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PARTE QUARTA

Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo.

Thomas Edward Lawrence

39

Giugno 2004

«Figlio mio», Sara Terracini trasalì quando decrittò le parole con cui si apriva il documento che un funzionario dell’ambasciata israeliana a Roma aveva insistito per consegnarle personalmente. E, in effetti, sembrava che il diplomatico avesse avuto tutte le ragioni per considerare importante il diario. Sara si rese conto che si trattava della lunga lettera di un padre a un figlio. Quel figlio si chiamava Oswald Breil. E la lettera era scritta in forma di diario, in quel linguaggio familiare che ormai aveva imparato a conoscere.

«Soltanto tu riesci ad alterare il mio equilibrio, Oswald… accidenti!» disse tra sé Sara prima di tuffarsi nella trascrizione di quanto andava scoprendo sulla vita di un agente del Mossad in missione nella Romania di Ceausescu.

Trasse un profondo respiro, quasi volesse dare un colpo di spugna alla mente per sgombrarla da pensieri e sentimenti che avrebbero potuto indurla alla parzialità. O peggio, come diceva Oswald, a fantasticare. Quindi si mise al lavoro con la sensazione che, in breve, sarebbe stata travolta da una nuova e avvincente avventura.

Dal diario di Asher Breil, Bucarest, 1968.

Figlio mio, ho deciso di scrivere su questo quaderno i fatti più importanti di cui sono stato protagonista, e spero che, in un modo o nell’altro, i miei ricordi possano arrivare fino a te. Spesso, per una sorta di delirio di onnipotenza che pervade ognuno di noi, crediamo di essere testimoni di eventi ineguagliabili e di basilare importanza per la sopravvivenza della nostra civiltà. Detto questo, anche se forse a torto, io sono convinto di avere in qualche maniera partecipato ad accadimenti fondamentali per la comprensione degli ultimi decenni della nostra storia e credo di assistere all’operato di personaggi senza i quali ora il mondo non sarebbe al punto in cui si trova. A te il giudizio.

Ceausescu era rientrato il 17 agosto dal suo viaggio a Praga, in quell’estate piovosa del 1968. Il conducator aveva pubblicamente manifestato la solidarietà alla «primavera di Praga», sia nel corso del suo viaggio in Cecoslovacchia che al rientro in Romania.

I carri armati sovietici avevano invaso lo Stato governato da Alexander Dubcek il 20 agosto. Tutte le truppe delle nazioni allineate con il patto di Varsavia, fatta eccezione per l’esercito rumeno, avevano occupato il territorio cecoslovacco con un gran numero di soldati e mezzi corazzati.

Ricordo che il conducator aveva chiesto di incontrarmi un paio di giorni dopo l’invasione sovietica.

Mi ero trasferito a Bucarest quasi un anno prima. Nel corso dei primi mesi di permanenza là, ero riuscito a guadagnarmi una fetta della fiducia del leader rumeno: l’Istituto, così come gli addetti chiamavano il Mossad, aveva aperto un ufficio della banca svizzera da me rappresentata in Romania e, in breve, ero diventato il banchiere di fiducia di Nicolae Ceausescu. Intendo sottolineare la «porzione di fiducia»: ho sempre avuto la convinzione che il segretario generale sapesse bene quale fosse la mia reale occupazione. Ma mentre il fatto che militassi nel Mossad non gli causava preoccupazioni, la mia «copertura» gli era invece estremamente utile: attraverso l’ufficio della banca da me rappresentata, affluivano ingenti somme di denaro in Romania e, in direzione opposta, venivano istituiti depositi personali in Svizzera a nome di individui molto vicini a Ceausescu e a sua moglie Elena. Con quest’ultima il mio rapporto è sempre stato difficile, e non poteva essere altrimenti, visto il carattere freddo e severo della donna.

Questo reciproco esserci utili aveva fatto nascere tra me e il leader rumeno una sorta di complicità sfociata in un rapporto che definire d’amicizia mi sembra eccessivo. Potrei chiamarla una «confidenza intima» che lo spingeva ad aprirsi con me come faceva con pochi dei suoi collaboratori.

Un giorno mi mostrò un antico quaderno e me ne fece leggere le prime righe redatte a mano con una scrittura arcaica. Riconobbi subito, dal contenuto del testo, il libriccino: me ne aveva parlato un generale italiano, Sciarra della Volta, che avevo incontrato, per tutt’altra ragione, circa un anno prima a Cortina d’Ampezzo. In quel quaderno un settecentesco principe di Valacchia aveva descritto il luogo ove era stato nascosto un simbolo del nostro popolo. Quella fu la prima occasione in cui Ceausescu mi parlò dell’Anello dei Re.

«Nulla da fare, Oswald», disse Cassandra Ziegler scuotendo il capo, «pare non ci sia modo per risalire al computer che ha fornito gli impulsi satellitari al Predator. Il Giusto si è inserito su una rete telematica militare attraverso un semplice portale, facendo rimbalzare il segnale tra milioni di server sparsi ovunque nel mondo. Arrivato nella rete deve aver raggiunto la stanza dei bottoni — quella che dà accesso al satellite di controllo attraverso una linea Ku-Band — che era protetta da un solo codice d’accesso. A questo punto ha inserito un secondo codice, quello dell’aereo in volo sopra Washington, e ne ha preso il controllo. L’ufficiale che ci stava illustrando il funzionamento del Predator ci aveva appena spiegato che riuscirebbe a pilotarlo chiunque, fatta eccezione per le operazioni di decollo e atterraggio, che richiedono una maggiore capacità. Ma la cosa non interferiva in alcun modo con i piani del Giusto: l’aereo telecomandato è stato abbattuto dall’apparato di sicurezza un minuto dopo l’attentato e, per quanto riguarda il decollo, se ne era occupato il nostro ufficiale.»

«Già», aggiunse Deuville, «nel momento in cui, ad attentato ormai avvenuto, è scattato l’allarme e sono entrati in funzione i sistemi di difesa antiaerea della Casa Bianca, l’aereo è stato distrutto. Va tenuto presente che il Predator stava effettuando un volo governativo, e quindi autorizzato, e che il Trasponder, il sistema a impulsi che permette di riconoscere un velivolo come nemico o amico, ha correttamente identificato l’aeromobile come non pericoloso. Nessuna difesa era stata quindi allertata. Senza contare che, qualunque fosse stato il livello d’allarme, tutto si è svolto nell’arco di una manciata di secondi: un tempo comunque non sufficiente per respingere un’improvvisa minaccia. Ricordo che, pochi anni fa, l’autore di una bravata è riuscito ad atterrare con un Piper nel prato antistante la residenza del presidente.»

«I nostri computer», riprese Cassandra, «hanno effettuato un nuovo screening sui militari americani — e sottolineo che il campionamento è limitato a ‘militari americani’ — che, oltre a essere stati nella possibilità di raggiungere alcune delle località oggetto degli attentati del Giusto, si trovavano negli Stati Uniti in occasione del recente attacco alle donne musulmane davanti alla Casa Bianca. Ti prego di prendere con le dovute cautele questo dato, Oswald: non solo sono troppe le variabili, ma risulta anche materialmente impossibile controllare ogni alibi, stato di servizio, missione in corso. A ogni modo il numero si è ora ridotto a poco meno di milleseicento persone, ancora tante per svolgere indagini serie, anche perché le forze di cui disponiamo sono davvero scarse.»

«Posso avere una copia del tabulato, Cassandra?»

La donna annuì e un silenzio denso di apprensione calò nell’ufficio del direttore dell’FBI, Deuville: in quella stanza si trovavano tre dei più capaci investigatori di cui l’America potesse disporre e pareva fossero del tutto impotenti davanti alle azioni del Giusto.

Glakas osservò il display del cellulare: non vi lesse alcun nome tra quelli che erano memorizzati nella sua rubrica, né comparve il numero di telefono da cui proveniva la chiamata. Rispose cercando di non tradire l’affanno, ma era certo di sapere chi fosse il suo interlocutore.

Dall’altro capo della linea una voce metallica, palesemente contraffatta, disse: «Buongiorno, Glakas, in che senso dicevi di potermi essere utile?»

«Consegnati, Giusto, e ti prometto che…»

«Smettila con queste cazzate. Vorrei sapere che cosa intendevi con quelle parole.»

«Ti prometto che la corte…»

«Ti ho già detto di smetterla! Un pezzo grosso dell’intelligence non offre aiuto a una minaccia sociale quale io sono. Vuoi che ti dica io come potresti aiutarmi? Ho bisogno di esplosivo. Una ventina di chilogrammi di esplosivo ad alto potenziale. Ecco come potremmo esserci d’aiuto a vicenda: ricordi dove sei nato, non è vero? Ti ricordi come sei stato cacciato dalla tua isola dalla sera alla mattina? Io posso vendicare quello che hanno fatto a tua madre e alla tua famiglia. Ti lascio il tempo per pensarci, Glakas. Richiamerò presto.»

40

Dagli appunti raccolti da Asher Breil

a Cortina d’Ampezzo, 1967

Il vento si alzò all’improvviso, formando mulinelli di carte e polvere nella piazzetta antistante l’hotel Posta, lungo il centrale corso Italia, a Cortina. Asher Breil, seduto davanti a Sciarra della Volta sulla terrazza esterna, poteva sembrare un giornalista intento a intervistare uno dei tanti magnati della finanza che sceglievano la perla ampezzana per le loro vacanze. L’agente del Mossad ascoltava attentamente l’anziano generale e contemporaneamente prendeva appunti.

«Dove eravamo rimasti?» chiese Sciarra, tentando di fare ordine nei suoi pensieri.

«Al colonnello Lawrence…» suggerì Asher, ormai avvinto dal racconto.

«Già, il colonnello Lawrence…» Sciarra citò a memoria una frase di Lawrence che era divenuta celebre: «Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo».

Con queste parole il colonnello inglese aveva commentato, entrambi seduti al tavolo, lo scopo della missione illustratagli dall’italiano. Gli altri avventori del locale assediato dal fumo dei narghilè osservavano con curiosità l’occidentale intento a discutere fittamente con quello che pareva essere un beduino. Qualcuno aveva però riconosciuto Lawrence, e alle occhiate più o meno furtive erano seguiti fitti commenti a voce bassa.

«Se non fosse stato per un sogno, oggi non sarei qui», continuò l’ufficiale nato trent’anni prima a Tremadoc, nel Galles. «Il mio sogno è quello di contribuire a creare una nazione unita. Una nazione che superi le rivalità fra le tribù del fiero popolo d’Arabia. Vedrete, Alberto, avrete modo di convenire con le mie tesi, combattendo al fianco di questi valorosi guerrieri.»

