e i due missili Matra R550 Magic.

L’obiettivo della pattuglia di Breil sarebbe stato l’appoggio aereo ad alcune divisioni corazzate intente a espugnare la città egiziana di El Arish.

Avevano sorvolato la strada costiera che costeggiava le sponde del Mediterraneo. Appena superata la città di Rafat, al confine con l’altopiano, i quattro Mirage si erano diretti verso il mare. Volavano in formazione a circa ottanta metri di altezza a una velocità di quattrocento nodi. A pochi chilometri dalla città virarono e si aprirono come i petali di una rosa, cogliendo di sorpresa le numerose postazioni antiaeree che si aspettavano un attacco dal mare.

I caccia giunsero in picchiata da sud, sbucando all’improvviso oltre il monte sovrastato da un’antica fortezza.

Asher Breil rimase a osservare quello che sembrava un plastico sfilare sotto la pancia del suo aereo. Dalla postazione di guida, infatti, le fasi della battaglia che si stava svolgendo a terra sembravano la riproduzione di un sofisticato war game: modellini di carri armati israeliani stavano sparando colpi di cannone a modellini di fanteria corazzata egiziana che tentavano invano di resistere.

Gli aerei israeliani compirono due passaggi sulla scena dello scontro, quindi ciascuno dei piloti comunicò al comandante il bersaglio prescelto.

Ricevuto da Breil il benestare, ogni pilota si gettò sulla sua preda con la stessa fredda determinazione di un’aquila decisa a sfamare i suoi piccoli.

Le cose parvero andare bene per gli israeliani sino a quando le ombre minacciose di quattro Sukhoi 7 non si avventarono sulla squadriglia di Breil per impedire il suo appoggio alle truppe d’assalto della Stella di Davide che stavano ormai occupando, di crocevia in crocevia, la città di El Arish.

Il Sukhoi 7 nasceva da un prototipo di aereo con ala a freccia che inizialmente non aveva riscosso grande successo. In seguito, con l’avvento di nuovi motori più potenti, era divenuto una macchina precisa e affidabile. Il caccia si era poi arricchito degli optional in uso tra i migliori velivoli dell’epoca, ed era andato a costituire i ranghi di una ventina di aviazioni militari sparse tra i paesi filosovietici.

Il Sukhoi 7 era un ottimo aereo, capace di raggiungere i millesettecento chilometri orari in assetto d’attacco, e in grado di trasportare almeno il doppio delle bombe di un Mirage.

I caccia egiziani piombarono su quelli israeliani.

«Attento, Shahak 12, attento. È dietro di te, liberati! Portalo ancora un poco in quota che arrivo per toglierlo di…» Breil non finì la frase: una palla di fuoco avvolse il Mirage Shahak 12.

Breil tirò a sé la cloche, la forza di gravità lo schiacciò sul sedile. L’aereo si esibì in una cabrata, salendo verticalmente di quota, quindi sembrò entrare in stallo. Un istante prima del momento di caduta di portanza della struttura alare, il capitano spinse al massimo la manetta, tirando contemporaneamente i flap verso l’alto. Il Mirage parve reagire come un puledro alla frusta: con una densa scia di fumo il propulsore Atar riuscì a riportarlo in assetto.

Quando le strutture del velivolo riguadagnarono assetto aerodinamico, Breil si trovava in coda al Sukhoi.

Il cannone da 30 millimetri cominciò a esibirsi col suono asettico che ogni arma assume nell’interpretare il suo canto di morte: una percussione ritmata, ripetitiva e logorante che nemmeno il boato che accompagnò il rogo dell’aereo egiziano riuscì a soffocare.

Tre dei quattro Sukhoi vennero abbattuti nel giro di qualche minuto. Il quarto si diede alla fuga, dileguandosi tra le nubi. Prima di far alzare il muso al suo caccia, Breil vide distintamente i soldati israeliani, al suo passaggio, alzare al cielo i fucili e le mani in segno di ringraziamento.

Chissà perché, al capitano Breil, mentre faceva ondeggiare le ali per rispondere al saluto, venne alla mente il sorriso del suo unico figlio, Oswald. «Forse», pensò Asher, «sto facendo questo proprio per lui.» Oswald aveva appena dieci anni ed era stato colpito da una rara anomalia genetica che gli avrebbe impedito di crescere. Asher e sua moglie Aliah avevano sofferto molto per questo, poi si erano rassegnati, compiacendosi per la spiccata intelligenza che, in Oswald, sembrava compensare qualsiasi difetto fisico.

«Spero soltanto di regalarti un mondo migliore, Oswald», pensò il capitano Breil, mentre allineava la rotta del suo caccia verso la base.

Quella che la Storia avrebbe poi chiamato «guerra dei Sei giorni» ebbe fine il 10 giugno alle 6.30 di un caldissimo pomeriggio mediorientale.

Sul sanguinante piatto della bilancia, oltre a centinaia di morti, i paesi arabi lasciavano ampie fette del loro territorio. Per mitigare l’onta della disfatta, i paesi sconfitti avevano cercato di ridimensionare l’occupazione da parte delle truppe con la Stella di Davide: «Gli israeliani hanno speso vite umane e mezzi per conquistare qualche chilometro di deserto», si disse allora.

Solo la Storia avrebbe potuto valutare l’inesattezza di questa affermazione.

Il capitano Asher Breil venne decorato il 22 giugno, assieme ad altri ufficiali israeliani fermamente convinti che non era soltanto una fetta di deserto quella che avevano espugnato, ma il diritto alla dignità che la Shoa — ultima in ordine di tempo — aveva negato al popolo ebraico.

15

Prussia, maggio 1917

Vista dall’alto, l’enorme struttura del doppio hangar sembrava una nave dalla forma squadrata in un mare calmo e senza onde.

Il gigantesco ricovero per dirigibili, che veniva confidenzialmente chiamato Toska dagli uomini della base, misurava duecentotrenta metri di lunghezza per sessantasette di larghezza e trentasette di altezza e offriva ricovero a due aeronavi L30; una di queste era stata appena sottratta al nemico da Sciarra e Petru.

Tra i militari della base circolava la voce che Toska fosse segnato dalla mala sorte. Dal 17 gennaio del 1916, data della sua ultimazione, era avvenuta una serie di gravi incidenti agli aeromobili: i dirigibili contrassegnati dalle sigle L18, L22, L24 e L17 erano andati completamente distrutti nel corso di tre incendi avvenuti o all’interno dell’hangar o nelle sue immediate vicinanze.

Ora, la fuga dei due ufficiali nemici a bordo dell’aeronave sembrava suffragare qualsiasi superstiziosa teoria.

La gondola ove aveva sede la plancia di comando era la più appruata delle quattro di cui era dotato il dirigibile. Era arredata come il ponte di una nave, con una profusione di legni pregiati e strumenti d’avanguardia. I due timoni, quello direzionale e quello di profondità, erano costituiti da due grandi ruote anch’esse di legno pregiato che sarebbero potute appartenere a un transatlantico.

Eberhard Meyer pilotava l’aeronave con piglio sicuro, ma i suoi modi lasciavano trasparire l’odio che nutriva nei confronti dei due nemici che lo avevano costretto a far decollare il dirigibile. Petru ne era consapevole e per questo non aveva abbassato la canna della pistola nemmeno per un attimo.

«Come pensate di farla franca?» disse Meyer con occhi che lanciavano fiamme. «Sono necessari quindici uomini addestrati perché questo aeromobile sia perfettamente funzionante. Senza contare che tra non molto gli aerei della base si alzeranno in volo per darci la caccia.»

«Noi non abbiamo nessuna intenzione di farlo funzionare ‘perfettamente’, colonnello. Ci è sufficiente che voi raggiungiate le coste alleate. Invece, per evitare che gli Albatros si gettino al nostro inseguimento e ci raggiungano, comandante Meyer, credo sia opportuno provvedere ad alleggerire la vostra macchina volante», disse Sciarra, tirando verso di sé un pomello rosso posto sul lato destro del pannello di controllo.

L’ufficiale italiano era spesso rimasto a osservare le manovre dei dirigibili, e diverse volte aveva caricato il potenziale di bombe negli alloggiamenti posti sotto le gondole. Il maggiore aveva preso nota di ogni dettaglio che avrebbe potuto essergli utile, qualora avesse mai riacquistato la libertà. Sciarra si era ben impresso nella mente il meccanismo di sganciamento delle bombe: ogni volta che veniva effettuato un nuovo carico da parte dei prigionieri, un tecnico provava il funzionamento di apertura del portello almeno una decina di volte.

Mentre lavorava nei pressi degli aeromobili aveva memorizzato molte delle operazioni che vedeva compiere ai piloti e alle squadre a terra. Ognuna di quelle informazioni avrebbe potuto servire per rendere inoffensiva una delle più invincibili macchine da guerra di cui il nemico disponeva.

Una prima salva di cinque bombe venne sganciata sopra la base. Cinque detonazioni ravvicinate ruppero il silenzio della notte. I bagliori delle deflagrazioni indicarono ai fuggiaschi dove avrebbero dovuto effettuare il nuovo lancio.

«Virate a destra di dieci gradi e mantenete questa velocità», disse Petru premendo la canna della rivoltella contro la tempia dell’ufficiale tedesco.

Sciarra azionò ancora il meccanismo di sgancio e una nuova salva cadde sul terreno. I tre uomini videro distintamente che almeno due bombe avevano fatto centro, cadendo dinanzi all’hangar degli aerei e ostruendone l’uscita.

«Adesso dobbiamo solo sperare che nessuno degli Albatros sia riuscito a oltrepassare la porta dell’aviorimessa e a decollare», disse Petra, gettando lo sguardo verso le fiamme che si levavano da terra.

Quell’istante di distrazione fu sufficiente perché Meyer, con una mossa dell’avambraccio, si liberasse della minaccia della pistola puntata contro di lui, affibbiando un pugno in pieno volto a Petra.

Sciarra afferrò la Mauser e la puntò contro Meyer. «Fermo, colonnello, o aprirò il fuoco», disse risoluto l’italiano.

Meyer si fermò, ma solo per un istante. Conosceva la sua nave alla perfezione; rapido, si volse verso la porta della gondola alla sua destra. «Non vi sarò mai d’aiuto!» Il colonnello aprì la porta e si gettò nel vuoto.

Sciarra e Petra erano ancora sconvolti dal gesto dell’ufficiale tedesco, quando una raffica di mitragliatrice interruppe il rumore monocorde dei propulsori: uno degli Albatros stava dando loro la caccia.

I sette biplani di cui era dotata la base erano in grado di raggiungere velocità anche superiori a centocinquanta chilometri orari e avevano un paio d’ore di autonomia. Erano inoltre ben più maneggevoli e leggeri di un dirigibile.

Malgrado la facilità con cui l’aereo avrebbe potuto abbattere il gigante in volo, sembrava che il pilota mancasse volutamente il bersaglio: le raffiche di quello che pareva essere l’unico inseguitore si perdevano lungo i fianchi dell’aeronave tra le scie luminose dei proiettili traccianti.

«Stanno cercando di convincerci ad arrenderci», disse Petra, mentre metteva mano alla mitragliatrice girevole posta a poppavia nella gondola di comando. «Credo sia opportuno far loro capire che non abbiamo alcuna intenzione di scendere a terra… anche perché io non saprei davvero come fare a portare giù questo affare.»

Mentre Sciarra tentava di prendere dimestichezza con le manovre direzionali del dirigibile, la mitragliatrice esplose cinque colpi, quindi, tra l’imprecare di Petra, l’arma si inceppò.

«Che cosa succede, tenente?»

«Questa maledetta non vuole saperne di riprendere a sparare. L’Albatros, invece, sembra che stia mirando sempre più vicino al dirigibile. Se solo uno di quei colpi dovesse colpire un serbatoio di idrogeno sarebbe la fine.» Petru cercò di recuperare il suo sangue freddo: «Credo sia il caso di raggiungere un’altra gondola e provare ad abbattere il caccia che abbiamo alle calcagna, se non vogliamo fare la fine di due tordi arrostiti in volo».

«Raggiungere un’altra gondola!?» chiese Sciarra incredulo: non aveva mai visto compiere un’azione del genere durante le esercitazioni a terra alle quali aveva assistito. «Come pensate sia possibile?»

«Con quella», disse Petru indicando una scaletta in alluminio che costituiva il passaggio tra la gondola di comando e l’interno del grosso cilindro argentato. «Credo ci siano dei camminamenti interni che portano alle due navicelle centrali ed entrambe sono dotate di una mitragliatrice.»

«Speriamo che la nostra passeggiata nel ventre della balena porti buoni frutti: ho paura che il pilota del caccia tedesco non sia dotato di pazienza infinita.»

«Se mi permettete, maggiore, voi mettete in pratica le vostre conoscenze di guida. Fare il funambolo sarà compito mio.»

Così dicendo, Petru salì sulla scaletta e aprì la botola che si trovava sul tetto del ponte di comando. Al buio riuscì dapprima a individuare un corrimano, quindi si rese conto di trovarsi su una delle passerelle che attraversavano l’interno del dirigibile. Sopra di lui erano collocati i diciannove involucri che contenevano il gas: una scintilla avrebbe potuto innescare un disastro.

Petru percorse a tentoni la passerella cercando di orientarsi in quello spazio immenso e buio. Il rombo del caccia, benché attutito dall’involucro telato del dirigibile e dal ronzio dei propulsori, giungeva anche all’interno della struttura. Doveva fare presto.

Una raffica di mitraglia proveniente dalla navicella di dritta fece capire a Sciarra che il tenente rumeno aveva raggiunto la meta. La risposta dell’Albatros, a questo punto, non fu più solo intimidatoria: le pallottole spazzarono il ponte di comando, infrangendo alcuni vetri e causando un principio d’incendio nel voluminoso apparato radio.

Probabilmente, alla successiva virata, il pilota tedesco avrebbe aggiustato la mira e lo Zeppelin si sarebbe trasformato in una enorme palla di fuoco.

Nell’oscurità, rotta dal chiarore della luna, Sciarra rimase a osservare il biplano che virava, preparandosi a un nuovo assalto.

Impotente, l’ufficiale italiano strinse le mani attorno alla ruota del timone dell’aeronave.

Il caccia si mise in assetto e puntò dritto contro il dirigibile. «Strano destino per un alpino quello di morire in cielo», trovò il tempo di pensare Sciarra, mentre le due mitragliatrici del biplano sputavano vampe di fuoco.

A un tratto il caccia sembrò inciampare in un invisibile ostacolo, mentre i traccianti della mitragliatrice manovrata da Petru accesero dall’interno la fusoliera dell’aereo, quindi il biplano esplose illuminando la notte.

Nella dozzina di minuti che seguirono, Alberto Sciarra cercò in tutti i modi di mantenere il controllo dell’aeronave, non sempre riuscendoci: il dirigibile ora puntava verso la terraferma, ora alzava il gigantesco muso verso l’alto, con impennate preoccupanti. Per fortuna il colosso si mostrava docile come un elefante ammaestrato e sembrava che perdonasse ogni errore dell’improvvisato pilota.

Quando Petru, attraverso il passaggio che aveva utilizzato in precedenza, fece ritorno alla cabina di pilotaggio, l’ufficiale italiano lo accolse con un sorriso. «Credevo voleste rimanere per sempre nella postazione di dritta, tenente. Complimenti per la vostra mira.»

«I tordi arrosto non mi sono mai piaciuti. Ma sono stato aiutato dalla fortuna, maggiore.» Il sorriso scanzonato non scomparve dal volto del rumeno neanche quando, osservando la strumentazione con la speranza di capirci qualche cosa, chiese: «E adesso che cosa facciamo?»

«Semplice», rispose Sciarra, «ci alziamo di quota e dirigiamo a ovest-sudovest: prima o poi incontreremo le linee amiche.» Così dicendo il maggiore agì sulla ruota e cercò di allineare il muso del gigante con l’ago della bussola. Lo Zeppelin sobbalzò per alcuni istanti, incerto, quindi seguì le istruzioni del pilota.

«Dando per scontate le vostre buone capacità di guida, vi informo che ci sono un paio di schieramenti che, in questo momento, farebbero carte false per tirarci giù: il nemico, al quale abbiamo soffiato un’arma invincibile, e gli alleati che non vedono l’ora di abbattere gli odiati dirigibili dell’impero austroungarico. Senza contare che non so come saremo in grado di affrontare l’atterraggio.»

«Ogni cosa a suo tempo, tenente. Per adesso stiamo tranquilli e godiamoci il panorama.»

Il sole radente stava incominciando a illuminare la striscia di terra che collegava la penisola di Westerland alla terraferma, mentre il dirigibile sorvolava le vaste insenature costellate di isole a ovest della Danimarca. La cittadina di Homum avrebbe rappresentato l’ultimo lembo di terra prima che lo Zeppelin L30 si inoltrasse nel mare del Nord.

La rotta che avevano tracciato aveva come meta le coste della Gran Bretagna. Ma i due fuggitivi avevano previsto anche la possibilità di atterrare sul suolo francese: il forte vento da settentrione, infatti, quasi certamente avrebbe fatto scarrocciare l’aeronave più a sud della rotta prestabilita.

«È più facile di quanto pensassi», disse Petru, quando si mise al timone per dare il cambio al suo superiore. «È sufficiente mantenere la prora allineata per duecentoquaranta gradi e questo mastodonte fa tutto da solo.»

Avevano abbandonato la costa danese da poco meno di due ore quando il maggiore, che spesso si volgeva verso poppa per controllare che non ci fossero aerei al loro inseguimento, alzò la voce quanto bastava per superare il rumore del vento che turbinava tra i vetri rotti. «Eccoli, ne stanno arrivando due. Aumentate al massimo la velocità, tenente Petru.»

Le sagome di due Albatros si stagliavano all’orizzonte come rapaci in cerca di prede.

«Stiamo già viaggiando a novanta chilometri all’ora, maggiore, penso di poter arrivare al massimo a novantacinque, con questo vento. Quei maledetti caccia sembrano molto più veloci di noi. Credo sia il caso che mi prepari a una nuova passeggiata all’interno di questo pallone.»

«Aspettate, tenente», rispose Sciarra consultando l’orologio sistemato sopra al tavolo da carteggio. «Non credo che la vostra ottima e fortunata mira potrebbe salvarci ancora da questa nuova minaccia. Spero di non essermi sbagliato nel calcolare la strada che abbiamo percorso. Che Dio ce la mandi buona.»

