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PARTE TERZA

A che giovano le memorie? Di noi muore la miglior parte e non ci è memoria che possa resuscitarla.

Francesco De Sanctis, La Giovinezza

28

Ragusa, 1348

Le urla spaventate e irose degli avventori della locanda non impensierirono Wu che, con il pesante fardello di Crespi sulle spalle, correva senza voltarsi verso il porto. Il piccolo Adil gli stava appresso.

Non appena giunsero al mare, i tre salirono su una barca da pesca ormeggiata in banchina e, dopo aver deposto sotto la piccola tuga l’amico, Wu ordinò a Adil di mollare gli ormeggi e dispiegò al vento l’unica vela. Pochi istanti più tardi si trovavano fuori dal porto spinti da una brezza leggera e costante. Ancora una volta in fuga.

Ma fuggire, questa volta, sarebbe stato ancora più arduo: lo spettro della peste era ben più pericoloso dei sicari di Campagnola.

«Credi… credi si tratti di peste, Wu?» chiese Adil indicando il volto pallido e madido di sudore di Crespi.

«Purtroppo sì, Adil», rispose il pirata cinese manovrando il timone. «Sulla terraferma non avremmo avuto via di scampo. Meglio prendere il largo e sperare che il contagio non colpisca anche noi. Di certo nessuno si metterà al nostro inseguimento.»

«Già…» rispose Adil, a cui la vita stava velocemente insegnando a ragionare e a comportarsi da adulto, «…il contagio… me ne ero quasi scordato. Però è vero che in passato siamo stati spesso insieme a gente che poi si è ammalata. Vuol dire che noi siamo immuni dalla peste?»

Quando furono al largo Wu calò le reti. Data la situazione, Wu e Adil potevano stare relativamente tranquilli: nessuno, dalla città di Ragusa, sarebbe andato alla ricerca di una barca di appestati. Per quanto riguardava Crespi, sarebbe stato amorevolmente accudito dai suoi amici più cari, cosa che era di solito preclusa ai malati, destinati a morire in solitudine a causa del timore del contagio.

«Adil, aiutami!» disse Wu indicando i remi, mentre la rete veniva calata di poppa. «Spingi lentamente la barca in modo che compia un semicerchio. Speriamo di riuscire a pescare abbastanza pesce per sopravvivere. E che tu abbia ragione quando dici che potremmo essere immunizzati nei confronti del morbo.»

«Ho sentito dire che alcune persone sono riuscite a sopravvivere alla malattia, Wu.»

«Prega il tuo Dio, Adil, e spera che venga in nostro aiuto. In questo momento navighiamo davvero in cattive acque, molto più pericolose di qualsiasi tempesta.» Il gigante osservò il volto livido di Alessandro Crespi e riprese: «I nostri compagni di tante avventure sembrano in procinto di lasciarci entrambi. Non abbiamo più avuto notizie da Rhoda: chissà se il mio signore Humarawa è ancora vivo».

«Piano, piano… senza fretta…» La mano di Rhoda sorreggeva la testa del guerriero giapponese, mentre questi accostava le labbra al bordo della ciotola d’acqua.

La donna guardò l’uomo con aria soddisfatta: «Tu vivrai, Humarawa. Ora ne sono certa. Tu vivrai».

Era ormai trascorsa una settimana dalla precipitosa fuga dalla locanda: sette giorni passati in mare aperto, pescando. Con l’unica eccezione di un paio di approdi su isole deserte per approvvigionarsi di acqua potabile, si erano sempre tenuti lontani dalle terre abitate.

Adil osservò il gigante mentre abbandonava il capo e chiudeva gli occhi in preda alla stanchezza. Wu, per precauzione, non aveva mai voluto che Adil si occupasse del malato, né che gli somministrasse l’acqua o il poco cibo che Crespi riusciva a ingoiare nei sempre più rari momenti di lucidità.

Il mercante emise un flebile lamento. Adil gli si avvicinò e Crespi aprì gli occhi.

«Sto morendo, piccola mia», disse rivolto a colei che tutti chiamavano ormai Adil. «Non ti avvicinare. Restami lontana il più possibile e, se proprio dovrai farlo, copriti bocca e naso con un cencio.»

Crespi parlava con fatica. «Avete con voi il cofanetto?» chiese il veneziano.

«Certo, tu stesso hai ordinato a Wu di non abbandonarlo mai, lì dentro è conservato il nostro avvenire.»

«L’avvenire… guarda a che cosa si riduce il mio avvenire…» Un violento colpo di tosse scosse il mercante. «Voglio darti una cosa, Adil. Prendi il cofanetto e aprilo. La chiave è appesa alla catena che porto al collo.»

Adil si coprì con uno straccio sudicio le narici e la bocca, quindi sfilò la chiave dalle maghe della ricca catena d’oro. La bimba riuscì a non tradire il suo turbamento dinanzi alla pelle dell’uomo ormai ridotta a una distesa scura di ecchimosi.

Adil aprì il forziere. Al suo interno c’erano gemme di ogni colore e forma, che in comune avevano la notevole caratura. Inoltre c’erano gioielli cesellati e lingotti d’oro di piccole dimensioni che avrebbero potuto essere contenuti in una borsa da cintura.

«Vedi, Adil… questo è sempre stato l’unico bagaglio da cui non mi sono mai separato. È il mio tesoro e ora il vostro futuro. Guarda sotto al cuscino di raso rosso che si trova sul fondo.»

Le mani della giovane sollevarono il piccolo cuscino ricamato e, sotto di questo, Celeste vide due oggetti. La sua attenzione fu attirata da uno dei due: si trattava di un antico anello d’oro. Era meno appariscente degli altri gioielli contenuti nel cofanetto, ma era come se fosse dotato di uno strano magnetismo: chiunque lo guardava ne era irresistibilmente attratto.

Adil osservò con attenzione l’anello: due triangoli si intersecavano tra di loro formando una stella a sei punte. Lungo il cerchio si intravedevano appena, cancellate dal tempo, delle misteriose lettere in un alfabeto sconosciuto.

«Quello è l’Anello dei Re», disse Crespi con un filo di voce, «un oggetto che la leggenda vuole appartenuto a re Salomone e dotato di enormi poteri. Ti può regalare il potere e il sapere, se ne sarai degna. Lo lascio a te perché so che ne farai buon uso.

«Nell’astuccio di pelle», riprese il veneziano, «è custodito un antichissimo papiro il cui testo dice che l’Anello dei Re è appartenuto a un imperatore di Roma. Me lo ha assicurato un greco al quale l’ho fatto tradurre. Ma voglio che tu conosca la storia recente dell’anello e prego Iddio di darmi la forza e il tempo di potertela raccontare.»

Il comandante dei sicari di Campagnola entrò nella stanza delle udienze. Attese pazientemente che il suo signore alzasse il capo verso di lui e gli concedesse la parola, quindi disse: «Li abbiamo scovati, signore. O meglio, sappiamo approssimativamente dove si trovano».

«Avanti», disse il nobile veneziano, mentre i suoi occhi lanciavano lampi feroci.

«Ho saputo che un corpulento cinese e un ragazzino sono fuggiti da una taverna vicino al porticciolo di Ragusa, trasportando con loro un uomo che sembrava in preda ai sintomi della peste.»

«Continua.»

«Hanno rubato una barca da pesca e hanno preso il mare. Dopo di che non hanno più toccato nessun porto, ma la barca è molto piccola: è impossibile che si siano allontanati dalla costa.»

«A quanto tempo fa risale questa notizia?»

«Credo a una decina di giorni fa, mio signore. Comunque tutti i nostri informatori sono all’erta.»

«Armate la cocca e preparatevi a salpare entro domattina. Questa volta comanderò personalmente le operazioni. Il figlio del Demonio non potrà farla franca.»

«Tu sai che tuo padre, il Muqatil, e Hito Humarawa si sono fronteggiati per tutta la vita. Ma lo hanno sempre fatto rispettando il codice d’onore che contraddistingue due guerrieri del loro calibro. Io so che l’uno non avrebbe potuto fare a meno dell’altro e che per questo non sono mai arrivati a compiere un gesto definitivo, sebbene si siano più volte trovati nelle condizioni di poter uccidersi a vicenda. Sembrava che, al momento di infliggere il colpo mortale, colui che aveva avuto la meglio esitasse sino a desistere: una sorta di legge cavalleresca non scritta che spingeva i duellanti a restituirsi a vicenda la concessione della grazia. Credimi, quando i generali veneziani hanno deciso di tentare la presa di Tabarqa contagiando la popolazione con la peste, Humarawa si è opposto al progetto con ogni forza: non era onorevole che un popolo, anche se nemico, cadesse vittima di un gesto così infame. La voce del giapponese è rimasta l’unica a contrastare quelle degli strateghi veneziani. Così è stato deciso di diffondere il contagio nella città assediata ed è stata gettata all’interno delle mura la testa mozzata di un uomo morto di peste. Il morbo è riuscito dove le macchine da guerra avevano fallito: la città di Tabarqa è caduta da lì a poco. Non ci sono state battaglie degne di tuo padre e di Humarawa, ma un nemico subdolo e invisibile ha strisciato tra le vie di una città che, altrimenti, i veneziani non avrebbero mai preso. In una delle tante occasioni in cui si erano fronteggiati, Humarawa era riuscito ad affondare la nave del Muqatil, che trasportava il tesoro del suo popolo, e a prendere prigioniero tuo padre.»

Gli occhi blu di Adil erano velati di lacrime, Crespi ansimava e ormai la sua voce era un soffio.

«Nelle operazioni di recupero, oltre al bottino, gli uomini di Humarawa avevano portato in superficie un’anfora contenente l’Anello dei Re e altri oggetti descritti nell’antico papiro. Con ogni probabilità l’anfora faceva parte del carico di una nave che il caso aveva fatto naufragare nello stesso punto molti secoli prima. Il tuo valoroso padre era riuscito a fuggire, ma le sue ricchezze erano andate a rifornire le casse di Campagnola, padre di tua madre ma suo acerrimo nemico. L’Anello però è rimasto nelle mie mani e io, da quando sei con noi, l’ho conservato per te. Se la leggenda corrisponde a verità, l’Anello dei Re ti darà la forza per sconfiggere l’uomo che ci ha perseguitato e che è stato l’artefice della distruzione della tua famiglia. Campagnola non ha esitato quando si è trattato di dare l’ordine di diffondere il contagio nella città in cui viveva sua figlia. Io spero che la tua mano non debba esitare quando si tratterà di consumare la giusta vendetta. Per questo credo sia giusto consegnare a te l’Anello dei Re. Che Dio ti sia vicino.»

«Dimmi, raccontami ancora di mio padre, Alessandro. Di lui ho solo pochi ricordi. È vero che è stato un guerriero valoroso e imbattibile? Raccontami dei duelli tra mio padre e Humarawa. Sei sicuro che sia morto a Tabarqa?»

La grande mano di Wu scivolò sulle spalle della bambina, facendola quasi trasalire: «Ormai non può più sentirti, piccola», disse il gigante cinese indicando, con gli occhi umidi, il corpo di Crespi privo di vita.

«Stai migliorando, Humarawa», disse Rhoda, osservando con una punta di orgoglio il guerriero giapponese mentre muoveva i primi incerti passi, «soltanto pochi giorni fa non avrei scommesso sulla tua vita.»

«Spero soltanto che non sia successo nulla di grave ai miei compagni. Sei certa che quanto ti hanno riferito in città sia la verità?» chiese il samurai, appoggiandosi a un bastone.

«Più che certa, Humarawa. Si dice che siano fuggiti e che Crespi fosse ammalato di peste. Sono tutti terrorizzati dal contagio: per questo ho evitato di mostrare troppa curiosità. Non vorrei che qualcuno si insospettisse per le mie domande.»

«Hai fatto bene, donna. Non saprò mai come ringraziarti. Non appena sarò in grado di farlo, mi metterò alla ricerca dei miei amici. Non potrei mai saperli soli e in pericolo. Soprattutto il piccolo Adil.»

«Si vede che sei molto affezionato a quel bambino. E anche lui mi sembrava molto legato a te.»

Uno sguardo in cui l’orgoglio si mescolava all’inquietudine brillò negli occhi del giapponese.

«Troviamoli!» disse il Campagnola non appena la cocca fu ormeggiata nel porto di Ragusa, dove il panico si era ormai propagato di strada in strada.

La peste aveva abbracciato col suo sudario funebre tutta la città e il contagio si stava rapidamente diffondendo.

Campagnola e i suoi si erano abituati a camminare tra le calli veneziane dalle quali si irradiava il mefitico odore della morte. Soltanto il fuoco poteva nascondere l’olezzo dei corpi in decomposizione: i cimiteri erano stracolmi e le isole destinate a lazzaretto erano al massimo della loro capienza.

Gli uomini che componevano il manipolo guidato dal nobile veneziano non si sarebbero certo tirati indietro dinanzi al dilagare dell’epidemia. Questo pensava il Campagnola, mentre, con la smania di un cane che scava nella terra alla ricerca di un osso, si metteva in sella con l’unico desiderio di catturare il figlio del Demonio: il bambino dagli occhi color del mare. Vivo o morto.

29

Aprile 2004

Erano trascorsi pochi minuti dall’attentato al circuito del Bahrein, quando una mano leggera bussò alla porta della stanza occupata da Oswald Breil al Bucarest Marriot Grand Hotel. Bernstein andò ad aprire, senza immaginare chi si sarebbe trovato davanti.

La donna, con cui il capitano del Mossad aveva intrattenuto un’asettica corrispondenza in linguaggio criptato, doveva essere stata di rara bellezza. Gli anni — poteva aver passato a occhio e croce i sessantacinque — avevano lasciato una sottile ragnatela di rughe su una pelle un tempo fresca e vellutata.

«Chiedo scusa, ma mi trovo davanti al colonnello Bors?»

«Sì, signore. E io immagino che lei sia il capitano Bernstein.»

«Mi fa piacere fare la sua conoscenza, colonnello. A dire la verità non la immaginavo così… così… femminile.» Bernstein parve fermarsi e ripetere a mente quello che aveva detto. Tentò di correggersi: «Mi ero preparato all’incontro con un coriaceo ex colonnello della Securitate e non con una signora di rara bellezza. Mi perdoni, colonnello».

«Lei è molto galante, capitano Bernstein, ma sappiamo entrambi che quella che forse era la mia bellezza si è spenta col passare degli anni. Spero di aver occasione di apprezzare in un altro contesto questo piacevole lato del suo carattere, ma ora, se non sbaglio, è stato lei a dirmi che aveva fretta…»

«Purtroppo è così, colonnello. Ha con lei il materiale che avevo richiesto?»

«Certamente, capitano. E lei ha quanto pattuito?»

«Prego!» disse Bernstein, facendo scivolare sul tavolo una valigetta di cuoio nero. «L’equivalente di settantacinquemila dollari americani in franchi svizzeri di medio taglio. Se vuol controllare…»

«Non credo sia necessario. Ecco a lei tutto quello che la Securitate ha sequestrato dall’auto di Asher Breil, dopo l’incidente che lo ha ucciso insieme alla moglie.» La donna fece una breve pausa, quindi riprese: «Per espresso ordine del conducator Ceausescu non sono state effettuate indagini sul linguaggio criptato con cui sono annotati gli appunti. Sono convinta che, con i mezzi a vostra disposizione, non vi sarà difficile decifrare l’intero contenuto dei due quaderni. Il Registro Militare che è stato redatto da un ufficiale italiano durante la Grande Guerra è scritto in chiaro, nella lingua madre dell’ufficiale».

«La ringrazio, colonnello.»

«Sono io a ringraziare lei, capitano Bernstein. Qualora avesse ancora bisogno di me, sa come trovarmi.»

«Spero di incontrarla di nuovo, colonnello, se non altro per farle apprezzare il lato meno evidente del mio carattere…»

Non appena la donna ebbe abbandonato la stanza, Oswald uscì dal suo nascondiglio.

«Non conoscevo questo suo aspetto, capitano Bernstein. Ho sempre pensato che al massimo lei avrebbe potuto rivolgere dei complimenti a un chip al silicio o, al massimo, baciare appassionatamente una tastiera senza fili.»

«Ha sentito tutto, maggiore Breil?» chiese Bernstein consegnando i due quaderni e il registro al piccolo uomo.

«Tutto, capitano», rispose Oswald, aprendo il primo dei quaderni e scorrendo con trepidazione le prime pagine. «La scrittura di mio padre… il nostro linguaggio segreto…»

Oswald incominciò a decrittare le prime righe degli appunti:

Cortina d’Ampezzo, settembre 1967

Il vecchio generale si esprime in un inglese impeccabile e mi chiede come io sia arrivato fino a lui…

Bernstein rimase a osservare Breil che ricostruiva, non senza una punta di commozione, quello che suo padre aveva fatto e scritto poco tempo prima di morire.

A un tratto il telefono di Oswald prese a squillare. Dall’altra parte della linea, a migliaia di chilometri di distanza, il piccolo uomo intuì la preoccupazione nella voce di Cassandra Ziegler: «Oswald, qui le cose si stanno mettendo male per tutti. Il capo supremo, e intendo il presidente in persona, sembra sia scatenato e sta martellando di telefonate qualsiasi direttore di agenzia degli Stati Uniti. Mancano le agenzie pubblicitarie e quelle assicurative e pare che tutti siano passati sotto al torchio. Acciuffare il Giusto in nome di Dio sembra diventata la priorità numero uno. Chissà quali pressioni ha dovuto subire da parte dei paesi arabi moderati per farlo agitare così tanto. Il mio direttore ha fissato un incontro con lei domani in serata. L’aereo che lo ha condotto in Romania sarà ad aspettarla all’aeroporto tra cinque ore. Crede di farcela?»

«Certo, ce la posso fare.»

Cinque ore più tardi il baule veniva caricato nel vano bagagli del jet. I due finti uomini d’affari americani si erano appena seduti, quando Oswald ancora una volta sbucò fuori dal suo nascondiglio.

«Chiedo scusa, signori, ma sarà necessario un piccolo cambiamento di rotta. Devo consegnare documenti della massima importanza a una persona che mi sta aspettando all’aeroporto di Ciampino a Roma. La deviazione non richiederà che qualche ora di ritardo sulla nostra tabella di marcia.»

«Ci hanno comandato di metterci ai suoi ordini, dottor Breil», disse uno dei due agenti dell’FBI camuffati da finanzieri di Wall Street.

Poche ore più tardi l’aereo atterrava sulla pista di Ciampino.

Il mezzo di rifornimento si affiancò al velivolo e un addetto incominciò ad armeggiare con le manichette per riempire i serbatoi. Un secondo uomo salì la scaletta dell’Executive ed entrò nella cabina. Una volta all’interno, l’uomo si tolse il cappello che gli teneva raccolti i capelli, neri come la più scura delle notti. Il sorriso che apparve sulla bocca di Sara Terracini era disarmante, come disarmante era la sua bellezza, sebbene fosse nascosta da una tuta da benzinaio.

«Signori, scusatemi per l’improvvisata», disse Breil ai due esterrefatti uomini d’affari, «ma il mio lavoro mi ha insegnato che le precauzioni non sono mai troppe. Sono lieto di presentarvi una mia vecchia amica… e se adesso volete scusarci per qualche minuto…»

I due agenti scesero senza fare alcun commento, mentre Oswald prendeva posto con Sara al tavolo da lavoro.

Sara Terracini era la maggiore esperta al mondo nella ricerca e decrittazione di documenti, scritti in ogni lingua antica o moderna. La studiosa era a capo di un laboratorio all’avanguardia che si occupava di esaminare e decifrare i reperti che venivano alla luce in ogni angolo della terra. Le analisi di Sara Terracini e del suo staff si applicavano prevalentemente all’arte antica, ma Oswald, che l’aveva voluta al suo fianco in molte delle sue avventure, sapeva che le doti di Sara erano difficilmente eguagliabili. La giovane studiosa era in grado di inoltrarsi con grande competenza anche in materie che poco avevano a che fare con l’arte.

Pochi minuti più tardi Sara scendeva nuovamente la scaletta, col cappello calcato sulla testa e un passo mascolino.