Così dicendo Lawrence indicò tre facce poco raccomandabili sedute poco distanti. «Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: ognuno di quegli uomini darebbe la vita per me. Mi seguono ovunque e mi proteggono da chiunque potrebbe rappresentare un pericolo. So bene che i miei connazionali, gli stessi che mi gratificano con onorificenze e promozioni sul campo, mi reputano un personaggio scomodo. Il fatto è che la propaganda occidentale ha mistificato la realtà: per gli arabi questa guerra è motivata dalle loro legittime aspirazioni di indipendenza. Ben diverse, invece, sono le motivazioni degli occidentali, ma hanno bisogno degli uomini che rispondono agli ordini miei e del principe Feisal: per questo motivo mi coprono di riconoscimenti. Tuttavia, non appena i giochi saranno fatti, ho il timore che il destino del popolo arabo non interesserà più a nessuno e che anche io verrò messo brutalmente da parte…

«Il fatto che la vostra missione in queste terre abbia finalità simili al mio grande sogno mi riempie di felicità, Alberto. Per lungo tempo ho cercato di convincere le tribù di queste regioni che l’unico modo per ottenere l’indipendenza sta nella loro alleanza con le nazioni della Triplice intesa e non con le armate germanico-turche. Le recenti missioni in zone operative mi hanno però distolto dal cercare nuovi proseliti: e invece c’è sempre un gran bisogno di truppe fresche quando si combatte una guerra. Sono convinto che siano ancora molte le tribù incerte sul da farsi, per non parlare dei potenti califfati che mantengono una precaria imparzialità dettata dall’ignoranza dei fatti e da null’altro. Per esempio, molte delle popolazioni della Siria orientale potrebbero sposare la nostra causa, ma sembra che le mie parole si siano perse nel kamsin, il vento del deserto, quando ho espresso le mie convinzioni ai nostri capi. Mi fa piacere che una persona come voi sia d’accordo con me. Se mi permettete, vorrei che trascorreste qualche tempo con noi: gli arabi hanno una mentalità che va conosciuta e valutata per essere apprezzata. So che voi avete vissuto per qualche anno a Port Said con la vostra famiglia e che lì avete appreso alla perfezione la lingua, ma altra cosa è vivere da soldato tra i soldati. Senza contare che un ufficiale della vostra esperienza potrebbe esserci di grande aiuto.»

«Sono lusingato dalla vostra proposta, colonnello Lawrence. È esattamente quello che avrei voluto chiedervi. La mia autonomia operativa al momento è illimitata e lasciata al mio arbitrio: non devo rispondere a nessun superiore diretto nel corso di questa missione. È quindi con grande piacere che entrerò a far parte dei vostri ranghi.»

Uscirono dalla taverna dopo aver gustato una ful mudammas, una zuppa di fave secche molto piccante, arricchita con cipolla, aglio e uova. Decisero di passeggiare un poco per continuare la loro conversazione.

Un convoglio di navi stava sfilando davanti alla banchina del porto: alcune unità militari scortavano bastimenti passeggeri e da trasporto. Thomas Lawrence e Alberto Sciarra rimasero a osservare le navi.

«Quella era la mia occupazione prima della guerra, Thomas», disse Sciarra indicando il convoglio. «Ottimizzare il carico, riscuotere i noli, approvvigionare le navi e il loro equipaggio di tutto ciò di cui potessero avere bisogno: questi e molti altri sono i compiti dell’agente marittimo.»

«Io, invece, quando vidi per la prima volta il deserto e me ne innamorai, vi ero stato inviato per le mie conoscenze di archeologia.»

Il rumore sordo del galoppo di alcuni cammelli sulla sabbia indusse entrambi ad alzare lo sguardo: nel vicolo angusto tre uomini spronavano gli animali verso di loro. Sciarra ebbe appena il tempo di rendersi conto che uno di loro impugnava una grossa pistola a tamburo.

«A terra!» gridò l’italiano anticipando di un soffio il rumore dello sparo.

Gli assalitori portavano la kefiyyah e buona parte del loro volto era coperto: ciò li rendeva irriconoscibili.

I misteriosi individui fecero fuoco in rapida successione ma, grazie alla prontezza di Sciarra, i due ufficiali avevano trovato riparo dietro a un carretto di legno e da lì stavano preparandosi a rispondere al fuoco.

Lawrence prese la mira ed esplose un colpo con la sua pistola. Uno degli uomini emise un grido soffocato e cadde a terra.

Fu allora che altre tre figure presero corpo nel buio: si trattava delle guardie che coprivano le spalle a El Lawrence. Due dei tre si scagliarono contro uno dei cavalieri. Ponendosi uno da un lato e uno dall’altro del cammello, i due spiccarono un salto quasi simultaneamente, ruotando nel frattempo il busto per imprimere maggior forza alla loro scimitarra. L’assalitore cadde ferito a morte.

L’unico superstite fece girare il suo cammello e fuggì nella direzione da cui era venuto. Le tre guardie del corpo di Lawrence si assicurarono che i due ufficiali fossero incolumi e quindi se ne andarono nella notte.

«Grazie, Alberto. Vi conosco da poche ore e già vi sono debitore della vita.»

«Sono io che vi devo la mia gratitudine: siamo salvi grazie alla vostra mira e al valore dei vostri uomini, Thomas.»

Quattro giorni più tardi il colonnello Sciarra raggiunse Aqaba: qui attese il ritorno di Lawrence, che era stato chiamato al Cairo per alcuni colloqui con i suoi superiori.

Non appena l’ufficiale inglese arrivò ad Aqaba, si mise in contatto con l’italiano. «Ho avuto modo di incontrare i comandanti in capo al Cairo. Tutti hanno in comune uno strano approccio nei miei confronti: sembrano non capire quanto io sia sincero o quanto ciarlatano. A ogni modo Allenby mi ha assicurato il suo appoggio. Staremo a vedere.»

Gli occhi di Lawrence si persero nella baia. Nel centro del golfo troneggiava l’ammiraglia inglese Euryalus.

«È una vera fortuna che l’ammiragliato abbia deciso di far restare qui quella cannoniera.»

Al cenno interrogativo di Sciarra, Lawrence riprese: «Gli arabi giudicano le navi dal numero delle loro ciminiere: l’Euryalus ne ha quattro. Quindi per i popoli di questa regione è considerata pressoché invincibile. Ed è la dimostrazione evidente di quanto sia stata schiacciante la nostra superiorità nella battaglia di Aqaba».

«Ma in una guerra come questa non ci sono solo le grandi battaglie: gli uomini del deserto conoscono tattiche più sottili, anche se meno plateali. L’attacco al treno sul quale viaggiavo pochi giorni fa mi ha fatto venire in mente una cosa…» disse Sciarra.

«Andate avanti, colonnello, e vediamo se ancora una volta i vostri pensieri corrispondono ai miei.»

«Se i predoni avessero danneggiato gravemente la linea, sarebbero occorsi giorni e giorni, forse mesi, per rendere di nuovo agibile l’unica via di collegamento terrestre tra Ismailia e Suez. Anche se in questo caso il canale, che corre parallelo alla ferrovia, avrebbe potuto in parte supplire al disagio. Se un nostro plotone di guastatori riuscisse a far saltare un tratto di strada ferrata in mano ai turchi, o un intero convoglio nel bel mezzo del deserto, sarebbe un grande successo. Un metro di binari vale più di mille cammelli nelle strategie che sto imparando a conoscere.»

«Sono sempre più contento di avervi al mio fianco, colonnello. È da tempo che sto pensando a un’azione del genere e credo anche di aver individuato la zona da colpire.»

Confrontarono ancora a lungo le loro opinioni: a un uomo intelligente e accorto come Lawrence non poteva certo sfuggire l’esperienza maturata dall’ufficiale italiano nel corso della difficile guerra di mina sulle Dolomiti.

Quando si congedarono, il sole al tramonto inondava di riflessi rosati la distesa immota del golfo di Aqaba. Presto le tenebre sarebbero giunte a mitigare l’arsura: il termometro nelle ore diurne arrivava a toccare punte di cinquanta gradi.

«A tra poco, colonnello Sciarra. Non dimenticatevi che il comandante dell’Humbert ci aspetta per cena, e voi sapete quanto questi marinai tengano alla puntualità e all’etichetta.»

L’italiano risalì nella sua stanza. Come al solito l’attendente aveva disteso sul letto il cambio per la serata. Sciarra si accorse però che mancava un bottone alla giacca della divisa, la stessa che aveva indossato nel corso dell’attacco al treno. L’ufficiale uscì nel corridoio e bussò alla porta della stanza di Rocco. L’attendente aprì l’uscio solo dopo ripetuti colpi e non riuscì a nascondere un certo imbarazzo.

«Non preoccupatevi, Rocco, non mi scandalizzo certo nel vedere un uomo in mutande», disse Sciarra. Un odore acre e fastidioso proveniva dall’interno della camera. L’ufficiale pensò che si trattasse di effluvi che salivano dalla strada e non ci fece molto caso.

Pochi minuti più tardi Rocco riportò la divisa al suo superiore. «Scusatemi, signor colonnello, non mi ero accorto che mancasse un bottone.»

«Poco male, Rocco. Grazie, lasciatela pure sul letto.»

«Che cosa dice l’eroe d’Arabia, signore?»

«Nulla di nuovo. Sembra che ogni mia opinione sposi la sua e viceversa», rispose Sciarra, intento a radersi davanti al lavabo.

«Certo deve essere esaltante lavorare fianco a fianco con un eroe, signore. Promettetemi che nel corso della prima missione mi concederete di seguirvi.»

«Quasi certamente mi seguirete, soldato.»

«Ne sarei orgoglioso, signore. Una missione nel deserto al fianco vostro e del colonnello Lawrence. Quale sarà il nostro obiettivo?»

«Nulla è ancora deciso ed è prematuro parlarne», tagliò corto il colonnello, abituato a non scoprire le proprie carte. La riservatezza non era mai troppa in una terra dove dietro ogni duna di sabbia poteva nascondersi un traditore.

Il capitano Snagge comandava il pattugliatore Humbert. Era un marinaio giovane e pronto alla battuta, che tendeva sempre a vedere il risvolto positivo e comico di ogni evento. La sua nave, in origine, avrebbe dovuto pattugliare le coste brasiliane, infestate di pirati e di predoni. Le necessità del conflitto l’avevano invece dirottata verso il golfo di Aqaba, dove era stata destinata, tra l’altro, ad alloggio per i molti ufficiali inglesi presenti in città da quando questa era stata conquistata.

L’ottima cena si era protratta tra i cordiali scambi di battute dei tre ufficiali. Quando si trovarono sulla lancia che li avrebbe riportati a terra, Lawrence disse a Sciarra: «Nei prossimi giorni inizieremo a istruire gli arabi sull’uso di esplosivi e detonatori: ho richiesto l’ausilio di due istruttori. Dovrebbero giungere dal Cairo tra breve. Nel frattempo penso che voi e io dovremmo dedicarci ai dettagli del nostro piano: entro un mese dovremo essere pronti ad agire».

41

Pécs, Ungheria, 1357

L’ansa del Danubio era visibile dall’altura sulla quale i due uomini si trovavano. Il grande fiume correva lento, come lenti si erano susseguiti gli anni. Ma, alla fine, il tempo era stato capace di lenire il dolore che aveva soffocato il cuore del giovane musulmano.