I due Albatros iniziarono a sparare quando erano ancora troppo lontani e continuarono a sprecare munizioni sino a che, quando furono a millecinquecento metri dalla poppa del dirigibile, invertirono la rotta.

In breve le sagome nere dei biplani scomparvero da dove erano venute.

Sciarra si distese, distolse lo sguardo dall’orologio e sedette sulla poltrona in pelle appartenuta al colonnello Meyer.

«Come facevate a saperlo, maggiore?»

«Non lo sapevo, lo speravo. Ricordo di aver letto che l’Albatros ha meno di un paio d’ore di autonomia e può raggiungere la velocità massima di centosessantaquattro chilometri all’ora. Ho fatto un rapido calcolo e, vista la distanza da noi percorsa, ho dedotto che i nostri inseguitori potevano ormai essere ben oltre il limite di sicurezza per il ritorno. Credo che nessun pilota tedesco, per quanto eroico, farebbe volentieri un bagno nel mare del Nord. Anche se abbiamo appena avuto una dimostrazione lampante di quanto sia disposto a sacrificarsi un ufficiale tedesco. Onore al valoroso colonnello Meyer.»

Navigavano senza intoppi quasi da dieci ore quando Petru strizzò gli occhi osservando un punto lontano: «Terra! Terra! Guardate là, maggiore… sembra… sembra l’estuario di un fiume».

Sciarra consultò ancora una volta la carta topografica e quindi concluse: «Dovrebbe trattarsi del Tamigi. Abbiamo scarrocciato solo di una decina di gradi sulla rotta prevista su oltre settecento chilometri, con un forte vento al traverso. È stato un vero successo».

«Londra, aspettaci. Stiamo arrivando!»

Visti da quella angolazione i palloni di sbarramento sembravano il percorso di un inestricabile labirinto tridimensionale. Sciarra fece alzare il dirigibile di trecento metri, calcolando a occhio il margine sufficiente per superare lo sbarramento. Fu allora che la contraerea inglese iniziò a vomitare fuoco nel cielo sopra Canvey Island, alla foce del Tamigi.

Il primo attacco che la città di Londra aveva subito risaliva al 31 maggio del 1915 ed era stato effettuato dallo Zeppelin contrassegnato con la sigla LZ38. Poi ne erano seguiti altri e sembrava che nulla potesse respingere la potenza distruttiva dei dirigibili.

Le città, con le loro strade illuminate, costituivano un bersaglio fin troppo facile per un’aeronave capace di restare immobile nel cielo per molti minuti. I londinesi erano in preda a una vera e propria psicosi nei confronti degli attacchi degli Zeppelin.

Sciarra e Petru, però, durante le lunghe ore della traversata, si erano preparati per tempo. All’interno del cilindro avevano rinvenuto una copertura di tela grezza lunga una ventina di metri: si trattava del telo che avvolgeva la gondola di comando quando l’L30 era in sosta.

Utilizzando un barilotto di olio da motori e un pennello, avevano scritto alcune parole a grandi lettere sulla tela chiara, sperando che quel messaggio fosse visibile anche da terra.

Il fuoco di sbarramento, costituito prevalentemente dai micidiali proiettili di contraerea di tipo Shrapnel, si era fatto via via più intenso, a mano a mano che risalivano il corso del fiume. A rendere ancor più difficoltosa la situazione, ci si era messo anche un forte vento al traverso che limitava la manovrabilità dell’aeromobile. Sciarra tentava comunque di mantenersi ad alta quota, anche se le raffiche facevano ballare il dirigibile come un galeone nella tempesta.

«Via adesso!» gridò Sciarra e, insieme a Petru, lasciò cadere le cime fuori bordo.

L’enorme telo, trascinato verso il basso da una serie di pesi, schiaffeggiò il vento più volte, prima di tendersi e mettere in mostra il messaggio: CESSATE IL FUOCO, LO ZEPPELIN È IN MANO AD ALLEATI, stava scritto in inglese sui due lati dello stendardo di fortuna.

«Speriamo che qualcuno degli artiglieri là sotto ci stia guardando con un binocolo», disse l’ufficiale italiano, indicando il limite nord della cittadina di Gravesend, dove era alloggiata una batteria antiaerea.

I colpi sotto di loro si andarono improvvisamente diradando, sino a cessare del tutto.

«Gli inglesi devono essere riusciti a leggere il messaggio», disse rincuorato Petru.

Il maggiore italiano mise mano al timone ascensionale e la prua del dirigibile puntò verso la terraferma: «Adesso dobbiamo soltanto cercare di atterrare sani e salvi e senza danneggiare lo Zeppelin: per gli alleati questo dirigibile costituisce una fonte impagabile di informazioni. Che Dio ce la mandi buona…» Ma la frase fu interrotta da una serie di deflagrazioni provenienti dal centro abitato sotto di loro.

I due uomini si scambiarono uno sguardo perplesso: non ci voleva molto ad accorgersi che quelle esplosioni erano causate da un bombardamento e che i grappoli di bombe provenivano proprio dal ventre dell’L30.

«Il colonnello Meyer!» esclamarono entrambi simultaneamente.

L’ufficiale tedesco aveva solo finto di gettarsi nel vuoto dalla porta di accesso della gondola, e si era aggrappato ai tubi in acciaio che ne preservavano il fondo dagli eventuali urti in fase di atterraggio.

Meyer, sebbene ferito alla spalla destra, si era lasciato dondolare sino a darsi lo slancio per infilarsi all’interno del vano ove erano alloggiate le bombe: il portello era stato aperto dai fuggiaschi quando avevano bombardato la pista di decollo della base di Tønder.

Raggomitolato in quell’angusto alloggio, il colonnello Meyer aveva trascorso tutto il tempo del viaggio pregustando il momento in cui l’avrebbe fatta pagare a Sciarra e al suo compare.

E il momento era finalmente venuto. Erano rimaste una trentina di bombe, tra dirompenti e incendiarie.

Dal suo gelido nascondiglio, posto esattamente sotto il pavimento della cabina di pilotaggio, era riuscito ad ascoltare buona parte dei discorsi tra i due fuggitivi: anche quando avevano gioito perché gli inglesi avevano sospeso il fuoco di contraerea. Il colonnello tedesco aveva sentito i motori diminuire di giri e intuito che l’aeronave aveva iniziato le operazioni di atterraggio.

A quel punto Meyer era entrato in azione: la sua macchina volante non sarebbe caduta nelle mani del nemico.

L’ufficiale tedesco aveva aperto la botola sul doppiofondo della gondola di comando, quindi aveva osservato soddisfatto le quattro bombe incendiarie cadere al suolo: le deflagrazioni avevano decretato la ripresa delle ostilità. Una pioggia di proiettili di contraerea illuminarono il cielo. Ora lo Zeppelin era ampiamente alla portata dei cannoni inglesi.

«Fermiamolo!» gridò Sciarra della Volta.

«Lasciate che vada io, maggiore. Credo sia meglio che voi rimaniate ai comandi e che facciate il possibile per evitare i proiettili della contraerea inglese.» Così dicendo l’ufficiale rumeno aprì la botola che il maggiore gli aveva indicato: da quella si accedeva alla parte inferiore della gondola e al vano bombe.

16

Venezia, 1348

Il contagio era dilagato tra i poveri e i senzatetto scampati al terremoto del 25 gennaio: la precarietà delle condizioni igieniche, aggravatasi dopo il sisma, alimentava il diffondersi della peste.

Negli ultimi giorni di marzo il Maggior consiglio della Repubblica di Venezia aveva affidato a tre Savi il compito di stilare un piano d’emergenza: erano stati sufficienti pochi giorni di epidemia per riempire i cimiteri. Ormai non si sapeva più dove seppellire i morti.

I tre Savi emisero il loro responso quattro giorni dopo l’incarico. Le misure da tenere erano rigorose e inflessibili. Tra le altre cose si acconsentiva ai parenti dei malati poveri o indigenti di accompagnare i loro cari sulle isole di San Marco, Sant’Erasmo e San Leonardo Fossamala, destinate a lazzaretti e a giganteschi cimiteri. Tutti sapevano che quello sarebbe stato un viaggio di sola andata.

Ed era soltanto l’inizio.

La cappella era situata allo stesso piano della camera da letto del padrone di casa.

Angelo Campagnola si inginocchiò di fronte all’immagine della Vergine e si fece il segno della croce. Sperava che la preghiera fosse in grado di sollevarlo dal peso di un terrore cieco che lo attanagliava da giorni e che non riusciva a domare.

Forse quelli che morivano erano i più fortunati, pensò il nobile veneziano: non avrebbero dovuto combattere con la paura e con l’incertezza del futuro.

L’attesa era in grado di far vacillare anche la più solida delle menti: aspettare impotente che il morbo si impadronisse del proprio corpo e lo consumasse fra atroci sofferenze nella più desolata solitudine poteva portare chiunque alla follia.

«Vergine santa», disse Campagnola in un sussurro che assomigliava al sibilo di un serpente. «Tu sai quanto io ti sia devoto. A te chiedo di non farmi cadere nella stretta del demone che sta decimando gli abitanti della mia città.»

Benché si dicesse che le donne, e soprattutto quelle incinte, fossero le più esposte al contagio, in realtà la peste colpiva indiscriminatamente, senza tenere conto dell’età o dello stato di salute delle sue vittime.

A dire il vero qualcuno riusciva a sopravvivere alle febbri, alle setticemie e ai bubboni, ma erano davvero pochi. Quei pochi, però, parevano immuni da un successivo contagio e buona parte dei «graziati» andava ad arricchire i mai sufficienti ranghi degli addetti al trasporto dei cadaveri verso i luoghi di sepoltura o, più spesso, verso le pire dove ardevano i corpi.

Campagnola osservava il lento incedere della cocca: da alcuni giorni diverse navi da commercio erano state requisite per passare di canale in canale e di casa in casa a raccogliere morti e moribondi, allontanando così il soffio pestifero da chi non era ancora ammalato.

«Te ne prego, santissima Vergine, preservami dal male.»

Anche così, chino tra le candele e di fronte alle immagini sacre, Campagnola, più che un fedele raccolto in preghiera, sembrava un emissario di Satana che stesse cospirando ai danni di Maria.

Il nobile veneziano alzò lo sguardo sulla statua. Il volto della Madonna era disteso in un sorriso, gli occhi azzurri guardavano un punto all’infinito, mentre quelli dell’uomo mandavano lampi crudeli.

«Ho capito quello che tu mi chiedi, Madre mia. Vuoi che io fermi il figlio di Satana. Lo so, quello è il figlio del Demonio e sta seminando la morte in città. Tu mi vuoi dire che sino a che la progenie del Diavolo riceverà accoglienza, per questa città non ci sarà pace. Vuoi che io lo elimini e tu così compirai il miracolo di far cessare la pestilenza, non è vero?»

La nebbia si alzava dall’acqua immobile dei canali come l’anima che lascia il corpo di un uomo senza vita.

E molte anime, in quel momento, stavano iniziando il loro viaggio per tornare a sedersi al fianco degli angeli: la peste non si concedeva pause.

Quasi metà della popolazione sarebbe morta nel giro di pochi mesi.

I dodici uomini si unirono all’equipaggio della cocca, uguale a quello delle molte che venivano usate per raccogliere i morti: indossavano una mantella nera e avevano il volto nascosto dalle falde di grandi cappelli. Ciascuno di loro portava al fianco una grossa spada.

Alessandro Crespi chiuse la finestra che si affacciava sul Canal Grande. Osservò compiaciuto i vetri con cui aveva fatto recentemente sostituire i battenti in legno. La sua era una delle poche case a Venezia a godere di questa lussuosa novità: i vetri consentivano un migliore isolamento termico e, soprattutto, permettevano alla luce d’illuminare i locali che altrimenti sarebbero stati avvolti nel buio per i molti mesi del lungo inverno veneziano.

All’interno del palazzo regnava il silenzio. Il mercante era l’unico a essere ancora sveglio, essendosi attardato a controllare la distinta di una spedizione appena giunta dall’Oriente.

Crespi guardò la cocca che ormeggiava lungo la riva degli Schiavoni, a poca distanza dalla sua abitazione. Conosceva lo scopo a cui erano ormai destinate quelle imbarcazioni: la peste faceva paura a tutti, anche a un uomo freddo e abituato al rischio come il mercante veneziano.

Dalla imperfetta trasparenza di un vetro ancor ruvido e spesso, Crespi osservò gli uomini che scavalcavano la murata della cocca e si avviavano lungo la riva: non si trattava certo di seppellitori o di frati intenti a recuperare i corpi degli ammalati. Quelli sembravano piuttosto un drappello di guardie che, armi in pugno, si stavano dirigendo… si stavano dirigendo… «All’imboscata! Svegliatevi tutti! Ci stanno attaccando!» gridò a gran voce Crespi, mentre un forte colpo annunciava che gli uomini armati stavano sfondando il portone d’ingresso.

Humarawa fu il più pronto ad accorrere. Crespi lo intravide con la coda dell’occhio e gli sembrò una figura spettrale, avvolto nella lunga camicia da notte e non nella consueta armatura da samurai. La spada del giapponese sibilò nell’aria e la rapida posizione di guardia assunta da Humarawa infuse un immediato senso di sicurezza anche in Crespi, che si sentì pronto a fronteggiare l’assalto.

Lo scalone in legno massiccio del palazzo era ampio, perciò avrebbe consentito agli assalitori di salirlo in quattro o cinque alla volta: e loro erano solo in due a respingere l’attacco. A questo stava pensando Humarawa quando il respiro reso sibilante dalla antica ferita alla bocca lo avvertì che anche Wu si era unito a loro. Lo scontro sembrava inevitabile.

Sia per il giapponese che per Wu si sarebbe trattato di uno dei tanti duelli all’ultimo sangue a cui avevano partecipato. Diverso era invece lo stato d’animo di Crespi: non era un combattente e, anche se era in grado di maneggiare agevolmente sia la spada che l’arco, non aveva alcuna dimestichezza con la lotta corpo a corpo. La freddezza sembrava essere l’arma migliore del mercante veneziano: aveva imparato che il mantenersi calmi davanti a un avversario poteva essere un ottimo sistema per cavarsela nelle situazioni difficili. E questa aveva tutta l’aria di essere una situazione difficile.

Adil — ormai Celeste si era abituata al nuovo nome e alla diversa identità — fu destato dal grido d’allarme di Crespi. Rapido si vestì e corse verso le scale. Quando le raggiunse rimase paralizzato dal terrore: sullo scalone si stava combattendo una battaglia all’ultimo sangue.

Humarawa brandiva la katana con la destra, e con la sinistra lo spadino. Anche Crespi presidiava da una posizione dominante l’ultimo scalino e la sua arma, leggera e maneggevole, pareva più efficace dei pesanti spadoni degli assalitori.

Wu, invece, agitava come una clava una trave di legno che aveva divelto dal montante di un mobile. La sua espressione e la sua mole costituivano da sole un ottimo deterrente per chi avesse avuto a che fare col gigantesco pirata cinese.

La prima carica venne respinta senza eccessivo sforzo: avere ragione di tre abili guerrieri come Crespi, Wu e soprattutto Humarawa, posti a difendere la sommità di una scala, era difficile come espugnare la più arroccata delle fortezze.

Due dei misteriosi assalitori, feriti, guadagnarono le retrovie, mentre i loro compagni si videro costretti a indietreggiare.

«Fermi», disse Humarawa nella sua lingua, «non dobbiamo perdere il vantaggio della nostra posizione sopraelevata. Aspettiamoli qui.»

Pochi istanti più tardi partì un secondo assalto.

Quello che sembrava il capo del manipolo stava per colpire Humarawa con lo spadone, ma il giapponese scartò di lato e il colpo andò a vuoto. Prigioniero del suo stesso impeto, l’uomo ruzzolò a terra, ai piedi di Humarawa. Il malvivente non ebbe il tempo di rialzarsi che la wakizashi, tenuta nella mano sinistra del giapponese, posò la sua lama affilata sul collo del nemico.

«Adesso voglio proprio sapere da che parrocchia provieni», sibilò Humarawa, premendo la lama sulla carotide dell’avversario.

«Fermo…» disse l’altro con voce tremante, «in nome della legge. Agiamo per conto del Consiglio dei Dieci.»

«Se l’eminentissimo Consiglio manda in giro nella notte uomini in tenuta da briganti a recare disturbo ai cittadini di Venezia, io sono autorizzato a tagliare la gola di persone armate che entrano nella mia casa nottetempo.»

Ma mentre Humarawa si preparava a infliggere il colpo mortale all’avversario, gli assalitori sferrarono un nuovo attacco. Crespi, per evitare un affondo, inciampò nel giapponese.

L’uomo che era stato atterrato da Humarawa menò un calcio al basso ventre al samurai e riuscì a divincolarsi dalla presa. In men che non si dica sgusciò via e si mise al riparo tra i suoi che, approfittando della situazione, avevano guadagnato qualche scalino. Uno degli aggressori si avventò con la spada sguainata sul giapponese che ancora si trovava sbilanciato. Con la rapidità di un gatto, Humarawa stava rimettendosi in posizione di combattimento quando sentì quella strana sensazione che non è ancora dolore vero e proprio, ma è simile all’indolenzimento e accompagna inizialmente ogni ferita: la spada gli aveva trafitto il fianco.

Come una tigre ferita Humarawa urlò di rabbia e dolore mentre estraeva la lama. Poi il furore si impadronì di lui.

Adil non riusciva a tenere aperti gli occhi. Humarawa sembrava trasformato in una macchina da guerra dotata di quattro armi micidiali: i suoi arti agivano simultaneamente e con letale precisione.

Tre degli assalitori caddero sotto i colpi della fiera, altri due ruzzolarono lungo le scale per mano di Crespi e di Wu. Malridotti, gli aggressori mossero in ritirata, attestandosi alla base della scala, quasi in penombra.

Solo allora Hito Humarawa si accasciò a terra. «Prendi il ragazzino e vattene, Wu», disse il giapponese al fedéle servitore.

«Alzati, signore. Stanno per tornare», disse il pirata con la voce rotta dall’angoscia più che dall’affanno.