Breil rimase a osservarla da dietro il finestrino, mentre prendeva posto a fianco del conducente dell’autobotte, quindi si immerse nella lettura del Registro Militare che un ufficiale italiano aveva tenuto meticolosamente aggiornato nel corso dell’antico conflitto. Nemmeno la sua mente elastica e intuitiva riusciva a cogliere il nesso tra il padre di Oswald, referente del Mossad in Romania, e le memorie militari del capitano, quindi maggiore e poi colonnello del Regio esercito italiano, Alberto Sciarra della Volta.

Non appena raggiunto il laboratorio nel quartiere romano dell’EUR, Sara aprì la prima pagina del quaderno e, seguendo le istruzioni che Oswald le aveva impartito, si mise al lavoro.

«Forza, dottoressa Terracini», si disse, «e non negare che Oswald Breil e tutti i guai che si porta appresso incominciavano a mancarti.»

Pochi minuti più tardi, Sara si trovava già immersa in un mondo forse meno lontano nel tempo di quelli nei quali era abituata a calarsi, ma non per questo meno affascinante.

«Con tutto quello che ho da fare, ci sono cascata un’altra volta», disse tra sé Sara, mordendosi impaziente il labbro superiore, intenta a passare sotto uno scanner di ultima generazione le pagine dei due quaderni.

Oswald aveva un sorriso malizioso dipinto in volto. Abbassò lo schienale della poltrona, ma prima di addormentarsi il suo pensiero corse a Sara. Breil guardò l’orologio: era certo che a quell’ora la bella ricercatrice italiana stesse già lavorando per lui.

«Buonanotte, Sara», pensò prima di chiudere gli occhi.

A migliaia di chilometri di distanza, le palpebre di Sara si fecero pesanti. Prima di coricarsi sul divano disposto in un angolo del suo ufficio, la donna mandò un saluto al piccolo uomo.

«Scommetto che in questo momento la tua faccia da satrapo è percorsa da un sorriso… Buonanotte, Oswald Breil», disse tra sé la donna, prima che il sonno e la stanchezza avessero il sopravvento.

Il segretario alla Sicurezza nazionale aveva chiamato il direttore della CIA, preannunciandogli la telefonata del presidente, ma questi, per quanto allertato, era rimasto senza parole di fronte alle pesanti accuse del capo dello Stato. Più che rispondere aveva ascoltato con attenzione il monologo con cui l’uomo più importante al mondo gli comunicava che il Giusto in nome di Dio doveva essere a capo della lista di tutti i ricercati. «Al pari di Bin Laden», aveva aggiunto.

Mentre componeva il numero interno di Glakas, il direttore della CIA immaginava quanto le pressioni subite dal presidente avessero influito sulla sua decisione di classificare il Giusto al primo posto tra i nemici degli Stati Uniti.

Glakas tacque solo per poco di fronte alla sfuriata del suo capo. Lo lasciò sfogare, quindi passò al contrattacco: «Sì, signore, mi rendo conto che molti paesi arabi sono di vitale importanza per la politica e l’economia degli Stati Uniti, così come mi rendo conto che il Giusto costituisce una minaccia per gli equilibri tra gli Stati. Capisco bene che i novecento morti del Bahrein pesano come macigni anche sulle nostre coscienze. Ma le accuse, più o meno velate, che ci vengono rivolte sono del tutto infondate. Ci stiamo dando da fare per identificare il Giusto, così come abbiamo sempre fatto con ogni terrorista. A questo proposito, signore, stiamo mettendo in piedi una trappola nella quale ci auguriamo che il Giusto cada. Certo, signore… non ne dubiti… la terrò informata».

Glakas posò il telefono e cercò sulla sua agenda il numero di Gavrilovič. In breve la voce del russo gracchiava, resa roca dalla vodka, nel ricevitore del funzionario governativo: «No, signore, nessuna novità. Non ha più richiamato dopo quell’unico contatto… e sono già passati cinque giorni…» Dall’altra parte della linea, Glakas udì il trillo di uno di quei campanelli posti a segnalare l’entrata in un pubblico esercizio. «La terrò informata, signore, e la contatterò non appena si farà vivo. Non ne dubiti… adesso ho gente… a presto, signore.»

L’ucraino si esibì in un sorriso smagliante, salutando con aria melliflua il cliente che gli stava davanti: «Eccomi a lei. Sono a sua disposizione… In che cosa posso esserle utile?»

Le mani dalle dita sottili posarono sulla mensola una voluminosa borsa di tela plastificata, dalla quale estrassero un antico vaso cinese alto cinquanta centimetri e dal diametro di una trentina.

«È un vaso Ming originale. Vale almeno seimila dollari», disse il cliente.

«Vuole venderlo o darlo in pegno?» chiese il russo, senza riuscire a mascherare la sua cupidigia.

«Lo voglio vendere. E vorrei anche acquistare uno di quei telefoni usati che ho visto in vetrina: ho perso il mio cellulare.»

Gavrilovič aveva tratto il vaso Ming al di là della pesante grata protettiva d’acciaio e lo stava esaminando con attenzione. Non poche volte quella griglia che lo separava da clienti spesso violenti gli aveva salvato la vita.

«Posso darle trecento dollari e un Motorola ultimo modello con dieci dollari di traffico prepagato. Non un soldo di più.»

«Va bene», disse il cliente, senza fare una piega.

Il russo imprecò tra i denti, maledicendo la sua fretta: forse il cliente avrebbe accettato di vendere il vaso anche a una cifra inferiore. Ma era inutile recriminare: l’affare era concluso.

L’uomo uscì dopo aver preso sei banconote da cinquanta dollari e un telefono cellulare alquanto malconcio.

«Torni quando ha bisogno di me», disse il russo con aria soddisfatta.

La gente stava sempre peggio ed era costretta a reperire liquidi ovunque, pensò Gavrilovič. Questa era una garanzia per i suoi traffici e, ora che i federali avevano smesso di intromettersi nelle sue attività, i suoi affari sarebbero andati sempre meglio.

«La gente ormai è davvero pronta a tutto, se esiste chi è disposto a cedere per trecento dollari un oggetto che ne vale seimila!» disse fra sé Gavrilovič, sollevando con cura il vaso Ming. Dopo di che il russo, estraendolo da sotto una pila di pubblicazioni sul tavolo, prese un libro d’antiquariato e incominciò a scorrerlo nella speranza di trovarvi qualche immagine di oggetti di fattura simile.

La sua attenzione fu attratta da un vaso pressoché identico al suo. Il libro faceva risalire l’opera al periodo di Shenzhong-Zhu Yijun, che andava dal 1572 al 1620. Seguivano alcune valutazioni, nessuna delle quali era inferiore ai diecimila dollari.

Felice per l’affare che aveva appena concluso, Gavrilovič decise che avrebbe esposto il vaso sul ripiano alle sue spalle, nella vetrina degli oggetti importanti. Era il primo luogo in cui guardavano i suoi migliori acquirenti, tra i quali figuravano alcuni collezionisti e quotati antiquari di New York. Tutti condividevano con lui l’assoluta mancanza di scrupoli quando si trattava di fare affari.

Gavrilovič spinse a fatica la mano dentro il collo del vaso. L’oggetto che toccò con la punta delle dita gli sembrò familiare. Anche se non riuscì a capire subito di che cosa si trattasse, il russo intuì che lì dentro non avrebbe dovuto starci.

Quando riconobbe le forme di un telefono cellulare, pensò a ciò che gli aveva detto il suo distratto cliente. Ecco dov’era finito! Peggio per lui, pensò il ricettatore, cercando di estrarre il telefono. L’apparecchio era assicurato con del nastro adesivo al fondo del vaso. Gavrilovič ebbe appena il tempo di rendersi conto del pericolo.

Le dita sottili si strinsero attorno al Motorola che probabilmente qualche tossico, dopo averlo rubato, aveva venduto a Gavrilovič per procurarsi i soldi di una dose. Il banco dei pegni non era ancora scomparso alla vista.

Il Giusto compose un numero sulla tastiera e, nell’istante in cui ricevette il segnale di libero, una vampa di fuoco fuoriuscì dal negozio del russo e un boato assordante riempì la strada.

Imperturbabile, il Giusto girò l’angolo. Compose un altro numero sulla tastiera e avvicinò una specie di microfono all’apparecchio.

«Glakas?» La voce che udì il funzionario della CIA era palesemente alterata da qualche meccanismo elettronico.

«Sono io», rispose Glakas, chiedendosi come mai uno sconosciuto avesse ottenuto il suo numero privato.

«Non cercare di rintracciare la chiamata. Sarebbe inutile. Tra non molto qualcuno ti avvertirà che il corpo del tuo amico Gavrilovič è stato ‘filtrato’ dalla grata che lo separa dal pubblico nella sua agenzia di ricettazione.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Esattamente quello che ho detto, Glakas. Non mi capacito che tu abbia scelto un simile compare per i tuoi sporchi giochi. Ma davvero mi credevi tanto stupido da cadere in una trappola del genere?»

«Chi sei? Chi sta parlando?»

«Sai bene chi sono. Addio, Glakas.»

«No, aspetta. Tu e io dobbiamo parlare. Io potrei esserti utile…»

Clic.

Il suono intermittente di interruzione della linea provocò nel funzionario della CIA un senso di impotente frustrazione, del tutto inusuale in un uomo come lui.

Il Giusto appoggiò il telefono cellulare sul bordo del marciapiede, quindi, con la punta della scarpa, spinse l’apparecchio dentro a un tombino: nessuno avrebbe mai potuto ritrovarlo e, se anche ciò fosse avvenuto, la sua permanenza nelle fogne di New York l’avrebbe reso nel frattempo inutilizzabile.

30

Luglio 1917

Il piroscafo Città di Tripoli era stato adibito al trasporto delle truppe verso le coste africane dall’inizio della guerra. Era una nave di medie dimensioni, poco meno di tremila tonnellate di stazza, ma in grado di tenere bene il mare.

Sciarra della Volta respirava a pieni polmoni, come se fosse rimasto chiuso dentro a una stanza per mesi. E in effetti c’era una bella differenza tra l’aria rarefatta delle Dolomiti e i profumi che la brezza delle coste dell’Africa portava verso il Mediterraneo.

«L’uomo si abitua a tutto», si disse il colonnello italiano, appoggiandosi alla balaustra incrostata di salsedine. «Anche alla maledizione della guerra.»

La guerra… Avrebbe voluto incontrarli adesso quelli che avevano predetto che sarebbe finita entro il Natale del 1914, e che si sarebbe risolta con qualche imponente manovra militare e pochi, irrilevanti scontri. Quella guerra era diventata una carneficina, una mattanza che aveva fatto scempio di ogni etica: nessuno era stato risparmiato e i morti si contavano a migliaia non solo tra i soldati, ma anche tra la popolazione civile. Non esisteva più alcun rispetto per la vita, prova ne erano, oltre alle bombe sulle città, gli attacchi coi gas e i lanciafiamme.

Se il colonnello Sciarra avesse espresso i suoi pensieri dinanzi al capo di stato maggiore, quasi certamente non si sarebbe trovato a bordo del piroscafo in rotta verso l’Africa, ma in una cella di rigore in attesa di un processo per alto tradimento. Invece, incontrando il generale Cadorna, Sciarra aveva mantenuto un rigido atteggiamento marziale, accettando con aria apparentemente compiaciuta il suo prossimo incarico.

«Ho avuto modo…» aveva detto Cadorna, mentre Alberto Sciarra assumeva la posizione di attenti nell’ufficio del capo di stato maggiore presso il ministero della Guerra a Roma, «… mettetevi pur comodo, colonnello… ho avuto modo, dicevo, di seguire le vostre azioni da tempo: il colonnello Cantini mi ha tenuto costantemente informato su ogni vostra impresa degna di nota. Ho così maturato la convinzione che voi, colonnello Sciarra, siate il più adatto per portare a termine una missione della massima importanza.» Il capo di stato maggiore si alzò in piedi e cominciò a misurare lo spazio dell’ufficio con passi lenti e studiati. «Lo scorso 10 aprile, il marchese Imperiali, ambasciatore italiano a Londra, ci ha inoltrato ufficialmente una richiesta da parte dei nostri alleati britannici: un contingente militare, dotato di cavalleria, artiglieria e appoggiato da una forza aerea di almeno una dozzina di aerei da caccia, avrebbe dovuto arricchire le fila dell’armata britannica nel Sinai, sotto il comando del generale Archibald Murray. In subordine, gli alleati chiedevano, dopo aver esaltato il valore delle nostre truppe, che venisse comandato in Palestina almeno un battaglione, indispensabile, ancora cito le parole degli inglesi, per l’offensiva finale sulle roccaforti austro-turco-tedesche di Gaza e Bersheeba. Voi capirete bene, colonnello Sciarra, che l’impegno ai confini settentrionali del nostro paese non ci consente di distogliere truppe dal fronte dolomitico o dall’Isonzo senza aprire pericolosi varchi all’avanzata del nemico. Nello stesso tempo non vi nascondo che disattendere alle aspettative dei nostri alleati mi lasciava alquanto perplesso: il territorio mediorientale rappresenta un interessante sbocco coloniale per un paese come il nostro, soprattutto in vista di una verosimile spartizione alla fine del conflitto. Ho quindi comandato un battaglione misto per l’occasione: il 6 maggio sono partiti via mare da Napoli un centinaio di carabinieri, agli ordini di sei ufficiali. A Tripoli si sono aggiunti al contingente trecentoquarantasei bersaglieri, guidati dal maggiore Francesco d’Agostino. Il battaglione così formato è giunto a Port Said il 20 maggio. Pochi giorni più tardi il generale Murray ha passato in rassegna le nostre truppe, estendendo, attraverso i canali diplomatici, i suoi personali ringraziamenti al nostro governo. A metà giugno il nostro distaccamento ha preso posizione nei pressi della città di Rafa, presidiando un’importante strada ferrata, spesso oggetto di attacchi da parte di fucilieri turchi e guastatori beduini. Ma gli appetiti degli alleati non si sono certo spenti: quasi contemporaneamente al dispiegamento delle nostre forze, il governo di Londra ha reclamato un maggiore impegno italiano sui fronti del Sinai e della Palestina. La richiesta ufficiale parla di sei-settemila uomini e io davvero non so dove andare a reperire una forza così consistente… a meno che… a meno che qualcuno non approfitti delle divisioni interne e dell’instabilità che caratterizza il mondo arabo e riesca a mettere in piedi un esercito, in parte autoctono, che fronteggi la comune minaccia turco-austro-germanica. Anche gli inglesi stanno muovendosi in questo senso e le nostre azioni dovranno svolgersi in stretto contatto con il loro comando. Pochi giorni or sono Murray è stato sostituito dal generale Edmund Allenby. Ho conosciuto personalmente l’alto ufficiale inglese e sono convinto che si troverà bene sotto il suo comando, colonnello Sciarra. Avete domande?»

«No, signore.»

«Bene, buona fortuna, colonnello. La vostra nave dovrebbe partire dal porto di Napoli tra pochi giorni…»

Quei «pochi giorni» erano volati in una Roma che sembrava sentire la guerra come un temporale che tuona in lontananza: non si sapeva se la tempesta si sarebbe tenuta alla larga o no.

C’erano belle donne, vestite in maniera elegante, che vagavano tra i giardini capitolini riparandosi dal sole con vezzosi ombrellini ricamati. C’erano bambini che giocavano sotto l’occhio vigile delle madri. C’erano anziani che commentavano le notizie di guerra riportate dai quotidiani… Tutto sembrava normale, l’unica nota dissonante era data dal fatto che non si vedevano uomini che non indossassero una divisa; molti camminavano con l’ausilio di stampelle di legno. Gli altri, giovani e in forze, si trovavano al fronte a combattere la più cruenta delle guerre.

Sciarra osservò estasiato il mare azzurro. Pregò per il futuro e, per l’ennesima volta, sentì acuta la nostalgia della sua vita civile, del suo lavoro, delle navi cariche di merci e non di soldati che lasciavano Genova.

Chissà come sarebbe stata l’Africa! Certo, avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle il gelo delle Alpi, il ghiaccio all’interno delle trincee, ma anche l’aria fumosa del casino di Cortina, le risate dei commilitoni, le belle puttane vestite in maniera succinta. Sorrise tra sé: i ricordi delle brevi licenze a Cortina avevano dissolto la malinconia e il rimpianto dei tempi andati.

Se mai fosse sopravvissuto avrebbe voluto tornare nella perla delle Dolomiti per diletto: la città ampezzana aveva rappresentato l’unica nota allegra in tutti quegli interminabili anni di guerra.

31

Cortina d’Ampezzo, 1967

«Da dove vuole che cominci, Breil?» aveva chiesto Sciarra della Volta.

«Dall’inizio, signore, dall’inizio.»

«Ebbene, quella era una guerra che nessuno avrebbe voluto, ma che tutti avevano cercato: l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, nel giugno 1914, non fu che il pretesto per dare inizio a un massacro senza precedenti. Dal 1914 al 1918 ventotto nazioni scesero in guerra all’interno delle due opposte alleanze. La vecchia tecnica di assalto all’arma bianca era stata affiancata dalla potenza micidiale di nuove armi da fuoco sempre più sofisticate. Il risultato è stato un singolare conflitto fatto di avanzamenti di pochi metri, lunghe attese in trincee malsane, utilizzo di tutto ciò che la tecnologia, capace di galoppare sullo sprone delle esigenze belliche, poteva offrire. E morti, soprattutto morti. Il mio paese ha lasciato sul campo seicentocinquantamila soldati, quasi il doppio la Francia, un milione l’impero britannico. Non c’era famiglia che non piangesse i suoi congiunti. Nel corso della Grande Guerra fu sperimentato anche il genocidio, contro civili armeni indifesi che occupavano la parte nordorientale della Turchia. Ma la prima guerra mondiale fu ancora una guerra di uomini e di postazioni: il numero di soldati schierati era la variabile da cui sarebbe dipeso l’esito del conflitto. Solo nel corso della disfatta di Caporetto l’Italia vide arretrare i suoi confini di centocinquanta chilometri e ridursi l’organico del suo esercito di quasi seicentocinquantamila uomini: cinquantamila furono i morti e i feriti, trecentomila i prigionieri e quasi altrettanti i disertori.

«Io sono qui oggi a raccontarle queste cose, signor Breil, e ringrazio Iddio di avermi concesso di superare tutte le insidie che ho incontrato. Lo ringrazio anche per avermi concesso una vita lunga e serena accanto a mia moglie… A proposito, colonnello Breil, gradisce un buon caffè italiano? Kimber, cara, ti dispiace servirci una tazza di caffè?»

La donna dimostrava pochi anni meno di Sciarra della Volta, aveva un viso rotondo e piacevole che infondeva simpatia e un senso di tranquilla bonarietà. Doveva essere stata piacente in gioventù, non una bellezza da rotocalco, ma una gradevole ragazza inglese dalla pelle chiara, punteggiata di efelidi a rimarcare il colore ramato dei capelli. Adesso Kimberly Sciarra era una elegante anziana signora che ancora non aveva perso una punta di inflessione inglese quando si rivolgeva in italiano a suo marito.

«Già, tutto incominciò quando incontrai Kimber. Non la prima volta, quando mi medicò le ferite in un ospedale inglese, ma il giorno in cui la rividi…»

32

Ragusa, 1348

«Avremmo dovuto capire a che cosa stavamo andando incontro: la bonaccia e la nebbia altro non erano se non presagio di sventura», diceva uno degli sgherri a un suo compagno.

«Già, abbiamo impiegato più di dieci giorni per raggiungere un’altra città dove si va diffondendo la peste. Come se non ce ne fosse stata abbastanza a Venezia…» aveva risposto l’altro, appena prima che Campagnola piombasse su di loro come un falco.

«Che cosa state dicendo?» Il veneziano estrasse lo spadino che portava sempre alla cintura. Nonostante l’età non più rosea era ancora un ottimo schermitore, in grado di incutere timore e rispetto.

La punta della spada era appoggiata sulla guancia del secondo uomo che aveva parlato.