Adil stava in piedi al centro della radura, la katana stretta nelle mani. Humarawa lo osservava con attenzione, e di tanto in tanto correggeva la postura del guerriero che aveva ormai assunto i modi e le movenze di un autentico samurai.

Il giapponese non aveva di che lamentarsi: Adil era il migliore degli allievi. Sempre più spesso Humarawa, e con lui i pochi che erano a conoscenza del segreto, si scordava che sotto le vesti di Adil si celava il corpo di una femmina.

L’identità della giovane figlia del Muqatil era stata tenuta nascosta a tutti: Campagnola era ancora vivo e pareva che i suoi informatori, malgrado il tempo trascorso, fossero ancora allettati dalla promessa di una lauta ricompensa in cambio di notizie sul figlio di Satana e sui due orientali che lo accompagnavano. Fortunatamente, l’avversione tra Venezia e il re Luigi I d’Ungheria e Polonia faceva sì che pochi veneziani oltrepassassero i confini ungheresi.

Ma se in Adil aveva trovato un allievo attento e meticoloso, ben altre difficoltà incontrava il samurai nell’istradare i due gemelli avuti da Rhoda e Wu all’arte delle armi: i due vivaci bambini, pressoché identici, non riuscivano proprio mai a trovare la concentrazione necessaria per dedicarsi alla dura disciplina che li avrebbe fatti diventare dei guerrieri.

Spesso a Humarawa toccava rimproverarli e lamentarsi col loro padre che, a quel punto, non risparmiava punizioni e sculaccioni. Tutto sommato, però, erano due simpatici bricconi, incapaci forse di apprendere le arti marziali, ma furbi e lesti come furetti, sempre pronti a spalleggiarsi a vicenda, e affascinanti con quegli occhi a mandorla su visi dai tratti europei. Po-Sin e Dewei sapevano farsi amare dai membri di quella strana famiglia composta da un ragazzo, una donna e due orientali che vivevano come eremiti, arroccati in una grande casa di campagna sulle colline di Mecsek, a poca distanza dalla antica città di Pécs, che i veneziani chiamavano Cinquechiese.

Adil, invece, si era sempre comportato molto bene e adesso il suo severo tutore raccoglieva i risultati dei suoi sforzi: l’allievo eseguiva alla perfezione i passi di una danza che si sarebbe trasformata in un balletto mortale per chiunque avesse tentato di sbarrargli il passo.

«Credo sia ormai tempo dell’investitura, Adil», disse Humarawa un giorno, quando l’ennesima esercitazione ebbe fine.

L’espressione di Adil era raggiante.

Wu e Rhoda li aspettavano in casa.

Humarawa aveva voluto che l’antico cerimoniale venisse rispettato: un sorriso si aprì sulle labbra del samurai. Non c’era malinconia nel suo sguardo segnato da piccole rughe che aumentavano con l’incedere degli anni: Humarawa, il più temuto tra i samurai, era stato un ottimo maestro.

Il giapponese aveva voluto che la formazione di Adil seguisse un programma molto rigoroso. Giunti al termine di ogni sessione, lo stesso Hito Humarawa si trasformava in severo esaminatore, così come erano soliti fare i maestri delle scuole di samurai o, a volte, i daymio — padroni assoluti di ogni prefettura — nella sua patria lontana.

Adil aveva superato brillantemente tutte le prove di letteratura, aritmetica, calligrafia, comportamento ed etichetta. Ma erano le arti marziali, gli esercizi con la spada e il tiro con l’arco le specialità in cui il giovane eccelleva.

Come un tempo era accaduto a Humarawa, durante la cerimonia di investitura gli venne consegnata l’armatura di lamelle d’acciaio laccate tenute assieme da fettucce di seta. Adil riconobbe subito che era quella appartenuta al suo maestro, così come il daisho, il baldacchino in legno intarsiato su cui erano collocate le due spade dei samurai.

Le mani di Adil presero dapprima la più lunga, la katana. Quindi le dita si serrarono attorno al manico della più corta, wakizashi, e la inserirono all’interno della cintura, sul fianco opposto rispetto a quello in cui si trovava la katana. Quindi chinò il capo in segno di saluto e di rispetto.

Fu allora che Humarawa parlò: «A questo punto un samurai dovrebbe giurare fedeltà all’imperatore e al sole nascente del Giappone. Questo non è possibile, ma dato che conosco il valore del tuo animo, ti chiedo di formulare un giuramento di fedeltà ai tuoi nobili ideali».

«Io giuro di esservi fedele per sempre, amici miei. Giuro di esser pronto a dare la mia vita per la vostra. Giuro che non avrò pace sino a che non sarà fatta vendetta: la stessa che le anime di mio padre e di mia madre reclamano nei confronti del loro assassino.»

«Capisco la tua foga, giovane Adil: quando avevo la tua età ero ben più focoso e gli argomenti che sollecitavano la lama della mia spada erano assai meno nobili dei tuoi. Ma sono ormai quasi nove anni che viviamo serenamente in questa valle, vedendo crescere le messi e osservando il lento scorrere del fiume. Quindi, pensaci bene prima di inondare nuovamente di sangue il tuo cuore.»

In quel momento, Dewei fece irruzione nella stanza. Il bimbo sembrava sconvolto: «Quell’uomo… quell’uomo ha preso mio fratello! Lo ha immobilizzato e portato via. Ve ne prego, aiutate Po-Sin».

«Calmati, Dewei!» disse sua madre, inginocchiandosi davanti a lui e cercando di capire che cosa fosse accaduto.

«Quell’uomo ha portato via mio fratello Po-Sin, madre!»

«Dov’è successo? Parla, figlio mio», chiese Wu, mentre impugnava una grossa mazza e si dirigeva verso la porta.

«Nel bosco, poco distante da qui. Stavamo giocando quando un uomo è apparso dal nulla e ha afferrato mio fratello», continuò Dewei tra i singhiozzi, «l’uomo è salito su un cavallo che due compari stavano tenendo fermo. Ha detto che un tale Campagnola nutrirà mio fratello sino a quando il figlio del Demonio non si consegnerà a lui. Se ciò non accadrà, smetterà di nutrirlo e mio fratello morirà di fame. Che cosa ha voluto dire, madre mia? Chi è questo Campagnola? Ho paura», disse Dewei scoppiando in lacrime.

Gli uomini si precipitarono fuori con le armi in pugno, salirono sui cavalli e si lanciarono in un inutile inseguimento: i rapitori del piccolo Po-Sin si erano dileguati senza lasciare traccia.

Il vecchio si chinò verso il bambino. La pelle raggrinzita e l’espressione rapace lo facevano assomigliare a un avvoltoio. «Vediamo quanto sei importante per loro, piccolo dagli occhi a mandorla.»

La mano di Po-Sin si mosse con estrema rapidità e le dita del bimbo andarono ad afferrare il naso adunco di Campagnola, insinuandosi nelle narici come artigli.

Campagnola cercò di ritrarsi, in preda al dolore, ma il bambino non mollava l’appiglio. Soltanto quando la mano del veneziano colpì il piccolo al volto il figlio di Wu lasciò la presa.

«Chiudetelo in una cella!» disse Campagnola premendosi un panno sul naso grondante di sangue. «Lasciatelo senza cibo per due giorni.»

Lo sguardo del veneziano si fece perfido: il palazzo sede del tribunale dei Dieci Sapienti era considerato uno tra i più sicuri di Venezia. Da quel luogo era praticamente impossibile riuscire a fuggire. Nel caso di una visita da parte dei due orientali e del figlio del Demonio, Campagnola era rassicurato dal fatto che, nel palazzo, fosse impossibile fare irruzione senza venire passati a fil di lama dal nutrito corpo di guardia.

Campagnola guardò il moncherino del suo indice e sibilò tra i denti: «Ti aspetto, figlio di Satana».

La maestosa cattedrale costruita da re Stefano quasi tre secoli prima si trovava al centro della città di Pécs. Era da tempo che il vescovo della città, Pannonio, avrebbe dovuto recarsi a Venezia in visita diplomatica. Il suo non sarebbe stato un viaggio ufficiale, ma tutti sapevano che il massimo esponente ecclesiastico di Pécs sarebbe stato latore di una proposta di pace da parte di re Luigi d’Ungheria.

Il giovane monaco benedettino si presentò nella cattedrale al vespero. Un anziano curato gli offrì ospitalità e gli chiese il motivo della visita.

«Sono qui per conferire con sua eminenza il vescovo», rispose il frate.

«Mi pare di capire che tu non abbia un appuntamento. Credo ti convenga aspettare sino al prossimo martedì, giorno in cui il vescovo concede udienza. Ma non attardarti oltre: sua eminenza ha in programma un lungo viaggio.»

«È proprio di questo viaggio che vorrei parlare con Pannonio: io vorrei accompagnarlo nel suo pellegrinaggio.»

«Allora la cosa si pone in altro modo, mio buon fratello: il vescovo è alla ricerca di persone giovani e forti che condividano con lui i pericoli e le scomodità del viaggio. Ti farò parlare con lui non appena saranno terminate le preghiere della sera.»

«Dio sia con te!» esclamò il giovane. Gli occhi color cobalto riflettevano la tenue luce delle candele.

Una settimana più tardi la carovana si mise in marcia. Giunti al primo ostacolo gli uomini erano stati obbligati a sganciare gli animali dai gioghi e proseguire a piedi sino a dove il percorso si faceva nuovamente praticabile. Soltanto a quel punto Adil aveva capito che cosa intendesse il curato quando gli aveva parlato della necessità che il vescovo fosse scortato da giovani robusti: l’alto prelato, comodamente seduto su una portantina, veniva trasportato a spalla in tutte le occasioni in cui avrebbe dovuto posare i piedi a terra.

Il canto stridente di una civetta si levò nella notte. Venezia distava ormai pochi giorni di viaggio. Adil si alzò dal giaciglio. Si mosse sino ai limiti del campo e rispose al richiamo: Humarawa e Wu non avevano perso di vista il convoglio nemmeno per un attimo.

«Questa volta non avrai scampo, Campagnola», sussurrò Adil, gli occhi ridotti a fessure colme di odio.

Il vescovo di Pécs era stato ricevuto in forma quasi privata: sembrava che il nuovo doge, Giovanni Dolfin, avesse timore di mostrare eccessiva apertura verso l’eterna nemica Ungheria, ma che al contempo non fosse così deciso a mantenere una posizione di netta inimicizia. Quando era stato eletto con una maggioranza risicata nel corso di una tumultuosa investitura nell’agosto del 1356, erano stati i suoi meriti militari a fargliela spuntare sugli altri contendenti. Il terreno di battaglia avrebbe però presto decretato ben altro verdetto: gli ungheresi incalzavano alle porte di Venezia, i Carrara di Padova espandevano i propri territori lungo il corso del Po, l’Austria era pronta a marciare su Trieste. Entro breve al doge di Venezia, spogliato dei suoi altisonanti marchesati, non sarebbe rimasto che il titolo beffardo di Dux Venetiarum et coetera, «principe delle Venezie… eccetera».