«Non posso alzarmi. Sto per perdere i sensi. Ti ordino di lasciarmi qui e di mettere in salvo Adil.»

Gli occhi di Wu incontrarono quelli di Celeste. Wu l’afferrò e la pose a cavalcioni sul suo fianco sinistro, scambiò un gesto di intesa con Crespi, quindi il piccolo gruppo si diresse, nella penombra, verso il passaggio segreto dell’antico palazzo. Il buio facilitò la loro fuga.

Per la prima e unica volta nella vita Wu aveva disobbedito agli ordini del suo padrone: mentre correva verso la salvezza, il gigante cinese portava in braccio Adil e sulle spalle il corpo di Humarawa privo di conoscenza.

17

Marzo 2004

Deidra Blasey si massaggiò la gamba. Nonostante potesse essere più che soddisfatta dei suoi progressi, le fratture provocate dall’esplosione, parecchi mesi prima, le dolevano ancora. Aveva dovuto subire sei interventi, ma ora la convalescenza era finita e si sentiva quasi del tutto in forze, anche se sapeva bene che i segni lasciati dalla bomba sul suo corpo sarebbero stati indelebili.

Il colonnello dei marine entrò nel capannone numero 24 con passo lievemente claudicante. Appena giunta nell’ufficio ricavato in un angolo dell’hangar, il sergente Kingston le si parò davanti: «Il generale Grenshover ha chiesto di vederla, signore.»

Dopo circa una mezz’ora di anticamera Deidra Blasey entrava nella stanza del comandante di Fort Lejeune.

«Riposo, colonnello… riposo.» Quello era il modo in cui il vecchio ufficiale cercava di mettere le persone a proprio agio. «L’ho convocata per dirle che l’America non può dimenticarsi di persone come lei, persone che, più duramente di altre, hanno pagato il prezzo di essere al servizio della nostra nazione. Vedo però che la gamba va meglio, colonnello.»

«Grazie a Dio, signore, non sembra che abbia subito irreparabili conseguenze…» rispose Deidra, mentre il suo sesto senso le suggeriva di stare in guardia.

«Certo, certo, colonnello Blasey, anche se a seguito dell’incidente i medici le hanno assegnato un’invalidità pari al…» Il generale aprì il dossier che si trovava sul tavolo.

«Non sforzatevi di leggere, signore. Invalidità del diciannove per cento, così recitano i referti.»

«Lei certo saprà, colonnello, che non sarà più possibile destinarla ai servizi operativi… anzi, se non fosse lei ci sarebbe difficile tenere chiunque nelle sue condizioni a far parte della forza permanente effettiva…»

Il generale Grenshover prese fiato: sapeva che quello che stava per dire a uno dei suoi migliori subalterni equivaleva a un’umiliante retrocessione.

«Colonnello Blasey, il corpo dei marine è fiero di proporle il ruolo di ispettore internazionale per la bonifica delle zone minate.»

«Mi perdoni, signore, ma a prima vista sembra uno di quei titoli altisonanti creati per mettere a riposo qualche vecchia carretta… che so… dietro una scrivania a sbirciar riviste in attesa che l’orario di lavoro finisca. Lei mi conosce abbastanza bene, signore, per sapere che non sono quel tipo di soldato.»

«Tutt’altro che un lavoro sedentario, Blasey. Nel mondo esistono ancor oggi milioni di mine disseminate ovunque. La sua esperienza potrà essere preziosa e insostituibile per i ragazzi che si troveranno in situazioni di pericolo, nel tentativo di bonificare questo o quell’angolo del pianeta. E guai a me se avessi mai pensato di sotterrarla dietro una scrivania. Girerà il mondo: ovunque l’esistenza di una zona a rischio giustifichi la nostra — la sua — presenza.»

Qualche minuto più tardi Deidra Blasey rientrava nel capannone numero 24. Aveva un’aria mesta.

Kingston non la fece neppure parlare: «È quello che mi aspettavo, signore?»

«Non so che cosa si aspettava, sergente. So che dal prossimo mese non sarò più il suo comandante.»

«Era da qualche giorno che la voce girava, qui al campo, signore. Mi permetta comunque di correggerla.»

«Mi domando come le notizie trapelino sempre, Kingston. E poi mi dica, che cosa vuole correggere in me?»

«Non mi permetterei mai di correggere nulla nel migliore comandante che io abbia mai avuto.» L’espressione del corpulento militare sembrava quella di un bambino al settimo cielo. Porse un foglio al colonnello e continuò: «Sempre che lei non si sia stancata di me, ho presentato domanda per seguirla nel suo nuovo incarico, signore».

Cassandra Ziegler indossava una gonna nera, aderente quanto bastava per mettere in mostra le sue forme senza renderle eccessivamente provocanti.

Conrad Deuville la guardò con palese apprezzamento: il direttore dell’FBI era fiero di avere una signora come Cassandra nel suo staff personale. E non solo perché si trattava di una bella donna.

«Come vanno i tuoi contatti mediorientali, Cassandra?» le chiese Deuville non appena lei si fu seduta nel salotto annesso all’ufficio.

«Se ti riferisci a Breil, sta visionando il materiale che gli abbiamo fornito.»

«Che gli hai fornito. Ricordati che quella di arruolare un consulente in un caso ufficialmente non di nostra competenza è stata una tua idea.»

«Non sarà che tu ti stai lasciando troppo trasportare dalle onde della politica, capo? A ogni modo, sai che sono sempre stata pronta ad assumermi le mie responsabilità: soprattutto adesso che un pazzo bombardiere se ne va in giro per il mondo a mietere vittime.»

«Credo sia proprio il carattere internazionale della sua azione, oltre alle pressioni di una certa fascia di politici, il motivo per cui il caso del Giusto ci è stato tolto. Quanto tempo è che il tuo bombardiere non si fa vivo?»

«Dall’ultimo attentato ai pullman in Canada: lo scorso settembre.»

«Se non ha preso un altro periodo sabbatico dovremmo essere ormai a tiro per la prossima carneficina.»

Le mani dalle dita sottili disposero con attenzione il materiale sullo scaffale nella stanza segreta. Quindi, protette dai guanti di lattice, si apprestarono a collegare i detonatori ai pani di esplosivo. Ogni bomba così composta sarebbe stata a sua volta collegata a un timer e inserita all’interno di un involucro che gli avrebbe conferito l’aspetto di un oggetto di uso comune. Il Giusto aveva pensato di mascherare le bombe come se fossero cassette elettriche di medie dimensioni, di quelle normalmente usate nei cantieri per le derivazioni dei fili.

Quindi il Giusto si alzò: era ancora presto per lasciare il solito indizio. Si fermò per qualche istante sotto la lampada antibatterica a raggi ultravioletti, situata in un piccolo corridoio che conduceva all’anticamera della stanza segreta. Si sfilò i guanti e la tuta cerata che usava per non lasciare traccia di sé. Tra poco si sarebbe nuovamente parlato del Giusto in nome di Dio, ma doveva agire con la consueta prudenza. Il tempo trascorso dall’ultima punizione non sembrava aver abbassato il suo livello di guardia. Sedette dinanzi allo schermo del computer nella stanza segreta, aprì il Corano in un preciso punto e scrisse alcune parole. Le dita sottili si strinsero ancora una volta attorno all’Anello dei Re, come se l’antico oggetto fosse capace di infondere nell’attentatore la forza necessaria per compiere nuove stragi di innocenti.

Oswald Breil era seduto in una poltrona, nell’ufficio di Deuville.

«Spero lei capisca il senso, dottor Breil, di questa nostra… ehm… collaborazione», disse il direttore dell’FBI, tradendo un certo imbarazzo. «Solitamente ricorriamo ad aiuti esterni soltanto in caso di assoluta necessità. Visto come stanno andando le cose, credo che questo sia proprio uno di quei casi. I nostri colleghi della CIA sembrano aver preso sottogamba il terrorista che si fa chiamare il Giusto. Da informazioni riservate che ho ricevuto pare sia stata adottata una politica del ‘lascia perdere’. Noi crediamo invece che il Giusto rappresenti una grave minaccia per tutti. In campo economico l’impennata del greggio a seguito dell’attentato a Hormuz ne è un esempio. Dal punto di vista politico, sono certo che presto ci sarà chi vorrà vederci chiaro: non appena qualche personaggio importante, vicino alle alte sfere del governo, eserciterà le dovute pressioni.»

«Conosco bene, signor Deuville, le rivalità interne tra i servizi — e mi sia consentito il gioco di parole — che dovrebbero essere al servizio dello stesso paese. Mi immagino che cosa potrebbe succedere tra le due massime agenzie d’intelligence americane. Che cosa intende con ‘personaggio importante’, signor Deuville?»

«Al momento nessuno in particolare, dottor Breil. Lei conosce meglio di me i fragili equilibri mediorientali e l’importanza che la fedeltà di questo o quell’alleato riveste per il mantenimento della pace sull’intero globo terrestre. Pensi soltanto se a causa del Giusto, o meglio, a causa dello scarso interesse della CIA verso il terrorista, venissero compromessi i legami già precari tra paesi musulmani moderati e Occidente. Mi vengono in mente l’Arabia Saudita, il Kuwait o uno dei tanti Stati musulmani filoccidentali.»

Oswald annuiva in silenzio: non era possibile non condividere le opinioni del direttore dell’FBI. Le azioni terroristiche del Giusto avrebbero potuto produrre un impatto dirompente in rapporti diplomatici già di per sé molto delicati.

«Credo sia inutile sottolineare l’assoluta riservatezza di questo suo incarico, Oswald», aggiunse Cassandra, rimasta in silenzio sino ad allora.

Ancora una volta Oswald sorrise, annuendo. Quindi il piccolo uomo iniziò a parlare: «È mio dovere mettere voi in guardia sulle mie reali potenzialità, signori», disse guardando negli occhi i suoi interlocutori. «Ritengo che la mia carriera di uomo pubblico sia terminata nello stesso momento in cui mi sono dimesso dalla carica di primo ministro israeliano. Non sono più nella rosa di ‘quelli che contano’ in questo momento. Credo abbiate capito quello che intendo, vero?»

Adesso erano i due dirigenti del Federal Bureau ad annuire, mentre Oswald continuava: «Certo, mi rimangono alcune amicizie che ho coltivato in anni di permanenza nel Mossad, ma credo che voi sappiate meglio di me quanto poco una persona che è fuori possa influire su decisioni interne o conoscere argomenti classificati come segreti. Insomma, credo sia giusto informarvi che in questa faccenda io posso contare solo ed esclusivamente su me stesso».

«Nessun problema, dottor Breil», disse Deuville con un sorriso. «La scelta della dottoressa Ziegler — da me pienamente condivisa — di contattare lei per questa spinosa questione è dovuta alle sue personali capacità e al suo famoso intuito. L’aiuto di Oswald Breil ci interessa perché l’opinione di uno tra i migliori investigatori al mondo potrebbe portarci a catturare il Giusto: la sua carriera politica non ci riguarda. Tenga inoltre presente che non ci sono problemi economici o logistici per supportarla: siamo a sua disposizione per qualsiasi richiesta. È sufficiente che lei ci faccia sapere ciò di cui ha bisogno. Anche il suo… ehm… disturbo sarà congniamente compensato. Ci dica lei la cifra, Breil.»

«Non ho grandi pretese economiche», rispose Oswald, «ma credo che la vostra struttura e i vostri agganci, insieme alle amicizie che ancora possiedo in Israele, mi saranno utili per arrivare a capo di una antica questione… Mi riterrò soddisfatto se, insieme alla cattura del Giusto, risolverò un enigma che riguarda la mia storia familiare e che da sempre mi accompagna. Credo, tra l’altro, che le mie faccende di famiglia siano in qualche senso legate al Giusto.»

«Che cosa intende dire, dottor Breil?» chiese Cassandra Ziegler. I due alti dirigenti federali avevano imparato a memoria la biografia dell’ex premier israeliano, prima di convocarlo per quella «proposta di lavoro»: entrambi sapevano bene che la famiglia di Breil era stata distrutta da un misterioso incidente d’auto quando Oswald era un adolescente.

«Quel sigillo», disse Breil puntando il dito indice verso il marchio in ceralacca posto a rivendicare la paternità del Giusto in una delle ultime stragi, «in qualche modo fa parte della mia vita e, ogni volta che è comparso, ha portato con sé eventi terribili. Un giorno, quando avremo più tempo, vi racconterò tutta la storia. Innanzitutto dobbiamo affrettarci e riportare l’Anello dei Re lontano da mani assassine.»

Ventiquattro ore più tardi un jet privato atterrava al Bucarest Otopeni International Airport. Dalla scaletta scese una coppia di uomini d’affari americani: vociavano e gesticolavano apparentemente soddisfatti per il trattamento esclusivo che l’equipaggio di bordo aveva riservato loro. Nessuno fece caso all’uomo che, aiutato da due addetti ai bagagli, stava scaricando un baule dalla stiva dell’aereo.

Il baule era stato adagiato sul pianale di un furgone e, da lì, come un coniglio dal cappello, era apparso Oswald Breil.

Pochi istanti erano stati necessari a Oswald per superare la distanza tra il pianale e i sedili anteriori. Qui giunto, l’ex premier israeliano sorrise e disse: «Ormai non ho più l’età per certe messe in scena, capitano».

Il capitano Bernstein era una vera autorità in materia di chip e circuiti al silicio: da tempo dirigeva la Sezione 8200 del Mossad, quella ove erano custoditi i segreti di uno tra i più temibili servizi di sicurezza al mondo.

«Era proprio necessario farsi chiudere in una cassa, maggiore Breil?» Un’altra caratteristica di Bernstein era quella di non aver mai smesso di abbinare il cognome di Oswald al grado che il piccolo uomo rivestiva all’interno del Mossad, prima che la sua folgorante carriera lo proiettasse verso i gradini più alti delle gerarchie israeliane.

«La prudenza non è mai troppa, capitano, quando si deve andare a spulciare tra i segreti della Securitate.»

18

Londra, maggio 1917

Il contatto con le mani dell’infermiera provocò un fremito lungo il corpo del maggiore Sciarra. Ma non si trattava di un fremito di piacere, sebbene nei lunghi mesi di trincea venir sfiorato dalle mani di un’avvenente ragazza fosse stato uno dei suoi sogni più ricorrenti. Nell’ospedale militare la volontaria inglese stava premendo con forza sui margini della ferita per farli combaciare tra loro, mentre un non più giovane ufficiale medico provvedeva a ricucire il bicipite dell’ufficiale italiano: uscire con pochi punti di sutura a un braccio dall’avventura che lo aveva visto protagonista era stato un vero e proprio miracolo. Danni ancor minori aveva riportato il suo compagno di viaggio: il tenente Petru se l’era cavata con qualche escoriazione alle gambe e alla fronte.

Sciarra sorrise una volta che il medico ebbe reciso il filo dopo aver dato l’ultimo punto, si asciugò la fronte imperlata di sudore e disse: «Grazie, dottore… e grazie anche a voi, signorina. La delicatezza delle vostre mani ha reso più sopportabile il dolore…»

«Voi parlate un ottimo inglese… maggiore…?!» Nel tono della ragazza si avvertiva una certa perplessità per via di ciò che Sciarra aveva dichiarato alle autorità britanniche, e cioè che sia lui che il giovane rumeno erano due ufficiali del Regio esercito italiano fuggiti da una base di dirigibili a Tønder.

Mentre rispondeva alle domande che gli venivano poste, Sciarra dovette convenire che la deposizione resa a due appartenenti ai servizi segreti inglesi poteva essere sembrata assai poco credibile. E, a giudicare dal tono dell’infermiera, anche nella mente della giovane doveva essere sorto qualche dubbio. Sciarra sorrise di nuovo con cordialità e disse: «Quando non vengo catturato dagli asburgici e deportato in un campo di lavoro, esercito un’attività commerciale internazionale, signorina…?»

Sciarra aveva deciso di approfittare del fatto che l’anziano medico aveva abbandonato la sala per cercare una maggiore confidenza con la giovane inglese.

Aveva osservato l’infermiera, ostentando un’aria distratta, per tutto il tempo della sutura. Non era molto alta, e sotto al camice bianco e pulito si intuivano fianchi tondi e torniti. I capelli castani tendenti al rosso incorniciavano un sorriso gradevole e aperto. Il seno prosperoso sembrava costretto dentro un corpetto più simile a una camicia di forza che a un indumento femminile. Doveva avere poco più di vent’anni.

«E dove esercitate questa professione, maggiore?» chiese ancora la ragazza, aggiungendo: «Kimber, mi chiamo Kimber Hadwin e sono un tenente della Croce Rossa britannica».

«A Genova, nel Nord dell’Italia, tenente Hadwin: la città dove abito e lavoro quando gli impegni militari me lo consentono.»

«So bene dove si trova Genova, signore. Mio padre è stato imbarcato per tutta la vita, prima di colare a picco con la sua nave, affondata da un maledetto U-Boot tedesco. Ci sono anche stata alcune volte: quando ero piccola, mia madre e io abbiamo accompagnato papà nel corso di alcuni suoi viaggi. La nave che comandava aveva un confortevole appartamento in cui alloggiavamo, ed era quasi come stare nella nostra casa qui a Londra. Posseggo ricordi nitidi della sua città… la Lanterna, il porto Mediceo, i carruggi…»

«Tutto esatto, tenente Hadwin, fatta eccezione per il porto Mediceo: quello si trova a Livorno e, perdonate la mia presunzione, ma credo che voi lo sappiate bene. Capisco la vostra diffidenza e vi assicuro che ognuna delle cose che ho detto poco fa a quei due signori corrisponde a verità. Posso strapparvi una promessa?»

Kimber annuì, arricciando il naso in maniera simpatica, mentre Sciarra continuava: «Visto che sono riuscito a cogliervi in fallo, mi promettete che continuerete la vostra verifica circa la mia identità a cena in qualche ristorante, non appena finirà la mia degenza ‘forzata’?» Sciarra si riferiva ai due uomini in divisa che piantonavano la stanza in cui erano stati portati lui e il tenente Petru. Quasi certamente li avrebbero gentilmente costretti a rimanere ospiti dell’ospedale, in attesa che le loro generalità fossero state confermate dalle autorità italiane.