«Attenzione, mio caro», disse Campagnola con un’aria diabolica. «Su ognuno di voi, da quando vi ho tirati fuori dalle galere nelle quali eravate destinati a morire, vanto diritto di vita o di morte. Non vorrei doverlo esercitare adesso. Se davvero credete ai presagi, provate a pensare che da quando quel maledetto ragazzino è sbarcato nella nostra città, su Venezia pare scesa la maledizione del Demonio. Presto, Tommaso.» Campagnola ritrasse l’arma e si rivolse al capo dei suoi: «Abbiamo girato la città in lungo e in largo, senza trovare traccia di Adil. Credo sia meglio allontanarci da questi effluvi mefitici, tanto più che chi cerchiamo probabilmente è fuggito via mare. Torniamo alla cocca e prepariamoci a salpare».

«Quanti erano?» aveva chiesto Humarawa alla donna, non appena Rhoda gli aveva riferito della visita degli sgherri veneziani.

«Torneranno», disse il giapponese. «Per quanto conosco Campagnola non rinuncerà molto presto a noi. Dobbiamo prepararci a riceverli.»

«Perché questo Campagnola è così accanito contro di voi? Wu mi aveva detto che avete prestato i vostri servigi a lui e alla Repubblica veneziana per lungo tempo. Come mai ha cambiato idea?»

«Credo che sia a causa di Adil. Penso che Campagnola veda in lui un pericolo o una maledizione.»

«Un bambino? Come è possibile che una delle persone più influenti a Venezia dia la caccia a un bambino…»

«È una lunga storia, donna. Un giorno te la racconterò, adesso però dobbiamo prepararci a ricevere visite sgradite e io devo tentare di riprendere un po’ di forze.»

Humarawa aveva trascorso gli ultimi giorni ad armeggiare con corde e pesi, aiutato da Rhoda, che eseguiva in silenzio gli ordini impartiti dal giapponese e che assisteva affascinata agli esercizi del samurai, intento a recuperare la potenza e a mimare duelli e battaglie con la sua spada.

Il corpo di Crespi era stato avvolto in una vecchia rete, zavorrato con dei pesi e gettato in mare.

«Che cosa stiamo aspettando?» chiese Adil, dopo alcuni giorni. «Perché non torniamo da Humarawa? Vorrei sapere come sta.»

«Il più importante dei motivi, Adil, è che siamo stati a contatto con un uomo malato di peste. È meglio aspettare ancora un po’ prima di scendere a terra e, soprattutto, non dovremmo avvicinarci a una persona indebolita da una grave ferita. Sempre ammesso che il mio signore sia riuscito a cavarsela. Ma quando smetterà questa maledetta bonaccia che ci costringe a restare immobili nella nebbia più fitta e se saremo sicuri di non essere stati contagiati, accosteremo alla spiaggia dove c’è la casa di Rhoda.»

Le cocche erano da sempre destinate al commercio locale: da Venezia queste robuste imbarcazioni, lunghe dai dieci ai diciotto metri, trasportavano nell’Adriatico merci di ogni genere.

Ma da quando era scoppiata la peste, molte di quelle navi erano state requisite e destinate al trasporto dei cadaveri e dei malati verso le isole della morte, così che il commercio aveva subito un brusco arresto.

La cocca avanzava a buona andatura. Per fortuna la nebbia si era diradata, sospinta da un freddo vento proveniente da nord che gonfiava la vela latina.

Le coste sfilavano a dritta, a una distanza ravvicinata.

Campagnola aveva ordinato di costeggiare ogni terra emersa, comprese le isole. A chi gli aveva fatto notare che trovare i fuggiaschi sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio, il veneziano aveva aspramente risposto: «Abbiamo tutto il tempo necessario: la loro imbarcazione non potrà passare inosservata. Dovranno pur tirarla in secco o ormeggiarla da qualche parte».

«Cos’è quella catapecchia?» disse Campagnola, indicando una casupola su un’altura che dominava la spiaggia. Dal camino si alzava un sottile filo di fumo.

«Vi consiglio di stare alla larga da quella casa, signoria. Del resto noi ci siamo già stati», disse Tommaso, «lì abita una fattucchiera: dalle sue pozioni si sprigiona un odore fetido che è rimasto impregnato ai nostri abiti per giorni.»

«Quindi avete già controllato. Bene, mi pare non ci siano altre case lungo la costa deserta.»

«Non è stato, a dire il vero, un controllo molto approfondito… L’odore che aleggiava nella casa ci ha impedito di entrare…»

A questo punto Tommaso si fermò, rendendosi conto di essere stato, per stupidità o leggerezza, superficiale e distratto. Ma Campagnola non lo era altrettanto. Con gli occhi ridotti a due fessure, incominciò a dettare i suoi ordini: «Girate dietro quello sperone di roccia. Dalla casa non si deve vedere la barca. Se dovessero trovarsi là dentro non devono accorgersi del nostro arrivo. Quando saremo al riparo troveremo un punto dove sbarcare e procederemo via terra. Dobbiamo muoverci con circospezione: soltanto agendo di sorpresa potremmo sopraffare combattenti come Humarawa o il cinese».

Rhoda si era recata, come di consueto, alla ricerca delle preziose erbe medicinali che le servivano per preparare i suoi infusi.

L’aria era ancora densa della persistente umidità che giorni e giorni di nebbia avevano depositato ovunque, anche nelle ossa delle persone. Si tirò dritta, la mano destra che stringeva la roncola. Poco distante la cesta piena di erbe, bacche e radici.

La casa era poco lontana, nascosta alla vista da uno sperone di roccia. Da quando aveva accolto quell’uomo la sua vita era molto cambiata, decisamente in meglio. Sempre più spesso la mente di Rhoda era sgombra dai pensieri terribili che l’avevano accompagnata nel corso degli ultimi anni.

«Signora!» disse fra sé sorridendo, «mia signora!» ripeté, pensando a Wu che si rivolgeva a lei con appellativi degni di una regina. Un velo di apprensione scese sugli occhi della donna, preoccupata per l’incerto destino in cui poteva essere incappato il gigante cinese.

Rimase a guardare la nave, una nave tozza, come tutte le imbarcazioni da trasporto che incrociavano lungo le coste tra Ragusa e Spalato. A mano a mano che la vedeva avvicinarsi, l’angoscia si impadroniva di lei. Osservò gli uomini che si alternavano alle manovre, la barca porsi al vento e gettare l’ancora. Si mise di sentinella, nascosta nella vegetazione. Quando vide l’equipaggio montare sulla scialuppa e dirigere verso la spiaggia ebbe conferma dei suoi timori: l’uomo che, quasi un mese prima, l’aveva interrogata sul giapponese e sui suoi compagni, adesso era accanto a un altro, più anziano ed elegante, che le parve essere il capo di quel manipolo. Un cavallo stava al centro della scialuppa: quasi certamente era destinato a quello vestito più riccamente.

Rhoda prese a correre verso la casa, scivolando spesso sul fondo fangoso e ferendosi con le spine dei rovi. Doveva fare presto, se voleva avvertire in tempo Hito Humarawa del pericolo.

Il marinaio aveva un’aria soddisfatta: preferiva di gran lunga restare a bordo a montare la guardia piuttosto che accompagnare il suo iroso padrone nella spedizione a terra.

Stava ingannando il tempo sistemando cime e bozzelli e pulendo sommariamente il ponte della nave con secchiate d’acqua salata.

Non si accorse del gigante fino a che non se lo trovò davanti.

Anni e anni passati ad assaltare navi con ogni mare e ogni vento gli avevano insegnato qualcosa. Wu aveva tirato in secco la barca da pesca in una spiaggetta isolata. Aveva chiesto a Adil di nascondere il piccolo peschereccio con delle frasche ed era scivolato in mare, con l’agilità dei grandi mammiferi marini.

Come una balena aveva nuotato a pelo d’acqua sino alla murata della cocca, quindi, impugnando la spada, aveva oltrepassato il parapetto strisciando sul ponte come un serpente in caccia.

«Chi sei?» aveva urlato l’uomo di Campagnola, impaurito dall’apparizione del cinese come se si fosse trovato davanti uno spettro degli inferi.

«Sai bene chi sono, dato che mi stai dando la caccia da tempo», rispose Wu, passando il filo della spada sul pollice calloso. «Adesso la mia lama assaggerà il tuo collo.»

«No, ti prego… ti dirò tutto… non farlo…»

«E di quali informazioni tanto importanti da salvarti la vita saresti in possesso?»

«Vi sta cercando, Campagnola vi sta cercando. È un uomo potente e malvagio. Non desisterà sino a quando non vi avrà catturato.»

«Non mi dici niente di nuovo. Piuttosto, dove si trovano adesso i tuoi compari?»

«Sono scesi a terra: Campagnola è con loro e vuole perquisire di persona la casa di una mefitica fattucchiera proprio dietro allo sperone di roccia.»

Wu ebbe giusto il tempo di soppesare il significato di quelle parole, quando una sensazione di disagio si impadronì di lui: un uomo solo non sarebbe stato in grado di manovrare la nave nel caso di un brusco cambiamento del tempo.

Adil aveva ricoperto con cura il peschereccio. Si era quindi diretto verso la baia dove la cocca stava all’ancora. Aveva seguito, attento a non farsi vedere, i movimenti di Wu, e aveva gioito quando il veneziano aveva alzato le mani in segno di resa. Dal luogo in cui era nascosto, Adil godeva di una visuale quasi completa del ponte della barca. Gli era preclusa la vista di una sola zona, in corrispondenza del boma, al quale ancora era assicurata la vela latina. Il secondo uomo sbucò fuori proprio da quella parte del ponte, cogliendo Wu alle spalle.

Adil non ebbe nemmeno il tempo di gridare: brandendo una clava di legno, il secondo marinaio si era scagliato contro il gigante. Il rumore secco del colpo di mazza, assestato alla base del cranio di Wu, fu perfettamente percettibile anche dalla distanza a cui Adil si trovava.

«Presto, non abbiamo tempo da perdere. Ricorda bene quello che ti ho detto ed esegui alla lettera le mie istruzioni. Tra pochi minuti li avremo addosso, ma noi venderemo cara la pelle», disse Humarawa rivolto a Rhoda.

La casa di Rhoda era a pianta circolare, del diametro di una quindicina di passi; era costituita da una sola stanza, al centro della quale ardeva il fuoco. Il tetto, in travi di legno, era coperto di paglia. Al centro della copertura, un foro, situato proprio sopra al braciere, fungeva da camino.

C’era una sola finestra sul lato che dava verso il mare; dall’altro la casa era addossata alla montagna. Nascosto alla vista, Humarawa osservava le manovre di avvicinamento dei veneziani: dovevano essere nove, forse dieci, e si muovevano con grande circospezione.

I veneziani si erano sparpagliati a ventaglio, e avanzavano verso la casa della strega cercando di tenersi al riparo: così aveva ordinato loro Campagnola.

«Dentro quella catapecchia potrebbero trovarsi due tra i più feroci ed esperti guerrieri che io abbia mai conosciuto.»

Tommaso girò guardingo attorno alla casa, quindi fece cenno ai suoi di fare irruzione. Tre sfondarono l’uscio con un calcio ed entrarono.

La stanza era vuota e silenziosa.

Soltanto il fuoco crepitava al centro del locale. Sopra questo era sistemata una pentola.

Agli uomini parve una scena domestica e tranquillizzante. Ma fu un attimo.

La gabbia di tronchi brandeggiò, staccandosi dalle travi del tetto. La pesante trappola sibilò nell’aria, quindi si abbatté con la violenza dell’onda sui tre in piedi al centro della stanza.

Le punte acuminate, assicurate perpendicolarmente all’incrocio di ogni quadrato di tronchi, fecero scempio, penetrando nelle carni degli sgherri di Campagnola. La gabbia proseguì nel suo movimento oscillatorio, tenendo saldo il suo carico di morte: i corpi dei tre assalitori furono trascinati, sino a che il moto si fermò e all’interno della casa non tornò il silenzio.

«Che succede, là dentro?» chiese Tommaso preoccupato dai rumori sordi che aveva sentito. «Rispondete!»

Nel frattempo un altro degli uomini di Campagnola — un pluriomicida che solo la protezione del membro del Consiglio dei Dieci aveva rimesso in libertà — stava avanzando verso l’uscio. Parve sul punto di cadere quando la sua gamba destra inciampò nella corda tesa attraverso il passaggio che portava alla casa. Il meccanismo, tanto semplice quanto micidiale, fece cadere a terra il ramo che fungeva da fermo alla corda dell’arco. Lo yumi era un arco alto un paio di metri, usato dai samurai. Era un’arma potente e precisa e, come tale, si comportò anche in quella occasione, sebbene non vi fosse la mano di Humarawa a indirizzare la freccia. L’arco era stato infatti assicurato a una trave di legno, in modo che fosse puntato su colui che avesse inciampato nella corda.

L’uomo strabuzzò gli occhi, mentre la freccia gli si conficcava nei polmoni per poi fuoriuscire tra le scapole. Forse non si accorse nemmeno di morire.

«Fermi, non vi muovete», gridò Tommaso rivolto ai suoi. «Quei maledetti hanno riempito la zona di trappole.»

«Vieni fuori, Humarawa!» La voce di Campagnola si alzò perentoria. «Non è te che voglio. Consegnami il bambino e potrete tornare a Venezia e vivere in pace.»

Gli rispose solo il silenzio.

«Ti ho detto di venire fuori. So che sei lì: queste trappole recano la tua firma. Lo ripeto: non voglio te o gli altri. Soltanto il bambino. Siamo più numerosi di voi e mi risulta che sia tu che il mercante non siate in buona salute. Consegnati e avrai salva la vita.»

Così dicendo Campagnola fece cenno a due dei suoi di seguire le orme del primo terzetto e fare irruzione nella casa.

La coppia di tagliagole avanzava con prudenza e molto lentamente. Nella casa regnava l’oscurità, ravvivata solamente dal baluginare del fuoco.

Le malconce travi di legno del pavimento scricchiolavano a ogni passo. I due uomini si guardavano l’un l’altro, quasi a volersi infondere reciprocamente coraggio. Nell’oscurità nessuno dei due riuscì a vedere la mano di Rhoda che tagliava una corda tesa all’inverosimile. Uno dei bracci che formavano il treppiede a cui era assicurata la grossa pentola si mosse come una molla. La pentola volò in aria, diffondendo tutto intorno spruzzi incandescenti di acqua mista a olio ed erbe orticanti.

I due, colpiti dalla pioggia rovente e velenosa, si portarono le mani agli occhi e, urlando di dolore, uscirono correndo dalla casa della strega. Se avessero avuto salva la vita non avrebbero mai più potuto vedere la luce del sole.

Dall’interno della casa si udì un tonfo sordo e ovattato.

Humarawa si era lasciato cadere dal suo nascondiglio, posto sopra una trave del tetto, ed era in piedi al centro della stanza.

Indossava l’armatura in lamelle d’acciaio laccate, tenute insieme da sottili fettucce di seta. Sul volto portava una maschera da guerra da samurai, realizzata in legno di gelso, che riproduceva una terribile divinità.

«Sono qui, Campagnola. Vieni a prendermi.»

Quando Wu riprese i sensi era legato come un pesce nella rete, sdraiato sul ponte della cocca. I due uomini che lo avevano fatto prigioniero discutevano sul sistema con cui toglierlo di mezzo: «Tagliamogli la gola subito, poi aspettiamo che ritorni Campagnola: avremo la gratitudine del nostro signore per aver eliminato uno dei nemici ai quali stiamo dando la caccia. Ci meriteremo una bella ricompensa».

«Sia pure», aveva detto l’altro, «ma perché prima di ucciderlo non ci divertiamo un po’ con questo pachiderma?»

«No, accoppiamolo subito e non se ne parli più. Questi figli del Demonio hanno sette vite come i gatti», rispose l’altro.

«Che cosa vuoi che succeda? È legato come una vela attorno al boma.»

Quello dei due che appariva più timoroso si lasciò convincere. Entrambi passarono la drizza dell’amantiglio, la cima che serviva per issare la randa, in mezzo alle corde che assicuravano le caviglie di Wu, quindi sollevarono non senza fatica il bestione sopra al ponte e sbracciarono fuori bordo la drizza e il suo carico.

Wu aveva un’espressione di odio dipinta negli occhi. Si dimenava quel tanto che riusciva, stretto com’era dalle corde. «Pregate il vostro Dio, se mai ne avete uno, di riuscire ad accopparmi in fretta, altrimenti verrà il giorno in cui mi prenderò la vostra vita fra le più atroci sofferenze.»

«Risparmia il fiato, orientale», lo schernì uno degli aguzzini. «Tra poco vedrai a cosa ti servirà.»

Così dicendo gli uomini calarono il cinese dapprima a pelo d’acqua, quindi lo immersero sino alla cintura.

Trascorsero interminabili momenti prima che i due salpassero l’amantiglio.

Il cinese emise un grido soffocato dai colpi di tosse, quindi respirò a pieni polmoni, mentre il supplizio incominciava una seconda volta. I due sghignazzarono mentre scandivano il tempo. Quello che aveva insistito per non giustiziare subito il cinese era arrivato a contare sino al numero cinquanta, quando strabuzzò gli occhi. La sua espressione, mentre moriva, fu più di incredulità che di dolore. Un fiotto di sangue gli fuoriuscì dalla bocca, mentre si accasciava sul ponte.

Il secondo si girò nelle quattro direzioni. Le mani afferravano ancora istintivamente la cima a cui era appeso Wu.

Il boma oscillò, attraversando a grande velocità l’intera larghezza del ponte, e arrestò la sua corsa sul petto del servo di Campagnola. L’uomo emise un rumore simile a quello di un otre pieno d’aria che si gonfia e venne catapultato all’indietro, sorvolò la balaustra e cadde in mare privo di sensi.

Adil stava in un angolo, nelle mani teneva il pugnale con cui aveva reciso la scotta che teneva serrato il boma. L’altro pugnale era conficcato nel petto del secondo uomo. L’espressione orgogliosa, appena comparsa, si spense subito sul viso del fanciullo: non aveva molto tempo, se voleva salvare la vita a Wu.

La paura gli aveva paralizzato i riflessi. Lo scambio di colpi durò pochi attimi, quindi il sicario cadde a terra trafitto da una lama che si era mossa con tale rapidità da sembrare invisibile.

Campagnola e i due compari che gli erano rimasti non erano però restati con le mani in mano: fu il nobile veneziano a colpire Humarawa al capo con l’elsa della spada.

Il giapponese barcollò per un solo istante, ma quanto bastò per consentire a Tommaso di sferrare un secondo colpo.

Humarawa cadde a terra privo di sensi.

Allora un grido riempì la stanza della baracca. Da un angolo buio sbucò Rhoda, che impugnava una spada. I primi due impacciati fendenti tagliarono l’aria. Per i tre esperti spadaccini fu quasi un gioco disarmare la strega.

Quando Humarawa riprese i sensi era legato con le mani dietro alla schiena, assicurato a uno dei pilastri in legno che sorreggevano il tetto.

«Bentornato, ti stavamo proprio aspettando, prode samurai.» La sgradevole voce di Campagnola lo riscosse. «Ti stava aspettando anche la tua valorosa compagna. Sei caduto davvero in basso, Humarawa… Le donne più belle di Venezia erano pazze per il condottiero venuto da lontano, e adesso devi convivere con una strega… Dove sono gli altri? Dillo, avrai salva la vita e la tua donna non subirà alcun affronto.» Così dicendo Campagnola indicò Rhoda, che era stata legata mani e piedi alle quattro gambe del tavolo sul quale era stata posta supina.

«Non so dove si trovano i miei compagni e quella non è la mia donna.»

A un cenno di Campagnola, la mano rude di Tommaso strappò la parte superiore delle vesti di Rhoda e si soffermò sul seno rotondo e bianco.

«Ti conviene dirmi quello che ti chiedo, Humarawa. È da molto tempo che i miei non toccano il corpo di una femmina… Pensa con quanta felicità banchetterebbero con lei i due che hai appena accecato con le tue trappole.»