Sembrava invece che il Consiglio dei Dieci avesse compreso pienamente l’importanza della missione del vescovo Pannonio. L’organo che, nei casi in cui il governo legittimo si dimostrava debole, era uso prendere le redini della Repubblica, anche in quel frangente si sarebbe mostrato lungimirante.

Il vescovo stava percorrendo un lungo corridoio al terzo piano del Palazzo Ducale, corridoio sul quale si aprivano la Sala del Consiglio, la Sala dei Tre capi e la Sala della Bussola, là dove venivano deposte le anonime delazioni che sarebbero poi state esaminate dal Consiglio.

Campagnola si fece incontro all’alto prelato. Devotamente si inchinò e sfiorò l’anello vescovile con le labbra sottili. «A nome del Consiglio dei Dieci, organo del quale sono onorato di essere il consigliere anziano», disse Campagnola, «sarei lieto di avervi come ospite, vostra eminenza, durante il vostro soggiorno nella nostra città.» Quindi proseguì chinandosi verso l’interlocutore e abbassando il tono di voce. «Capisco che l’incontro con il doge vi abbia lasciato l’amaro in bocca, ma dove non arriva un solo uomo, molti uomini possono arrivare.»

Nell’udire quella voce, Adil si era irrigidito, il corpo percorso da un fremito. Il giovane si fece più vicino al vescovo e al consigliere per carpire le loro parole. Il cappuccio da benedettino gli copriva il capo, rendendolo irriconoscibile.

Quanto detto da Campagnola corrispondeva a verità: il Consiglio dei Dieci era presieduto dal doge e composto da dieci consiglieri e da sei membri scelti dal doge stesso. I compiti istituzionali dell’organo collegiale sarebbero stati quelli di garantire l’ordine pubblico a Venezia: forte di questo mandato, il Consiglio, in realtà, entrava nel merito di tutte le decisioni importanti che riguardavano la Repubblica.

Il vescovo ricambiò i convenevoli con frasi lusinghiere: la fama e il potere di Campagnola erano giunti sino a lui. «Nella giornata di sabato, se per voi sta bene, nobile Campagnola.»

«Certo, preparerò ogni cosa perché voi riceviate degna accoglienza.»

I due si congedarono e il vescovo si diresse verso la scalinata del palazzo.

Adil si fece vicino al prelato. «Posso parlarvi, eminenza?»

«Finalmente il più silenzioso dei miei accompagnatori si è deciso a proferire verbo. Sai che ho creduto tu fossi muto? Orsù, parla.»

«Non fidatevi di lui, mio signore.»

«Certo, lo farò, ma che cosa vuoi che succeda a un uomo di chiesa? Chi può avere interesse a far del male a un ambasciatore di pace?»

«Campagnola è un uomo infido, eminenza. Cercate di non restare mai solo con lui. Naturalmente sarete costretto a congedarvi dalle guardie all’ingresso del palazzo… ma nessuno vi può imporre di abbandonare i vostri fedeli monaci. Portatemi con voi. Potrei esservi di grande aiuto.»

«Chi sei tu, che dici di chiamarti fratello Giovanni? E come fai a conoscere così bene il nobile veneziano?»

«Egli fa parte di un periodo della mia vita che sto cercando di dimenticare, eminenza.»

«Come vuoi, fratello Giovanni. Ti condurrò con me, assieme a due altri monaci, in modo che tu possa alfine convincerti delle buone intenzioni di Campagnola e del Consiglio.»

Campagnola era seduto a capotavola nel salone del suo palazzo veneziano. Con lui vi erano cinque influenti membri del Consiglio.

«Questa è la nostra ultima occasione», disse Campagnola. «Mai riusciremo a creare un’altra opportunità a noi così favorevole: dinanzi al Palazzo del Broglio siamo riusciti a comprare i voti di due barnabotti, riuscendo a fare eleggere Dolfin doge di Venezia. Egli adesso disattende i patti e non se la sente di marciare contro l’Ungheria. La sua titubanza farà capitolare la nostra città. Io ritengo invece che si debba attaccare immediatamente e cogliere i nemici di sorpresa. Quelli del doge sono inutili tentennamenti che servono soltanto a far rafforzare i nostri rivali: c’è bisogno di un’azione dalla quale nemmeno il carattere timoroso di Dolfin possa più tornare indietro… state a sentire me…»

42

Agosto 2004

Dal diario di Asher Breil, Bucarest, 1968.

già, l’Anello dei Re… Il talismano che soltanto un uomo giusto può possedere, pena la sventura su di lui. Non sai, figlio mio, quanti uomini reputino giuste, a torto, le proprie azioni.

Non nego che i modi di condurre la nazione adottati da Nicolae Ceausescu fossero in grado di affascinare chiunque. Era un politico capace e attento, sapeva controbilanciare le disobbedienze al governo sovietico con slanci di dedizione degni del più fedele tra i servitori.

Spesso venivo convocato da lui senza alcun motivo specifico, solo per parlare del più e del meno. Teneva sempre in considerazione le mie opinioni. Fu nel corso di uno di questi nostri incontri informali che parlammo dell’Anello dei Re.

«Vedo che l’argomento le sta a cuore», disse il conducator. «Mi dica con sincerità quanto sa di quell’antico talismano.»

«In verità ne so molto poco», mentii. «Mi pare di aver sentito dire che a quell’anello vengano conferiti grandi poteri. Ma non è questo tipo di leggende che suscita la mia curiosità.»

«Non sa quanto si sbaglia, dottor Breil», ribatté Ceausescu, mentre le sue dita si stringevano attorno all’anello che aveva estratto da una piccola cassaforte a muro. «Questo oggetto è passato di mano in mano nel corso dei secoli e, in chiunque lo ha posseduto, ha lasciato un segno indelebile. Guai se ora dovesse cadere nelle mani sbagliate: il potere dell’Anello potrebbe far precipitare nella sventura il suo possessore, oppure farlo prosperare nella malvagità, sino a poi chiedergli conto del suo operato.»

«Davvero crede a questa leggenda?» chiesi, guardando negli occhi il leader rumeno.

«È qualche cosa di più che una leggenda, Asher: è il destino di chi ha posseduto l’Anello a parlare. Da Salomone in poi, chiunque lo abbia infilato al dito è divenuto protagonista di un’esistenza fuori dal normale. Guardi questo antico papiro», disse ancora Ceausescu srotolando con cura un documento scritto in greco, «qui si dice che l’Anello sia appartenuto anche a Nerone. L’imperatore che ebbe come precettori Seneca, Cheremone, Afranio Burro e che regnò sul più grande impero di ogni tempo. La sua fu una vita finita in tragedia, ma vissuta intensamente.»

«Lei crede che la sorte di Nerone sia stata determinata dall’antico talismano? Non si potrebbe essere trattato, più semplicemente, del concatenarsi di cause ed effetti che la vita riserva a ognuno di noi?»

«Non è così, mio buon amico. Non è così. Un giorno le racconterò di un antico ordine cavalleresco a cui hanno aderito molti eroi della mia patria. L’Anello dei Re veniva tramandato di padre in figlio, assieme all’appartenenza all’ordine…»

«L’Ordine del Drago?» chiesi io.

«Non mi stupisce constatare che lei conosce più cose di quanto lascia intendere, dottor Breil. Sì, sto parlando dell’Ordine del Drago.»

L’ultimo attentato del Giusto aveva provocato ripercussioni gravissime in ogni angolo del pianeta. Alle classi dirigenti dei paesi occidentali veniva contestata l’assoluta indifferenza nei confronti di un pazzo che andava in giro per il mondo ad accoppare innocenti di religione musulmana. Problema si andava a sommare a problema: gli episodi di ritorsione e di vendetta a opera di estremisti scalmanati nei confronti di cittadini occidentali si erano fatti sempre più frequenti. Accanto alle proteste espresse in maniera pacifica, il terrorismo islamico, col pretesto delle azioni del Giusto, si era scatenato contro obiettivi civili in una escalation senza precedenti.

I governi erano tutti sotto pressione, a partire dai vertici degli Stati Uniti — che sarebbero andati incontro a un serrato duello elettorale entro pochi mesi — sino all’ultimo degli agenti che, con l’angoscia nel cuore, presidiava il crocevia di una qualsiasi città occidentale.

«Ti ho lasciato un mese per pensarci, Glakas. Sei arrivato a una conclusione?»

Il dirigente della CIA non aveva fatto parola con nessuno del contatto avuto con il Giusto. Si era convinto che quel segreto gli sarebbe forse tornato utile.

«Ci ho pensato, Giusto», rispose Glakas con voce ferma. «Credo sia opportuno incontrarci.»

«Nessun contatto, Glakas. Devi solo dirmi se hai o no quell’esplosivo.»

«Devo parlarti.»

«Sì o no, Glakas?» incalzò la voce metallica.

«Sì!» sbottò il funzionario della CIA.

«Utilizza questa e-mail e questa password. Ti contatterò fornendoti le istruzioni sul luogo dove consegnare il materiale. Non fare scherzi. E vedrai, ti piacerà il sapore della vendetta.»

Oswald aveva letto con attenzione i messaggi di Sara: la vicenda che la giovane scienziata romana stava ricostruendo passo dopo passo aveva il potere di turbarlo.

Breil salvò i due nuovi capitoli che andavano ad arricchire la sua storia familiare, quindi passò a dedicarsi alla lista di nominativi che gli era stata consegnata da Cassandra Ziegler. I potenziali Giusti avevano diverse caratteristiche in comune: erano militari, avevano perciò dimestichezza col maneggio di esplosivi e potevano raggiungere con relativa semplicità i luoghi degli attentati.

Oswald aveva ottenuto anche una password per verificare nell’archivio elettronico delle forze armate lo stato di servizio di ciascun militare presente nell’elenco e le sue note caratteristiche. Passare al setaccio quasi duemila persone non era un’impresa da poco, ma quella era l’unica pista al momento percorribile.

George Glakas aveva un vantaggio rispetto a quelli che davano la caccia al Giusto: sapeva che Cipro sarebbe stato il prossimo obiettivo dell’attentatore.

Nel frattempo gli uomini della CIA si erano messi al lavoro per cercare di identificare il Giusto: utilizzando gli stessi criteri dei cugini del Federal Bureau, erano giunti a risultati analoghi. Nel mondo c’erano poco meno di duemila militari americani che potevano muoversi e agire allo stesso modo del serial bomber.

Glakas aveva ricevuto per posta elettronica i risultati dello screening. Il programma del computer gli consentiva di inserire quelli che in gergo si chiamano «filtri», per giungere alla soluzione.

Il funzionario della CIA avrebbe potuto selezionare i soli sospettati di religione ebraica, oppure i biondi, quelli di colore e così via. Nelle varie caselle dei filtri, Glakas ne scelse una in basso a sinistra, il cui titolo era: Attuale destinazione. L’uomo digitò la parola Cipro, quindi premette il pulsante di invio.

«Bingo!» esclamò il funzionario della CIA, scorrendo velocemente le note caratteristiche relative al risultato della sua ricerca. «Le patrie galere possono aspettare ancora qualche giorno, prima di aprire le loro porte al Giusto. Adesso c’è ancora un piccolo conto che i musulmani debbono saldare con la mia famiglia.»