Nel corso della settimana che era seguita, Kimber aveva fatto più volte visita all’ufficiale, sino a che l’ambasciata italiana a Londra aveva chiarito la posizione dei due degenti, preannunciando altresì l’arrivo in città del diretto superiore di quelli che, per gli alleati, erano ora diventati due eroi.

Quel giorno i due piantoni erano stati allontanati dalla camera occupata da Sciarra e da Petru, e la sera stessa Kimber Hadwin era seduta davanti al maggiore in un piccolo ma elegante ristorante sulla riva destra del Tamigi.

«State a sentire com’è andata a finire, Kimber…»

La giovane infermiera era vestita con un’eleganza che sottolineava doti tenute fino ad allora nascoste dall’asettico camice bianco. I capelli si muovevano come onde di un mare al tramonto, emanando riflessi rosati. Gli occhi chiari della giovane osservavano quelli dell’italiano. Le piaceva il distacco con cui Sciarra raccontava la sua storia: come un perfetto cronista, non indulgeva mai in espressioni di compiacimento per le sue imprese.

Kimber finì di mangiare, appoggiò le mani sul tavolo e si preparò ad ascoltare.

«Il colonnello Meyer ha lottato come una tigre all’interno dell’angusta stiva delle bombe, ma poi, ferito, ha dovuto cedere al giovane ufficiale rumeno. Proprio mentre Petru lo costringeva a precederlo verso il passaggio sotto al paiolato, Meyer ha avuto un guizzo, riuscendo a liberarsi dalla presa dell’altro. A quel punto l’ufficiale tedesco si è lanciato di nuovo nel vuoto, ma questa volta lo ha fatto davvero.

«Petru aveva appena riguadagnato la plancia, quando io mi sono messo a urlare: ‘Stiamo perdendo quota! Hanno colpito la sommità del cilindro, e uno dei diciannove palloni aerostatici a idrogeno è in fiamme. Quando anche gli altri verranno investiti dall’incendio, il dirigibile esploderà come un gigantesco deposito di gas. Credo che l’unica soluzione sia quella di raggiungere la terra il più presto possibile…’ Così dicendo ho girato con forza il timone ascensionale in modo che la prora dell’aeronave puntasse risolutamente verso il basso. La terra distava ancora qualche centinaio di metri e il fuoco divampava ormai ovunque, diffondendosi a gran velocità con ampie volute roventi. A mano a mano che il campo brullo sotto di noi si avvicinava, la velocità di caduta del dirigibile — ormai trasformatosi in una massa incandescente — aumentava in maniera incontrollabile.

«La gondola è atterrata con uno schianto a poca distanza da una postazione dell’antiarea. Le fiamme la avvolgevano e si propagavano ovunque, accompagnate da quello che sembrava il sibilo di un gigantesco rettile.

«Petru e io siamo usciti subito, correndo per allontanarci il più possibile dal dirigibile in fiamme.

«Alle nostre spalle l’immane palla di fuoco è esplosa col fragore di un tuono infernale. L’onda d’urto, benché attutita dalla distanza, ci ha fatto cadere, e solo allora ci siamo resi conto di essere feriti, per fortuna non gravemente. I fucili degli alleati inglesi, convinti di trovarsi di fronte ai membri dell’equipaggio di uno Zeppelin nemico, erano puntati contro di noi.»

Kimber era rimasta in silenzio, catturata dalla narrazione dell’italiano.

Quando erano usciti nel tepore della tarda primavera inglese, Kimber aveva accettato volentieri il braccio che Sciarra le aveva porto, e aveva stretto la mano dell’ufficiale.

Questo era stato l’unico contatto fisico tra loro, fatta eccezione per due teneri baci sulle guance che si erano scambiati quando Sciarra l’aveva salutata sulla porta di casa. Entrambi sapevano che difficilmente si sarebbero rivisti: l’indomani il colonnello Cantini sarebbe giunto a Londra, e Sciarra e Petru lo avrebbero presto seguito in Italia.

Il colonnello Cantini rivolse il saluto militare all’ufficiale medico e strinse la mano al parigrado inglese che lo aveva accompagnato nelle operazioni di «scarcerazione» dei due ufficiaH: era stato usato ogni riguardo onde evitare un incidente diplomatico. I due, che si erano dichiarati appartenenti al corpo degli alpini italiani, dopo essere usciti miracolosamente illesi dallo schianto dello Zeppelin erano stati tenuti sotto sorveglianza nell’ospedale militare di Londra.

Nel volgere di quattro giorni dall’arrivo di Cantini, sia Sciarra che Petru avevano potuto riabbracciare la libertà.

A dire il vero quei pochi giorni di forzato riposo erano stati utili per entrambi: Petru era spossato dalla tensione dell’impresa. A questo Sciarra aggiungeva il logoramento dovuto a un lungo periodo di prigionia.

«La licenza che vi è stata accordata, tenente Petru, è di tre settimane. E dato che la nazione ha bisogno della vostra opera al più presto, maggiore Sciarra, credo che nemmeno a voi potremmo concedere di più. Pensate di potervi rimettere in tempo?» chiese il colonnello Cantini.

«Credo proprio di sì, signore.»

«Bene, maggiore, sapevo di poter contare su di voi, ancor più adesso che gli americani hanno deciso di entrare in guerra per cacciare il nemico», concluse il colonnello. «Posso sapere dove andrete a ritemprarvi, maggiore?»

«Non lo so ancora con certezza, signore. Ma so che devo restituire al tenente Petru il tempo che mi ha dedicato. Se non erro, ha consacrato a me la sua prima settimana di licenza, riuscendo a tirarmi fuori da grossi guai. Sono in debito nei confronti del mio subalterno. Mi ha detto che vorrebbe andare in Romania a trovare la sua famiglia e mi ha chiesto di accompagnarlo: credo di doverglielo…»

«Farò finta di non aver sentito, maggiore. Voi sapete bene che la Romania è stata invasa dagli austroungarici da poco più di sei mesi. Una missione in terra nemica dovrebbe essere autorizzata e coordinata dallo stato maggiore…»

«Permettetemi, signore. Da quel che ho avuto modo di capire non si tratta di una missione di guerra, bensì di una visita familiare.» Quindi, consapevole che il suo superiore non gli avrebbe mai creduto, Sciarra cercò di addolcire la pillola. «Accanto a Petru anche la mia presenza non dovrebbe suscitare sospetti.»

«Già… portate i miei personali saluti ai parenti del tenente, maggiore», disse Cantini con ironia. «A ogni modo, se proprio volete oltrepassare il confine dovrete affrettarvi: una staffetta diplomatica sta partendo alla volta della Russia. Credo sia quello il fronte migliore per aggirare le linee nemiche.»

Kimber aveva corso sotto una pioggia fitta, sino a che l’ampia copertura di Victoria Station non l’aveva accolta. Sebbene fosse ormai arrivata aveva continuato a correre: non erano state le gocce d’acqua a farla andare di fretta.

Giunse al binario in tempo per vedere le lanterne rosse di via del treno che si allontanavano. Il fumo della locomotiva si andava diradando.

«Chissà se mai riuscirò a vederti ancora. Che Dio ti assista, Alberto», disse Kimber stringendo spasmodicamente la fettuccia della tracolla della borsetta. I suoi occhi erano velati di tristezza e sulle ciglia tremavano due grosse lacrime.

Sciarra era rimasto affacciato al finestrino, sino a che il vapore non aveva invaso lo scompartimento.

«Aspettava qualcuno, signore?» gli aveva chiesto il giovane corriere diplomatico che li avrebbe accompagnati sino alla loro destinazione.

«No, nessuno, volevo soltanto guardare la stazione mentre il treno si allontanava.»

Fu allora che gli parve di vederla, in fondo al binario. Non ne ebbe l’assoluta certezza, né mai l’avrebbe avuta, a meno che non avesse incontrato un’altra volta Kimber… Incontrarla un’altra volta… Se Dio l’avesse mai voluto.

Sciarra e Petru varcarono le linee nemiche dopo essere stati trasbordati da un pattugliatore russo molte miglia al largo della città di Costanza, sul mar Nero. Non appena ebbero abbandonato l’imbarcazione da pesca con la quale avevano raggiunto la riva indossarono gli abiti degli zingari rudari, una popolazione nomade della Romania.

«Credo sia giunto il momento di rivelarmi il motivo del nostro viaggio, tenente Petru, non credete?» disse Sciarra, allentando le briglie dell’asino che tirava il carro coperto. Alcuni conoscenti di Petru gli avevano procurato gli abiti e quel mezzo di locomozione che sarebbe stato loro utile per lasciare la città di Costanza. Era decorato con i fronzoli colorati con cui gli zingari erano soliti addobbare i loro carri.

Sciarra aveva notato che i conoscenti di Petru trattavano il giovane tenente con grande rispetto. Era evidente che si trattava di persone potenti e altolocate, e che appartenevano alla sempre più ampia schiera degli oppositori agli invasori austroungarici: in meno di mezza giornata erano stati in grado di fornire loro tutte le cose che il tenente rumeno aveva chiesto. Carretto, vestiti e denari a corso legale inclusi. Petru si era impegnato a saldare ogni debito tramite la sua famiglia, ma i suoi amici si erano quasi offesi: da ciò che Sciarra era riuscito a capire in quella lingua, spesso molto simile all’italiano, si sentivano ripagati dal solo fatto di essere stati loro d’aiuto.

Il cammino per raggiungere la meta prefissa era ancora lungo e difficile. Petru incominciò a parlare: «Voi avete mai sentito parlare di Vlad Dracula III, principe di Valacchia?»

«E chi non ne ha sentito parlare? Sono ormai quasi vent’anni che il romanzo dell’irlandese Bram Stoker colleziona edizioni su edizioni. Confesso che ha tenuto col fiato sospeso anche il sottoscritto…»

«No, signore, non si tratta di quel Dracula. O meglio, il vampiro che la penna di Stoker ha creato ha solo tratto ispirazione dal personaggio storico realmente esistito nella mia terra: il principe Vlad che, dopo la morte, ha ricevuto l’appellativo sinistro di Tepes, ovvero l’Impalatore, data la sua propensione a ricorrere a quel tipo di supplizio. Vi ricordate di quando l’ufficiale ungherese che ci catturò sulle Dolomiti si impossessò di alcune carte da me custodite?»

«Certo, andate avanti, tenente, vi sto seguendo.»

«In quegli antichi scritti è narrata la storia di un oggetto ancor più antico, appartenuto con ogni probabilità al più saggio dei re biblici. A quei documenti si aggiungeva un quaderno di appunti dove è descritto il nascondiglio in cui l’oggetto è custodito. La leggenda narra che quel gioiello sappia infondere immensi poteri al suo proprietario. È mio dovere riconsegnare alla famiglia un oggetto per noi sacro, di enorme valore, che è stato nostro per generazioni. Io ero, almeno sino al momento del mio incontro con l’ufficiale ungherese, l’unico a conoscenza del nascondiglio ove è celato. Spero soltanto di arrivarci prima di Béla Blasko, anche se non credo che l’ungherese sia in grado di decifrare le carte che mi ha trafugato.»

«Mi sembra di capire che la cosa vi sta molto a cuore, tenente Petru.»

«Recuperare l’Anello dei Re corrisponde a riprendere possesso delle mie radici e del mio onore: Vlad ‘Tepes’ Dracula era un mio antico avo e, tra i miei avi, l’Anello è sempre stato tramandato di padre in figlio.»

19

Ottobre 1967

L’incidente che aveva tolto dalle mani di Asher Breil la cloche del suo Mirage era stato frutto di un caso fortuito: durante un normale volo di ricognizione il postbruciatore Atar che equipaggiava il suo aereo si era improvvisamente «inchiodato» — avrebbe poi stabilito l’inchiesta — per un banale guasto agli ugelli di iniezione. Al comandante non era rimasto altro che lanciarsi con il sistema eiettabile, fratturandosi una spalla e un polso nell’impatto al suolo. Era quindi rimasto per due giorni e due notti in una zona impervia e disabitata della Palestina, prima di essere recuperato assieme a quanto rimaneva del suo caccia. Le fratture riportate non avrebbero costituito un problema per qualsiasi soldato destinato ai servizi di terra, ma lo erano per un pilota militare: le conseguenze dell’incidente avevano precluso a Asher la via del cielo. L’episodio era avvenuto trenta giorni dopo la promozione di Breil a maggiore e quaranta giorni dopo la fine delle ostilità con gli arabi.

Messo davanti alla scelta tra una scrivania o i ranghi del Mossad, Asher Breil non aveva avuto esitazioni.

Il primo incarico gli era stato appena comunicato e adesso, dietro i vetri del malandato aereo delle linee di Stato rumene, osservava il panorama di una piovosa Bucarest, mentre i cinque motori stellari Gnome-Rhone del vecchio Tupolev Ant 14, costruiti più di trent’anni prima, battevano il tempo come il basso nell’orchestra di Glen Miller.

Asher Breil pensò per un attimo al suo Mirage, paragonandolo al pezzo di antiquariato sul quale stava volando assieme alla delegazione diplomatica.

«Come è noto, circa due mesi fa il Medio Oriente è stato teatro della guerra tra i paesi arabi e Israele, guerra che ha messo a rischio il mantenimento della pace nel mondo… Desideriamo ribadire agli amici arabi che non comprendiamo e non condividiamo la posizione di coloro che si pronunciano a favore della liquidazione dello Stato di Israele.»

Con queste parole, il 24 luglio 1967 Nicolae Ceausescu si schierava apertamente e in maniera antitetica rispetto alle posizioni dell’intero blocco comunista: la Russia e i paesi satelliti, favorevoli alla politica araba e storicamente avversi a quella di Israele, avevano condannato aspramente la condotta israeliana nel corso della guerra dei Sei giorni. Erano seguiti momenti di grande tensione internazionale e i patti di non belligeranza tra le grandi potenze avevano vacillato.

L’appoggio, sia pure indiretto, del leader rumeno non poteva certo lasciare insensibili i sottili statisti israeliani: sull’onda del vecchio detto per cui bisogna battere il ferro sino a che è caldo, il governo israeliano aveva messo in piedi una missione economica in quattro e quattr’otto. La delegazione aveva gli stessi caratteri di non ufficialità della presa di posizione della Romania nelle vicende mediorientali ed era composta da esperti finanziari e da banchieri provenienti da ogni angolo del mondo occidentale. Tutti avevano però in comune l’origine ebraica: ne faceva parte anche Asher Breil, alla sua prima missione fuori dalla carlinga di un caccia.

I trentasei passeggeri sobbalzarono mentre il Tupolev rallentava sulla pista di atterraggio. I ventidue esperti economici israeliani, alcuni dei quali accompagnati dalle relative consorti, benedissero la buona stella che aveva evitato al velivolo di scegliere quel volo per morire di acciacchi e di vecchiaia.

Asher pensò che lo scialbo rinfresco servito in una delle salette dell’aeroporto avesse avuto il solo scopo di rincuorare i sopravvissuti dalla paura del volo. Il rappresentante del governo rumeno alzò un calice al cielo e, in un inglese stentato, disse: «Brindiamo alla salute del conducator Nicolae Ceausescu. Il presidente sarà lieto di accogliere la vostra delegazione questa sera, a cena, presso il Palazzo del governo della Repubblica socialista di Romania».

A un osservatore attento come Breil non sfuggì certo il tono con cui era stata sottolineata la parola «socialista». Quel termine, infatti, aveva costituito il primo degli «sgarri» che i politici rumeni avevano commesso ai danni dell’Unione Sovietica. Dal 1965, infatti, la parola «socialista» aveva sostituito quella «popolare», ben più cara ai potenti del Cremlino.

L’ultima disobbedienza del leader rumeno era quella in virtù della quale Asher si trovava a Bucarest: l’appoggio di Ceausescu alle azioni sostenute da Israele nei confronti dei paesi arabi avrebbe suscitato una serie di interrogativi spesso destinati a rimanere irrisolti in chi studia il complesso sistema degli equilibri internazionali.

La cena si era svolta in uno dei saloni della residenza del premier. Asher Breil era stato presentato come un dirigente di banca svizzero, di origine ebraica, facente funzione di direttore operativo di uno dei più blasonati istituti di credito della Repubblica elvetica. La sua carica, dato che era proprio un accesso agli sconfinati fondi svizzeri che Ceausescu cercava, aveva garantito a Breil un posto alla tavola d’onore. Alla destra dell’ufficiale del Mossad sedeva Elena Petrescu, dal 1939 moglie del leader rumeno e, dicevano in molti, vera anima e motore della politica del paese.

Breil ebbe modo di osservare la donna con attenzione: il profilo arcigno lasciava intuire un carattere duro, per contro l’aria schietta e poco ricercata della first lady dava l’idea di una donna attiva, dotata di intelligenza e carattere.

Gli occhi scuri di Elena Petrescu e quelli di Asher Breil si incrociarono: l’ex pilota accolse con un sorriso amichevole il macigno di diffidenza che quello sguardo era stato capace di scagliargli contro.

Un uomo attraversò la sala e, raggiunto il loro tavolo, si chinò all’orecchio del premier. Ceausescu batté con la lama del coltello sul bordo del bicchiere di cristallo, producendo un tintinnio che fece cessare le conversazioni.

«Sono stato appena informato», disse il premier alzandosi in piedi, «che Ernesto Che Guevara è rimasto ucciso nel corso di uno scontro a fuoco con i regulares boliviani. Ernesto Guevara rappresentava la voglia di riscatto di un intero continente contro le colonizzazioni imperialiste. Sia pace all’eroe di ogni rivoluzione. Prego, signori, vi invito a osservare un minuto di silenzio.»

Mentre tutti si alzavano in piedi, Asher Breil si rese conto che in quel periodo si stava scrivendo un nuovo capitolo della Storia del ventesimo secolo ed ebbe la sensazione che una fetta di quella Storia sarebbe passata attraverso le mura tra le quali si trovava. Dopo essersi alzato in piedi chinò anche lui il capo e, nel silenzio appena calato, si ritrovò a pensare al suo unico figlio, il piccolo Oswald. Piccolo in ogni senso, ma che avrebbe dovuto vivere in un mondo grande; un mondo che Asher avrebbe voluto diverso, meno caotico e meno pericoloso. Desiderava che Oswald potesse vivere in pace e nella pace e a lui, che voleva essere un buon padre, spettava il compito di fare il possibile per contribuire al realizzarsi di quella che poteva sembrare un’utopia.