«Ti ho detto che non so dove si trovano. Lascia stare quella donna, lei non ha nessuna colpa.»

«Vedo che la salute di questa principessa ti preme, mio samurai. Vai avanti, Tommaso.»

Anche la parte inferiore del vestito cadde in un angolo. Rhoda rimase nuda, mentre le mani di Tommaso si avventavano sul suo sesso.

La donna si riempì la bocca di saliva, poi sputò in faccia a colui che si accingeva a violentarla.

«Sì», disse Tommaso, mentre si calava le brache, «mi è sempre piaciuto cavalcare puledre di carattere.»

Wu pensò che, in fondo, la morte non era poi così terribile: l’importante era avere il coraggio di guardarla bene negli occhi. «Addio, piccolo Adil», si trovò a pensare l’uomo che stava per morire, sperando che il giovane si fosse messo in salvo.

Fu a quel punto che qualcosa lo sfiorò. Era un tocco leggero. La piccola mano si aggrappò con forza alla camicia del gigante e tentò di tirarlo verso la superficie. Wu si riscosse, aprì gli occhi. Nell’ultimo barlume di coscienza gli parve di distinguere i tratti di Adil. Mosse le gambe e si rese conto che il piccolo lo aveva liberato dai legacci. Pochi istanti più tardi il cinese riempì i polmoni d’aria, emettendo un interminabile sibilo, interrotto da forti colpi di tosse.

Tommaso doveva aver riservato quel genere di trattamento a molte altre donne prima di Rhoda. Non mostrava alcuna incertezza, anzi sembrava molto eccitato.

L’altro sgherro, un’espressione folle dipinta in volto, si preoccupava di tenere fermo il bacino della donna.

«Allora, vuoi parlare o no?» chiese un’ultima volta Campagnola, rivolto al giapponese.

Fu invece Rhoda a rispondergli: «Tu morirai, Campagnola. E morendo pagherai solo una piccola parte delle tue colpe. Io ti maledico».

Il veneziano fece un cenno con il capo e Tommaso inarcò la schiena per spingersi dentro di lei.

Il rumore sulle assi del pavimento era simile a quello della carica di un rinoceronte. La mole di Wu in effetti ricordava quella di un pachiderma inferocito, mentre rovinava addosso a Tommaso. L’uomo di Campagnola tentò di afferrare la spada, senza che Wu gliene concedesse il tempo. L’altro cercò di assalire il gigante che ancora grondava acqua dai capelli lunghi e dalle vesti. Wu non si accorse nemmeno che la lama gli aveva provocato una leggera ferita all’avambraccio. Afferrò la spada, tirando verso di sé l’avversario. Il pugno del cinese calò come un maglio sul volto del veneziano, e gli frantumò la maggior parte delle ossa facciali e del cranio, provocandone la morte.

«Presto, Wu, non dobbiamo lasciare fuggire Campagnola», disse Humarawa al cinese.

Era troppo tardi, però: Campagnola era saltato in groppa al suo cavallo e stava galoppando alla volta di Spalato.

La città alternava, alla sua reggenza, ungheresi e veneziani, e da circa un ventennio erano questi ultimi a tenerne le redini. Qui giunto avrebbe avuto modo di far valere il suo potere e chiedere aiuto per cercare i fuggitivi o per rientrare a Venezia e là riorganizzarsi.

Una cosa era certa, si ripromise il veneziano mentre con gli occhi iniettati di sangue galoppava lungo il sentiero che conduceva in città: Humarawa e i suoi non l’avrebbero fatta franca.

33

Maggio 2004

Ogni azione condotta dai servizi statunitensi pareva essere conforme a un protocollo creato allo scopo di ottimizzare ogni sforzo. Breil pensava a quanto fosse diverso il modo di operare dei servizi segreti israeliani. Tutto, sia nel Mossad che nello Shin Beth, era frutto del valore di pochi uomini, ed era soprattutto grazie alle loro intuizioni che erano stati risolti casi complicati e pericolosi non solo per Israele. Lì non era possibile tracciare e seguire schemi preordinati poiché si viveva in situazioni di costante emergenza: spesso l’improvvisazione era l’unico strumento in grado di salvare delle vite.

Il direttore dell’FBI, Conrad Deuville, era in piedi in fondo all’aula con le spalle alla lavagna. Di fronte a lui, seduti su seggiole munite di tavolino pieghevole, stavano Cassandra, Oswald Breil e quattro agenti. Si trattava delle uniche persone che, in quel momento, erano a conoscenza del fatto che alcuni pezzi grossi dell’FBI non avevano tralasciato le indagini sul Giusto e i suoi attentati.

A dire il vero le sollecitazioni ricevute dal presidente degli Stati Uniti d’America avevano autorizzato in maniera informale il proseguimento di un’indagine parallela; un’indagine che Cassandra e il suo superiore, del resto, non avevano mai abbandonato del tutto.

La proiezione delle diapositive e dei filmati riguardanti le imprese del Giusto durò una cinquantina di minuti e quasi altrettanti l’intervento del direttore dell’FBI. Quindi toccò a Cassandra Ziegler.

Oswald possedeva, a dir poco, la stessa esperienza di quelli che stavano tenendo la lezione, ma non sembrava per nulla a disagio, anzi mostrava un sincero interesse. «Ogni persona può esserti utile, ogni notizia può salvare vite, ogni confidenza deve essere ricordata e tirata fuori al momento opportuno»: questo motto, che aveva fatto suo dai tempi del primo arruolamento nei servizi, era risultato prezioso in più di un’occasione. Oswald ascoltava con attenzione e cercava di memorizzare le immagini che avrebbero potuto tornargli utili ai fini delle indagini.

«Agenti, voi non avete ancora avuto modo di incontrare il dottor Oswald Breil», disse Cassandra rivolta ai tre uomini e alla donna che si trovavano con loro. «Ma sono certa che le gesta del dottor Breil vi sono note. Sono lusingata che egli abbia accettato di aiutarci in questa indagine. Oswald, a lei la parola.»

Breil si alzò e si pose a lato della lavagna. «Ho osservato le immagini e ho ascoltato le relazioni dei dirigenti dell’FBI. Non nego che la prospettiva di un’immediata soluzione del caso sembra molto lontana. Detto in parole povere: brancoliamo nel buio. A quanto ho avuto modo di vedere, il Giusto in nome di Dio è un nemico esperto, attento ai particolari sino alla maniacalità, capace di far saltare in aria le tribune di un autodromo o un convoglio di navi con la stessa facilità con cui un fumatore si accende una sigaretta. Va anche detto che il carattere non ufficiale della nostra indagine limita, e di molto, i mezzi di cui altrimenti potremmo disporre. Non dobbiamo però pensare a questa ridotta potenzialità solo nel suo aspetto negativo. Non dimentichiamo inoltre che l’unico indirizzo a cui il Giusto è solito inviare i suoi messaggi pare essere quello di Cassandra Ziegler. Una piccola squadra bene addestrata, spesso, può rivelarsi più efficace di mastodontiche strutture composte da burocrati con l’aspetto di agenti speciali.»

Ci fu un istante di silenzio.

Oswald guardò i suoi interlocutori e continuò: «La mia parte in questa iniziativa è quella di un ospite e l’ospite può soltanto consigliare il padrone di casa, mai imporre la sua volontà. Credo si debba agire a tutto campo, senza scartare nessuna ipotesi, tenendo conto che la dimensione di ciascun attentato — in termini di numero delle vittime e conseguenze dirette — cresce in maniera esponenziale. Mi auguro che questa bramosia induca il Giusto a commettere un passo falso».

Sara Terracini guardò fuori dalla finestra del suo studio: Roma si stava svegliando in una calda mattina primaverile. Roma si stava svegliando, ma lei no. Quella notte non aveva chiuso occhio, seduta di fronte ai documenti che Breil le aveva consegnato.

«Breil… chissà in quale avventura hai deciso di cacciarti adesso…?» si chiese con una punta di nostalgia. Guardò l’orologio, fece rapidamente i calcoli di che ora fosse sulla East Coast e si accinse a scrivere il messaggio.

«Ho imparato», riprese Breil di fronte ai due dirigenti e agli agenti dell’FBI, «che spesso la Storia ci viene in aiuto nel risolvere problemi che a noi inquirenti appaiono senza soluzione. I modelli della Storia… provate a pensare. C’è forse stato qualche episodio analogo a quello del Giusto? Non pensate a un castigatore di innocenti di religione musulmana… pensate a un esperto di esplosivi imprendibile…»

Tutti rimasero in attesa di conoscere dalla voce di Breil la risposta al quesito.

«La sua carriera di bomber è durata circa diciotto anni, senza che nessuno riuscisse a prenderlo…» suggerì ancora Oswald.

«Bomber… bomber…» Il cervello di Cassandra stava macinando, sino a che la donna esclamò: «Unabomber!»

«Esatto, Cassandra. Ted Kaczynski, noto come Unabomber, terrorizzò l’America per poco meno di un ventennio a partire dal 25 maggio 1978…»

«Ricordo bene quella storia», intervenne il più anziano degli agenti. «Unabomber derivava da un acronimo delle parole University Airlines Bomber. Le università e le linee aeree parevano i bersagli preferiti dal terrorista… Mi sembra anche che firmasse le proprie malefatte…»

«Giusto, agente Few», riprese Breil, «da qualche parte, all’interno dei pacchetti esplosivi, incideva le iniziali F.C.; un altro punto in comune col Giusto, che appone il sigillo del Re dei Re. Valuteremo poi gli ulteriori punti in comune tra i due. Per adesso concentriamoci sulle dissonanze. Almeno su quelle più evidenti: il Giusto sembra essere più preciso ed esperto nel maneggio di esplosivi. Spesso gli ordigni confezionati da Unabomber erano artigianali: molte volte non esplodevano completamente e ciò accadeva a causa di palesi errori del terrorista. Una volta riempì una tanica innescata con troppa benzina, togliendole l’aria necessaria alla combustione. Il nostro terrorista ha possibilità di muoversi in ogni direzione. Unabomber ha colpito soltanto in America, in un primo periodo nella sola zona di Chicago.»

«Ricordo che Unabomber osservava, come il nostro, lunghi periodi di silenzio…»

«Esattamente, Few. Nel giugno del 1980 Percy Wood, allora presidente della United Airlines, ricevette un libro — Ice Brothers, era il titolo — che gli esplose tra le mani, mentre stava aprendo il pacco. Wood sopravvisse, ma subì gravissime ferite. Dopo quell’attentato Unabomber rimase in letargo per sedici mesi. I suoi misfatti avevano in comune la firma F.C. e un ulteriore marchio distintivo: la presenza di legno — o della parola ‘legno’ — nella scelta dei materiali da usare o dei soggetti da colpire. Nel caso di Percy Wood il legno ricorreva quattro volte: il libro esplosivo era indirizzato al signor Wood, conteneva frammenti di legno che avevano la funzione di shrapnel, il testo era pubblicato dalla Arbor che, a sua volta, possiede un albero come logo. In quel periodo le tre agenzie che si stavano occupando del caso — polizia postale, ATF (Agency of Alcohol, Tobacco and Fireworks) ed FBI, senza contare gli innumerevoli collaboratori privati o uffici di sicurezza di compagnie aeree — avevano dinanzi a loro una lista di settantamila sospettabili. Un po’ quello che ora sta succedendo a noi: il numero di papabili di allora corrisponde a quello di adesso, sempre se limitiamo le nostre indagini ai soli candidati statunitensi. Ma cambiamo brevemente discorso.» Un sorriso si palesò sul volto di quello che, visto da lontano, poteva apparire come un bambino interrogato alla lavagna, quindi Oswald riprese nel silenzio generale. «A proposito di consulenti… nel corso delle indagini dell’attentato a Oklahoma City sapete chi hanno interpellato gli inquirenti per risolvere il caso?»

«Ted Kaczynski!» esclamò la Ziegler, intuendo dove Breil voleva andare a parare.

«Esatto, Cassandra, e pare che le informazioni rilasciate ai servizi segreti da Unabomber si siano rivelate molto utili per catturare l’autore della strage, Timothy McVeigh.»

«Cerchiamo di sapere in quale delle patrie galere si trovi Kaczynski e otteniamo un colloquio. Vuole parlarci lei direttamente o preferisce che sia uno di noi a interrogarlo, dottor Breil?»

«Credo sia meglio, soprattutto per motivi di riservatezza, che inizialmente il signor Kaczynski riceva una mia visita. Vedrò di capire se ha voglia di raccontarci che cosa si prova quando si sta dall’altra parte della barricata. Qualora la mia ambasciata fallisca, potrei sempre dire che è stata una mia iniziativa personale, senza tirare in ballo voi e l’FBI. Mi sembra che dalle vostre parti siano abbastanza severi quando si verificano ingerenze negli affari e nei servizi altrui. Un’altra cosa», disse ancora Breil prima che la riunione volgesse al termine. «Se dobbiamo lavorare assieme, vi chiedo di abbandonare inutili formalismi: credo che un semplice Oswald sia meno impegnativo e più diretto. Niente dottor Breil, dunque.»

Mentre uscivano dalla stanza, tutti i partecipanti alla riunione avevano maturato la convinzione che Oswald Breil fosse la persona più adatta a dichiarare guerra al pericoloso terrorista.

‹COME PREFERISCI LEGGERE IL ROMANZO DELLA TUA FAMIGLIA? A PUNTATE O IN UNICA SOLUZIONE?› Questo era il testo del messaggio inviato di primo mattino da Sara Terracini.

Quando il sole stava per toccare lo zenith sulla capitale, uno scampanellio la avvertì che era arrivata la risposta.

Come sempre le accadeva quando c’era nell’aria un contatto con il piccolo uomo, si sentì pervadere da un’eccitazione quasi infantile. Non era questa che le dava fastidio, ma piuttosto la sensazione di non riuscire a controllare i suoi stati d’animo ogni volta che la vita di Oswald Breil si incrociava con la sua.

«Sara Terracini, la donna tutta studi e archeologia, non riesce a fare a meno di scodinzolare felice quando in giro c’è Breil», si disse scuotendo la testa, prima di aprire la casella di posta e leggere il messaggio che Oswald le aveva mandato.

‹A CHE PUNTO SEI ARRIVATA? NON SONO MAI STATO COSÌ IMPAZIENTE. D’ALTRONDE SI TRATTA DELLA MIA FAMIGLIA. APPENA HAI QUALCHE COSA ME LA MANDI?? DALLE TUE PARTI DOVREBBE ESSERE CIRCA MEZZOGIORNO, CHIAMAMI SE HAI TEMPO, GRAZIE.›

«Va bene, Oswald, va bene… Ti chiamerò durante l’orario di pranzo, così non potrai rimproverarmi per aver sottratto tempo al mio lavoro. Tanto tu non dormi mai… Agli ordini, capo…» Sara mimò un saluto militare, quindi scosse la testa… «Se non ci fossi tu, Breil… se non ci fossi tu… mi sentirei davvero sola.»

Lo sguardo della donna si fece malinconico, mentre il volto di Henry Vittard le riaffiorava alla mente. La sua storia con il celebre navigatore oceanico era durata pochi mesi: intensi, carichi di passione e d’amore. Poi tutto era finito. Si erano progressivamente allontanati l’uno dall’altra senza che nessuno dei due facesse niente per impedirlo, come se tra loro non ci fosse stato altro che indifferenza. Ma Sara sapeva che non era così e che Henry avrebbe occupato per sempre una parte del suo cuore, così come lei sarebbe rimasta per lui qualcosa di più di una piacevole parentesi sentimentale.

Mentre i pensieri si perdevano nei ricordi, le mani della donna si muovevano rapide sulla tastiera del computer.

«Sì, sì, criptato, accidenti!» Sara si riscosse e si dedicò a un dialogo con il computer che le chiedeva se avesse dovuto procedere a rendere intellegibile il messaggio al solo destinatario.

«Breil mi ha chiesto di crittografare memorie di antichi romani o pittori settecenteschi», continuò Sara, intenta a scambiare due chiacchiere con un monitor. «Figuriamoci con la storia che riguarda i suoi genitori! Comunque ho capito da chi ha preso il vizio degli alfabeti segreti: da suo padre, Asher. Buon sangue non mente! Inizia pure da qui, mio caro Oswald.»

Le dita di Sara impartirono i comandi per allegare il primo tra i file che avrebbe spedito a Oswald. Nemmeno lei conosceva il finale di quella storia che stava mettendo in chiaro per Oswald. «Mettere in chiaro» significava rendere in prosa moderna e leggibile quanto custodito da un antico alfabeto o da un linguaggio segreto. La traduzione ottenuta doveva essere la più letterale possibile, come le raccomandava spesso Oswald, senza perdersi in errori di interpretazione, voli pindarici o teorie fuorvianti. Ciò che lei avrebbe scritto, sempre nella logica di Breil, doveva aiutare a «capire».

Ma per fare ciò avrebbe dovuto compiere uno sforzo: avrebbe trasformato quegli appunti in un racconto compiuto, cercando di non perdere la sua obiettività.

«Meglio di così…» si disse Sara premendo sul tasto di invio.

Da ora in poi la ricercatrice si sarebbe trasformata nel narratore di una cronaca affascinante come un romanzo.

34

Dagli appuntì raccolti da Asher Breil

a Cortina d’Ampezzo, 1967

«Le dispiace se prendo appunti, generale?» chiese Asher Breil prendendo un quaderno e una matita.

«Niente affatto, anche perché credo che alcune delle cose che le racconterò saranno talmente intricate che non sarà male se lei aiuterà questa mia testa ormai stanca a fare un po’ d’ordine.»

«Vorrei arrivare io alla sua età e possedere la sua lucidità.» L’affermazione di Asher non era dettata dall’adulazione: Sciarra della Volta era un anziano signore dalla distinzione innata, con la pelle increspata dagli anni come la superficie di un mare agitato. Nonostante l’età il suo sguardo bonario era vivo e intelligente. Vestiva in maniera sobria ed elegante e gli abiti sportivi che preferiva gli conferivano un aspetto più giovanile. Aveva modi garbati e cordiali che mettevano a proprio agio le persone con cui si trovava. Sciarra della Volta apparteneva alla classe 1888…

«Grazie Kimber», disse Sciarra, appena la moglie ebbe posato il vassoio con le tazzine di caffè. Lo sguardo dell’anziano generale parve accarezzare il volto della moglie come una mano invisibile carica di affetto.

Asher pensava a quanto forte doveva essere il legame che li univa se anche lui, un estraneo, lo percepiva tanto nitidamente.

«Come le dicevo, tutto è cominciato il giorno in cui ho incontrato per la seconda volta la donna che sarebbe poi diventata mia moglie… Anche se, in realtà, l’inizio risale al momento in cui Minhea Petru venne distaccato presso la mia compagnia di alpini sul fronte dolomitico. Ma i fatti hanno assunto una piega diversa quando io sono giunto a Port Said, in Egitto, nel luglio del 1917…»

A Sciarra capitava spesso di confondere le gocce di sudore che gli rigavano il collo con il tocco di uno dei tanti insetti che si aggiravano attorno alla sua divisa estiva da colonnello del Regio esercito italiano.

Si volse a guardare il piroscafo Città di Tripoli che prendeva nuovamente il mare, con un senso di gratitudine per averlo condotto a destinazione. Anche se sapeva bene che passare dalle fresche brezze delle Dolomiti a quel deserto di fuoco sarebbe stato come arrivare nelle profondità degli inferi dopo una passeggiata al polo nord.

«Comandi, signor colonnello. Ditemi dove trovo il vostro bagaglio.» Il colore della pelle del giovane nulla aveva da invidiare a quello dei tanti indigeni che si aggiravano nei pressi del porto. Era solo la divisa da fante italiano che ne provava le origini.

Dietro le spalle del soldato che gli si era appena rivolto in una lingua molto più vicina al dialetto siciliano che all’italiano, Sciarra vide un’auto scoperta di colore verde militare. Il colonnello pensò che la testardaggine dei muli sarebbe diventata presto un lontano ricordo e che l’accoglienza che l’Egitto gli aveva riservato non gli dispiaceva affatto. Era dall’inizio della guerra che non metteva piede su un’auto e quella Ford T Touring gli apparve come un miraggio.