Le dita sottili estrassero il materiale esplosivo dalla borsa militare. Il T4 aveva un colore grigio chiaro e la consistenza della plastilina.

Nel suo antro segreto il serial bomber incominciò a preparare l’ordigno con la consueta maestria.

Poche ore più tardi il Giusto sedette dinanzi alla postazione del computer e iniziò a scrivere.

Il colonnello dei marine Deidra Blasey si massaggiò la gamba: chiunque, al suo posto, si sarebbe goduto in pace la pensione integrata dai punti di invalidità. A conti fatti, incluse le indennità maturate per meriti di guerra, onorificenze e altro, l’ufficiale dei marine avrebbe guadagnato di più seduta sul divano di casa che non portando le sue ossa su ogni maledetta tradotta aerea che percorresse le rotte del planisfero.

«Colonnello… mi scusi, stava forse riposando?» Kingston, quando era a bordo di un aereo, aveva sempre il tono con cui il mitragliere di coda, finite le munizioni, segnala al comandante che uno squadrone di caccia nemici sta cercando di abbatterli. La differenza era che Kingston lo faceva con un certo garbo.

«No, sergente, stavo soltanto pensando al compito che ci attende.»

«Non mi dica che sta provando la paura che coglie gli attori, anche i più navigati, al momento di salire sul palcoscenico. Il copione che reciterà a Nicosia sarà lo stesso che abbiamo già interpretato in…» Kingston aprì un’agenda Moleskine e fece rapidamente i conti, «… in novantadue basi militari sparse per il mondo…»

«Lasci perdere le statistiche, sergente. Si allacci invece le cinture, sembra che questa bagnarola si stia mettendo a ballare come un veliero nella tempesta. Deve esserci vento forte a Cipro.»

43

Dagli appunti raccolti da Asher Breil

a Cortina d’Ampezzo, 1967

Il sopraggiungere del mese di settembre non aveva mitigato l’arsura: le temperature continuavano a mantenersi altissime.

I due sergenti istruttori erano giunti dal Cairo ormai da un mese e, superando in qualche modo le incomprensioni della lingua, avevano reso partecipi del loro sapere i cavalieri del deserto. Nessuno dei due militari conosceva una sola parola di arabo. Uno era australiano — un anzac, come venivano chiamati i soldati australiani e neozelandesi — e l’altro proveniva dalla campagna inglese.

Malgrado queste difficoltà erano riusciti a farsi capire, sebbene quasi sempre si esprimessero a gesti e senza l’aiuto di un interprete.

La corrispondenza tra Sciarra e Petru aveva raggiunto un ottimo regime di scambio: non passava settimana che il colonnello non ricevesse una lettera dal suo ex subalterno rumeno. E lui, di rimando, rispondeva con la stessa cadenza.

Sciarra stava appunto scorrendo l’ultima missiva che gli era pervenuta, corredata della copia di un disegno dell’Anello dei Re che Minhea gli raccontava di aver rinvenuto in un testo antichissimo, quando si accorse di una presenza alle sue spalle.

Lawrence stava osservando il disegno.

«L’Anello dei Re!» esclamò il colonnello inglese.

«Conoscete questo oggetto, Thomas?»

«Non dimenticate che sono un archeologo prestato alla guerra, Alberto.»

«Sapete anche della leggenda che lo circonda?»

«Qualche cosa mi pare di ricordare. Come mai avete quella riproduzione?»

«È una storia lunga, Thomas. Un tenente che ha combattuto con me sulle Dolomiti discende dalla famiglia che negli ultimi sei secoli ha posseduto l’anello. Questo gli è stato trafugato da un ufficiale ungherese che, per impadronirsene, ha cercato di farci la pelle. Non credo che il mio ex subalterno, l’ottimo Minhea Petru, si darà pace sino a che non avrà recuperato il talismano di famiglia.»

Vennero interrotti da uno dei tre fedeli arabi sempre al seguito di Lawrence. Si trattava di Salem, quello dalla carnagione più scura: questi prese in disparte il colonnello inglese e si misero a parlare fittamente, dopo di che Thomas si rivolse all’italiano: «Ve la sentite di fare irruzione nel covo di una spia dei turchi?»

«Sono pronto a seguirvi ovunque», rispose Sciarra e, parlando, con un gesto istintivo si assicurò che la pistola si trovasse nella fondina.

L’uomo sotto la minaccia delle armi tremava come una foglia. Nell’aria aleggiava un odore acre e sgradevole, che Sciarra aveva la sensazione di aver già sentito.

«Sono innocente, signore», gridava l’arabo rivolto verso Thomas.

I piccioni erano appollaiati su una trave del soffitto, pronti a spiccare il volo.

Lawrence indicò gli animali ammaestrati: «Tu fornisci notizie ai turchi da qualche mese, ne siamo certi: abbiamo intercettato uno dei tuoi piccioni viaggiatori che trasportava un messaggio contenente informazioni militari segrete».

Di fronte all’evidenza l’arabo non fu più in grado di ribattere e non oppose resistenza quando Lawrence ordinò ai suoi di portarlo via.

«Questa terra non solo ha orecchie ovunque, ma anche bocche che parlano troppo. Sono stanco di questa inattività, Alberto. Sono sicuro che ormai i nostri uomini sono diventati degli esperti artificieri e lasciarli inoperosi è del tutto inutile. È tempo di muoverci.»

«Se è vero, come dicevano gli antichi, che il 7 è un numero propizio, non dovrebbero esserci dubbi circa l’esito della nostra missione: oggi è il 7 settembre del 1917», disse Lawrence schioccando la lingua come un esperto meharista, vale a dire un soldato a cammello. L’animale rispose pronto al comando del suo cavaliere, issandosi sulle quattro zampe.

«Faremo sosta al campo di Guweira: Mastuf, il capo degli howeitat, ci sta aspettando lì. Speriamo di riuscire a reclutare altri uomini.»

Al campo di Guweira esisteva da tempo una strana consuetudine con la quale la complessa mentalità araba si era abituata, suo malgrado, a convivere. Quasi ogni mattina, alle prime luci del giorno, lo scoppiettante rumore di un sei cilindri Mercedes da cento cavalli anticipava di pochi attimi l’apparizione del grande uccello di tela e metallo. Il monoplano tedesco Taube aveva una linea simile a quella di un predatore, con la parte posteriore a forma di coda di rondine e priva del timone verticale. Le ali si facevano più ampie alle estremità, proprio come quelle delle aquile.

L’aereo era vecchio e malandato, forse uno dei primi entrati in servizio nel 1914. Il copilota si muoveva a fatica nell’angusto abitacolo, mentre il monoplano sorvolava il campo dei ribelli: doveva sollevare a mano gli ordigni e, dopo aver preso a occhio nudo la mira, li lasciava cadere nel vuoto.

Gli howeitat non sembravano turbati più di tanto da quella quotidiana incursione mattutina: gli arabi erano abituati a destarsi prima che facesse giorno. Il bombardamento dal cielo li coglieva tutt’altro che impreparati. Non appena percepivano il rumore in lontananza si addossavano alle pareti di un massiccio che sorgeva ai confini del campo e fungeva da riparo dalle bombe.

Lì aspettavano fiduciosi che il nemico scaricasse le sue tre o quattro granate sapendo che non avrebbero provocato danni ingenti, quindi tornavano alle loro occupazioni.

Durante il viaggio Sciarra aveva avuto modo di notare l’abilità con cui il suo attendente cavalcava: malgrado le origini contadine, Rocco aveva un modo molto elegante di stare in sella, anche su quella di un cammello. Sembrava un aristocratico intento a disputare un impegnativo dressage.

Attraversare il deserto cavalcando un cammello non era affatto agevole. Anche i più esperti cavalieri soffrivano per il caldo implacabile e la sete: a ciò si aggiungeva la fatica di dover bilanciare con il corpo l’andatura ondeggiante degli animali.

Rocco stava in sella, sotto il sole cocente, con la leggiadria di un funambolo del circo e con la resistenza di un cavalleggero della steppa russa. Non altrettanto bene se la stavano passando i due sergenti artificieri, ai quali mancava ogni tipo di esperienza e di allenamento per fronteggiare una marcia serrata a dorso di cammello.

Il drappello giunse al campo di Guweira, dove gli uomini si concessero una breve e agognata sosta. Poi, una volta rinfoltiti i ranghi, la carovana riprese la via del deserto.

Passarono la notte nella valle di Rumm e lì, al riparo della sua tenda, Lawrence espose a Sciarra il piano che aveva messo a punto.

Terminata la cena il colonnello italiano si incamminò da solo in quel luogo che esercitava su di lui un misterioso fascino. La notte era calata sul deserto e la luna piena illuminava le rocce scolpite dal vento. Sembrava che una mano gigantesca avesse modellato le montagne di pietra rossa, creando curve o precipizi, scavando gole o gallerie profonde, dando vita a un indimenticabile scenario.

Sciarra si guardò intorno estasiato dal panorama illuminato dalla luna: due rupi alte come torri erano divise da un crepaccio largo una dozzina di metri. La valle si allargava e si restringeva in maniera imprevedibile: da una larghezza di oltre cinquanta metri si riduceva a una sottile fenditura nella quale sarebbe passato a malapena un cammello.

Il colonnello italiano notò un uomo, nei pressi di uno slargo tra le pareti di roccia. Era intento a muovere le braccia, come se stesse compiendo esercizi ginnici. Lo riconobbe subito.

«Rocco, siete voi, non è vero?»

«Sì, signor colonnello», rispose una voce nell’oscurità.

«Non vi sembra un po’ troppo tardi per dedicarvi agli esercizi ginnici, soldato?»

«La lunga cavalcata di oggi ha messo a dura prova i miei muscoli, signore. Stavo proprio cercando di scioglierli», rispose il soldato siciliano cercando di non tradire l’imbarazzo. Ma la cosa non sfuggì al suo superiore.

Il piano prevedeva un primo attacco alla stazione ferroviaria di Mudowwara. Lawrence e i suoi si erano appostati sul crinale che sovrastava gli edifici sorti attorno al presidio.

Fu allora che il colonnello inglese decise che il piano originario avrebbe subito una variazione: la guarnigione turca che presidiava Mudowwara era molto più nutrita del previsto. Lawrence poteva contare su un numero di uomini molto inferiore a quello dei nemici e non voleva correre il rischio di compromettere l’effetto sorpresa di un’azione di sabotaggio, ingaggiando un attacco il cui esito sarebbe stato a dir poco incerto. Decisero quindi che la stazione di Mudowwara sarebbe stata per ora risparmiata: avrebbero seguito la linea ferroviaria sino a che il terreno non avesse presentato le caratteristiche morfologiche ideali per un attacco al treno.

Zaal, Howeimil e Salem costituivano l’inseparabile terzetto a guardia dell’ufficiale inglese e godevano di grande rispetto presso i loro uomini: ascoltarono le indicazioni dei due sergenti artificieri e le riportarono alla truppa.