Quello era il primo motivo che aveva spinto Asher in Romania.

Il secondo motivo era più personale, e si spiegava con la necessità, innata in un uomo come Breil, di mettersi in discussione e di lanciare continue sfide a se stesso.

C’era poi un terzo motivo, forse il più importante, che traeva origine da un incontro avvenuto, pochi giorni dopo il suo incidente, con un anziano ufficiale italiano della prima guerra mondiale. Nel corso del colloquio con l’ufficiale la prospettiva di accettare un incarico che lo avrebbe condotto a Bucarest si era fatta sempre più interessante.

La fedeltà e il coraggio di Asher Breil non si potevano mettere in discussione: sia come pilota, sia come agente del Mossad, si era dedicato anima e corpo all’arduo compito di garantire la sopravvivenza del suo paese. La «suprema ragion di Stato» risultava vincente su ogni dubbio o titubanza di ordine personale. E l’interesse dello Stato di Israele aveva la priorità su qualsiasi cosa: per questo si era imposto di non lasciarsi mai vincere dal senso di colpa per avere seminato la morte per mezzo delle micidiali bombe che tante volte aveva sganciato dalle ali del suo caccia.

Questi e altri pensieri occupavano la mente dell’ufficiale del Mossad durante il minuto di silenzio in onore del rivoluzionario sudamericano.

«Tutto il mondo è un grosso casino!» si disse preoccupato Asher Breil, prima di riscuotersi e di sorridere amichevolmente al premier rumeno.

Nicolae Ceausescu era nato nella provincia di Olt, nel 1918, da una famiglia di contadini. Sin dalla adolescenza aveva manifestato spiccate capacità politiche, che aveva ben presto indirizzato verso attività considerate filorivoluzionarie dalle autorità. Nel 1936 era stato condannato per la prima volta a due anni di carcere. Di nuovo libero, Ceausescu era diventato membro del Comitato centrale comunista. Nel 1940 fu nuovamente rinchiuso in carcere, dal quale evase quattro anni più tardi. Nel 1948 venne eletto per la prima volta deputato; dal 1950 in poi si susseguirono cariche politiche e di governo, sino al luglio 1965, tre mesi dopo la morte improvvisa del leader Gheorghe Gheorghiu-Dej. In quella data Nicolae Ceausescu fu proclamato segretario del Comitato centrale del Partito comunista rumeno. Due anni dopo, nel corso di quello stesso 1967, era stato eletto presidente della Romania, una carica che, si diceva, di fatto esercitasse dal momento della morte di Gheorghiu-Dej.

Questo era quanto Breil aveva letto riguardo all’unico tra i leader comunisti che, in quel periodo, l’Occidente guardava con simpatia: Nicolae Ceausescu era un politico poco incline ad allinearsi con chi non incontrava il suo favore e ciò preoccupava il governo centrale di Mosca. Il leader rumeno aveva fatto subito capire che non aveva paura a contestare aspramente le decisioni che, nel nome di tutti, venivano prese dall’URSS. Così era accaduto con la presa di posizione del suo governo riguardo alla guerra dei Sei giorni.

Ma Asher Breil aveva raccolto anche altre informazioni in merito allo statista. Aveva consultato le cronache non ufficiali e ne era scaturita l’immagine di un uomo che nutriva un’ammirazione incondizionata per un personaggio molto controverso della storia nazionale: Ceausescu lo definiva «un eroe della Terra rumena» o anche «eroe del mondo occidentale e della cristianità».

Si trattava di Vlad Dracula III, detto «Tepes», principe di Valacchia.

20

Mare Adriatico, 1348

Wu immerse nel catino d’acqua dolce la spugna e la strizzò. Con la stessa premura di una madre pietosa, il gigante cinese deterse il sudore dalla fronte del suo padrone.

La piccola imbarcazione con la quale erano fuggiti da Venezia era in mare da qualche ora. Un vento di poppa li spingeva verso le coste della Dalmazia.

Il volto di Humarawa era cereo, gli occhi parevano pronti a velarsi nuovamente d’incoscienza.

«Hai disobbedito a un mio ordine, Wu», sussurrò il samurai.

«Quando starete meglio avrete modo di punirmi, signore.»

«Mandami la bambina», disse ancora Humarawa.

Quando Adil gli fu dinanzi, il samurai parve riprendersi un po’. Non senza fatica si alzò quasi a sedere e disse: «Ho ereditato te come si eredita un impegno oneroso, giovane Adil. Poi, col passare del tempo, mi sono accorto che stavi diventando parte della mia vita. So che sei forte e coraggioso, così come sono convinto che al fianco di Crespi e Wu non ti mancherà mai niente. Abbi cura di te».

Adil non riuscì a dire nulla. Quando si accorse che Wu era dietro di lei si girò verso il gigante e tentò di cingerlo con le sue braccia. Appoggiò la testa sulla pancia del cinese e cominciò a singhiozzare. «Perché devo veder morire tutti quelli che mi hanno amato…?» ripeteva piangendo.

Anche Crespi era sopraggiunto e restava a guardare in silenzio l’agonia dell’uomo con cui aveva condiviso buona parte della sua vita.

«Amici miei… amici…» disse il samurai, prima di perdere i sensi.

«Come sarebbe a dire ‘Sono riusciti a fuggire’?» gridò Campagnola, furibondo. «Tre uomini e un fanciullo hanno ferito alcuni dei vostri e si sono dileguati? Eravate in dodici contro tre, avete avuto la possibilità di coglierli di sorpresa e mi venite a dire che ve li siete lasciati scappare? Sarete processato e condannato per questo.»

«Mio signore… quegli uomini lottavano come delle fiere», si giustificò il comandante degli assalitori. «A un certo punto sono scomparsi nel nulla e a noi sono occorse più di due ore prima di riuscire a individuare il passaggio segreto del palazzo. Uno dei miei uomini è sicuro di aver ferito gravemente il giapponese e le tracce di sangue sulla scala ne sono la prova. Un testimone ha detto di aver visto due uomini caricare un ferito su una barca e di averli sentiti mormorare che avevano intenzione di raggiungere le coste della Dalmazia. Chiedo la licenza di andare al loro inseguimento con i miei uomini. Sarà mio dovere rimettermi alla vostra giustizia al mio ritorno, signore Campagnola.»

Sull’imbarcazione regnava un’aria cupa e pesante: nessuno aveva voglia di parlare. Ciascuna delle tre persone che si erano raccolte intorno al corpo di Hito Humarawa pensava a quanto gli era debitore. E adesso il samurai sembrava prossimo alla morte.

Alessandro Crespi ora stava seduto a prua e giocherellava con l’anello d’oro dal quale non si era più separato dal giorno in cui Humarawa gliene aveva fatto dono, molti anni prima. Un mercante aveva tradotto il testo scritto in greco antico su un rotolo di papiro che era custodito nel cofanetto intagliato. Quello stesso in cui era conservato l’anello. Nel documento si diceva che l’oggetto era appartenuto a un imperatore romano. Ma anche lo stesso traduttore aveva detto a Crespi che il gioiello sembrava risalire a un’epoca precedente al periodo imperiale e che era sicuro di averne sentito parlare nelle Sacre Scritture. Quasi certamente era appartenuto a una persona di alto retaggio in Terra Santa, dato che recava incisa la stella a sei punte degli ebrei e che veniva chiamato «Anello dei Re».

La mente di Crespi corse al forziere: molti anni prima la sua amicizia con Humarawa lo aveva costretto a fuggire dal Giappone, ma erano riusciti a portare via buona parte del tesoro che apparteneva al samurai, caduto improvvisamente in disgrazia presso l’imperatore. Quel tesoro aveva consentito loro di stabilirsi a Venezia e di diventare immensamente ricchi. Da quella esperienza, Crespi aveva ereditato l’abitudine di non andare mai in nessun luogo senza portare con sé quella consistente fetta del suo patrimonio. Dopo aver respinto l’attacco nel palazzo veneziano, gli erano stati sufficienti pochi istanti per prelevare il forziere e poi imboccare il passaggio segreto che li avrebbe fatti sbucare dove una barca era sempre ormeggiata e pronta a salpare.

Wu, con un coltello, cercava di rendere sempre più appuntita l’estremità di un pezzo di legno. Sembrava che il lavoro lo occupasse molto, in realtà cercava in tutti i modi un alibi che lo costringesse a non alzare lo sguardo sul suo padrone: gli occhi del cinese erano gonfi di lacrime per l’agonia a cui doveva assistere impotente.

Solo Adil non faceva nulla per nascondere il suo dolore e piangeva silenziosamente, ma senza ritegno. Era preda di due sentimenti contrastanti, ma strettamente imparentati tra loro: la rabbia e il dolore.

La comparsa della terraferma non venne accolta con l’entusiasmo con cui di solito i marinai salutano dal mare la vista di luoghi abitati.

Mantenendosi sempre sottocosta, avevano diretto a sud, in direzione dei principati serbi, e oltrepassato la città di Spalato.

Erano sbarcati su una spiaggia a sud della città: per prima cosa dovevano assicurare a Humarawa le dovute cure. L’idea di Crespi, sia che il samurai si riprendesse, sia che non riuscisse a sopravvivere, era di riguadagnare l’Oriente, terra nella quale la ricchezza del mercante veneziano avrebbe garantito loro l’immunità.

Crespi, da solo, si era recato in città dove aveva pagato con oro e pietre preziose un carro, un ronzino malandato e un asino dal carattere indomabile. Avevano quindi caricato Humarawa sul carro e si erano messi in viaggio verso la città di Ragusa, il cui porto costituiva la tappa obbligatoria per le navi in rotta per Costantinopoli, a sua volta punto d’arrivo delle carovane dirette a Oriente. Grazie ai floridi rapporti commerciali che la città intratteneva con la Repubblica veneziana, Crespi confidava che qualche notizia riguardante i loro inseguitori li avrebbe prima o poi raggiunti. Dovevano stare all’erta perché sapevano bene, Crespi e Wu, che il fatto di muoversi portandosi appresso un ragazzino e un giapponese ferito li avrebbe resi facilmente riconoscibili.

Ma, negli ultimi tempi, i legami tra i principati e la Repubblica si erano molto diradati a causa della peste divampata a Venezia: il timore del contagio era capace di tener lontano anche il più avido dei mercanti o il più fedele tra gli alleati.

La peste… Nella concitazione della fuga si erano quasi dimenticati della minaccia orribile a cui erano scampati… ma erano riusciti a scongiurare il pericolo del Male?

Nella vicina città di Ragusa tutti la chiamavano «la strega» ed erano in molti a cambiare strada quando la incontravano sul loro cammino, nelle rare occasioni in cui la donna vi si recava.

Pochi conoscevano il segreto della sua vita: un marito che, reso pazzo dal vino e dalla vita dissoluta, era rientrato una notte e aveva cercato di sgozzarla, prima di ammazzare il loro figlio e di togliersi la vita. Miracolosamente la donna era sopravvissuta e aveva deciso che da quel momento avrebbe evitato il contatto con chiunque, annichilita dal grande dolore che si era insediato dentro di lei.

Erano trascorsi quasi sette anni da quando la strega si era costruita una casupola su di uno sperone di roccia ai limiti della spiaggia a ovest della città, e ora viveva in solitudine raccogliendo erbe curative che poi vendeva a un guaritore che passava da lei ogni due o tre mesi.

La vista del carro le fece alzare gli occhi.

«Avete acqua e bende pulite, donna?» chiese il veneziano seduto a cassetta. Accanto a lui stava un gigantesco orientale che teneva sulle gambe un bambino di una decina d’anni, più o meno la stessa età di suo figlio, prima che la follia del marito lo uccidesse.

«L’acqua è nel pozzo, servitevi pure. Bende, invece, non ne ho.»

«Ve ne prego, donna. Un nostro compagno è gravemente ferito.»

Così dicendo Crespi indicò il cassone del carro. La strega si sporse oltre la sponda e osservò a lungo l’uomo adagiato sul pianale.

«Quest’uomo ha la morte dipinta in volto», disse la donna. «A poco serviranno delle bende pulite. Fermatevi e consentitegli di riposare — e forse di morire — in pace e non tra i sobbalzi del vostro carro.»

«Non possiamo fermarci, donna. Vi ho chiesto delle bende e dell’acqua e non dei consigli.»

«Fate come volete. Pensavo voleste dare un po’ di sollievo al vostro compagno. Vi ho detto dove si trova l’acqua. Il resto non mi interessa.»

Così dicendo la donna volse loro le spalle ed entrò nella catapecchia.

«Certamente ci staranno dando la caccia», disse Crespi rivolto a Wu. «E non sarà la peste a fermarli.»

«Stavo ripensando a quanto ha detto quella donna: devo ammettere che ha ragione», rispose il cinese. «È inutile aumentare la sofferenza del mio signore. Dobbiamo trovare un luogo sicuro ove lasciarlo.»

«Sino a ora l’unica persona che abbiamo incontrato è lei. Non so perché dovremmo fidarci», disse Crespi pensoso.

«Se i nostri inseguitori riuscissero a raggiungerci per noi sarebbe la fine e sicuramente ce la faranno, rallentati come siamo dal dover trasportare Humarawa ferito. Anch’io non so se possiamo fidarci, ma sono certo che, in queste condizioni, siamo una preda sin troppo facile e identificabile», insistette Wu.

In quell’istante la donna uscì dalla capanna tenendo tra le mani uno straccio che avvolgeva una sostanza verdastra e fumante.

«Spalmategli almeno questo impacco di erbe sulle ferite: ne trarrà giovamento», disse la strega sempre nel suo modo rude.

«Volete dire che conoscete la scienza delle erbe medicinali?» chiese Wu, mentre osservava con interesse la ferita sulla carotide della donna, del tutto simile alla sua.

«È corteccia di salice in infuso con altre erbe lenitive. Se avete intenzione di continuare il viaggio ve ne darò una scorta: la medicazione va ripetuta ogni quattro ore.»

«Non sono sicuro di voler riprendere il cammino conducendo con noi il nostro compagno, donna. Siete disposta a prendervi cura di lui?» disse Crespi.

«Quell’uomo ha poche ore di vita», disse la donna. «Io non ne voglio sapere.»

«Non vi preoccupate. Fino a che potremo gli resteremo al fianco e vi aiuteremo qualora ce ne fosse bisogno. Per voi e per le vostre cure c’è un’intera borsa d’oro», disse Crespi.

«Non sarà certo l’oro a liberarmi dallo scorrere di questa dolorosa vita, messere. Se vi aiuterò sarà solo per cercare di guarire quest’uomo. Aiutatemi a tirarlo giù dal carro e adagiamolo su di un letto.»

21

Aprile 2004

Tom Farrader indossava la divisa da lavoro dei marine, con i gradi di sottufficiale bene in vista. Era il responsabile, ormai da alcuni anni, della polveriera di Camp Lejeune. Per le sue mani passavano tutte le richieste di armi, munizioni ed esplosivi dell’intera base: sia quelli utilizzati per le esercitazioni che quelli destinati al rifornimento degli uomini impegnati su qualche fronte di guerra.

Farrader, quella sera, si era attardato in ufficio per mettere ordine tra i libri di carico della santabarbara. Era un compito inevitabile adesso che erano in corso una serie di ispezioni e gli ci sarebbe voluto ben più di una serata per far quadrare i registri di carico e scarico. L’ufficio, per motivi di sicurezza, si trovava lontano dal deposito degli esplosivi, in una palazzina dove erano custodite delle vecchie jeep e altri veicoli.

Farrader alzò gli occhi: la contabilità non era mai stata il suo forte, tanto più che lui amava arrotondare le cifre con una certa approssimazione. Non era un segreto in certi ambienti che Tom Farrader si dedicasse al commercio di alcuni dei pericolosi materiali che gli Stati Uniti d’America gli avevano affidato.

Minatori clandestini e pescatori di frodo pagavano gli esplosivi forniti da Tom Farrader a prezzi esorbitanti.

«Tanto lo farebbero ugualmente.» Farrader era solito giustificare con queste parole il florido mercato nero che faceva capo alla sua persona. Vero era che le attività da lui alimentate non rientravano tra quelle considerate come gravemente criminali: una cava clandestina o una battuta di pesca con esplosivo non erano nemmeno lontanamente paragonabili a ciò che un terrorista avrebbe potuto mettere in atto con pochi grammi di ciclotrimetilene trinitramina, meglio conosciuto come T4.

«Tu?» disse Farrader con voce preoccupata, alzando gli occhi sulla persona che era appena comparsa dal nulla.

«Già, mio buon amico. Proprio io. E scommetto che immagini anche il motivo che mi ha spinto a farti visita.»

«Non posso… non è questo il momento. Ci sono ispettori ovunque: come vedi sto aggiornando i registri. È davvero impossibile fare uscire dell’esplosivo in questi giorni.»

«I miei denari ti piacciono meno di quelli dei minatori o dei pescatori? So con certezza che il tuo commercio con loro continua indisturbato. Non sono certo le ispezioni a farti paura.»

«Se devo dirti la sincera verità, hai ragione, non mi piacciono più i tuoi soldi e non desidero averti ancora come cliente. Ho una vaga idea di quello che hai fatto con l’esplosivo che hai comprato, sai? Non sono scemo e leggo i giornali. Altro che ‘amici influenti che effettuano una serie di prospezioni segrete in Antartide per trovare nuovi giacimenti petroliferi’. Preferisco non pensarci. In ogni caso non me la sento più di andare avanti con questa storia.»

«Non mi interessano i tuoi improvvisi scrupoli, socio. Ti ricordo solo che siamo ormai legati… tu e io.» Le dita sottili incominciarono a muoversi nervosamente. «Credo ti convenga fornirmi un nuovo carico. L’ultimo.»

«Mi dispiace, ma il negozio per te da oggi è chiuso. Prova a rivolgerti altrove… a proposito, ho sentito dire che Gavrilovič, un trafficante di origine ucraina che gestisce un monte dei pegni a New York, ha messo sul mercato un grande quantitativo di esplosivo russo ad alto potenziale.»

«Come hai fatto a venire a conoscenza di questa notizia?»