«No, signore, non è quello il nostro mezzo, ma questo. Scusatemi, signore, ho dimenticato di presentarmi… soldato scelto Rocco Cadrici, vostro attendente in terra d’Egitto», disse il giovane, indicando nel contempo un carro militare trainato da due cavalli che sembravano sfiancati dal caldo.

Sciarra sorrise e si lasciò andare a una colorita espressione in siciliano, una delle poche parole che conosceva nella lingua dei suoi nonni.

«Quella è la macchina degli inglesi. Si dice che un ufficiale molto ricco di stanza a Port Said l’abbia regalata ai suoi colleghi al momento del congedo per invalidità: una granata turca gli aveva amputato entrambe le gambe.»

Mentre Sciarra aiutava il giovane a caricare i propri effetti sulla ribalta del carro, la sua attenzione fu catturata dalla donna che saliva sulla Ford: era vestita in maniera elegante ma senza fronzoli. Da quella distanza si sarebbe detta molto avvenente, anche se il volto era rimasto celato alla vista di Sciarra.

L’auto partì accompagnata da un borbottio sommesso, seguita dallo sguardo del colonnello italiano il quale non si spiegava il motivo dello strano senso di familiarità che la donna aveva suscitato in lui. Un sergente in uniforme impeccabile era al posto di guida e fungeva da chauffeur.

Lo chauffeur di Sciarra schioccò, invece, la lingua e incitò i due cavalli scuotendo le briglie. «L’Egitto, signore, è una terra meravigliosa… c’è tutto quello che si può desiderare: storia, cultura, intrighi… e le picciotte… signore… le picciotte…» Rocco baciò la punta delle sue dita unite. «Vedrete, signore, avrete modo anche voi di amare questa terra. Il battello per il Cairo è in partenza tra poche ore, signore, dobbiamo affrettarci se non vogliamo restare a piedi.»

Erano trascorsi ormai tre giorni da quando Sciarra aveva raggiunto il Cairo, dopo un viaggio di tutto riposo lungo le acque calme del Grande Fiume. I colori del Nilo erano quanto di più incredibile la natura riuscisse a offrire: i rossi dei tramonti, i contrasti tra la rigogliosa vegetazione delle rive e il deserto subito dietro, le carovane di nomadi che ne seguivano il corso con i loro cammelli.

L’invito per la serata era ufficiale e molto formale. Rocco entrò nella stanza con l’uniforme da cerimonia del colonnello appena stirata e appesa a una gruccia. «Ecco, signor colonnello, sono convinto che farete una gran bella figura questa sera con gli inglesi.»

«Grazie, Rocco.» Nell’osservare il proprio attendente, Sciarra si chiese come un giovane così mascolino potesse adattarsi a svolgere lavori che erano tipici delle donne, come stirare una divisa, fare il bucato o tenere pulito l’alloggio del proprio superiore. In un attimo gli tornarono alla mente le urla dei suoi uomini che, abbandonata la trincea, si lanciavano all’assalto.

Gli parve di sentire ancora una volta il brivido che correva lungo la spina dorsale quando l’urlo: «Gas!» si diffondeva di bocca in bocca nelle gallerie. Vide le smorfie di dolore dipinte sul volto degli alpini feriti o l’espressione di terrore che spesso restava impressa negli occhi di chi moriva. Poi, il suo sguardo si posò nuovamente sul sorriso sfrontato di Rocco che gli porgeva l’alta uniforme.

«Ha ragione lui. Rocco è molto più furbo di quelli che imbracciano un moschetto e gridano nel corso della carica per farsi coraggio», si disse il colonnello. «In questo modo è riuscito a evitare di essere bollato come imboscato e non corre il rischio di beccarsi una pallottola in fronte. Il rovescio della medaglia è che deve compiere un lavoro poco eroico come quello di accudire un ufficiale. Ma in fondo non riesco a biasimarlo per la sua scelta.»

La sala era affollata da tutte le più alte personalità militari di stanza al Cairo.

«Permettetemi di presentarvi il comandante delle nostre forze in Medio Oriente, colonnello Sciarra», disse il colonnello Wilson, rappresentante inglese presso lo Stato arabo, rivolgendosi quindi all’altro ufficiale. «Generale Allenby, vi presento il colonnello Sciarra della Volta, dell’Esercito italiano.»

Mentre l’italiano assumeva la posizione di attenti, l’altro gli tese la mano con fare amichevole. «Mi auguro che voi capiate la mia lingua, io non conosco che poche parole della vostra.»

Avuta l’assicurazione che il suo interlocutore si esprimeva in un ottimo inglese, Edmund Allenby continuò: «Vi stavamo aspettando, colonnello e vi do il mio sincero benvenuto. Credo sia opportuno che voi mi concediate una vostra visita… diciamo domani nel pomeriggio… vi lascio un po’ di tempo per ambientarvi». Così dicendo il generale si volse, non certo per poco rispetto verso il suo sottoposto italiano, ma per la galanteria di cui Allenby era maestro: un’elegante signora si stava dirigendo verso di loro.

La donna liquidò con un sorriso distratto le attenzioni del generale e si pose davanti al colonnello Sciarra. «Alberto… Alberto… quanta felicità… Come stai? Lasciati guardare…»

«Kimber… Kimberly, la mia salvatrice quando ho giocato a fare l’aviatore…»

Rimasero attoniti a guardarsi negli occhi per un istante, poi fu la donna a cingerlo in un abbraccio pieno d’affetto e di sincera gioia.

«Ehm, colonnelli… vedo che il saluto tra parigrado ha un’etichetta del tutto particolare tra gli ufficiali italiani e quelli della Corona britannica. È chiaro che voi conoscete già il colonnello Kimberly Hadwin della Croce Rossa e capisco che avrete un sacco di cose da raccontarvi. Di certo voi sarete uno degli ospiti più invidiati della serata, colonnello Sciarra… a domani. Buona serata anche a voi, colonnello Hadwin.»

Il generale inglese aveva ragione: erano troppe le cose che avevano da dirsi e la voglia che avevano entrambi di raccontarsele. Ed entro breve tempo Alberto sarebbe dovuto partire per una nuova e pericolosa missione. Questo pensiero parve prendere corpo nella mente di Kimberly all’improvviso.

Il vento accarezzava le palme e portava una piacevole frescura nel giardino interno del lussuoso palazzo del residente di sua maestà britannica al Cairo. I due colonnelli erano uno di fronte all’altra in un angolo isolato del parco. Ciò che si svolgeva tra i due non era un duello, ma i loro occhi saettavano come le lame di cento spade.

Sciarra si chinò verso di lei. Kimberly non fece nulla per respingerlo. La sua bocca si schiuse, sotto la pressione di quella dell’italiano. In quel bacio percepirono la forza di un desiderio che già una volta avevano represso.

«Ho atteso questo momento per giorni e giorni. Non sai quanto abbia rimpianto…» disse Alberto tenendola stretta, mentre lei gli poneva l’indice sulle labbra, facendogli cenno di fare silenzio.

«Non credo sia possibile dire quanto tu mi sia mancato. Non c’è stato un giorno in cui tu non mi sia tornato alla mente.»

Quella volta non avrebbero avuto rimorsi per un’occasione perduta.

35

Mare Adriatico, 1348

«Devi essere fiero di lui, Humarawa», disse il cinese indicando Adil. «Non fosse stato per il nostro piccolo amico sarei diventato cibo per i pesci.»

«Hai ragione. E io devo la vita, oltre che al tuo coraggio, alla nostra nuova amica: senza le cure di Rhoda non sarei qui a parlare con te», disse Humarawa indicando la nuova donna che, ripulita e abbandonati i cenci luridi, pareva non aver più nulla in comune con la strega che avevano conosciuto.

«Sia pace per Crespi. Abbiamo affrontato insieme insidie e nemici, ed è stato per noi un compagno leale e coraggioso: conserverò sempre il ricordo della sua amicizia», aggiunse Humarawa guardando il mare calmo.

«Già, pace a Crespi», gli fece eco Wu, e subito aggiunse, quasi per allentare la cappa di tristezza che era calata su di loro: «Questa sì che è una barca, mio signore, non quel guscio con cui siamo scappati da Venezia».

La cocca, un tempo parte della flotta personale di Campagnola, navigava placida verso sud: dovevano mettere quanta più strada possibile tra loro e il veneziano. Conoscevano ormai troppo bene la sua malvagità e il suo accanimento.

Il doge annuiva con aria stanca e distratta, mentre Campagnola terminava di formulare la sua richiesta: «A suo tempo ho armato a mie spese una piccola flotta per catturare il pirata Muqatil e liberare il Mediterraneo dalla sua presenza. Adesso, ti chiedo, doge di Venezia, di aiutarmi a sconfiggere quella che potrebbe diventare una nuova minaccia per la nostra città. I due orientali, un tempo al soldo dei veneziani, che hanno contribuito alla sconfitta del Muqatil, ora si sono rivoltati contro le istituzioni e costituiscono un grave pericolo: dobbiamo intervenire subito. Sono qui per chiederti di armare una galea e di assegnarmi degli uomini per dare la caccia ai nemici. La pestilenza ha quasi prosciugato le mie casse e non posso più affrontare da solo una simile impresa».

«Mi rendo conto che c’è del vero nelle tue affermazioni, nobile Campagnola. Ma è anche vero che per te liberarti del Muqatil era una questione personale. Non era forse tua figlia quella che ha dato un erede al pirata?»

«È così, signore, e anche di figli vorrei parlarvi. Figli del Demonio: sono convinto che i due orientali conducano con loro un giovinetto dagli occhi malefici, un giovane arabo che chiamano Adil: da quando è comparso a Venezia pare che il Cielo si sia accanito contro la città. Non avevamo ancora finito di sotterrare i morti del terremoto che ci siamo trovati a dover fronteggiare la peste.»

Andrea Dandolo, cinquantaquattresimo doge di Venezia, pur essendo uomo di lettere e di grande cultura era sensibile alla superstizione e temeva le forze oscure del Maligno.

«Non credo che le tue casse siano molto più asciutte di quelle di noi tutti in città: il morbo ci ha messo in ginocchio, quindi ciò che posso fare è contribuire alle spese di armamento di una caracca e dare la caccia a questi orientali e a colui che tu dici essere il figlio di Satana.»

Con queste parole e con un gesto della mano, il doge pose fine all’udienza privata che Campagnola aveva ottenuto.

Data l’inattività commerciale dovuta al divampare della pestilenza, pochi se non nulli erano i traffici svolti in quel periodo dalla marineria veneziana.

L’imbarcazione fu disponibile in pochi giorni, con tanto di equipaggio bramoso di allontanarsi dalla città lagunare e dall’epidemia.

«Anche se mi dovrò accontentare di questa bagnarola, non mi sfuggiranno», disse Campagnola non appena la caracca, una nave alta di bordo e tozza, ben diversa dalla galea richiesta, prese a solcare il mare calmo. «Ovunque vadano devono sapere che io ho orecchie e occhi pronti a seguire ogni loro mossa. Non avrò pace sino a che non avrò raggiunto il mio scopo. Ma non sarà facile con la ciurma di cui dispongo.»

Le caracche erano navi dotate di due alberi, uno a vela quadra e il trinchetto a vela latina. Erano in grado di navigare in mare aperto. Note per la loro resistenza e per le loro capacità di carico, non brillavano per la velocità e non erano attrezzate per il combattimento.

Campagnola, in piedi sul castello di poppa, osservò l’equipaggio, composto da una trentina di uomini in tutto. Si trattava di semplici marinai, abituati a caricare le stive a forza di braccia, ma quasi completamente inesperti nell’uso di armi. Il veneziano conosceva il valore dei suoi avversari: in due avevano appena annientato dieci dei suoi migliori uomini.

«Non possiamo contare molto sul nostro vantaggio, se Campagnola dovesse essersi messo di nuovo al nostro inseguimento: la cocca è lenta e due uomini, una donna e un ragazzo non costituiscono certo l’equipaggio ideale per governarla come si dovrebbe», disse Humarawa rivolto ai suoi compagni di viaggio. «Se il veneziano è sulle nostre tracce dobbiamo raggiungere una terra sicura prima che ci sia addosso. Già, ma quali terre possono considerarsi zone franche di fronte alle ire di un potente veneziano?»

«L’Ungheria!» esclamò Rhoda dando voce al suo pensiero. «I viandanti che avevano il coraggio di fermarsi nella casa della strega erano spesso portatori di notizie e confidenze. Da uno di loro ho appreso che il re d’Ungheria, Luigi I, è un nemico giurato della Repubblica veneziana. Soltanto due anni or sono è stata soffocata nel sangue la rivolta della città di Zara: uno dei tanti moti di popolo che gli ungheresi avevano fomentato ai danni di Venezia. Forse la mano di Campagnola non oserà raggiungere quelle terre.»

«Hai ragione, Rhoda: dirigere verso Costantinopoli sarebbe una mossa troppo prevedibile. Senza tenere conto che, nell’attesa che si formi un convoglio per l’Oriente, potremmo aspettare giorni, forse mesi nella città: e un quartetto come il nostro non passerebbe inosservato. Se ci staranno ancora inseguendo, una volta giunti anche loro a Costantinopoli li avremmo addosso in poche ore. Il nostro piano sarà quello di sviarli e di far loro credere che la nostra rotta sia Costantinopoli: dovremo lasciare delle false tracce nei porti del Peloponneso mentre, una volta giunti a Tessalonica, abbandoneremo la cocca e continueremo il nostro viaggio per l’Ungheria via terra.»

«Se fossi al loro posto… se fossi al loro posto… non metterei piede in nessuno degli Stati amici di Venezia.» Campagnola seguiva a voce alta il filo dei suoi pensieri. «Humarawa conosce bene la rete di informatori su cui posso contare e non è uno sprovveduto. La logica imporrebbe che Humarawa e il suo servo si dirigessero a Oriente, facendo tappa a Costantinopoli: sanno bene che, nel mondo occidentale, due guerrieri dagli occhi a mandorla e un ragazzino sarebbero presto braccati. Ma devo stare all’erta: ho la netta sensazione che non seguiranno la rotta che potrebbe sembrare la più prevedibile.»

La taverna di Zacinto odorava di birra e del fumo acre del camino. Wu sedette su una delle panche e ordinò da bere. La sua aria poco raccomandabile era stranamente capace di attirarsi le simpatie della gente.

Zacinto era un possedimento della famiglia dei Tocco, molto vicina a Venezia. Per questo c’era chi diceva che presto l’intera isola sarebbe stata ceduta alla repubblica marinara e che da tempo erano in corso delle trattative.

«Dove siete diretti?» chiese con fare amichevole un marinaio seduto poco distante.

«A Costantinopoli, da lì proseguiremo il nostro viaggio verso Oriente», rispose Wu senza esitazione.

All’alba del giorno seguente la cocca aveva abbandonato la rada di Zacinto.

«Questi denari per bere alla mia salute!» disse il Campagnola rivolto alla ciurma. «E ricordate, i marinai trasportano le notizie, e le taverne frequentate da uomini di mare sono dei magazzini di informazioni.»

Soltanto poche ore più tardi, Campagnola compensava il marinaio che aveva raccolto la confidenza.

«Dunque… hai detto che il tuo informatore è partito l’altro ieri da Zacinto e che la cocca aveva lasciato il porto all’alba del giorno prima», disse il veneziano. «Significa che hanno soltanto tre giorni di vantaggio su di noi. Non appena doppieremo il Peloponneso dobbiamo abbandonare la rotta per Costantinopoli e dirigere verso la terraferma. Sembra che stiano marcando il territorio come una volpe che vuol tenere i predatori lontano dai piccoli.»

Un’isola era apparsa all’orizzonte: la sua sagoma indicava che si trattava di un cono vulcanico che solo da un lato digradava verso una piccola zona pianeggiante e sabbiosa. Lo sguardo di Humarawa era fisso su quella.

«Vedi, Adil, quanto è strana la vita: su quell’isola ho combattuto contro tuo padre e la sua gente; oggi sto fuggendo, assieme a te, da quello stesso padrone che mi aveva armato contro il tuo popolo.»

Gli occhi blu di Adil si persero all’orizzonte. «Conosco la storia, me ne ha parlato mia madre. E so anche che, se non fosse stato per avvertire mio padre del tuo attacco, mia madre non sarebbe tornata indietro e il loro amore non sarebbe forse mai nato…»

«Ora basta con questi atteggiamenti da… ehm… ragazza…» Humarawa sorrise. «Prendi la spada e facciamo un po’ d’esercizio.»

«Quali esercizi?» intervenne Rhoda stringendo il manico di una pentola fumante avvolto in uno straccio. «Ho faticato parecchio per tenere sul fuoco la pentola con questo rollio e ho sempre paura che qualche scheggia della brace provochi un incendio. Ora a tavola, si mangia!»

Stavano seguendo ancora la rotta per Costantinopoli: l’ultima tappa sarebbe stata l’isola di Chios, quindi avrebbero cambiato direzione e puntato verso Tessalonica, con la speranza di ingannare Campagnola. Humarawa sapeva che, così facendo, avrebbero perso almeno un paio di giorni, ma era un rischio che doveva correre se voleva portare tutti in salvo.

L’uomo camminava lentamente lungo la spiaggia dell’isola. Sul corpo possente del guerriero erano evidenti i segni di una non lontana sofferenza. Si fermò a guardare la nave che passava al largo. Non gli ci volle molto per riconoscere una cocca veneziana anche da quella distanza. L’uomo continuò a camminare. Sopra di lui incombeva l’enorme cratere spento da secoli. Il tempo aveva cancellato i segni della battaglia, ma negli occhi color del mare dell’uomo non si erano spenti i ricordi. Il grido amico del falco ammaestrato gli risuonava ancora nelle orecchie. Aveva fatto bene a lasciare ciò che gli era rimasto di più caro nelle mani del suo peggior nemico? Adesso temeva di aver commesso un errore irreparabile. Doveva abbandonare l’isola e mettersi sulle tracce del suo unico bene. Era stato un pirata, sapeva come raggiungere il ponte di una nave in navigazione per impadronirsi di vestiti, denari e di ogni cosa necessaria per ritornare nel mondo civile. Però era solo e non avrebbe certo potuto arrembare una galea o una nave da guerra. Il caso gli era venuto incontro: l’equipaggio della cocca poteva essere di cinque o sei membri e non era detto che tutti fossero abili nel maneggiar la spada. L’uomo si sentiva in grado di poterli combattere sfruttando la sorpresa e la sua scaltrezza. Spinse in mare il veloce badan e si mise all’inseguimento della piccola nave.

La notte era scesa velocemente e si era alzato un vento forte e pericoloso. L’uomo aveva perso di vista la preda, quando il mare aveva incominciato a montare: quella non sarebbe stata la notte ideale per tentare l’arrembaggio. Il mattino seguente scrutò l’orizzonte in ogni direzione: della cocca non c’era più traccia. Quando la rivide era trascorsa un’altra notte, l’isola di Chios era ormai in vista e la barca stava dirigendo in porto. L’uomo pose il badan al vento: un’occasione così ghiotta non andava sprecata. Sarebbe rimasto nei pressi del porto sino al mattino seguente per vedere se la nave fosse nuovamente salpata.

Wu aveva scorto la vela all’orizzonte. Doveva trattarsi di una imbarcazione piccola, destinata al trasporto di merci tra le isole dell’Egeo. Quasi certamente era diretta verso il porto di Chios, dove tra breve il cinese sarebbe sbarcato per recitare la solita parte. Per fortuna sarebbe stata la sua ultima rappresentazione. Del resto quello era l’unico sistema per tentare di confondere le loro tracce: Campagnola era un segugio pericoloso e Humarawa lo sapeva bene.

Erano le prime luci dell’alba, quando l’uomo vide la cocca che doppiava il molo del porto di Chios e si dirigeva con andatura lenta verso i Dardanelli e Costantinopoli. Decise che avrebbe aspettato la notte prima di agire.

A sera accadde però una cosa inspiegabile: là barca cambiò improvvisamente rotta, virò di quasi centottanta gradi e prese a navigare verso settentrione.