Il luogo dell’azione venne scelto con cura. Un ponte di legno valicava una gola. Subito dopo la strada ferrata compiva una curva a gomito, e un possente sperone di roccia dominava l’intero tratto.

Le cariche vennero poste sui pilastri del ponte e nel tratto di rotaie che lo precedeva.

I due ufficiali avevano provveduto a impastare i grossi pani di gelatina prima di contribuire, pale alla mano, a scavare le buche ove sarebbe stato posto l’esplosivo.

Gli uomini di Lawrence, dopo aver assemblato i tre obici someggiabili, si erano appostati sullo sperone di roccia.

Dopo alcune ore di attesa, una sentinella segnalò sbuffi di vapore in lontananza.

Gli arabi erano in preda a una grande eccitazione, in particolare i beduini, che sembrava non riuscissero a stare fermi in attesa della battaglia. In tanta agitazione spiccava la calma del colonnello inglese e del suo parigrado italiano, che rimasero imperturbabili mentre il treno si avvicinava.

Il convoglio era composto da dieci carri, originariamente adibiti al trasporto merci, ora stipati di militari turchi. Dai lati di ciascun carro spuntavano le canne dei fucili. Sui tetti dei vagoni erano sistemati sacchi di sabbia dietro ai quali trovavano riparo altri fucilieri. Due locomotive Berliner Maschinenbau, opportunamente modificate per adeguarsi allo scartamento dei binari che, nelle strade ferrate turche, era ridotto rispetto a quelle europee, precedevano il convoglio.

La costruzione di ferrovie sul territorio dell’impero ottomano si era resa necessaria verso la fine dell’Ottocento, anche per facilitare i trasferimenti delle migliaia di persone che si recavano in pellegrinaggio nelle città sante della Mecca o di Medina. La rete si era via via ampliata e ora, solo in quella regione, aveva raggiunto i tremila chilometri di percorrenza.

Lawrence sembrò leggermente preoccupato dal doppio traino: era un’eventualità che non aveva previsto. Si consultò rapidamente con Sciarra, quindi decisero che avrebbero fatto brillare le cariche al passaggio della seconda locomotiva.

Il treno avanzava sbuffando, gli arabi erano talmente nascosti che i turchi avrebbero potuto vedere solo le rocce del gigantesco sperone che sovrastava quel punto. Lo sferragliare del treno stonava in quel luogo di pace assoluta.

L’improvviso boato delle esplosioni lacerò l’aria.

La carica detonò all’altezza delle ruote posteriori della seconda locomotiva. Sia la motrice sia il trolley che la seguiva si contorsero, prima di librarsi in aria, quindi si abbatterono al suolo, rotolando lungo la scarpata. Del ponte di legno non erano rimasti che due monconi da un lato e dall’altro della gola. Il primo dei locomotori, deragliato dai binari divelti, aveva proseguito la sua corsa: la concluse anch’esso precipitando nel dirupo.

Il resto della colonna sembrò contorcersi come il corpo di un serpente di ferro, e i vagoni si aggrovigliarono tra di loro in un sinuoso balletto che aveva come tema la morte. Un macabro frastuono di ferraglia che strideva, esplosioni e urla, accompagnavano la scena.

Fu il silenzio, improvviso e irreale dopo tanto fragore, a dare agli arabi il segnale d’attacco. Gli obici posizionati sull’altura vomitarono fuoco e piombo, mentre i turchi sopravvissuti fuggivano in ogni direzione alla ricerca di un riparo.

Infine toccò alle scariche di fucileria portare distruzione e morte laddove i cannoni avevano mancato il bersaglio. Ai turchi non rimase che issare un drappo bianco in segno di resa sulla baionetta di un fucile.

Pochi istanti dopo, gli arabi sbucarono dai loro nascondigli, riversandosi urlanti nei pressi di quel che restava del treno.

La zona era disseminata di oggetti, casse di armi e merci di ogni genere. Gli arabi cercavano freneticamente di accaparrarsi qualunque cosa suscitasse il loro interesse e la caricavano sui cammelli.

«Smettetela!» gridava Lawrence a gran voce. «I turchi della guarnigione di Mudowwara avranno sentito l’esplosione e saranno in marcia verso di noi. Non gli ci vorrà molto tempo per raggiungerci.»

In un primo momento quelle parole parvero perdersi tra le urla eccitate dei saccheggiatori, quindi, lentamente, l’ordine si ripristinò tra le file scompaginate del drappello.

«Che ne facciamo dei prigionieri, El Lawrence?» chiese Zaal, al quale non era sfuggito il fatto che c’era un gran numero di donne, quasi certamente mogli dei sottufficiali turchi al seguito dei loro mariti.

«Lasciateli qui. Tra poco arriveranno i loro commilitoni e se ne prenderanno cura. Abbiamo avuto perdite?»

«Solamente tre feriti lievi, signore. Salem però è disperso. Io stesso l’ho cercato a lungo, ma senza esito.»

Salem era il più forte tra le guardie del corpo di Lawrence. Aveva la carnagione scura e ciò indicava le sue origini centroafricane. Combatteva come un leone e nulla sembrava capace di fermarlo.

Lawrence indugiò ancora un po’ sul campo di battaglia, accompagnato da una piccola scorta di cui faceva parte anche Sciarra, per cercare l’uomo scomparso. Di Salem, però, non si rinvenne traccia. La sua perdita rendeva amaro il sapore della vittoria.

Due giorni dopo il drappello aveva accumulato un discreto vantaggio sui turchi lanciati all’inseguimento. Ma all’improvviso una carovana composta da pochi cammelli si stagliò alle spalle degli uomini di Lawrence. Galoppavano alla loro volta di grande carriera.

Quando furono a portata di voce, Zaal mise le mani a cono sulla bocca e urlò: «Amici o nemici?»

«Se il riverbero non avesse bruciato i tuoi occhi mi riconosceresti, Zaal. Sono Maulud, tuo cugino. Ho cavalcato giorno e notte per raggiungervi.»

Così dicendo il nuovo venuto indicò un corpo adagiato di traverso sulla schiena di un cammello. Non ci volle molto a Lawrence e ai suoi per accorgersi che si trattava di Salem.

In seguito avrebbero appreso che l’africano era stato ferito in maniera non grave alla schiena e aveva vagato senza meta sino a che le forze lo avevano sostenuto. Il cugino di Zaal, che stava marciando per raggiungere le truppe del colonnello Lawrence, lo aveva trovato per caso e soccorso tra le dune del deserto.

Il giorno seguente una festa di strada accolse ad Aqaba le truppe vincitrici. Sciarra si diresse verso l’albergo: era stanco e non desiderava altro che un bagno caldo e un letto pulito. Certo, non avrebbe mai potuto immaginare la sorpresa che era ad attenderlo.

«Alberto», disse una voce che subito riconobbe.

L’uomo si volse e, al centro del piccolo giardino interno dell’albergo, vide il volto che aveva abitato i suoi sogni nelle lunghe notti del deserto. «Kimber! Come sei arrivata sin qui?» esclamò Sciarra. In un attimo si trovarono l’uno tra le braccia dell’altra.

«Credevi forse che avrei potuto abbandonare un ufficiale alleato alle prese con il deserto? Se ti avessero ferito come avresti fatto, senza la tua infermiera prediletta? Ricorda che vanto ancora dei diritti per averti accudito e medicato dopo il tuo atterraggio in Inghilterra.» Quindi si rivolse a Rocco, che era rimasto in piedi in disparte e aveva l’aria di chi sta per cedere alla stanchezza: «Se mi permettete… soldato… vorrei parlare con il colonnello da sola…»

L’attendente si allontanò, felice di poter raggiungere la sua stanza.

Kimberly si guardò attorno e, abbassando il tono della voce, disse con aria improvvisamente seria: «Alberto, credo di doverti dire alcune cose».

Pochi minuti più tardi i due si trovavano nella stanza di Sciarra.

«È venuto il momento che tu sappia la verità. Non sono un’infermiera. O meglio, l’occupazione di infermiera è solo una copertura. Lavoro per i servizi segreti del mio paese da quando è incominciata la guerra. Ti devo avvisare che c’è una spia al vostro seguito.»

Sciarra le fece cenno di andare avanti.

«Abbiamo intercettato un messaggio trasportato da un piccione viaggiatore…»

«Scusa se ti interrompo, ma abbiamo già fatto arrestare il messaggero. Ero presente durante l’operazione…»

«No, Alberto. Sto parlando di un altro messaggio, inviato mentre vi trovavate in viaggio per Mudowwara. Poche parole in lingua tedesca che indicavano il luogo, le modalità e l’ora della vostra azione. Se non avessimo avuto la fortuna di abbattere il piccione, quasi certamente tu non saresti qui adesso.»

Dinanzi agli occhi del colonnello italiano passarono una a una le facce degli uomini che li avevano accompagnati nell’ultima missione: non era facile individuare un traditore, data la totale assenza di indizi.

«Una sola cosa ti vorrei chiedere: anche… anche io faccio parte del tuo lavoro?» disse Sciarra interrompendo la ridda di congetture.

«In che senso?» chiese Kimber.

«Quello che c’è stato tra noi era parte di un piano teso a scoprire la mia fedeltà agli alleati?» chiese l’italiano guardandola negli occhi.

Lei si avvicinò, i loro sguardi si incontrarono, intensi. La mano della donna sfiorò il volto dell’ufficiale, arso dal sole del deserto. «Ero stata messa al tuo fianco per sorvegliarti e carpire informazioni quando sei arrivato in Inghilterra a bordo del dirigibile… poi… poi…»

«Che cosa è successo, poi?»

«Io ti amo, Alberto.»

Le loro labbra si sfiorarono a suggellare un patto che sarebbe andato al di là delle gelide ragioni della guerra. Il profumo… quel profumo che tanto a lungo Alberto aveva sognato, adesso era lì.

Sciarra pensava a come l’olfatto potesse far rivivere sensazioni perdute. All’improvviso tutto gli fu chiaro, e gli venne in mente l’odore acre che due volte aveva sentito da quando si trovava in Africa. Allora non era stato in grado di creare un collegamento, ma adesso… il tanfo provocato dagli escrementi dei piccioni e dei loro nidi… Ecco dove lo aveva già sentito!

Salem era stato portato nello stesso albergo in cui alloggiava Sciarra. Le sue condizioni erano andate velocemente migliorando. La pallottola non aveva leso alcun centro vitale. I rumori nel corridoio richiamarono la sua attenzione, quindi l’arabo dalla carnagione scura si alzò in piedi.

Alberto Sciarra della Volta strinse la pistola nel pugno, prima di sfondare la porta della stanza con un calcio. Kimberly lo seguiva, stringendo nella mano una piccola Dillinger 6.35. L’uomo era seduto allo scrittoio: con ogni probabilità stava preparando un nuovo messaggio per il nemico.

«Rocco, alzatevi!» disse Sciarra con voce stentorea.

«Cosa succede, signor colonnello?» chiese Rocco stupito.

«Fatemi vedere che cosa stavate scrivendo, Rocco.»