«Gavrilovič lo sta sbandierando ai quattro venti da tempo, quasi dovesse vendere un carico di frutta che sta andando a male e non materiale talmente scottante che se i federali dovessero scoprirlo gli farebbero passare una decina d’anni in una lussuosa residenza a spese dello Stato. Come vedi il mercato è ricco di offerta. Non ti resta che trovare nuove strade. Con me hai chiuso.»

«Non credo ti convenga comportarti in questa maniera.» Le dita sottili erano mosse da un tremito.

Non appena Deidra Blasey entrò nel suo nuovo ufficio, il sergente Kingston si alzò e si mise sugli attenti. «Ha saputo di Farrader, signore?» disse, ansioso di comunicarle la notizia.

«Farrader… Farrader… ah, certo, il responsabile della polveriera. No, non so nulla, che cosa è successo?»

«Si è sparato questa notte, nella vecchia autorimessa accanto al suo ufficio. Pare che abbia lasciato un biglietto d’addio.»

«Mi dispiace per lui anche se, a essere sincera, quel Farrader non mi è mai piaciuto. Da quanto mi risulta il suo comportamento non doveva essere un esempio di rigore e di onestà: mi sono sempre chiesta come mai non fosse stato rimosso dal suo incarico dato che molti, alla base, sapevano dei suoi affari poco puliti. A ogni modo, sia pace all’anima sua. Ma ora cambiamo discorso: tutto pronto per il nostro nuovo viaggio, sergente?»

«Sì, signore. Un volo di linea ci condurrà a Dubai, da dove ci muoveremo prima negli Emirati, poi in Arabia Saudita. Mi hanno appena comunicato che i corsi sulle nuove tecniche di sminamento che dovremo tenere alle truppe di stanza, nei paesi arabi alleati dovrebbero durare un paio di mesi.»

Per le scalpitanti ansimanti che fan sprizzare scintille, che caricano al mattino, che fanno volare la polvere, che irrompono in mezzo. Invero l’uomo è ingrato verso il suo Signore, invero è ben conscio di ciò. Invero è avido per amore delle ricchezze! Non sa che, quando sarà messo sottosopra quello che è nelle tombe e reso noto quello che è nei petti, il loro Signore, in quel Giorno, sarà ben informato su di loro?

Le dita sottili si staccarono dalla tastiera mentre la stampante del computer emetteva i suoi fruscii, indicando che stava eseguendo l’ordine impartito.

Le mani, come sempre coperte dai guanti di lattice, presero il foglio e lo posarono sul tavolo. La stecca di ceralacca si sciolse al calore della candela, lasciando cadere alcune gocce rosse sulla pagina. L’Anello dei Re ancora una volta si impresse sulla cera liquefatta, unico testimone di un disegno perverso e chiaro solo nella mente dell’attentatore.

«Al-’Âdiyât, ovvero `Le Scalpitanti’. Questo è il nome della sura…» disse Cassandra Ziegler al telefono con Oswald Breil, che si trovava in chissà quale angolo della vecchia Europa.

La dirigente dell’FBI leggeva gli appunti che si era preparata: non voleva correre il rischio di dimenticare qualche particolare importante.

«Si tratta della centesima sura del Corano. È composta di soli undici versetti e trae il suo nome dal primo di questi», la interruppe Oswald Breil e, all’esclamazione stupita di Cassandra, rispose prontamente: «Bisogna sempre conoscere tutto della concorrenza se si vuole essere competitivi…»

«Sono a un punto fermo, ho effettuato ogni ricerca possibile e devo arrendermi: come sempre, le parole del Corano utilizzate dal Giusto non riescono a indirizzarci in nessuna direzione. Anzi, ho la sensazione che il vero scopo di questi messaggi sia quello di depistarci o di farci perdere tempo.»

«Mi permetta di non essere del tutto d’accordo con lei», intervenne Oswald. «Il disegno nella mente dell’attentatore è sin troppo chiaro: ce lo ha dimostrato in ognuna delle precedenti occasioni. La difficoltà sta nell’arrivarci per tempo. Ed è questo che il Giusto non vuole: che qualcuno riesca a sventare in anticipo la sua macabra rappresentazione.»

«Una rappresentazione nella quale il numero delle vittime innocenti cresce in maniera esponenziale: sembra che il Giusto», aggiunse Cassandra, «sia appagato dal progressivo aumento del numero dei morti e dei feriti nel corso dei suoi attentati. La cosa che più mi spaventa è che, durante i suoi due anni di operatività, quell’infame ha lasciato dietro di sé tracce molto labili, non sufficienti a indicarci una direzione verso cui rivolgere le indagini…»

«…mentre l’opinione pubblica, quella occidentale intendo, sembra del tutto indifferente», concluse Breil. «È come se l’Occidente, in fondo, avallasse la legge del taglione’ che il Giusto ha adottato: il fatto che si accanisca solo contro obiettivi musulmani potrebbe essere la prova che egli si immagina nelle vesti di una sorta di giustiziere.»

George Glakas imprecò ad alta voce: le pareti del suo ufficio al quartier generale della CIA erano insonorizzate al punto di garantirgli una privacy pressoché assoluta: «Il mondo sembra pronto a sfornare una serie infinita di quei suicidi figli di puttana!» disse mentre osservava le raccapriccianti immagini di un attentato kamikaze contro un convoglio americano nel Nord dell’Iraq. «Dio maledica tutti i fanatici islamici e le puttane che li hanno messi al mondo.»

La missiva con il timbro di massima urgenza posata sul suo tavolo era passata in secondo piano: a che scopo perdere tempo e forze per tentare di scovare colui che, di fatto, stava ripagando il Medio Oriente con la stessa moneta?

Distrattamente osservò i versetti del Corano che avrebbero potuto indicare il luogo del prossimo attentato. In cuor suo Glakas sperava che anche la prossima azione terroristica del Giusto si risolvesse in una carneficina di seguaci di Allah. Poi, con l’aria sfiduciata di chi ha l’obbligo di obbedire a un ordine nel quale non crede, sollevò il ricevitore. «Come al solito nessuna traccia, vero?» chiese al responsabile della Scientifica, quindi continuò. «I nostri amici dell’FBI avranno vivisezionato la missiva del Giusto, prima di recapitarcela. Non capisco perché non ci fanno avere anche i risultati delle loro analisi… così perderemmo meno tempo a rifarle.»

Detto questo decise che l’argomento era chiuso e ricominciò a lavorare su documentazioni e foto segnaletiche che si riferivano a terroristi mediorientali: quelli sì costituivano un serio pericolo per l’Occidente. Al diavolo il Giusto, i suoi attentati, il sigillo e i versetti del Corano.

George Glakas aveva cose più importanti su cui lavorare, adesso.

22

Sighisoara, Romania, maggio 1917

La nebbia era adagiata sul fondovalle come un candido manto: nascosto alla vista, il Tirnava scorreva placido. Era ancora l’alba, ma presto un sole primaverile avrebbe sciolto le brume mattutine e svelato il verde intenso della campagna rumena.

Il suono argentino dei campanelli appesi alle sponde del carro aveva accompagnato i due falsi nomadi rudari dall’inizio del loro viaggio.

«Sighisoara è sempre stato un importante nodo di transito commerciale tra la Germania occidentale e Costantinopoli. Inoltre era tappa obbligata per i traffici tra la Polonia, il Baltico e le città della Lega anseatica», disse Petru mentre si inoltravano nella periferia della città. «Qui il padre di Vlad Tepes visse per alcuni anni a partire dal 1431, e qui nacque Dracula. Nel 1431 colui che chiamerò Vlad Padre, per distinguerlo da Vlad Dracula, l’Impalatore, aveva ricevuto l’investitura a cavaliere dell’Ordine del Drago…»

«E che cos’è l’Ordine del Drago? Non ho mai sentito parlare di un ordine cavalleresco così chiamato», disse Sciarra.

«L’Ordine del Drago venne istituito, sotto forma di setta segreta, dall’imperatore tedesco Sigismondo di Lussemburgo e dalla sua seconda moglie, l’imperatrice Barbara», spiegò Petru. «Come altri ordini cavallereschi medievali, l’Ordine del Drago nacque per proteggere la Chiesa cattolica dalle eresie e dalle minacce dell’Islam. Nella cruenta repressione dell’eresia ussita, i cavalieri del Drago ebbero un ruolo da protagonisti; tentarono anche di organizzare una crociata contro i turchi, ormai padroni di ampie fette di territorio balcanico, ma il progetto non venne mai attuato. Buona parte dei potenti dell’epoca, come Ladislao di Polonia o Alfonso V d’Aragona, il Magnanimo, erano cavalieri del Drago.

«Alcuni individuano l’etimologia del termine Dracul proprio dalla radice Drac, ovvero Drago nella nostra lingua. Ma potrebbe darsi che il nome derivi dalla parola Dracul, che vuol dire ‘Demonio’.»

«Sia il padre che il figlio si chiamavano nello stesso modo?»

«Sì, eccettuata la ‘a’ che sta a indicare il patronimico. Dracula starebbe a significare ‘figlio di Dracul’… Ma adesso dobbiamo smettere di parlare in italiano: stiamo per entrare in città e, se scoprissero che siamo ufficiali di quell’esercito, pur di guadagnare credito presso gli usurpatori molti abitanti sarebbero pronti a denunciarci agli asburgici.»

Béla Blasko aveva cercato di seguire le istruzioni contenute nel quaderno sottratto all’ufficiale rumeno Minhea Petru. Qualche particolare, però, gli era forse sfuggito, dato che non riusciva a trovare il prezioso manufatto che stava cercando. Eppure doveva essere lì, non lontano da lui. Ma aveva tempo, molto tempo, adesso che la Romania era stata occupata dalle truppe ungheresi.

Non appena gli era stato possibile aveva chiesto il trasferimento a Sighisoara: voleva a tutti i costi impossessarsi dell’Anello dei Re e del resto del tesoro che, stando alle indicazioni, doveva trovarsi fra le mura del castello.

L’ufficiale ungherese sedette su una sedia e prese a sfogliare nuovamente il libriccino e gli antichi documenti. Si soffermò sul racconto della leggenda secondo cui chiunque portasse l’anello al dito sarebbe stato dotato di enorme potere. L’anello, a seguito di una serie di vicissitudini, era giunto dall’anulare di un imperatore romano sino a quello del più temuto tra i voivoda rumeni: Vlad Dracula l’Impalatore. Negli appunti annotati sul quaderno di Petru, che contenevano la traduzione da un antico papiro, si sosteneva che il monile era stato tra i più cari oggetti di Nerone Claudio Druso, imperatore di Roma.

Uno scalpiccio proveniente dalla strada spinse Blasko ad affacciarsi a una delle strette finestre del castello. Rimase a osservare i due zingari che si accostavano al portone con il loro carro.

Quando i due alzarono lo sguardo, Blasko si ritrasse dalla finestra. Quindi li vide incamminarsi verso una delle porte laterali del palazzo.

Un fremito pervase l’ungherese appena li riconobbe e, d’istinto, la sua mano corse alla piccola Steyr 6.35 che teneva sempre allacciata al polpaccio. I trecentocinquanta grammi della semiautomatica gli infusero sicurezza: si rese conto che, forse, avrebbe potuto volgere a suo favore la situazione. Blasko caricò il colpo in canna e si nascose dietro uno dei grandi mobili in legno massiccio che arredavano la sala. Tra poco l’Anello dei Re sarebbe stato suo. Per sempre.

Il castello nel quale Dracula era venuto alla luce nel 1431 era scuro e tetro; sulla facciata si aprivano due serie di finestre. Il tetto era in tegole rosse, ma il tempo aveva conferito loro la stessa tonalità cupa dei muri.

Con passo sicuro anche se circospetto, Petru varcò la porta secondaria sulla destra dell’edificio: era evidente che il rumeno sapeva perfettamente come muoversi.

Erano appena entrati in un grande atrio, quando un rumore di passi li obbligò a nascondersi in una nicchia. Un vecchio con un cappello nero e un mazzo di grosse chiavi in mano passò davanti al loro nascondiglio.

«Povero Toma, gli anni sono trascorsi anche per lui», disse il tenente Petru con un filo di voce. «Mi sembra ieri che il buon Toma mi teneva sulle sue ginocchia.»

Notando lo sguardo interrogativo di Sciarra, Minhea spiegò: «Questo palazzo appartiene alla mia famiglia da generazioni. Toma ne è il custode da quando io sono nato. Seguitemi, maggiore. Dobbiamo agire in fretta. Non voglio che nessuno, nemmeno Toma, venga a conoscenza della nostra presenza».

Nel buio quasi completo Sciarra e Petru salirono l’ampio scalone e giunsero dinanzi alla porta di una stanza del secondo piano. Petru l’aprì lentamente, ma non tanto da evitare il leggero cigolio dei vecchi cardini.

Blasko si raggomitolò ancor di più nel suo anfratto, tra il mobile intarsiato e un angolo della stanza, con la pistola stretta nella mano destra.

«Il principe guarda il sarmalé», disse Petru, citando a memoria quanto annotato sul libriccino rubatogli dall’ufficiale ungherese.

Sulla parete dinanzi a loro era dipinto un affresco raffigurante quattro persone sedute attorno a un tavolo. Il tempo e l’umidità avevano lasciato vistose macchie sul dipinto. Petru si avvicinò a una delle figure. Si trattava della raffigurazione di un uomo di corporatura robusta, dotato di un bel paio di baffi e con gli occhi a mandorla fissi su un punto lontano. L’uomo del dipinto non indossava abiti ricercati e nessun dettaglio lo distingueva dagli altri due uomini e dalla donna presenti nell’affresco.

«Questo che vedete è l’unico ritratto, giunto sino a noi, di Vlad Dracul padre, principe di Valacchia. ‘Gli occhi del principe guardano il sarmalé’, è annotato nel quaderno. Il sarmalé è un piatto tipico della cucina rumena, il cui ingrediente principale è costituito da foglie di vite.»

Petru si volse nella direzione in cui sembrava andare lo sguardo dell’uomo con i baffi, e i suoi occhi si posarono sul mobile di legno intarsiato.

Blasko udì i passi che si avvicinavano al suo nascondiglio, mentre Petru prese a osservare con attenzione ognuno degli intarsi mirabilmente eseguiti da un artigiano di qualche secolo prima.

«Questo mobile risale alla fine del Settecento ed è della stessa epoca in cui visse il principe Alexandru, colui che decise che l’anello doveva essere custodito in un luogo sicuro. A lui si deve anche la redazione del libriccino nel quale ha annotato il sistema per trovare il nascondiglio. Ricordo che lo sguardo del personaggio dell’affresco mi incuteva un certo timore quando ero bambino», disse Minhea. «Una foglia di vite, guardate qui, maggiore!» esclamò il tenente indicando un particolare raffigurante una piccola foglia di vite in avorio.

Fu sufficiente una leggera pressione sulla foglia perché il meccanismo scattasse, facendo apparire un cassetto segreto sul lato sinistro del mobile.

Sciarra, affascinato dalla perfezione del meccanismo, osservò l’involucro in seta all’interno del cassetto. Questa fu l’ultima immagine che vide, poi avvertì un dolore lancinante al capo e il buio dell’incoscienza lo avvolse.

23

Ottobre 1967

La villetta era una delle tante che si allineavano ordinate nei quartieri residenziali di Tel Aviv.

Asher Breil si guardò intorno soddisfatto, appoggiò in terra la borsa e si avviò verso le scale.

Il viaggio di ritorno da Bucarest era stato particolarmente lungo e faticoso: per avvalorare la copertura da lui assunta in Romania era stato costretto a una sosta di alcuni giorni a Ginevra. Le precauzioni non erano mai sufficienti quando si aveva a che fare con i servizi segreti di Ceausescu.

«C’è nessuno in questa casa?» chiese Asher ad alta voce.

Un grido proruppe dal piano superiore: «Papà!» esclamò il bambino prima di lanciarsi a capofitto giù dalle scale.

Asher rimase a osservare Oswald e il suo volto si illuminò per la gioia di rivedere il figlio.

I segni di quella rara forma di nanismo, tanto evidenti sul corpo del bambino, per fortuna non erano tali da rendere sgraziati i suoi movimenti: ma la sua crescita si era praticamente fermata quando il bimbo aveva otto anni.

«Hu-ha, papà, oggi è uno yom tovesh per me!» gridò Oswald cercando di cingere il padre con le sue braccia.

«Vedo che gli insegnamenti yiddish di Lilith Habar stanno facendo breccia. E comunque ‘buongiorno’ si dice yom tov e non tovesh», disse Asher stringendolo con affetto.

«Se vuoi cambiamo lingua. Sono pronto», disse Oswald ed emise una serie di suoni incomprensibili per chiunque, ma non per i componenti della famiglia Breil. Esprimersi tra di loro in quella specie di sistema cifrato era un gioco che li faceva sentire ancora più uniti. Il padre aveva detto a Oswald che quell’alfabeto era una versione semplificata di un metodo usato dagli italiani per inviare messaggi segreti nel corso della prima guerra mondiale.

«Posso salutare anche io l’eroe al ritorno dalla guerra?» chiese Aliah Breil, unendosi all’abbraccio e parlando anche lei con quello che tutti loro definivano, ricalcando il nome della celebre scrittura per ciechi, «l’alfabeto Breil».

Aliah aveva capelli corvini e ricci, un viso tondo dalla carnagione leggermente olivastra e, come Asher, un fisico alto e slanciato. Gli occhi neri si posarono in quelli del marito che, una volta rimasti soli, aveva assunto un’aria seria.

«Ti devo parlare, Aliah.»

La donna si raggomitolò sul divano e appoggiò la testa sulle gambe dell’uomo.

«Sono a disposizione, maggiore», disse in tono scherzoso.

«Credo che mi dovrò trasferire per qualche tempo in Romania, Aliah.»

«Qualche tempo che cosa significa? Giorni, settimane, mesi?»

«Con buone probabilità potrebbe trattarsi di anni. Mi hanno proposto il ruolo di referente per l’Istituto a Bucarest.» Tra i coniugi Breil non c’erano mai stati segreti: quando era necessario Aliah sapeva essere la donna più riservata che lui avesse mai conosciuto. Ma sapeva anche essere saggia ed equilibrata. Spesso il suo consiglio era stato determinante quando si era trattato di prendere decisioni importanti. E quella che Asher stava sottoponendo alla moglie era una questione di vitale importanza per l’intera famiglia.