«Speriamo che, se Campagnola è sulle nostre tracce, cada nel tranello. In pochi giorni, con questo vento dovremmo giungere a Tessalonica. E se siamo fortunati, tra una settimana potremmo essere in Ungheria, al riparo dagli artigli del veneziano», disse Humarawa timonando verso la nuova destinazione.

L’uomo sul badan mantenne invece la rotta. Avrebbe virato dopo il tramonto per non allarmare le sue prede: la sorpresa era la freccia più potente del suo arco.

E la notte giunse, con una falce di luna che non sarebbe bastata a illuminare il mare scuro, battuto da un vento teso e costante.

L’uomo lasciò che le vele si gonfiassero e che il badan cominciasse a navigare sfruttando al massimo le sue doti di velocità.

La lanterna di poppa era adesso visibile. Gli occupanti della cocca sembrava non avessero il minimo sospetto del pericolo.

Rhoda stringeva la barra del timone: aveva imparato in fretta a riconoscere il comportamento della nave e le sue reazioni al vento. Ogni tanto controllava che la stella che doveva seguire per mantenere la rotta notturna fosse sempre nella stessa posizione.

Gli uomini avrebbero voluto che lei non si alternasse a loro durante i turni di notte, ma Rhoda si era imposta: le sole persone in grado di timonare erano i tre adulti. Alla fine anche i due orientali avevano ceduto e avevano suddiviso in parti uguali i tempi delle guardie.

Wu era rimasto con lei sino a poco prima: tra la donna e il gigante stava nascendo un sentimento nuovo, ben più profondo di una semplice amicizia.

L’uomo teneva la scotta nella mano destra, navigando sicuro nella notte, mantenendosi nella scia della cocca. Si preparò all’arrembaggio: avrebbe assicurato i rampini alla battagliola, quindi si sarebbe issato a bordo, sperando che, con il favore delle tenebre, nessuno si fosse accorto di lui.

L’ombra sfiorò quasi il badan, passandolo sopravento. Nessuno a bordo della nave apparsa dal nulla si era accorto della piccola imbarcazione araba.

Passato il primo momento di sorpresa, l’uomo pose l’agile badan sulla scia di quella nuova nave sbucata dal buio della notte e lanciata anch’essa all’inseguimento della cocca.

Angelo Campagnola era a prua con i piedi ben piantati sul ponte. Gli occhi, persi nel buio della notte, sembravano voler ghermire quell’unica luce davanti a lui che brillava nel nero quasi assoluto.

Wu le aveva raccomandato di controllare spesso che la vela fosse sempre gonfia di vento. Rhoda aveva imparato presto ad assecondare con piccoli colpi di timone la direzione del vento, in modo che la vela ne catturasse ogni refolo. I due uomini e il ragazzo erano stesi sul ponte e stavano dormendo. L’urlo uscì dalla bocca della donna quando ormai era troppo tardi. L’ombra minacciosa di una grossa nave sovrastò il parapetto. Gli uomini di Campagnola saltarono a bordo ancor prima che le due imbarcazioni venissero a contatto. Quando i due orientali si svegliarono di soprassalto avevano già le lame delle spade degli assalitori puntate alla gola. Ogni tentativo di reazione sarebbe stato inutile.

La voce di Campagnola si levò minacciosa. «Sono indeciso se portarvi a Venezia e farvi giustiziare con tutti gli onori», le torce che gli assalitori avevano acceso conferivano un aspetto ancor più inquietante al nobile veneziano, «oppure… oppure potrei staccare le vostre teste qui in mezzo al mare… Credo che sia più conveniente per il mio onore, dinanzi alla città e al doge, che voi veniate impiccati in piazza San Marco, anche se non so se la città approverà la condanna a morte di un adolescente.»

Così dicendo lo sguardo di Campagnola si posò su Adil: «Avrò modo di occuparmi di te, figlio del Demonio. Molte miglia di mare ci separano da Venezia… e in mare possono sempre succedere delle disgrazie…»

L’uomo aveva seguito ogni fase dell’arrembaggio ed era trasalito quando, alla luce delle torce, gli era parso di distinguere sul ponte della cocca figure a lui familiari.

Udì distintamente gli ordini che Campagnola stava impartendo ai suoi uomini: «Cinque di voi resteranno su questa nave e la ricondurranno a Venezia. Trasbordate i prigionieri e, se qualcuno di loro cerca di ribellarsi, uccidetelo».

Anche se a bordo della caracca ci sarebbero stati cinque difensori in meno, l’impresa di salvare i due uomini, il fanciullo e la donna era, a questo punto, ai limiti dell’impossibile. Ma la vita aveva temprato quell’uomo come la più resistente delle lame e sembrava che i confini tra il possibile e l’impossibile non lo riguardassero per niente.

La caracca su cui erano imbarcati Campagnola e i suoi prigionieri avanzava nella notte. Il badan la seguiva a poca distanza, nascosto dall’oscurità.

36

Giugno 2004

Theodore Kaczynski era nato a Chicago nel maggio del 1942.

Trentasei anni più tardi, nel 1978, Unabomber avrebbe compiuto il suo primo attentato ai danni di un professore universitario — Buckley Crist il suo nome — della Northwestern University di Evanston, Illinois. Quella prima azione — un pacco ritornato al mittente contenente esplosivo a basso potenziale, che però il mittente non aveva mai spedito — aveva procurato soltanto lievi ferite a un poliziotto del campus universitario. Crist, infatti, insospettito, aveva allertato la sicurezza. Il vigilante, Terry Marker, aveva persino scherzato, ipotizzando che si trattasse di una bomba. Il pacco era esploso non appena Terry lo aveva aperto.

L’episodio aveva rappresentato l’inizio di un crescendo terroristico durato quasi diciotto anni, nel corso dei quali un uomo apparentemente insignificante come Kaczynski avrebbe seminato terrore e morte sull’intero territorio nordamericano.

«Vedo che si dedica alla lettura, professor Kaczynski», disse Breil osservando i libri che Unabomber aveva sottobraccio.

L’appellativo di «professore» era quello con cui in molti gli si rivolgevano, memori del passato di Kaczynski come insegnante alla Berkeley University.

«Che cosa vuole che faccia, dottor Breil, qui dentro o si legge o si muore», rispose indicando la sedia dalla parte opposta del tavolo e facendo educatamente cenno a Oswald di sedersi, mentre nei suoi occhi scuri e spiritati brillava una luce inquietante.

Ted Kaczynski indossava la tuta arancione dei prigionieri. Si era rasato da poco, forse in segno di rispetto nei confronti dell’interlocutore che ora conferiva con lui all’interno del parlatorio del carcere di massima sicurezza Supermax, in Colorado.

Le guance erano scavate e i capelli, grigi e scompigliati, ricordavano la rosa di un fuoco d’artificio. Aveva modi gentili, ma una vena di follia si percepiva nell’espressione degli occhi scuri, uno dei quali era affetto da un leggero strabismo.

«Ho letto molto su di lei, dottor Breil e sono davvero onorato che una persona della sua importanza si sia scomodata per venire sino a questo posto dimenticato da Dio. Una sigaretta?»

«No, grazie, professor Kaczynski. Non fumo. Anche io ho letto molto su di lei prima di venire a trovarla… La Rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state disastrose per la razza umana…» disse Oswald, citando a memoria un brano tratto da un documento noto come «il Manifesto di Unabomber».

L’attentatore aveva diramato il testo nel momento in cui le forze dell’ordine brancolavano nell’oscurità alla ricerca della minaccia nazionale da lui stesso rappresentata. Il Manifesto era stato pubblicato integralmente da alcuni quotidiani americani e la cosa era apparsa come un’ulteriore sfida nei confronti delle autorità.

«Non sono qui per una gara di memoria o un duello sul sapere umano, professore, ma perché sono convinto che le sue conoscenze ci potranno essere utili per la risoluzione di un caso di cui mi sto occupando.»

«Il Giusto in nome di Dio?» lo interruppe Kaczynski e, al cenno di assenso di Breil, riprese. «Non capisco che cosa abbia a che fare un ex primo ministro di Israele con un terrorista che se la prende con i musulmani. In fondo sta facendo il vostro gioco.»

«Non sono d’accordo. I bersagli scelti dal terrorista sono sempre cittadini innocenti. Inoltre le azioni di quello che si fa chiamare il Giusto rischiano di scardinare equilibri già molto precari. Bisogna fermarlo al più presto e lei può darmi una mano, Kaczynski.»

«Al momento non penso di poter esserle d’aiuto, dottor Breil. E questo non perché voglia farmi desiderare. In una precedente occasione, quando ho collaborato con le autorità, il tempo per me si era di nuovo messo a correre. E lei non sa quanto sia importante qui dentro far passare il tempo con la mente impegnata. Ma, rispetto al Giusto, l’attentatore di Oklahoma era un principiante. Mi sono interessato al suo operato sin dalla prima esplosione, basandomi su quel poco che posso sapere rinchiuso in una cella due metri per due. È difficile, dottor Breil… molto difficile riuscire a prenderlo… è furbo, attento, quasi infallibile. Credo sia di diversi gradi superiore al mio modo approssimativo di operare. E se io sono riuscito a tenere in scacco i federali per diciotto anni… Va poi tenuto conto che il Giusto sembra non conoscere confini: spazia per mezzo mondo senza che nessuno sia riuscito a individuare un nesso tra la scelta dei suoi obiettivi.»

«Vedo che ha seguito la faccenda, professor Kaczynski.»

«Deformazione… professionale.» Gli occhi di Unabomber assunsero un’espressione vuota, assente, come se l’uomo si fosse perso nei ricordi di eroici tempi passati.

«Vorrei spendere una parola…» continuò Kaczynski citando un pensatore ottocentesco a cui diceva di essersi ispirato nel redigere il delirante Manifesto.

«…in favore della Natura.» Fu Breil a terminare la frase di Henry David Thoreau. «E nelle nostre mani c’è davvero la sopravvivenza dell’intera natura. Non so quanto questo interessi a lei, professor Kaczynski, ma a me interessa molto. Il Giusto è una grave minaccia per le ripercussioni che le sue azioni possono produrre nei rapporti tra Oriente e Occidente, cristiani e musulmani e così via. Conto sul suo aiuto.»

«Vedo che lei non lascia mai nulla al caso, dottor Breil. Cita a memoria anche il mio autore preferito. Mi farò vivo, appena avrò qualche cosa da dirle.»

Le dita sottili si mossero veloci sulla tastiera del computer. Quindi la mano destra agì sul joystick con l’abilità di un esperto di giochi elettronici: ma non si sarebbe trattato di un gioco.

Una volta verificata la propria padronanza del sistema di guida, il Giusto tornò al programma di scrittura e compose la sua delirante premonizione.

Sura quarta.

E invece tacciano di menzogna la verità che è giunta loro, ed ecco che sono in grande confusione.

Non osservano il cielo sopra di loro, come lo abbiamo edificato e abbellito e senza fenditura alcuna?

Siamo Noi che diamo la vita e che diamo la morte. A Noi ritorna ogni cosa.

Il Giorno in cui la terra si spaccherà all’improvviso, Ci sarà facile radunarli.

Ben conosciamo quello che dicono: tu non sei tiranno nei loro confronti! Ammonisci dunque con il Corano chi non teme la Mia minaccia.

Quindi il sigillo dell’Anello dei Re calò ancora una volta a suggellare l’identità dell’assassino.

Cassandra Ziegler aveva parlato con Breil al telefono e gli aveva inviato il testo dell’ultima missiva del Giusto. I versetti provenivano da due distinte parti di un capitolo che rispondeva al nome di Qâf. La sura Qâf era però la cinquantesima e non la quarta, come indicato dal Giusto nel suo messaggio. Il quarto capitolo del Corano si intitolava infatti An-Nisâ’ («Le Donne») e il suo testo nulla aveva a che fare con quello inviato dal terrorista. Cassandra e Oswald si erano interrogati a lungo, formulando ipotesi sul nuovo obiettivo del Giusto. Nessun elemento sembrava in grado di essere loro d’aiuto. Oswald di una cosa era convinto: l’indicazione di una sura diversa da quella poi riportata non doveva essere imputata a un errore da parte dell’assassino.

La mente di Cassandra non riusciva a fare a meno di pensare a quell’ultimo delirante messaggio. La voce dell’ufficiale dell’Air Force la riscosse, riportandola nella sala riservata dell’aeroporto Dulles di Washington in cui si trovava: «Il Predator è un sistema integrato, non semplicemente un aereo».

Nella saletta l’ufficiale dell’aviazione indicava con una bacchetta una lavagna luminosa sulla quale apparivano foto e schede tecniche che si riferivano al più recente gioiello della tecnologia aerea teleguidata. Il Predator, una sofisticata macchina volante priva di pilota, veniva utilizzato da molti corpi delle forze armate statunitensi. Si era anche rivelato di massima utilità per alcune missioni della CIA, soprattutto in Afghanistan e in Iraq. L’Agenzia aveva infatti in dotazione da qualche anno una decina di questi aerei e da allora erano state fatte molte pressioni affinché anche l’FBI potesse utilizzarli.

«Il Predator», continuò l’ufficiale, «è lungo quattordici metri e sei e il suo peso a vuoto è pari a quattrocentotrenta chilogrammi, che diventano oltre mille a pieno carico. Ogni aeromobile dispone di due telecamere tradizionali, una delle quali viene usata anche dall’operatore remoto per la guida dell’aereo. A bordo è installato inoltre un sistema a infrarossi per le riprese notturne. Un radar ad alta definizione completa la dotazione standard. L’aereo raggiunge quota settemilacinquecento metri e una velocità massima di duecentotrenta chilometri orari. Ha un raggio operativo di settecentoventi chilometri. Può essere aviotrasportato in ogni punto del globo terrestre e decollare su piste di poche decine di metri. È alimentato da un motore a quattro cilindri in lega leggera, originariamente impiegato per le motoslitte. Generalmente ogni squadra è composta da quattro aeromobili, una stazione mobile di controllo e una parabola satellitare. Una cinquantina di persone rappresentano la componente umana della squadra ma, una volta in aria, il Predator può essere teleguidato da qualsiasi ragazzino esperto in simulazione di volo: le uniche fasi per cui è richiesta una certa pratica sono il decollo e l’atterraggio. Se adesso volete seguirmi sulla pista, sarò lieto di proseguire la nostra dimostrazione.»

Davanti ai cancelli della Casa Bianca, pareva che le «folle silenziose e protestanti» fossero ormai un elemento stabile dell’arredo urbano: non c’era giorno che qualche associazione di cittadini non si sentisse in dovere di erigere cartelli per esprimere il proprio dissenso davanti alla residenza presidenziale.

Lo sciame di persone di turno quel giorno pareva tutt’altro che silenzioso: facendo ruotare la lingua all’interno della bocca, le donne musulmane producevano un suono stridulo, che oltrepassava i vetri blindati della Sala Ovale e avrebbe potuto raggiungere le orecchie del presidente, qualora fosse stato presente.

Il motivo della protesta era lo stesso che aveva spinto il presidente a esercitare le sue pressioni sugli organi di sicurezza: le azioni terroristiche del Giusto stavano creando grossi problemi al governo non solo a livello internazionale. Adesso ci si metteva anche il sit-in di cinquecento donne musulmane d’America.

Una pubblicità negativa come quella proprio non ci voleva, con la campagna elettorale ormai alle porte.

Gli agenti del servizio d’ordine restavano a guardare le dimostranti con un’aria più paterna che severa. Due poliziotti a cavallo chiacchieravano in un angolo. C’era una certa confusione, ma tutto sembrava svolgersi in maniera pacifica. La tragedia si manifestò senza preavviso, inattesa come un fulmine a ciel sereno.

«Ecco il nostro aereo», disse l’ufficiale del 15° stormo dell’Air Force indicando un uccello in alluminio dalla grossa testa e dalle ali sottili. «Ed ecco l’unità mobile di controllo. Per la nostra simulazione ci siamo avvalsi di questo aereo, armato con due missili Hellfire a guida laser. L’aereo dovrà raggiungere la zona prescelta — un poligono di tiro dell’esercito distante da qui venti chilometri — e distruggere un caseggiato che fingeremo essere caduto in mano a un commando terrorista. Intanto noi ci godremo lo spettacolo su piccolo schermo… State a vedere.»

Così dicendo l’ufficiale fece un cenno a un subalterno che prese posto nella parte posteriore di un fuoristrada Hummer posteggiato vicino all’aereo.

Il «pilota remoto», questo il termine usato dall’ufficiale, sedette su una sedia ergonomica, di fronte a due grossi monitor sovrapposti ad altri due di dimensioni più piccole. Strinse il joystick e azionò alcuni comandi che si trovavano su una tastiera di fronte a lui. Come per miracolo il motore del Predator tossicchiò e, un istante più tardi, l’elica prese a girare. L’aeromobile si mosse a piccoli balzi, sottolineando la sua leggerezza, quindi si avviò verso la breve pista e diede inizio alla dimostrazione.

«Potrebbe decollare e atterrare nel parcheggio di un supermercato o lungo il breve rettilineo di una strada statale», disse l’ufficiale mentre il Predator rullava. I suoi occhi tradivano lo stesso orgoglio di un padre alla cerimonia di consegna del diploma di laurea al proprio figlio.

«La GCS — Ground Control Station — possiede, come vedete, una doppia postazione. Da qui si possono controllare contemporaneamente due aeromobili occupati in due missioni diverse. E non solo, grazie a un sistema di controllo satellitare, da qui possiamo guidare un Predator in azione dalla parte opposta del globo terrestre.»

Deuville, capo dell’FBI, si accingeva a porre alcune domande, ma l’ufficiale lo prevenne.

«Conoscendo il codice operativo di un aeromobile, si possono inviare impulsi utilizzando una connessione satellitare che in gergo chiamiamo Ku-band. Insomma, il nostro operatore potrebbe, attraverso quella», e indicò una grossa antenna parabolica posta sul tetto del mezzo militare, «portare in giro un aereo sui cieli della Bosnia o di Baghdad, rimanendo comodamente seduto su un Hummer all’interno dell’aeroporto di Washington.»

In quell’istante il Predator si librò in volo.

Era trascorsa una settimana da quando aveva inviato l’ultima lettera. In quei sette giorni non aveva fatto altro che affinare la pratica con il simulatore.

Le dita sottili si strinsero attorno al joystick. Lo sguardo del Giusto era fisso sul monitor. Le immagini scorrevano su vedute di Washington riprese da una telecamera di precisione. Il Giusto controllò le caratteristiche di un crocevia con una mappa che teneva a fianco dello schermo. Quello era il momento.

«E così, ogni tanto ti ricordi della tua balebatish Mame-loshen. Dopo che quella bella signora dei federali è venuta a cercarti, sei sparito e non ti sei più fatto vedere.» Lilith si riferiva al primo incontro che Oswald aveva avuto con Cassandra Ziegler nella casa degli Habar a Denver, in Colorado.

«Hai ragione, Lilith», rispose Oswald alzandosi sulle punte per arrivare a baciare la guancia della madre adottiva. «La verità è che io non sono altrettanto balebatish, cioè beneducato. Però, vedi, appena sono capitato da queste parti non ho potuto fare a meno di farti visita.»

Oswald omise volutamente di dire che si trovava in Colorado per una visita a un carcere di massima sicurezza, con lo scopo di convincere uno tra i più pericolosi serial bomber di ogni tempo, prima che il Giusto ne oscurasse l’operato, a passare dall’«altra parte della barricata».

La telefonata di Cassandra di alcuni giorni prima era giunta come un fulmine a ciel sereno: Oswald aveva sperato che il nemico avrebbe dato loro un po’ di tregua.

Ma non era stato così ed erano ormai trascorsi sei giorni dall’arrivo del messaggio: generalmente, quello era il lasso di tempo che intercorreva tra l’annuncio e l’attentato.

E invece tacciano di menzogna la verità che è giunta loro, ed ecco che sono in grande confusione.

Non osservano il cielo sopra di loro, come lo abbiamo edificato e abbellito e senza fenditura alcuna?