«Una lettera alla mia famiglia, colonnello.»

«In tedesco?» chiese Kimber indicando il foglio che Rocco cercava freneticamente di nascondere. «Dove sono i piccioni?»

«Piccioni? Che cosa state dicendo?»

«Quando alcuni giorni fa sono entrato in questa stanza ho sentito il loro odore selvatico.»

La voce di Kimber giunse dal bagno. «Li ho trovati, Alberto. Qui ce n’è una coppia.»

Rocco si mosse fulmineo verso il bagno. Kimber venne colta di sorpresa, con la gabbia dei piccioni in mano, e Rocco non ebbe difficoltà a disarmarla. Quando Sciarra si affacciò alla porta del bagno, vide il suo attendente che abbracciava da tergo Kimber e le puntava la Dillinger alla testa.

«Adesso, da bravo, giù la pistola, colonnello, altrimenti faccio saltare il cervello alla vostra amica.»

Sciarra obbedì, mentre l’altro si impossessava anche della sua pistola e, tenendoli sotto tiro, si avvicinava alla porta.

«Sono il tenente Klaus Rossler. I miei nonni materni erano siciliani. Purtroppo non ho mai conosciuto mio padre: è morto quando ancora ero in fasce. In casa mia si sentiva spesso parlare in siciliano, una lingua che ho odiato da sempre. Al contrario, amo la nazione nella quale sono nato e che ho l’onore di servire.» Gli occhi dell’uomo erano freddi e determinati. L’agente tedesco era sicuramente disposto a uccidere, pur di portare a termine la sua missione.

«Quello che sto per fare è soltanto frutto di un rinvio di pochi giorni: la scorsa notte, nella valle di Rumm, credevo mi aveste visto mentre lanciavo il piccione col messaggio, e invece voi avevate pensato che stessi facendo esercizi ginnici. Una lama affilata dietro la mia schiena era pronta a tagliarvi la gola. Ma so bene che non mi conviene uccidervi. Voi potreste essermi utile per tirarmi fuori dai guai: al contrario la donna mi sarebbe solo di peso, dal momento che non riuscirebbe ad affrontare le lunghe cavalcate del deserto. A malincuore, signora…» Così dicendo il tenente Klaus Rossler puntò la canna della Dillinger alla tempia di Kimber.

A Salem, appena giunto in corridoio, ci volle un istante per capire quello che stava accadendo al di là della porta sfondata.

Caricò come un toro infuriato, con la testa abbassata tra le spalle.

Rossler esplose il colpo nell’istante in cui il mondo parve crollargli addosso da dietro. Istintivamente l’ufficiale tedesco lasciò la presa e, mentre cadeva, ebbe il tempo di puntare la pistola verso la nuova minaccia.

Salem era scivolato a terra, travolto dal suo stesso impeto, e ora lottava con l’uomo armato in un corpo a corpo furibondo. Il coltello dalla lama ricurva balenò nell’aria, abbattendosi poi sul torace della spia nello stesso istante in cui un secondo sparo risuonava nella stanza.

Sciarra si era mosso immediatamente, ma il suo intervento si sarebbe rivelato inutile: il tedesco e Salem si erano uccisi reciprocamente.

«Per fortuna che si trattava di un piccolo calibro», disse Kimber premendosi un fazzoletto contro la ferita superficiale. «Non so se la mia fronte avrebbe resistito al passaggio di un proiettile più grosso», quindi si accorse che per il loro salvatore non c’era più nulla da fare. «Dobbiamo la vita a questo arabo che si è sacrificato per noi.»

«Salem era un valoroso beduino», disse Sciarra, cingendola con un braccio, «un uomo del deserto. E il deserto insegna a non conoscere la paura.»

44

Venezia, 1357

«… e un Muqatil non conosce la paura…» La frase che era solito ripetere suo padre gli risuonava nelle orecchie, mentre Adil, col cappuccio del saio benedettino calato sugli occhi, oltrepassava il corpo di guardia del palazzo veneziano. Dietro le mura di quello stabile signorile nel centro cittadino si trovava la sede del Consiglio dei Dieci. A Venezia accadeva spesso che dei semplici sospettati venissero portati via dalle loro abitazioni: dopo aver varcato quella soglia, delle loro esistenze non si era più saputo nulla.

Al grande tavolo nella sala dal soffitto a cassettoni erano seduti il vescovo di Pécs, Campagnola e due membri del Consiglio a lui fedeli.

I tre monaci che il prelato aveva voluto sempre con lui erano appartati in un angolo. Di tanto in tanto uno di loro si alzava per prendere il cibo che i signori, nella loro benevolenza, gli concedevano.

Era stato mentre si avvicinava al tavolo che Adil si era accorto del tranello: Campagnola aveva aperto la parte superiore del sigillo del suo anello e stava versando una polvere chiara all’interno del calice destinato al vescovo di Pécs.

Fingendo un movimento maldestro, Adil aveva inciampato e il cibo che stava portando ai suoi compagni si era rovesciato sulla veste candida del vescovo. Nell’attimo di confusione che era seguito, Adil aveva rapidamente scambiato la coppa del prelato con quella del commensale alla sua sinistra.

Campagnola alzò la coppa e propose un brindisi, mentre di sottecchi si accertava che tutti bevessero.

Uno dei due consiglieri emise un suono gutturale, quindi un rivolo di bava schiumosa gli uscì dalla bocca. Poi il capo cadde pesantemente sul tavolo e l’uomo stramazzò avvelenato al posto di Pannonio.

Campagnola intuì immediatamente l’errore e tentò di porvi rimedio. «Una delle sue solite sbornie, eminenza. Il vino gli fa sempre quest’effetto.»

«Sarà anche l’effetto del vino, ma quell’uomo a me sembra morto avvelenato. Il bicchiere nel quale hai versato il veleno doveva essere quello del vescovo, Campagnola. La fortuna ha voluto che me ne accorgessi e che lo scambiassi», disse Adil.

La katana gli apparve come per miracolo tra le mani, estratta da sotto i drappeggi dell’abito.

I due monaci erano rimasti impietriti di fronte alla luce pericolosa che brillava negli occhi di quello che avevano sino ad allora creduto essere un confratello timido e silenzioso.

L’altro consigliere mise la mano sull’elsa, ma non ebbe nemmeno il tempo di estrarre la spada: il colpo inferto da Adil dall’alto verso il basso gli spaccò la testa in due.

«Tu?!» esclamò incredulo il veneziano. «Tu, il figlio di Satana, hai osato profanare anche questo palazzo. Come credi che riuscirai a fuggire da Venezia, questa volta?»

«Sarai tu a portarmi fuori di qui, se non vuoi fare la fine dei tuoi complici.» La lama tagliente della katana premette sulla carotide del veneziano. «Chiama uno dei tuoi sgherri e digli di portare qui il figlio di Wu.»

«Non lo farò», continuava a ripetere Campagnola, ma mano a mano che la lama aumentava la pressione, la sua arroganza scemava.

«Guardie», gridò il veneziano affacciandosi a una finestra che dava sulla corte interna, «portatemi il piccolo prigioniero.» In fondo la vita di un bastardo mezzosangue non valeva quella di un nobile di Venezia.

Le guardie nel cortile non immaginavano che il loro signore fosse sotto la minaccia di una spada.

Quando poco dopo un soldato bussò alla porta, Campagnola ordinò di fare entrare il bambino da solo. Negli occhi a mandorla di Po-Sin si leggeva il terrore, ma subito riconobbe Adil nel monaco che brandiva la spada dei samurai e, chiamandolo per nome, corse a rifugiarsi tra le sue gambe.

«Adesso tu ci porterai fuori da qui», ripeté Adil.

«Tu sei il figlio del Demonio. Sei foriero di morte e di terribili sventure…» Negli occhi del veneziano brillava la follia, mentre si rivolgeva a Adil.

«Se io sono il figlio del Demonio, tu ne sei il padre. Non ti accorgi che nelle mie vene scorre il tuo stesso sangue?» mormorò Adil a bassa voce per non farsi intendere da nessuno.

«Avete udito la lingua di serpente di Satana?» chiese Campagnola rivolto al vescovo e agli altri due frati. «Il diavolo ha confessato di essere il frutto del peccato di mia figlia! Diavolo menzognero e impostore! È lui che ha ucciso il mio consigliere e adesso sta cercando di far ricadere la colpa su di me. Vade retro, Satana!» disse Campagnola.

«Taci!» disse Adil, e colpì con l’impugnatura della spada la base del collo del veneziano: le guardie non dovevano essere messe in allarme.

Campagnola perse i sensi, mentre Adil continuava rivolto al vescovo e ai due frati: «Presto, prepariamoci, dobbiamo uscire da qui al più presto possibile».

I due frati lo stavano osservando attoniti, mentre il vescovo, estratta la croce, tracciava dei gesti di benedizione e sibilava: «Vade retro, Satana».

«Non vi rendete conto che vi ho appena salvato la vita, Pannonio? Quel veleno era destinato a voi.» Adil stava cercando di convincere il prelato quando si accorse di un rumore alle proprie spalle.

Campagnola, con un guizzo imprevedibile in una persona anziana e fino a un attimo prima sdraiata a terra priva di sensi, si era impossessato del pugnale di uno dei suoi complici e cercava di assalire Adil alle spalle.

«Muori per mia mano, come è morta tua madre!» gridò il veneziano, con un’espressione simile a quella di una tigre inferocita.

La katana roteò nell’aria, con un sibilo che aveva il suono della morte.

L’altra mano di Adil si strinse sull’impugnatura alla fine della rotazione, per imprimere maggior forza e precisione al colpo.

Campagnola si fermò a mezz’aria. Il ghigno da fiera si trasformò in una smorfia di dolore e l’uomo cadde a terra, il corpo quasi diviso in due tronconi dai quali fuoriuscivano fiotti di sangue.

«Adesso voi farete quello che vi dico, senza fiatare», disse Adil rivolto ai tre uomini di chiesa.

Risistemò la spada sotto la tunica, facendovi scivolare anche il piccolo Po-Sin.

«Faremo un gioco, Po-Sin. Tu dovrai camminare nascosto all’interno del mio abito e nessuno dovrà scoprirti», disse Adil prima di coprirlo con la sua veste. «Quanto a voi, invece, al primo scherzo vi farò assaggiare il ferro che arma la mano di un infedele.»

I quattro uomini uscirono nel corridoio. Le guardie li videro mentre fingevano di rivolgere frasi di commiato a coloro che credevano ancora nella stanza. Le sentinelle salutarono il vescovo e i tre frati con deferenza. Pannonio benediva col segno della croce.

Pochi passi e sarebbero stati fuori. L’ultimo ostacolo era rappresentato dal corpo di guardia ma, mentre lo superavano, Po-Sin, che avanzava tra le gambe di Adil, inciampò sul ciottolato sconnesso.

Prima che le guardie si riprendessero dallo stupore, Adil aveva preso in braccio il bambino che era sbucato come per miracolo tra le sue sottane e si era lanciato lungo le calli affollate.