«Vuol dire che tu sarai a capo dei nostri servizi di intelligence in Romania? È un incarico lusinghiero e importante», disse Aliah con un moto di compiacimento.

«Frena il tuo orgoglio, donna.» Asher sorrise. «Sarò il capo di una rete che non esiste: ci saranno una serie di collaboratori e qualche agente, ma tutto è ancora da costruire.»

«Sono contenta che i tuoi capi abbiano ascoltato le tue richieste. Sei stato tu a scegliere Bucarest come destinazione, non è vero?»

«Già, sembra che una misteriosa forza mi spinga verso lo Stato governato da Ceausescu, sin da quando sono precipitato col mio aereo nel deserto palestinese…»

«A noi hai pensato, Asher?»

«Certo, tu potrai seguirmi quando vuoi, come una qualsiasi moglie che raggiunge il proprio marito, funzionario di banca, in missione all’estero. Oswald invece dovrà prima terminare l’anno scolastico. Poi decideremo se trasferirci in maniera definitiva o continuare a fare i pendolari. Personalmente preferirei questa ultima soluzione, soprattutto pensando all’educazione di nostro figlio.»

«Molto bene, maggiore», rispose Aliah con un sorriso, sfiorando con le sue le labbra dell’uomo. «Ma adesso smettila di pensare alle trame del Mossad… non ci vediamo da giorni e…» La donna pronunciò le ultime parole nel linguaggio cifrato familiare, ma non riuscì a finire la frase: le forti braccia di Asher la avvolsero e le loro bocche si schiusero in un bacio caldo e sensuale.

Fecero l’amore con la passionalità e il desiderio di due giovani amanti. Poi si sdraiarono l’uno accanto all’altra, abbracciati.

«Ti amo, Asher. Con te in capo al mondo.»

«Già… in capo al mondo…» disse lui a bassa voce. La sua mente correva a ritroso sino a giungere all’inizio di quella storia…

24

Venezia, 1348

Nella sala che ospitava il Consiglio dei Dieci era appena terminata una riunione molto importante, anche se da quando la peste aveva incominciato a decimare la popolazione di Venezia non esisteva riunione degli organi di governo che non fosse di vitale importanza per la città. Stranamente Campagnola sembrava distratto e assente nel corso delle ultime assemblee: non si batteva con la sua usuale forza, che non erano pochi a chiamare perfidia.

Qualcuno azzardava che i suoi interessi fossero rivolti altrove, in un lontano possedimento a Oriente di cui si favoleggiava da tempo, sin da quando la sua unica figlia era fuggita con il più terribile dei pirati: il Muqatil.

Ma non c’era nulla di vero nelle illazioni dei veneziani: Angelo Campagnola non aveva particolari interessi fuori da Venezia, però aveva deciso di scoprire il segreto che si nascondeva dietro l’arrivo di un misterioso bambino al seguito di Hito Humarawa. Era come se quel fanciullo dagli occhi color cobalto, da quando era giunto a Venezia, si fosse trascinato dietro tutte le ire degli inferi.

«Quali nuove mi porti?» chiese Campagnola, rivolgendosi al comandante dei suoi sicari che lo aspettava fuori dalla sala del Consiglio.

«Il testimone che, la notte dell’incursione, ha visto un uomo corpulento e un altro che caricavano un pesante fardello su di una imbarcazione a poca distanza dalla casa del Crespi, mi ha detto anche che con loro c’era un ragazzo. Abbiamo chiesto informazioni nelle vicine città costiere, incluse quelle della Dalmazia: la barca con la quale sarebbero fuggiti era piccola e non in grado di percorrere lunghe distanze in mare. Ho fatto pattugliare le coste in lungo e in largo e, finalmente, abbiamo scoperto che un ricco mercante veneziano pare abbia acquistato a peso d’oro un carro e un ronzino nella città di Spalato, dirigendosi poi alla volta di Ragusa. Chiedo il permesso di recarmi là con l’appoggio di una decina di uomini: stavolta non ci sfuggiranno, eccellenza.»

«Che cosa aspetti? Parti, vai! E portami quel ragazzino… vivo… oppure portami soltanto i suoi occhi da demonio.»

Gli occhi della donna si sollevarono lentamente dal corpo dell’uomo ferito, mentre un senso di disagio si impadroniva di lei. Percepì il pericolo come una preda che, nella savana, annusa nell’aria l’odore della morte.

«Presto, venite con me!» Il tono con cui la strega si era rivolta a Wu non ammetteva repliche. I due uomini e il ragazzo la seguirono sino all’imboccatura di una grotta poco distante.

In lontananza, sulla spiaggia, videro distintamente un drappello di uomini che avanzava verso di loro.

«Che ne sarà del nostro compagno ferito?» chiese Alessandro Crespi.

«Lo terrò nascosto in casa mia, non preoccupatevi e seguitemi!»

Il dubbio che la strega potesse tradirli attraversò la loro mente, ma sia Wu che Crespi sapevano di non avere altra via di scampo: se gli uomini sulla spiaggia stavano cercando loro, dovevano assolutamente fuggire e nascondersi; e l’unica persona in grado di aiutarli, in quel momento, era la strega.

Il capo del drappello si portò un lembo della manica sotto al naso. «Che cos’è questo olezzo, donna?» chiese l’uomo con aria disgustata.

«Quale olezzo, messere? Io non sento nulla», rispose la donna, che aveva imbrattato ogni angolo della sua catapecchia con radici ed erbe dall’odore nauseabondo.

«Sono passati di qua tre uomini — di cui uno ferito — e un bambino?» chiese l’uomo con aria minacciosa, sempre tenendo la stoffa premuta contro il naso.

«È da tempo che non vedo nessuno, signore. La gente mi rifugge…»

La frase venne interrotta da una sonora risata di scherno. «Certo che, se il vostro olfatto è così debole, sarà difficile che troviate qualcuno capace di accompagnarsi a voi.»

«Nessuno vi ha detto che io desideri la compagnia di qualcuno, messere», rispose la strega ostentando un fiero cipiglio.

«Ritenetevi fortunata, donna, se non vi colpisco. In altre circostanze una risposta così irriverente avrebbe potuto costarvi cara.»

«La fortuna mi ha abbandonato da un pezzo: ogni cosa che avevo di caro mi è stata strappata, signore.»

Non furono certamente pietà o compassione a far muovere la mano dell’emissario di Campagnola verso la borsa che teneva alla cintura. Ne estrasse tre monete e le gettò ai piedi della strega. «Se per caso le persone che stiamo cercando passassero di qua, queste serviranno a rinfrescarvi la memoria… e forse anche a rinfrescare la vostra stamberga, che sembra averne molto bisogno.»

«Perché cercate quegli uomini?»

«Non sono cose che vi riguardano. In ogni caso non siamo noi, ma la legge di Venezia che vuole le teste di quei traditori.»

«Capisco, messere. Voi e i vostri vorrete forse rifocillarvi. Ho giusto della minestra sul fuoco…»

«Vi ringrazio, donna», rispose il capo tenendosi sempre turato il naso. «Credo che una comoda locanda sia quello che ci vuole per noi.»

«Dove posso trovarvi, nel caso dovessi avere delle novità?»

«Resteremo per una notte a Ragusa, poi torneremo a Spalato: là è stata rinvenuta l’imbarcazione dei fuggitivi.»

Ripulire la casa dagli effluvi venefici delle erbe richiese un accurato lavoro, a cui parteciparono anche Wu, Crespi e Adil. Quell’impasto mefitico era riuscito a tener lontani gli inseguitori dal nascondiglio in cui era stato adagiato il ferito.

Humarawa giaceva su un letto nell’unica stanza della stamberga. A ogni buon conto la strega lo aveva coperto sotto degli stracci, casomai qualcuno avesse voluto dare un’occhiata all’interno: ma fortunatamente gli uomini se ne erano andati senza procedere ad alcuna ispezione.

Il guerriero giapponese era sempre incosciente e la febbre alta gli procurava deliri e fremiti.

Una volta finito di lavare muri, stipiti e pavimenti, Wu sedette vicino alla donna, sfoderò i suoi modi migliori e sorrise incurante della cicatrice che gli univa l’angolo della bocca con l’orecchio. «Come vi chiamate, mia signora?»

La strega lo guardò con sospetto: forse quel grassone si stava prendendo gioco di lei. Erano secoli che ormai nessuno più le si rivolgeva chiamandola «signora».

Ma la donna sapeva di potersi fidare del suo intuito e uno sguardo a quegli occhi a mandorla, che non avevano mai tremato nemmeno di fronte alla morte, fu sufficiente per farle capire che il cinese non stava scherzando.

«Rhoda», rispose lei, e si concesse uno dei suoi rari sorrisi. «Mi chiamo Rhoda», ripeté, mentre con la mano cercava di detergersi dalla patina scura che offuscava il perduto candore della sua pelle.

Wu indicò la cicatrice: «Quando incontrai per la prima volta Alessandro Crespi, molti anni fa, egli mi lasciò questo ricordo: è l’unico uomo ad avermi battuto nella lotta».

Incredula, Rhoda osservò il mercante veneziano: sembrava un damerino a un ballo di gala, come aveva potuto stendere quel gigante?

«Invece chi è stato a provocare quella ferita?» disse Wu indicando il collo della donna.

«È una storia lunga. Non ho voglia di raccontarla.» Per un attimo gli occhi di Rhoda si posarono sul giovane Adil, quindi la donna continuò: «Non abbiamo tempo da perdere. Dovete nascondervi per qualche tempo: il drappello si tratterrà un solo giorno a Ragusa e poi tornerà a Spalato, ma non vorrei che avessero in mente di passare di nuovo da queste parti… per rifarsi l’olfatto».

Era la prima volta che Rhoda rideva, la prima volta da anni.

Wu la osservò con attenzione: era in preda a un turbamento nuovo che nessun drappello di inseguitori sarebbe stato in grado di provocare.

I due uomini e Adil tornarono nella grotta. Rhoda li raggiungeva due volte al giorno per rifocillarli e per aggiornarli sulle condizioni di salute di Humarawa. Tralasciando la storia delle origini di Adil, Wu le aveva raccontato buona parte della loro vita, a volte pavoneggiandosi nel descrivere le avventure che aveva condiviso col suo signore e con Crespi.

Quattro giorni dopo il loro arrivo, Rhoda si era recata in città e lì aveva saputo che gli undici veneziani si erano nuovamente diretti alla volta di Spalato. Quelli che ormai considerava come i suoi soli amici avrebbero potuto abbandonare il nascondiglio e trovare rifugio in città: grazie alle abitudini dissolute di suo marito, Rhoda conosceva almeno una mezza dozzina di locande dove, pagando, si sarebbe diventati invisibili per chiunque.

Poco prima di partire Wu si avvicinò al giaciglio su cui era adagiato Humarawa: non gli era mai successo, in tanti anni, di allontanarsi da lui.

Il gigante accostò la sua bocca all’orecchio del guerriero e sussurrò poche parole di commiato, anche se temeva che il suo signore, in quel momento, non fosse in grado di sentirlo.

«Te ne prego, Rhoda… continua a curarlo.»

«Non temere, Wu: il tuo signore è in buone mani. E mi sembra che le sue condizioni siano un po’ migliorate. Humarawa ha una tempra forte. Assomiglia a una di quelle erbe che non è facile estirpare.»

Alessandro Crespi presentò i sintomi del contagio quando alloggiavano ormai da due sere in una lurida locanda nei pressi del porto di Ragusa.

Il veneziano si era accasciato pesantemente al suolo, subito dopo essersi alzato da tavola. Il proprietario della locanda e la sua serva si erano prontamente dati da fare per rianimare il mercante, e avevano chiamato Wu e il giovane Adil, che erano appena saliti nella loro stanza.

Quando lo sollevarono da terra, il bubbone violaceo apparve, seminascosto da una ciocca di capelli, quasi all’altezza della tempia sinistra.

Immediatamente l’oste si ritrasse, mentre Wu si caricava il compagno malato in spalla.

«Presto, Adil, seguimi!» disse il cinese, e insieme lasciarono la locanda per dirigersi al porto.

25

Aprile 2004

Il circuito è situato nella regione meridionale del paese, nello Sakhir, lungo la costa anticamente chiamata costa dei Pirati. Gli abitanti della zona erano molto fieri di ospitare, per la prima volta in un paese arabo, una gara del campionato mondiale di Formula Uno.

L’autodromo di Bahrein era stato progettato e costruito, senza badare a spese e a tempo di record, dall’architetto Hermann Tilke, il migliore del settore.

Comprende cinque circuiti differenti, sul più impegnativo dei quali si sarebbe disputata la gara. Il record di velocità nelle prove a cronometro era stato segnato da Michael Schumacher: in un minuto, trenta secondi e duecentocinquantadue centesimi aveva coperto i quasi cinque chilometri e mezzo di un giro.

C’era aria di festa ovunque, sebbene le strette misure di sorveglianza segnalassero il perenne stato di allerta che vigeva ovunque nel mondo arabo: il Bahrein era uno tra i paesi con il reddito procapite più alto del pianeta — quasi quindicimila dollari annui —, una miniera d’oro nero a cielo aperto, i cui abitanti erano da sempre combattuti tra i rigori dell’Islam e i piaceri dell’Occidente. Era considerato uno Stato moderato. Questa moderazione si esprimeva anche nei suoi rapporti con la civiltà occidentale ed era facilmente calcolabile: corrispondeva all’appoggio logistico che il Bahrein avrebbe concesso a una coalizione militare per attaccare un «paese canaglia». Le esportazioni di greggio e i consistenti capitali impegnati in Occidente rappresentavano ulteriori cartine di tornasole per quantificare il peso di un piccolo Stato, abitato da sole seicentocinquantamila anime musulmane, sul piatto della bilancia degli equilibri politici del mondo.

I semafori dello starter si spensero all’unisono. Con fragore assordante le vetture di Formula Uno scattarono sulla pista illuminata dal sole del deserto, come giocattoli variopinti su una tortuosa fettuccia di raso nero. Le automobili, dinanzi agli sguardi ipnotizzati di cinquantamila spettatori, sfrecciarono a velocità prossime ai trecento chilometri all’ora.

Oswald Breil si affacciò alla finestra della stanza che il capitano Bernstein aveva riservato per lui al Bucarest Marriot Grand Hotel. Breil era riuscito a entrare nell’albergo da una porta secondaria; per la prenotazione era stato utilizzato un nome di fantasia.

Per l’ex primo ministro israeliano passare inosservato era di fondamentale importanza, ma non era facile: giornali e televisioni di tutto il mondo avevano scritto e detto il possibile su di lui in moltissime occasioni. Inoltre, le sue particolari caratteristiche fisiche lo rendevano facilmente riconoscibile ovunque.

Il capitano Bernstein aveva elargito una lauta mancia a un addetto alle pulizie che aveva prontamente lasciato incustodito il carrello per la biancheria nel quale Oswald si era infilato.

Una volta nel salottino della stanza, Oswald era sbucato fuori dal suo nascondiglio, quindi Bernstein aveva portato l’attrezzo in corridoio.

«Credo lei sia abituato a utilizzare certi ingressi secondari, maggiore Breil. Ma io ho dovuto fingere un incontro galante per riuscire a ottenere il carrello per qualche minuto… ne va della mia reputazione…»

Oswald sorrise e il suo sguardo si soffermò brevemente sulle immagini trasmesse dal televisore acceso.

«Il nostro contatto dovrebbe essere qui entro un paio d’ore», riprese Bernstein. «Speriamo che il mio complice nell’adulterio sia pronto a cedermi un’altra volta quell’aggeggio quando sarà il momento di andarcene…»

«Non credo sarà un problema, capitano: quell’uomo ha accettato una regalia da lei e ora, in qualità di suo complice, si sentirà in dovere di aiutarla ancora.» Così dicendo Oswald si mise a osservare l’imponente Palazzo del Popolo.

«Per fortuna che i tempi sono cambiati, Bernstein. Fino a pochi anni fa, sarebbe stato impossibile per noi aggirare i controlli della Securitate di Ceausescu e arrivare indisturbati sino a questa camera d’albergo.»

«Vero, dottor Breil…» rispose Bernstein, la cui attenzione era ormai catalizzata dalla diretta televisiva del Gran Premio del Bahrein. «La Ferrari sembra davvero imbattibile», borbottò l’ufficiale del Mossad.

«Un attimo…» disse Breil, attirato da un particolare della ripresa.

In quell’istante il telecronista stava dicendo in lingua inglese: «Alla variante dell’oasi sembra che Button scalpiti per guadagnare posizioni: già in un paio di occasioni il pilota inglese si è reso protagonista di leggere uscite sulla sabbia che hanno alzato nuvole di polvere. Adesso, sul lieve dosso dinanzi alle tribune, le auto mordono l’asfalto provocando una coda di scintille incandescenti…»

Oswald distolse lo sguardo: la sua preoccupazione era evidente: «Spero di riuscire a fare in tempo!» disse Breil, componendo un numero sulla tastiera del telefono.

La voce di Cassandra Ziegler era sorpresa: «Che ore sono da lei, Oswald?»

«Non c’è tempo per i convenevoli, Cassandra», rispose Breil con tono grave.

Le auto stavano concludendo il dodicesimo giro, quando il telefono sul tavolo dell’ufficiale di polizia dell’emirato prese a trillare. L’uomo abbandonò controvoglia la postazione da cui si stava godendo la gara e rispose.

In quel momento le vetture di testa stavano affrontando una curva a gomito dominata dalle otto tribune, tre fisse e cinque provvisorie, che erano state montate per accogliere il numeroso pubblico.

Il rumore delle microesplosioni venne coperto dal passaggio dei bolidi, ma in un attimo due delle tribune furono scosse da un sussulto, quindi crollarono accartocciandosi su se stesse. Dei millecinquecento spettatori che vi avevano preso posto, ben pochi sarebbero sopravvissuti. I dubbi sul motivo del crollo vennero sciolti non appena gli inquirenti ebbero esaminato i pali portanti, spezzati dalla precisione delle deflagrazioni.

Breil aveva osservato sgomento la scena, come moltissimi telespettatori intenti a godersi il primo Gran Premio del Bahrein di Formula Uno in diretta.

«… le scalpitanti ansimanti che fan sprizzare scintille, che caricano al mattino, che fanno volare la polvere, che irrompono in mezzo… Come ho fatto a non pensarci prima?» ripeté a mezza voce Oswald Breil, mentre Bernstein lo guardava senza capire.