Siamo Noi che diamo la vita e che diamo la morte. A Noi ritorna ogni cosa.

Il Giorno in cui la terra si spaccherà all’improvviso, Ci sarà facile radunarli.

Ben conosciamo quello che dicono: tu non sei tiranno nei loro confronti! Ammonisci dunque con il Corano chi non teme la Mia minaccia.

I versetti della sura continuavano a frullare nella grande testa di Breil come un rebus irrisolto. La soluzione stava nella posta in gioco, ma gli scopi del Giusto erano ancora imperscrutabili. L’unica cosa certa era che il suo operato diveniva via via più spettacolare e pericoloso.

Uno squillo del telefono lo distolse dai suoi pensieri.

Oswald sperò si trattasse di Cassandra con qualche risposta per il loro enigma. Un enigma che, come al solito, solo a posteriori si sarebbe rivelato elementare: allora sarebbe stata una magra consolazione battersi una mano sulla fronte ed esclamare: «Accidenti, non ci avevo pensato!»

Ma sul display apparve il nome del capitano Bernstein.

«Ha avuto modo di controllare la posta elettronica, maggiore?» chiese Bernstein.

«No, capitano, sono entrato in casa da pochi minuti. Lo faccio subito.»

«Bene, spero di essermi comportato secondo i suoi desideri. Se così fosse la prego di farmi pervenire istruzioni in merito.»

Appena interrotta la comunicazione, Oswald accese il computer portatile e avviò la connessione.

Il messaggio di Bernstein venne decrittato, quindi apparve sul monitor:

‹L’EX AVVENENTE ED EX COLONNELLO BORS DELLA SECURITATE MI HA CONTATTATO DICENDOMI DI AVER RINVENUTO UN’AGENDA REDATTA DA SUO PADRE. NON C’ERA TEMPO DI AVVERTIRLA: IL COLONNELLO BORS SI TROVAVA IN MISSIONE A TEL AVIV E AVEVA UNA GRAN FRETTA DI PARTIRE PER BUCAREST. MI SONO PERMESSO DI FARE RECAPITARE L’AGENDA PRESSO IL MIO UFFICIO, E ORA SI TROVA SULLA MIA SCRIVANIA. ATTENDO ISTRUZIONI IN MERITO. PARE SCRITTA CON LO STESSO ALFABETO CRIPTATO DEGLI ALTRI APPUNTI›.

Oswald lesse con trepidazione il messaggio, quindi rispose senza esitazione: ‹GRAZIE, CAPITANO. HA INTERPRETATO ALLA PERFEZIONE OGNI MIA VOLONTÀ. SE NON LE DISPIACE ADESSO DOVREBBE FAR PERVENIRE IL PLICO, CON LA MASSIMA URGENZA, ALLA DOTTORESSA TERRACINI, A ROMA. MI FACCIA ANCHE SAPERE QUANTO HA DOVUTO SBORSARE PER L’ACQUISTO DI QUESTO PREZIOSO REPERTO. SHALOM E GRAZIE›.

Il ronzio del quattro cilindri a due tempi del Predator faceva da sottofondo alla confusione generata dalle donne musulmane, intente a formare un chiassoso girotondo a pochi metri dall’ingresso della Casa Bianca.

Quando l’ufficiale dell’Air Force fece capolino dal portellone posteriore dell’Hummer, sembrava che avesse immerso il capo in un barattolo di calce, tanto era pallido.

Sia Deuville che Cassandra si accorsero che qualche cosa non stava andando per il verso giusto e, avvicinatisi all’ufficiale, gli chiesero che cosa fosse successo.

«L’abbiamo perso! Abbiamo perso un aereo armato con due missili sopra il cielo di Washington», disse l’ufficiale prendendosi il capo tra le mani.

«Ma come cazzo si fa a lavorare in questa maniera?» C’era una vena di isterismo nella voce di Jordan Cruner, il telecronista della K.C. News, mentre si rivolgeva alla sua segretaria di produzione. «Hai preso sì o no questo appuntamento col presidente da oltre un mese?»

La donna si era stretta nelle spalle e aveva annuito.

«Che cosa vuol dire che il presidente è in ritardo, che deve vedere altre persone prima di noi e dovremo aspettare alcune ore? In mezzo a tutto questo casino? E pensare che io sono arrivato in anticipo di oltre due ore rispetto al nostro appuntamento. Lasciatemi in pace sino a che il presidente non sarà arrivato e disposto a riceverci.» Così dicendo Cruner si chiuse pesantemente dietro le spalle la porta della stazione mobile di regia da dove inviava i suoi prestigiosi servizi per il network più conosciuto al mondo.

Il ronzio si fece più persistente. Gli agenti addetti al servizio d’ordine furono costretti ad alzare il capo e guardare il cielo. La sagoma del Predator poteva far pensare a un aeromodello teleguidato da qualche appassionato. Quando qualcuno si rese conto del pericolo rappresentato da quel piccolo aereo senza pilota, era ormai troppo tardi. I due missili a guida laser Hellfire stavano portando la mano assassina del Giusto a colpire proprio il gruppo di donne intente a protestare per lo scarso interesse mostrato dalle autorità nei confronti del serial bomber.

«Mi dica, Cassandra», disse Oswald al telefono. La sua espressione si fece grave, mentre restava in ascolto senza proferire parola.

«Qualche problema, Oswald?» chiese Lilith Habar, che ben conosceva quell’aria corrucciata.

«Un aereo telecomandato da combattimento è sfuggito al controllo dei militari. Chi lo ha sottratto ha indirizzato i suoi missili su un gruppo di donne musulmane che manifestavano davanti alla Casa Bianca. Quelle donne protestavano contro gli attentati del Giusto in nome di Dio e io credo che ci sia proprio il Giusto dietro a questa nuova azione terroristica. Pare sia stata una carneficina. Accendi la televisione, Mame-loshen, tra poco dovrebbero trasmettere notizie sul nuovo attentato.»

Oswald sedette su di una poltrona e le parole del messaggio gli tornarono alla mente: il riferimento alla quarta sura, il cui titolo è An-Nisâ’, «Le Donne». La confusione, il cielo sopra di loro, sarà facile radunarle… la morte.

Lilith Habar sedette sul divano a fianco di Oswald. Osservavano ammutoliti le terribili immagini che scorrevano in diretta. Il conduttore della K.C. News spiegava che si trovava, con il suo staff, alla Casa Bianca per un’intervista al presidente e che aveva assistito a tutte le fasi dell’attentato. Una prima stima parlava di oltre duecento dimostranti musulmane morte e di alcuni agenti di polizia del servizio d’ordine. Nessuno era ancora in grado di stabilire l’esatto numero dei feriti.

37

Roma, 2004

«Non bastavano gli appunti, anche l’agenda di suo padre mi doveva affibbiare! Credo che denuncerò Oswald Breil per sfruttamento dell’amicizia.»

Ma il tono delle parole che Sara Terracini stava sussurrando a se stessa era più bonario che risentito. Una persona le aveva consegnato a mano la busta quella mattina. Sara affidò al programma di crittografia, e quindi alla posta elettronica, quello che aveva appena terminato di mettere in prosa. Si ripromise che si sarebbe dedicata al nuovo materiale la mattina seguente e che avrebbe proceduto con lo stesso sistema.

Guardò l’orologio e si accorse che la mattina seguente era ormai alle porte: entro breve ne avrebbe annunciato l’arrivo la prima luce.

Dagli appunti raccolti da Asher Breil

a Cortina d’Ampezzo, 1967

La tradotta arrancava, sebbene il percorso in direzione di Suez fosse pianeggiante. Due carrozze malconce, cariche di truppe inglesi, erano collocate tra quattro vagoni a bilico e uno a sponde chiuse. Su tre di quelli aperti erano state caricate armi e casse di munizioni. Sul quarto, in coda al convoglio, aveva trovato posto una batteria di cannoni di grosso calibro. Due nidi di mitragliatrici e una decina di uomini di guardia garantivano sicurezza al prezioso carico militare.

Il carro merci chiuso, situato a ridosso del trolley — quel carrello che segue il locomotore e nel quale vengono immagazzinati acqua e carbone per il funzionamento della locomotiva — ospitava le cavalcature dei militari: una decina di cammelli, qualche asino e due cavalli.

La linea ferroviaria era di basilare importanza strategica per l’intero fronte orientale. Due erano le direttrici del percorso ferrato. Dopo il tratto a binario unico, dal Cairo a Ismailia, la linea si sdoppiava: una dirigeva verso la costa e la seguiva sin quasi a Gaza, l’altra, invece, virava a sud e raggiungeva Suez.

Lungo quest’ultima stava procedendo, tra nubi dense di vapore, la locomotiva inglese GWR1441 che pareva ormai aver perduto l’originale colore verde, ricoperta com’era dagli strati di sabbia incrostati ovunque.

La brezza che irrompeva dal finestrino era l’unico sollievo al caldo soffocante che imperava in quel mese di luglio del 1917. Il convoglio aveva costeggiato il Grande e il Piccolo lago Amaro lasciandosi alle spalle, appena visibile sull’altra sponda, il villaggio di Shallufa.

Sciarra pensò all’incontro che aveva avuto con Allenby il mattino precedente: il comandante in capo delle forze alleate in Medio Oriente sedeva dietro una scrivania massiccia, dondolandosi su una poltrona che sembrava stesse per cedere da un momento all’altro, vista la mole del generale inglese. Allenby parlava guardando negli occhi l’interlocutore solo a tratti, tradendo un’insicurezza inconsueta nell’alto ufficiale.

«Credo che il vostro compito non sarà facile, colonnello. In ogni caso il fatto che voi parliate correttamente diversi dialetti arabi potrà senza dubbio esserci d’aiuto. Va detto, inoltre, che quello che voi vi proponete di fare, e cioè indurre alla rivolta le tribù arabe che ancora non si sono schierate, è già in parte stato fatto da un nostro ufficiale negli ultimi due anni. I risultati del suo operato cominciano a vedersi soltanto adesso. Credetemi, non c’è una grande amicizia — credo sia cosa reciproca — tra me e il colonnello Thomas Edward Lawrence. Devo però ammettere che l’opera di colui che qui chiamano El Lawrence sta mietendo molti successi. Alcuni giorni fa le sue truppe — poco più che un’accozzaglia di beduini — sono riuscite nella non facile impresa di conquistare Aqaba. Mi risulta che il colonnello sia in viaggio per Suez in questo momento. Credo che fare una chiacchierata con lui possa esservi di grande aiuto. Lawrence è stato già avvertito del vostro arrivo.»

«Vuol dire quel colonnello Lawrence?»

«Non ne conosco altri.»

Nella mente di Sciarra, mentre il treno lo portava a destinazione, l’immagine del generale Allenby lasciò il posto a quella ben più piacevole di Kimber. Con un fremito di eccitazione, il suo pensiero si concentrò sul corpo sensuale e caldo, sulle promesse che si erano scambiati, sulle lenzuola candide che avevano accolto la loro prima notte d’amore.

Lo sguardo di Sciarra si perdeva nel deserto che fiancheggiava la linea ferrata. La distesa di dune sapeva trasmettere le stesse sensazioni di tranquillità mista a timore che il mare sa infondere al navigatore. E infatti di un mare, seppure solido, si trattava. Un mare di dune in movimento, capace di muoversi ondeggiando, e di nascondere o scoprire i segreti che lo abitano.

I segreti dei secoli… L’Anello dei Re.

Accompagnato dallo sferragliare delle ruote sui binari e dal chiacchiericcio dei soldati stipati nel vagone, Sciarra si accinse a scrivere la sua prima lettera al tenente Petru. Utilizzò, così come si erano ripromessi salutandosi, il linguaggio criptato che avrebbe reso indecifrabili a chiunque le loro missive.

Ma dopo le prime righe, Sciarra si fermò, perso nel ricordo delle loro molte avventure.

La sabbia del deserto pareva confondersi con l’azzurro del cielo per effetto del miraggio, quando all’improvviso sbucarono da dietro le dune i cammelli cavalcati dai beduini. Il grido di battaglia superò lo sferragliare del treno, mentre i nomadi caricavano il convoglio sparando all’impazzata.

Il colonnello Sciarra ebbe appena il tempo di vedere la marea di abiti bianchi, chiamati thob, ondeggiare come un mare in tempesta. Le figure dei cavalieri, distorte dall’effetto del miraggio, seguivano l’andatura oscillatoria dei cammelli lanciati al galoppo. Le prime pallottole che si infransero contro le pareti del vagone riportarono alla realtà il colonnello italiano, destandolo da uno stato quasi ipnotico.

«Presto, mettetevi al riparo e caricate le armi!» gridò Sciarra in inglese agli occupanti della tradotta.

Gli uomini obbedirono agli ordini del più alto in grado senza fare obiezioni, sebbene quell’ufficiale vestisse la divisa di un esercito che, benché fosse alleato, non era il loro.

Il primo a essere colpito a morte fu un giovane militare, rimasto in piedi per liberare la carabina assicurata con i legacci allo zaino.

Erano trascorsi solo pochi istanti dall’allarme e già le mitragliatrici e i fucili degli inglesi stavano rispondendo al fuoco nemico.

I cammelli avanzavano al galoppo e, contemporaneamente, i cavalieri facevano compiere agli animali improvvisi scarti laterali. Questo rendeva molto difficile sparare a colpo sicuro dal treno in corsa. I beduini cavalcavano seduti di lato e stringevano il calcio del fucile tra la guancia e la spalla mentre, col braccio libero dalle briglie, tenevano il fucile in asse e premevano sul grilletto. Non erano dotati di armi moderne: molti dei loro fucili, caratterizzati da una canna di lunghezza inusuale, erano ancora ad avancarica. Ciononostante i loro proiettili — e le loro sciabole in caso di scontro corpo a corpo — non erano meno letali di quelli inglesi.

Le ruote del convoglio stridettero e gli occupanti dei vagoni faticarono non poco a resistere agli effetti della brusca frenata. Molti dei bagagli caddero a terra.

«È molto probabile che abbiano sbarrato i binari», disse ancora Sciarra, rivolto al suo attendente. «Sono almeno quattro volte più numerosi di noi. Non riusciremo ad avere la meglio su di loro.»

L’esperienza della guerra aveva acuito in Rocco quella scaltrezza, mescolata al buon senso, tipica dei contadini del Sud Italia. «Signore, sono un ottimo cavaliere. Se riuscissi ad arrivare sino al carro bestiame, che mi sembra sia il prossimo vagone verso la testa del treno, potrei tentare una sortita in cerca di aiuto», disse il militare siciliano rivolto al suo superiore, con una luce di fredda determinazione nello sguardo.

«Davvero ve la sentite, soldato?» chiese Sciarra.

«Certo. So bene che il rischio di morire per mano dei beduini è alto, ma preferisco morire in sella a un cavallo, mentre sto tentando di tirarci fuori dai guai, che chiuso dentro questo vagone.»

I due strisciarono sul fondo della carrozza, sino a che non giunsero in prossimità del ballatoio che fungeva da passaggio tra un vagone e l’altro.

Sciarra si sporse e si accertò che i nemici fossero impegnati in coda al treno, ove le mitragliatrici a difesa del carico rappresentavano la maggiore sacca di resistenza. Sciarra e il suo attendente balzarono quindi da un vagone all’altro senza essere visti e si ritrovarono sotto il carro bestiame.

Rocco estrasse la pistola ed esplose un colpo in direzione del catenaccio, scardinandolo. Fulminei entrarono nel vano del vagone appena in tempo per evitare il colpo di fucile di un beduino che si era accorto della loro manovra.

Gli animali scalciavano, impauriti dal rumore della battaglia. Rocco slegò un cavallo arabo dai colori chiari, lo montò a pelo e piantò i tacchi degli stivali nel ventre dell’animale nel momento in cui Sciarra spalancava la porta scorrevole. Rocco e lo stallone arabo saltarono nel vuoto.

Il beduino, che era rimasto in attesa, prese la mira con calma, puntando la lunga canna del suo fucile sulla schiena di Rocco che si allontanava. Sciarra gli fu addosso proprio mentre sparava.

I due si avvinghiarono e caddero nella polvere. Sciarra vide la lama balenargli a poca distanza dalla gola, inarcò la schiena e fece leva sulle reni con la forza della disperazione. Riuscì a liberarsi dalla presa del suo nemico che rotolò su se stesso. Quando il beduino riacquistò padronanza dei movimenti era ormai troppo tardi: il pesante sasso dalla punta aguzza che Sciarra teneva nelle mani si abbatté con violenza sul suo cranio, sfondandolo.

«Speriamo che Rocco non sia stato colpito. E io che pensavo fosse una specie di imboscato. Invece si è rivelato un soldato coraggioso e intraprendente.» L’ufficiale italiano raccolse la pistola che era caduta a terra nella lotta. Alcuni militari inglesi, che avevano assistito alla scena dalla carrozza, gli facevano ampi cenni affinché risalisse sul treno: i ribelli si stavano preparando a un’altra carica.

Una volta rientrato, Sciarra si diede da fare per organizzare la difesa da quello che si annunciava come un assedio senza possibilità di salvezza per gli assediati.

Si erano ormai susseguite quattro cariche da parte dei beduini e in ognuna di queste le perdite tra i ranghi inglesi si facevano sempre più pesanti.

«Dobbiamo riuscire a liberare i binari», pensò Sciarra. «Potrebbe essere l’unico modo per salvare la pelle.»

Nel corso della precedente escursione verso la testa del treno, il colonnello italiano aveva avuto conferma alle sue supposizioni sul motivo per cui il convoglio si era bruscamente arrestato: un grosso masso ostruiva i binari. Doveva riuscire a trasportare fino all’ostacolo un paio di casse dell’esplosivo che aveva visto caricare al Cairo. Se fossero riusciti a farlo brillare, il masso sarebbe saltato in aria e il treno avrebbe potuto ripartire e forse seminare i suoi inseguitori.

Sciarra si era diretto verso la coda del convoglio, seguito da quattro militari inglesi. Aveva oltrepassato le carrozze passeggeri e si era bloccato sul predellino della seconda: davanti ai suoi occhi stava infuriando una cruenta battaglia. Le due mitragliatrici continuavano a sputare fuoco e pallottole. Ma la cosa non sembrava preoccupare per nulla gli assalitori.

Sciarra si gettò sul bilico, acquattandosi il più possibile tra le casse che il vagone trasportava. Ma sembrava che i beduini si guardassero bene dal colpire il vagone che trasportava gli esplosivi: era come se conoscessero l’esatta ubicazione delle munizioni e cercassero di preservare l’integrità del loro potenziale bottino.

Sciarra recise con la baionetta la corda che assicurava il carico e scelse con cura le due casse in base alla scritta che ne indicava il contenuto. Le sollevò una per volta e le passò ai quattro che l’avevano seguito. Quindi il piccolo gruppo raggiunse la fine della carrozza collegata al carro bestiame, trasportando l’esplosivo.

Sciarra della Volta fece cenno ai suoi di passare sotto al carro bestiame e di avanzare carponi sulle traversine dei binari. I quattro lo seguirono in silenzio. Erano a un passo dalla locomotiva quando uscirono allo scoperto e si portarono nei pressi del masso che i beduini avevano collocato sulle rotaie. Non c’era tempo per disporre i candelotti di dinamite: Sciarra posò le casse ai piedi del masso. Quindi ne aprì una, estrasse alcuni candelotti e li portò con sé, mentre tornava verso il locomotore.

Fu a quel punto che la situazione parve precipitare a causa di una nuova carica dei beduini. Le mitragliatrici tacquero e le scariche di fucileria provenienti dai militari asserragliati nei vagoni si fecero sempre più sporadiche e meno incisive.

Il colonnello italiano diede fuoco alla miccia dei tre candelotti che aveva in mano. Attese che le scintille sprizzassero dalla polvere dello stoppino, quindi scagliò la dinamite in direzione delle casse.

L’esplosione provocò un’onda d’urto tale che anche il pesante locomotore vibrò come se fosse stato scosso dal vento. Attesero che il fumo si diradasse e allora Sciarra e i quattro militari inglesi si accorsero che sette arabi con le armi puntate erano immobili davanti a loro.

Ma proprio mentre i soldati stavano alzando le mani in segno di resa, una raffica di fucileria esplose dalla sommità dell’altura che dominava la scena. Cinque dei sette beduini caddero a terra senza un lamento. I due sopravvissuti se la diedero a gambe.

Rocco cavalcava il suo stallone arabo e, al suo fianco, si trovava un giovane ufficiale dei bersaglieri.

Una sessantina di «uomini gallina», così gli inglesi chiamavano gli oltre trecentoquaranta bersaglieri di stanza in Palestina, piombarono sui nomadi come falchi in caccia. Fu sufficiente una sola carica di cavalleria perché i nemici si ritirassero al galoppo nel deserto dal quale erano venuti. Sul terreno erano rimasti una ventina di soldati inglesi e più di cinquanta beduini.

Rocco andò in cerca del suo superiore.

«Colonnello!» gridò il soldato siciliano non appena lo vide. «Spero di non essere arrivato troppo tardi.»

«Grazie a voi, Rocco, siamo riusciti a sventare una gravissima minaccia. Pensate a quali sarebbero state le conseguenze per gli alleati se il nemico fosse riuscito a impadronirsi del carico d’armi ed esplosivi che trasportiamo. E grazie anche a voi e ai vostri uomini, maggiore», disse Sciarra, osservando i gradi dell’ufficiale dei bersaglieri accorso in loro aiuto, «un solo secondo più tardi e quei beduini ci avrebbero passato per le armi.»

«Maggiore Francesco d’Agostino, ai vostri ordini, signore. Attacchi come questo sono abbastanza frequenti lungo la rete ferroviaria, e per lo più sono opera di tribù di predoni fedeli ai turchi. Se foste capitolati nessuno sarebbe sopravvissuto: i nomadi del deserto non fanno prigionieri. È già successo altre volte. Purtroppo non sempre siamo riusciti a intervenire tempestivamente come in questo caso. Il guaio è che i miei uomini e io non abbiamo il dono dell’ubiquità e il tratto di linea che dobbiamo sorvegliare è sconfinato. In ogni caso sono doppiamente felice: per aver tirato fuori dai guai gli occupanti del convoglio e per aver incontrato un mio connazionale. Se ci diamo da fare per sgombrare quello che rimane del masso che ostruiva i binari, credo che questa sera voi e il vostro attendente potrete riposare in un albergo di Suez, signor colonnello.»

Poco dopo la locomotiva riprendeva a sbuffare nel deserto.

La cittadina di Suez occupava un triangolo di terra posto tra la sponda orientale del mar Rosso e l’imboccatura meridionale dell’omonimo canale, costruito dai francesi mezzo secolo prima e inaugurato il 17 novembre del 1869. La Compagnia universale del canale di Suez di «universale» aveva soltanto undicimila delle quattrocentomila azioni: il rimanente capitale era suddiviso tra la Francia — maggiore azionista — e l’Egitto. Quest’ultimo, sull’orlo della bancarotta, aveva poi ceduto le sue azioni all’Inghilterra nel 1876, aprendo agli inglesi la porta del loro grande sogno commerciale: la via diretta per le Indie.

Negli anni successivi quel taglio nella terra desertica riempito dell’acqua di due mari sarebbe diventato un nodo nevralgico per lo sviluppo economico di molte nazioni. In Persia si cominciavano a effettuare le prime trivellazioni petrolifere industriali. Ogni potenza, di fronte alla tecnologia che galoppava, intuiva che l’importanza del petrolio sarebbe aumentata sempre più e le regioni desertiche dell’Arabia sembravano essere uno sconfinato giacimento della preziosa materia prima.

A fronte di queste considerazioni, era evidente che il possesso delle poche case di Suez e il controllo del serpente d’acqua che si spingeva sino al Mediterraneo erano stati lo stimolo principale dell’istituzione del fronte mediorientale: agli Stati occidentali importava poco o nulla delle rivendicazioni indipendentiste di arabi e palestinesi. I loro interessi erano molto più materiali! Ma ben diverse furono le motivazioni ufficiali addotte: ingigantire l’importanza degli ideali era il primo punto di ogni propaganda a favore della guerra. Minor credito presso l’opinione pubblica avrebbe riscosso la verità: il fronte era stato aperto perché il petrolio avrebbe cambiato le sorti della storia, dell’economia e dello sviluppo del mondo. Senza contare che il canale di Suez rappresentava la via più breve per l’Oriente e per i possedimenti d’oltremare dell’Occidente.

La cittadina di Suez non si differenziava molto dalle altre che Sciarra aveva visto nella regione.

Le case erano bianche, costruite in materiale corallifero, alte dai tre ai cinque piani. Non c’erano vetri alle finestre, ma grate e pannelli di legno mirabilmente intarsiati.

Le strade erano strette: nella maggior parte dei casi insufficienti a far passare un carro. Sciarra si guardava attorno circospetto: aveva la sensazione che dietro a ogni grata ci fossero occhi intenti a spiare ogni sua mossa. Il rumore dei passi tra i vicoli veniva soffocato dallo strato di sabbia pressata che lastricava ogni strada.

L’albergo non sembrava un granché, ma Sciarra non si sarebbe certo lamentato con la direzione per il servizio insufficiente: aveva bisogno solo di un letto e di un bagno caldo, come un neonato necessita del latte materno.

Entrando nell’atrio, l’ufficiale notò un uomo magro, seduto su un divano nella sala comune. L’uomo vestiva alla maniera degli arabi, con un ricco abaya, il mantello di lana bianca, ricamato con fili d’oro; portava il classico copricapo costituito da un grande triangolo di stoffa avvolto a più spire attorno al capo e tenuto insieme da un cordone di colore scuro. Sebbene bruciata dal sole e dal vento del deserto, aveva carnagione chiara, cosa del resto non inusuale in quelle regioni.

Quando Sciarra gli passò vicino questi gli sorrise e si rivolse all’italiano nel dialetto di Aleppo: una variazione del ceppo siriano, probabilmente imbastardita dai mille idiomi parlati dai carovanieri che, sin dai tempi di Babilonia, avevano scelto quella città come crocevia dei loro traffici.

«Vedo che il colonnello italiano ha conosciuto il deserto», disse l’arabo indicando la divisa impolverata indossata da Sciarra. Non c’era ironia nella sua voce, piuttosto una sorta di ammirazione, dettata dal senso di fratellanza che solo chi ha navigato sugli oceani, siano essi d’acqua o di sabbia, riesce a trasmettere.

«Sì, il deserto e i suoi abitanti, signore», rispose l’italiano.

«Io provengo da un’esperienza simile, colonnello», disse l’arabo passando improvvisamente a un inglese perfetto. «Dopo giorni di aspra battaglia, ho cavalcato un cammello per cinquanta ore consecutive per giungere qui dalla città di Aqaba. Nella mia agenda avevo annotato che avrei avuto un appuntamento con voi qui a Suez. Ma innanzitutto vorrei darvi la possibilità di rinfrescarvi. Che ne dite se ci vediamo per cena, tra un paio d’ore, colonnello Sciarra?»

«Voi siete il colonnello Lawrence, signore?»

«In carne e ossa, amico mio… anzi più ossa che carne, dato che ho appena constatato che il mio peso è di poco superiore ai quaranta chilogrammi.»

«Sono onorato di conoscervi, colonnello. Le vostre gesta sono diventate leggendarie in tutta Europa, dove vi chiamano Lawrence d’Arabia.»

«Mi pare che tra noi due l’unico a essere famoso siate voi, colonnello Sciarra. Il credito di cui godete vi ha preceduto e i miei uomini dicono che vi siete comportato da eroe nel corso dell’attacco al treno sul quale viaggiavate. Ma adesso smettiamola con i convenevoli: mi chiamo Thomas, solo se mi è permesso di chiamarvi Alberto.» Così dicendo l’ufficiale inglese, vestito come i nomadi del deserto, gli tese la lunga e ossuta mano destra.

Quando Sciarra raggiunse la sua stanza, Rocco era intento a riporre in un armadio i pochi effetti personali contenuti nella sacca da viaggio dell’ufficiale: «Vorreste dire… vorreste dire, signore… che quell’arabo… quel beduino, era Lawrence d’Arabia?»

Al cenno di assenso di Sciarra, il siciliano si lasciò andare a una colorita affermazione di soddisfazione. «Vi ho fatto preparare un bagno caldo con aromi speziati e tonificanti, signore. Qui sul letto vi lascio la divisa pulita. Se non avete bisogno di me, vorrei riposare per qualche ora, signore», disse ancora Rocco abbandonando la stanza, mentre il colonnello cominciava a spogliarsi.

«Ritenetevi in libertà sino a domani mattina, soldato.» Il fisico stremato dell’ufficiale godette a fondo degli effetti del bagno caldo. I muscoli si distesero al contatto dell’acqua con la pelle, sembravano assorbirla, berla a sazietà per trovare un nuovo vigore. Lo sguardo di Sciarra, mentre si trovava immerso nella tinozza di rame, si posò sulla grata di legno grigio che separava la sua stanza dall’esterno. Di nuovo ebbe la sensazione di essere spiato da migliaia di occhi. Se invece fossero stati i suoi occhi a guardare oltre la grata, avrebbero solo visto Rocco che si allontanava dall’albergo.

38

Mare Egeo, 1348

«Adesso il nostro giovane amico Adil ci mostrerà che cosa custodisce con tale amore in quel cofanetto, tanto da non separarsene mai, nemmeno di fronte alle armi spianate.» Così dicendo, le mani avide di Campagnola si avventarono sul piccolo forziere che Adil aveva ricevuto da Crespi in punto di morte.

Il giovane non riuscì a opporre alcuna resistenza mentre il veneziano afferrava il prezioso scrigno.

«Qui c’è una fortuna degna di un sultano d’Oriente», esclamò Campagnola estasiato alla vista delle pietre preziose e dei gioielli. Quindi si accorse del doppiofondo, lo sollevò e prese l’Anello dei Re: «Sembra di pregio inferiore rispetto ai brillanti e ai rubini contenuti nella cassetta, ma anche questo anello deve essere di valore, per venire custodito assieme a tanta ricchezza. Mi pare proprio della misura esatta del mio dito». Così dicendo Campagnola infilò all’indice l’anello d’oro antico recante il sigillo del Re Salomone.

«Quanto a te, Adil figlio di Satana, non credo che i tuoi occhi di demonio vedranno il sorgere del sole», concluse Campagnola, chiamando uno dei suoi e ordinandogli di legare e di condurre il giovane nella stiva.

«Stanno preparando una forca», si disse l’uomo sul badan, osservando alla luce di una lanterna due membri dell’equipaggio della caracca veneziana che, dopo avere fatto passare una cima in un rinvio dell’albero, si stavano esibendo nella macabra mimica di un’impiccagione.

L’oscurità non sarebbe durata più di un’ora, poi gli occupanti della nave si sarebbero accorti della piccola imbarcazione che aveva navigato al loro fianco protetta dalle tenebre. Era tempo di agire.

Campagnola non voleva che molti testimoni assistessero all’esecuzione di un bambino: figlio o no di Satana, sapeva bene che non sarebbe spettato a lui il giudizio e tantomeno decretare l’esecuzione di una sentenza.

Sul ponte si trovavano soltanto i due uomini di guardia e il timoniere, oltre a quello che si era calato nella stiva per prelevare il giovane condannato.

Gli altri membri dell’equipaggio dormivano sottocoperta, come usavano fare quando la stiva non era occupata dal carico.

Adil precedeva la punta della spada del suo carceriere. Avanzava a capo chino: nonostante la giovane età conosceva bene quel sapore, misto di incredulità e paura, che lascia in bocca l’avvicinarsi della morte.

«Tu, figlio del Demonio», stava dicendo in un sussurro Campagnola, «avrai presto quello che ti meriti.» Gli occhi erano lo specchio di una lucida follia.

«Sono la figlia di tua figlia, colei che hai condannato a morte. Di quella figlia colpevole soltanto di amare un uomo retto e valoroso come il Muqatil, mio padre», avrebbe voluto urlare Adil, ma si trattenne.

Intanto, uno degli uomini gli passava il cappio attorno al collo.

«Devo morire con onore», si disse con aria risoluta. Allungò il collo, offrendolo con fierezza ai suoi aguzzini. Chiuse gli occhi, aspettando il dolore che avrebbe preceduto la pace.

Il timoniere eseguiva alla lettera gli ordini che Campagnola gli aveva impartito. «Guarda altrove», gli aveva detto, «e non ti accorgerai di nulla.»

E lui altrove stava guardando, quando la lama gli trafisse la carotide.

L’assalitore abbandonò il corpo della sua vittima sulla barra del timone. Quindi, con l’agilità di un felino, l’uomo raggiunse il ponte, tenendosi radente al parapetto per venire protetto dall’oscurità.

«Tirate!» ordinò Campagnola ai suoi.

I tre marinai strinsero le mani callose attorno alla corda, puntarono i piedi sul legno del ponte e si prepararono allo strappo mortale.

Adil aveva seguito ogni operazione come se non fosse stato lui la vittima di quella ingiusta esecuzione. Non voleva dare ai suoi aguzzini la soddisfazione di mostrare paura. I suoi occhi color del cobalto si piantarono in quelli di Campagnola e lì rimasero sino a che il primo strattone al nodo scorsoio non li fece chiudere.

«Vengo da voi, padre e madre», ebbe modo di dire, mentre la voce si faceva roca.

La lama si abbatté con forza sulle braccia protese dei marinai intenti a issare il condannato. Uno degli uomini emise un grido di raccapriccio, osservando i due moncherini grondanti di sangue al posto degli avambracci. Quindi l’assalitore gli fu addosso per finirlo.

Fu poi la volta del secondo dei tre: l’uomo lo caricò frontalmente, brandendo la sciabola e oltrepassandolo con la lama come un sacco pieno di paglia secca.

Il terzo, sconvolto da quell’apparizione infernale, si gettò in mare, preferendo una morte pressoché certa alla furia del demonio che era piombato loro addosso.

Fu allora che l’assalitore puntò la lama al volto di Campagnola.

«Tu?!» disse l’unico rimasto sul ponte della nave, oltre a Adil. «Non è possibile! Tu sei un fantasma mandato qui da Satana, che protegge quel bambino.»

Il misterioso pirata ruotò la lama, colpendo con l’elsa Campagnola alla tempia. Il veneziano si accasciò senza un lamento.

Quindi si affrettò a liberare Adil dal cappio, lo scosse leggermente per fargli riprendere i sensi e si diresse verso il boccaporto dove, dalla sua imbarcazione, aveva visto condurre i prigionieri legati.

La stiva era buia, ma l’uomo riuscì ugualmente a liberare i due orientali e la donna, tornò sul ponte, seguito dal terzetto e si diresse verso la paratia ove Adil stava appoggiato, in preda a una tosse convulsa.

«Il cofanetto… l’anello», riuscì a dire Adil, indicando il forziere di Crespi che era ancora vicino a Campagnola e l’anello che il veneziano aveva al dito.

Il loro salvatore raccolse il forziere, quindi tentò di sfilare l’anello dall’indice del suo nemico. Dalla stiva salivano dei rumori: la ciurma si stava destando. Dovevano fare presto.

«Un dito in cambio della tua misera vita. Spero ti ricorderai un giorno che ti ho graziato: non riuscirei ad accoppare a sangue freddo un uomo inerme», sussurrò, mentre la lama si abbatteva sull’indice di Campagnola recidendolo di netto.

«Presto, prendete il bambino e salite sul badan legato a dritta. È un’imbarcazione piccola, ma molto più veloce di questa caracca. Entro poche ore li avremo seminati.»

Il vento era calato non appena Wu aveva reciso le cime che assicuravano il badan al fianco della nave. L’oscurità stava lasciando il posto ai primi bagliori dell’alba. Gli occupanti dell’imbarcazione araba remavano con tutte le loro forze per allontanarsi il più possibile dalla nave: sapevano che, non appena Campagnola fosse rinvenuto, avrebbe dato l’allarme e si sarebbe lanciato al loro inseguimento.

Adil osservò l’uomo che gli aveva salvato la vita. Gli occhi azzurri della misteriosa figura che l’aveva strappata alla morte brillavano di una strana luce.

«Sono morta», disse Adil, «e ti ho finalmente raggiunto, padre mio.»

Il Muqatil, per la prima volta dopo molti mesi, sorrise.

«No, bimba mia. Sei sana e salva. Ho riconosciuto te e gli uomini a cui ti avevo affidata sin dal momento in cui Campagnola ha abbordato la cocca, nonostante l’oscurità e gli abiti maschili che porti. Ho agito appena sono stato in grado di farlo.»

Le urla provenienti dalla nave veneziana riuscivano a superare il breve braccio di mare che separava le due imbarcazioni. Wu stava remando con poderose vogate, aumentando la distanza fra loro e i veneziani. La caracca poteva essere mossa solo dalla forza del vento e questo costituiva un ulteriore vantaggio per i fuggitivi.

Campagnola e i suoi sembravano cani rabbiosi legati a una catena. Gridavano ingiurie alla volta della piccola imbarcazione e, impotenti, la vedevano allontanarsi sempre più.

«Non avrò pace sino a che non sarete tutti sotto terra, creature di Satana!» urlò il nobile veneziano, il volto contratto dall’odio. Quindi si rivolse a uno dei suoi: «Passami una balestra».

Come molti suoi concittadini, anch’egli si dilettava nell’uso di quella potente arma e partecipava ai frequenti tornei, molto popolari nella città lagunare.

Campagnola premette il moncherino dell’indice contro un brandello di stoffa, impugnò l’arma e prese la mira. Quindi poggiò le tre dita sane sulla manetta e fece una leggera pressione.

Il dardo partì con uno schiocco violento, accompagnato dalla maledizione del veneziano: «Muori, figlio del Demonio».

Il Muqatil era raggiante di felicità: aveva ritrovato sua figlia, la ragione della sua vita. Si alzò per cingere la bambina, mentre un sibilo sinistro seguito da un colpo sordo tagliava il silenzio.

Il dardo penetrò tra le scapole del guerriero saraceno. Il Muqatil si rese conto che la traiettoria della freccia avrebbe colpito Celeste al volto, se il caso non avesse voluto che il suo corpo si frapponesse tra lei e l’inesorabile appuntamento con la morte. Il sorriso non abbandonò le sue labbra, nemmeno quando scivolò a terra.

Un primo alito di vento soffiò assieme al sole che sorgeva dal mare. Le vele del badan si gonfiarono, portando gli occupanti sempre più lontano dalla minaccia.

«Spostati, Adil, o come ti chiami», disse Rhoda chinandosi sul ferito, «prendimi dell’acqua di mare e guarda sotto quella tela se ci sono dei panni puliti. Temo che ci sia poco da fare.»

Il Muqatil parve riprendere conoscenza. «Mi dispiace non essere arrivato prima, piccola mia. Avrei voluto godere più a lungo della tua meravigliosa compagnia.»

«No, padre, no, ti prego, non dire così, proprio adesso che ci siamo ritrovati.»

«È stato il caso che ci ha voluto dare questa ultima opportunità di salutarci. Non pensavo che ti avrei rivisto ancora quando, contratta la peste, mi sono ritirato sull’isola che ha visto nascere l’amore tra me e tua madre. Ma la malattia mi ha risparmiato, così come mi aveva risparmiato la katana di Humarawa quando, invece di cimentarsi con i superstiti di Tabarqa, aveva facilitato la nostra fuga. Una volta guarito, dall’isola mi sono messo all’inseguimento della vostra cocca, sperando che trasportasse un ricco bottino. Non avevo idea che vi avrei trovato il mio più grande tesoro.» Il Muqatil riprese fiato per qualche istante, quindi si rivolse al giapponese. «Abbi cura di lei, Humarawa. Amala come se fosse figlia tua, mio onorevole nemico.» Il volto del guerriero era ormai terreo. «Addio, piccola mia.»

Questa volta gli occhi color cobalto del Muqatil, il pirata che non conosceva lacrime o paura, si chiusero per sempre.