Ancora una volta la mano assassina del Giusto in nome di Dio era calata su uomini, donne e bambini innocenti. Ancora una volta l’assassino si era preso gioco di loro. Ancora una volta erano arrivati troppo tardi per salvare centinaia di vite umane.

Adrik Gavrilovič era nato negli Stati Uniti d’America da genitori ucraini cinquantadue anni prima. La sua fedina penale era simile a un foglio di carta da alimenti nel quale fosse stato conservato un trancio di pizza al pomodoro: le macchie erano ovunque, ma la cosa sembrava non preoccupare affatto Gavrilovič.

«Il russo», come veniva chiamato in certi ambienti, perseverava nei suoi loschi affari, in barba a tutte le leggi e a ogni considerazione morale. Quello che definiva «banco dei pegni» altro non era che uno sportello di ricettazione e strozzinaggio aperto dodici ore al giorno. Acquistare refurtiva da tossici in crisi di astinenza da crack poteva dirsi la più onesta tra le occupazioni di Gavrilovič: il solo fatto che un’azione fosse atta a produrre ricchezza la rendeva automaticamente lecita. Non la pensavano così i federali, che da tempo gli stavano alle costole e che spesso facevano irruzione, armi in pugno, nel suo negozietto in Second Avenue, a pochi passi dal Museo Ucraino.

La proposta che gli aveva fatto il pezzo grosso della CIA lo aveva subito allettato: mettere in giro la voce di avere un grande quantitativo di esplosivo da vendere, in cambio di un allentamento sui controlli delle sue attività e dell’archiviazione «automatica» di ogni vecchia pendenza.

Già, chissà se il pezzo grosso dell’Agenzia, Glakas, gli pareva si chiamasse, avrebbe poi mantenuto le promesse, se lui fosse diventato determinante per la soluzione dell’indagine. «Poco male», si era detto l’ucraino, «io non rischio nulla, e da questa storia ho solo da trarre profitto.»

Glakas si era quasi scordato dell’incarico che aveva affidato a Gavrilovič.

Quando il funzionario aveva sentito squillare il telefono riservato aveva sperato che fosse qualcuno dei suoi che gli comunicava una buona notizia sul fronte delle indagini rivolte a scovare un covo di integralisti fedeli alla Jihad. A dire il vero il funzionario della CIA ci mise alcuni secondi prima di riuscire a fare mente locale.

«Mi ha chiamato un acquirente, signore», disse Gavrilovič raggiante.

«Non mi sembra il caso di eccitarsi in questa maniera: negli Stati Uniti ci sono infiniti acquirenti di una partita clandestina di esplosivo ad alto potenziale», rispose Glakas cercando di ridimensionare gli entusiasmi del ricettatore.

«Non era come gli altri due che hanno chiesto notizie, signore. Per quelli non ho nemmeno pensato di disturbarla. Questo era diverso, parlava con la voce contraffatta. Era risoluto e freddo. Sono sicuro che si trattava del nostro uomo.»

«Bene, Gavrilovič, se è così, speriamo che ti contatti nuovamente. Sai quello che devi fare.»

A pochi isolati di distanza dal monte dei pegni di Gavrilovič, una persona vestita da addetto alla manutenzione delle linee telefoniche stava scollegando due morsetti da un pannello. Le dita sottili avevano armeggiato per pochi secondi, prima di identificare la chiamata del ricettatore ucraino: una volta effettuato il ponte e ottenuto accesso alla linea di Gavrilovič, nella mente del Giusto erano diventati chiari i contorni della trappola. Le mani dalle dita sottili erano coperte dai guanti in dotazione agli addetti alla manutenzione.

Il Giusto richiuse lo sportello dell’armadietto delle derivazioni telefoniche, non senza aver prima annotato il numero che Gavrilovič aveva composto; le cifre erano comparse sul display del telefono di servizio che il finto operaio aveva collegato alla linea per intercettare la chiamata.

26

Maggio 1917

Quando Sciarra aprì gli occhi, una fitta lancinante si irradiò dal punto in cui era stato colpito dandogli la sensazione che la testa stesse per esplodergli. La scena che vide, mentre si tastava un grumo di sangue rappreso tra i capelli, fu tale da fargli riacquistare lucidità in una frazione di secondo.

A poca distanza dal mobile settecentesco si trovava un vecchio inginocchiato che si dava da fare per prestare le prime cure a una persona stesa a terra.

Sciarra riconobbe l’anziano guardiano che lui e il tenente Petra avevano scorto poco prima dal loro nascondiglio.

Poi, riconoscendo Petra nella persona ferita, gli tornò alla mente il motivo per cui lui e il suo sottoposto si erano venuti a trovare nel castello in cui era nato Vlad Tepes. Guardò nel cassetto segreto, non si stupì nel vedere che era stato svuotato, quindi si affiancò al vecchio e insieme tentarono di rianimare il ferito.

Minhea Petra aveva una ferita che pareva causata da un colpo di arma da fuoco, poco sopra il sopracciglio sinistro. Il sangue ne sgorgava copioso. Per un istante Sciarra temette di averlo perso per sempre. Una paura che sembrava attanagliare anche l’anziano servitore: «Mio signore… mio signore… ve ne prego, svegliatevi. Ve ne prego, signorino Minhea… ve ne prego…» continuava a ripetere Toma.

Minhea con un movimento improvviso si riscosse e tornò in sé, si portò le mani alla ferita e tentò di detergersi gli occhi coperti di sangue, quindi disse con voce ferma: «Mi ha sparato a bruciapelo. Non so come faccio a essere ancora vivo».

«Avete avuto una grande fortuna, tenente: il colpo, comunque di piccolo calibro, non è riuscito a penetrare nel cranio, ed è schizzato via per la tangente. La pallottola potrebbe avere scheggiato l’osso frontale. Avete visto chi è stato?»

«Blasko», rispose Petru senza esitazione. «Era Béla Blasko. Ha preso lo scrigno che conteneva alcuni gioielli di famiglia e l’Anello dei Re.»

«Se si trattava di Blasko il palazzo sarà presto invaso da soldati ungheresi ai quali avrà denunciato la nostra presenza. Dobbiamo uscire di qui e fuggire.»

Quasi le avessero evocate, alcune voci concitate risuonarono nella piazza antistante il castello di Dracula. Con movimento simultaneo le mani di Sciarra e di Petru corsero alle pistole.

Fu Toma, allora, a parlare: «Presto, signorino Minhea, seguitemi. Vi condurrò fuori di qui».

Il terzetto si inoltrò nei locali occupati un tempo dalla servitù, mentre lo scalpiccio dei soldati ungheresi risuonava ormai all’interno del palazzo.

Giunti nelle cucine, Toma porse una lanterna a Sciarra, prima di aprire una porta e scendere lungo la scala che conduceva ai sotterranei.

La ferita di Petru aveva smesso di sanguinare, almeno a giudicare dalla benda che l’ufficiale rumeno si era avvolto intorno al capo.

«Presto, di qua», disse Toma aprendo una botola sul pavimento posta tra due file di botti di rovere. «Seguendo il canale delle fognature, che passa qui sotto, arriverete fuori dalla città in pochi minuti. Il canale si getta nel Tirnava. Seguendo il corso del fiume, dopo un paio di chilometri incontrerete una piccola fattoria. Il proprietario si chiama Mihail, è mio cugino. Se gli ungheresi non gli hanno confiscato tutti i cavalli, sarà felice di vendervene un paio. Che Dio sia con voi, signorino Minhea.»

Così dicendo il vecchio Toma si fece il segno della croce e chinò il capo aspettando la benedizione del suo signore. Minhea gli appoggiò una mano sulla spalla mentre la commozione gli impediva di parlare.

Ancora una volta era costretto a lasciare la sua terra. Ma non c’era tempo per gli addii: Blasko era alle loro costole e, inoltre, la guerra e l’Italia reclamavano i loro ufficiali.

«Presto, dobbiamo andarcene da qui!» li interruppe Sciarra.

Non appena i due uomini scomparvero nella botola, Toma si affrettò a riguadagnare gli appartamenti padronali, ma mentre risaliva lo scalone Béla Blasko gli si parò davanti.

L’ufficiale ungherese sembrava furibondo e gli chiese: «Dove sono?»

Gli occhi mandavano sinistri bagliori.

«Non ho idea di chi stiate parlando, signore. Mi trovavo nella mia stanza e tutto questo trambusto mi ha svegliato.» Troppo tardi si rese conto che i suoi abiti e le sue mani erano sporchi del sangue del suo padrone. Ma quel particolare non era sfuggito allo sguardo indagatore dell’ufficiale ungherese. Blasko estrasse la pistola e la puntò alla tempia di Toma: «Forse nelle tue stanze ti diletti a sgozzare i maiali, vecchio? Adesso mi dirai dove si trovano. Non credo siano riusciti ad abbandonare questo palazzo. E mi spiegherai anche come hanno fatto a sopravvivere, l’uno a una palla di pistola in testa e l’altro a un colpo inferto con una mazza e capace di mandare all’altro mondo un bue».

«Vi ripeto, signore, non so di che cosa stiate parlando… io mi trovavo…»

Toma non finì la frase: il rumore secco dell’esplosione riempì le volte della scala. La testa di Toma ebbe un sussulto violento, mentre il proiettile la attraversava, quindi il suo corpo si afflosciò come fosse privo di ossa.

«Questi rumeni sembra che riescano a sopravvivere anche a una ferita mortale alla testa.» Così dicendo, Blasko esplose altri due colpi in direzione del corpo senza vita del fedele servitore.

Il colonnello Cantini prese dal cuscino l’onorificenza e la passò al capo di stato maggiore. Il generale Luigi Cadorna mosse un passo verso Sciarra e Petru, mentre l’intera compagnia di alpini scattava sugli attenti.

«Per essersi distinti sul campo e per il coraggio che ha portato alla sottrazione di un dirigibile nemico e alla sua distruzione, sono onorato di conferire a voi, maggiore Sciarra della Volta, e a voi, tenente Petru, la più alta onorificenza militare dell’Esercito italiano. Presto vi sarà comunicata anche la vostra promozione.»

Il generale Cadorna concluse il suo discorso con l’augurio che il comportamento eroico dei due ufficiali potesse divenire un fulgido esempio per tutti.

E tra sé e sé si augurò che l’entusiasmo per la brillante operazione condotta da Sciarra e Petru contribuisse a far dimenticare il malcontento che andava alimentandosi nei suoi confronti: erano in molti, anche dai banchi del governo, a mettere in dubbio le effettive capacità del capo di stato maggiore di tirare fuori l’Italia da quella enorme carneficina.

La galleria era costata cinque mesi di lavoro e si sviluppava, in salita, per circa millecento metri. Per settimane alcune centinaia di uomini avevano scavato senza sosta, facendo attenzione a non suscitare sospetti fra le truppe austroungariche: per non creare zone di accumulo lungo i fianchi dell’anticima del Lagazuoi, il materiale di scarto era stato accatastato in appositi slarghi all’interno della galleria. Negli ultimi giorni i soldati avevano addossato centinaia di metri cubi di roccia nei pressi della camera di scoppio: i detriti così accumulati, definiti «materiale da intasamento», avrebbero contribuito a dare compressione e maggiore potenza agli oltre trentamila chilogrammi di esplosivo che vi era stato alloggiato.

Sciarra diede innesco alle due micce ad alta combustione: per arrivare al fondo della galleria, l’innesco avrebbe impiegato una dozzina di minuti.

Gli uomini si calcarono l’elmetto sul capo. Il boato giunse come un lamento sordo dall’interno della montagna. Poi la terra incominciò a tremare e, con la forza di un vulcano, l’intera cima esplose, quindi si alzò una vampa di fuoco del diametro di un centinaio di metri.

Quando i massi e la terra smisero di cadere la compagnia agli ordini del maggiore Sciarra prese possesso di ciò che rimaneva delle postazioni austriache. Il nemico aveva però scoperto i movimenti degli italiani il giorno prima e aveva abbandonato le trincee nel corso della notte, appena in tempo per non restare intrappolato nei cunicoli ostruiti dalle frane.

«Oggi, 21 giugno 1917», declamò il colonnello Cantini il giorno seguente davanti all’intero battaglione, «mi pregio di consegnare i gradi di tenente colonnello ad Alberto Sciarra della Volta. Inoltre, voglio comunicare alla truppa che il maggiore… ehm, colonnello Sciarra è stato proposto per un’alta onorificenza a seguito dell’azione con cui, nella giornata di ieri, è stato scalzato il nemico dall’anticima del Lagazuoi. Nel contempo — e dico questo con profondo dispiacere personale — annuncio a tutti che il colonnello Sciarra verrà destinato a un nuovo e più importante incarico. Dio sia con voi, figliuolo.»

Cantini non si mise sugli attenti e rispose al saluto militare di Sciarra con un caloroso abbraccio.

Quando la breve cerimonia fu terminata, Sciarra e Petru si guardarono negli occhi. L’italiano sorrise indicando i nuovi gradi sulla mostrina: la soddisfazione per il successo dell’ultima loro azione era attenuata dalla tristezza per l’imminente distacco.

«Allora, arrivederci, capitano…» disse Sciarra, stringendo la mano del nobile rumeno.

«Arrivederci a voi, colonnello… e grazie… di tutto.»

«Sono io a dover ringraziare voi. Sicuramente in Egitto non troverò un ufficiale delle vostre capacità, e nemmeno dirigibili da pilotare.»

«Già, ma almeno laggiù non dovrete combattere col freddo delle Dolomiti, signor colonnello.»

«Non so. Temo che il caldo del deserto sia peggio delle nostre tormente di neve: contro il caldo non esistono difese. A ogni modo, vi saprò dire: appena arrivato vi scriverò col metodo Sacco.»

Il metodo Sacco era un sistema crittografico ideato da un capitano italiano che era stato commilitone di Sciarra durante il corso di addestramento. Di lì a poco l’esercito italiano avrebbe abbandonato i vecchi cifrari e adottato il sistema del capitano Sacco per tutte le comunicazioni riservate, ma Sciarra aveva cominciato a usarlo da tempo nei rapporti scritti con i suoi subalterni. Lui e Petru adoperavano quel nuovo tipo di scrittura sia per i loro appunti che per mandarsi messaggi che volevano rimanessero segreti.

Petru sorrise: «Sembra ridicolo che due uomini come noi, che hanno condiviso il pericolo della morte, rimangano a parlare del tempo senza trovare le parole per congedarsi. Mi mancherete, colonnello».

Sciarra non si stupì nel vedere gli occhi del rumeno velati di commozione: dal canto suo, un nodo gli stringeva la gola impedendogli di parlare.

I due ufficiali si abbracciarono: entrambi speravano che quello non fosse l’ultimo saluto. Ma erano uomini destinati al fronte.

27

Cortina d’Ampezzo, settembre 1967

I ricordi di Asher Breil andarono a ritroso nel tempo e si fermarono a quel giorno di fine settembre in cui tutto era cominciato.

«Come ha fatto a giungere sino a me, signor Breil?» aveva chiesto l’anziano gentiluomo italiano, esprimendosi in un inglese impeccabile.

«Devo dire la verità, generale, una volta rinvenuti i documenti non mi è stato difficile decifrarli: da tempo utilizzo con mio figlio, quasi per gioco, un sistema di codificazione simile a quello da voi usato per i documenti ufficiali. Un sistema a griglie, se non vado errato.»

«A griglie indefinite, questa la corretta definizione. Ma torniamo a noi, signor Breil. In che cosa posso esserle utile?»

«Il ritrovamento è stato del tutto casuale, signore. Il Mirage che pilotavo, come ufficiale della forza aerea di Israele, ha avuto un banale guasto al motore ed è precipitato sull’altura di El Arish, a sud-est della città di Gaza. Nell’attesa dei soccorsi ho trascorso due giorni e due notti all’interno di un vecchio bunker costruito dagli italiani nel corso della prima guerra mondiale. Ho scoperto l’ingresso del bunker — completamente insabbiato e invisibile a occhio nudo — solo grazie al fatto che la carlinga del mio aereo, nell’impatto col suolo, ha smosso buona parte della sabbia che ne precludeva l’accesso. Una volta entrato, ho rinvenuto il registro militare da lei redatto e alcune delle lettere che lei e un certo Minhea Petru vi eravate scritti. Quasi certamente quel rifugio non veniva violato dai tempi della Grande Guerra: al suo interno erano ancora evidenti i segni di una violenta battaglia. Gli unici compagni che ho avuto durante il mio soggiorno forzato sono stati i resti di alcuni soldati che vestivano abiti arabi e che, evidentemente, hanno avuto minore fortuna di lei, generale.»

«La collina-bunker numero 164», disse l’italiano, in preda al vortice dei ricordi.

«Vedo che ha un’ottima memoria, generale Sciarra della Volta.»

«Già… un’ottima memoria, signor Breil… un’ottima memoria.»

«Le chiedo di raccontarmi quello che è accaduto nel tempo che ha preceduto e seguito l’attacco al bunker 164. Lei, generale, potrebbe essere l’unica persona al mondo a conoscere il destino di un oggetto di grande importanza per il mio popolo: l’Anello dei Re.»

«È una storia lunga, colonnello Breil…»

«Ho tutto il tempo, generale, ho tutto il tempo…»

Il sole stava scomparendo dietro alle cime. Il generale Sciarra della Volta aveva detto il vero affermando di avere un’ottima memoria, nonostante fosse prossimo agli ottant’anni. Il passato gli si presentava nitido come i fotogrammi di un film, ed egli sapeva che quel passato avrebbe ancora potuto farlo soffrire. Respirò a fondo l’aria tersa della sera in montagna. L’imponente anfiteatro delle Dolomiti che sovrastava la conca di Cortina andava colorandosi di rosa, mentre l’anziano eroe della Grande Guerra incominciava a parlare.

Con precisione quasi maniacale il generale ricostruiva i fatti in maniera dettagliata. Nel frattempo, Asher Breil prendeva appunti.

Quando, tre giorni dopo, Sciarra disse: «Così sono andati i fatti, signor Breil», Asher aveva riempito una trentina di pagine e lo aveva fatto utilizzando il linguaggio che soltanto lui e pochi altri sapevano decifrare.