Il mercato era in pieno svolgimento. Le paratie in legno del ponte levatoio di Rialto erano abbassate: nessuna imbarcazione alta di bordo o dotata di alberi poteva transitare per il canale interrompendo lo svolgimento di vendite e acquisti.

La fuga tra la folla che si accalcava tra i banchi era riuscita a dare a Adil un certo vantaggio. Ma il giovane sapeva che, appena fuori dalla ressa, gli inseguitori gli sarebbero stati addosso e Po-Sin in braccio costituiva un notevole impedimento all’agilità dei suoi movimenti.

«Presto, Adil, per di qua», si sentì chiamare dal canale sottostante.

Si sporse e vide una chiatta con sopra due uomini. La mole di Wu in piedi sulla prora era inconfondibile.

Nascosto dietro a un banco del mercato, Adil sporse il bambino fuori dal parapetto e, senza alcuna esitazione, dopo aver calcolato rapidamente la traiettoria, lo lasciò cadere: Po-Sin volteggiò nell’aria come una bambola di pezza, quindi le mani di suo padre lo afferrarono al volo.

Fu quindi il turno di Adil, che si gettò nel vuoto atterrando sul giardinetto di poppa dell’imbarcazione. Humarawa lo accolse con un sorriso.

«Non avrai per caso creduto che ti avessimo abbandonato?» disse l’orientale calcandosi ancor più il cappello sugli occhi. Nel frattempo Wu nascondeva i fuggitivi sotto a delle ceste colme di frutta e verdura.

Dal Canal Grande, i due orientali si godettero la scena delle milizie del Consiglio che vagavano smarrite tra i banchi affollati. Nessuno aveva notato un uomo vestito da benedettino con un bambino in braccio. Del resto, anche se qualcuno lo avesse visto non l’avrebbe mai rivelato, dato l’odio che i cittadini veneziani nutrivano nei confronti del Consiglio dei Dieci e dei loro soldati. Soltanto i delatori sembravano far ricorso volentieri all’aiuto dell’organo che avrebbe dovuto tutelare la sicurezza dei cittadini. La politica del terrore era stata, per anni, l’impronta che Campagnola aveva voluto imprimere al consesso di cui faceva parte.

Adil conosceva bene il sapore della fuga. Quanto a Humarawa e Wu, per loro era quasi normale dover abbandonare in maniera precipitosa dimore ed effetti personali: sembrava che una vita serena fosse un sogno irrealizzabile per quel piccolo gruppo di persone.

Rhoda non ebbe neppure il tempo di riabbracciare suo figlio, che il gruppo si mise in viaggio su di un carro trainato da alcuni cavalli: il vescovo avrebbe sicuramente denunciato Adil alle autorità e quindi dovevano muoversi subito, se non volevano essere arrestati.

Si diressero a sud, lungo le vie che conducevano verso il mar Nero: Humarawa aveva deciso che il modo migliore per far perdere le loro tracce sarebbe stato quello di imbarcarsi a bordo di una delle tante navi che lo navigavano.

Il viaggio durava ormai da molti giorni, avevano percorso strade deserte, costeggiate da montagne inospitali o da intricate foreste, e i viveri cominciavano a scarseggiare.

«Ho fame, mamma», disse Dewei seduto sul cassone del carro.

«Anch’io», gli fece eco il gemello.

«Silenzio, bambini!» li zittì Rhoda con voce stanca: i morsi della fame si stavano facendo sentire per tutti.

Adil arrestò il suo cavallo. «Andate avanti: proverò a cacciare nella foresta e spero di raggiungervi presto con un ricco bottino.»

Il cervo stava brucando gli arbusti di un cespuglio. Il sesto senso del meraviglioso animale lo teneva in costante stato di allerta: era sufficiente il minimo rumore per fargli drizzare le orecchie e predisporlo alla fuga. Ma in quel momento sembrava tranquillo e, abbassate le corna dal colore bruno, si dedicava al suo pasto.

Adil incoccò la freccia, quindi tese la corda dello yumi. Dal nascondiglio nel quale si era appostato, aveva seguito la preda. Anni di allenamenti al fianco di maestri severi come Humarawa e Wu avevano fatto di lui un arciere infallibile. Le dita lasciarono la freccia alla sua irrefrenabile corsa, accompagnata da un sibilo leggero.

Il cervo scartò di lato e venne ferito, invece che al cuore, a una zampa. L’animale compì pochi incerti passi, quindi si accasciò.

Adil tese di nuovo l’arco: era inutile e crudele farlo soffrire.

Ma in quel momento accadde qualcosa di inspiegabile: un’altra freccia, che proveniva dalla direzione opposta a quella del giovane arciere, trafisse il cervo all’altezza del collo.

Adil uscì guardingo dal suo nascondiglio, pronto a difendersi.

Il misterioso cacciatore gli si parò davanti all’improvviso. Dietro di lui comparvero dal nulla tre uomini a cavallo.

«Tu sai che cacciare su queste mie terre senza un regolare permesso è un grave reato che può essere punito con la morte?» disse il nuovo venuto.

«Scusatemi, signore», rispose Adil tenendo gli occhi bassi, «non sapevo che questa foresta vi appartenesse e con essa la selvaggina che vi pascola. Vi prego di perdonarmi: sono state la fame e la preoccupazione per la mia famiglia che mi hanno spinto a cacciare in questa regione.»

«Mi chiamo Vladislav, e discendo da Nicolae, principe di Valacchia.»

«Il mio nome è Adil.» Celeste alzò gli occhi blu e venne investita da una tempesta di emozioni: il giovane che le si parava davanti era di una bellezza da lasciare senza fiato. La femminilità tanto a lungo nascosta si manifestò improvvisa, facendole provare sensazioni sconosciute. Adil emise un respiro profondo, cercando di mantenere un atteggiamento consono a quello di un ragazzo.

«Se devo essere sincero, Adil, senza di te non sarei riuscito mai a catturare questo splendido animale. Penso che ce ne sia abbastanza per tutti e due, quindi divideremo in parti eguali la preda. Uomini, squartate il cervo e consegnate la metà delle sue carni a Adil. Che la tua famiglia sia sazia, nobile cacciatore.»

Ancora una volta gli occhi color cobalto si fissarono in quelli di Vladislav.

Intanto il carro, con Wu e Rhoda seduti a cassetta, stava costeggiando il corso di un fiume tumultuoso. Humarawa li seguiva a cavallo. Tutti speravano che la battuta di caccia di Adil si rivelasse proficua.

Poco più a monte una donna stava sorvegliando una bambina dai capelli biondi, intenta a bagnarsi in un’ansa tranquilla del fiume. Fu sufficiente un attimo perché i piccoli piedi nudi scivolassero sulla superficie viscida dei ciottoli: la bimba venne trascinata via dalla corrente. Nulla poterono fare le tre donne che si trovavano sulla riva e le sei guardie che pareva facessero da scorta alla comitiva.

Le grida di aiuto allarmarono Wu, che si alzò in piedi sull’asse che fungeva da sedile e balzò giù dal carro. Vide la testa bionda lottare con la corrente: doveva fare in fretta o presto sarebbe stata travolta dalle rapide.

Combattendo contro la furia delle acque, il cinese entrò nel fiume. Camminò aggrappandosi alle rocce e lottò con forza per mantenere la posizione dalla quale avrebbe potuto intercettare la piccola. Le mani si strinsero attorno al corpicino della bambina, mentre urla di gioia si levavano dalla riva.

Pochi istanti più tardi un Wu grondante di acqua consegnava alla madre una figlia impaurita, gocciolante, ma sana e salva.

«Dio sia lodato, straniero!» disse la donna in preda alla commozione. «Dio sia lodato per averti fatto transitare su questa strada. Senza di te avrei senza dubbio perduto la mia amata figlia. Chiedimi tutto quello che vuoi e sarai accontentato, straniero.»

Con la disarmante semplicità di cui era capace, Wu rispose: «Vi ringrazio, mia signora. Sia io che i miei compagni non mangiamo da due giorni. Se vi fosse possibile soddisfare la nostra fame con del pane e del formaggio di capra… o qualsiasi altra cosa voi vogliate…»

«Pane e formaggio?» chiese la donna, incredula e divertita al tempo stesso. «Saranno proclamati tre giorni di festa e di banchetti in vostro onore nella nostra residenza. Mio marito, il principe Nicolae, saprà come ricompensarti per aver salvato la vita della sua adorata secondogenita.»

La residenza del principe Nicolae consisteva in un vasto podere circondato da un alto muro di cinta che il regnante della Valacchia occupava quando, come in quella occasione, si trovava in viaggio tra i suoi possedimenti.

La metà di un cervo ardeva sulla brace, mentre su altri fuochi erano disposte carni pregiate e verdure. Molti sudditi occupavano il cortile all’interno delle mura: il principe aveva voluto condividere la sua gioia con tutti gli abitanti della zona.

I due orientali fecero il loro ingresso seguiti da una donna, che teneva per mano due bambini pressoché identici, e da un ragazzo dai lineamenti sottili e dagli occhi blu intenso. Gli ospiti in onore dei quali si teneva il banchetto si erano vestiti con gli abiti migliori, e avevano approfittato delle acque del fiume per ritemprarsi dalla fatica e per detergersi dalla polvere che il lungo viaggio aveva depositato sulla loro pelle. Uno degli orientali vestiva con abiti finemente ricamati. Wu, come sempre, amava mettere in mostra il suo fisico possente. Il giovane dagli occhi blu, che la principessa non aveva conosciuto al fiume, recava sulle spalle un involto.

«Questi sono gli eroi che hanno salvato la vita alla nostra bambina, mio principe», disse la donna indicando il gruppo giunto al loro cospetto.

«Io vi sono grato, stranieri. La mia sposa mi ha detto del coraggio di uno di voi nel salvare dalle acque la nostra piccola. Mi ha detto anche che si è offerta per accontentare qualsiasi vostro desiderio e voi avete avanzato una richiesta talmente modesta da farvi onore. Che la festa incominci!»

Adil si spostò vicino al fuoco: si trattava di un immenso camino all’aperto, sotto al quale ardevano i ceppi.

Vladislav sovrintendeva alle operazioni di cottura: anche se solo in parte, il cervo era una sua preda di caccia e il giovane ci teneva a fare bella figura con gli ospiti e con i suoi sudditi.

«Ti ho portato l’altra metà, Vladislav», disse una voce alle sue spalle.

«Tu?» chiese il giovane principe con aria incredula. «Che cosa ci fai qui?»

«Quelle persone», disse Adil indicando i due orientali, la donna e i gemelli, «sono la mia famiglia e ciò che ho di più caro al mondo da quando i miei genitori sono morti. È stato per sfamare loro che io mi sono spinto a cacciare sulle vostre terre.»

«Sono felice di rivederti, Adil», disse Vladislav.

«Anch’io lo sono.»

Gli occhi dei due ragazzi si incontrarono ancora una volta.

La festa continuò sino a notte tra pietanze succulente e abbondanti libagioni.

Finita la cena e prima di aprire le danze, entrò un buffo giullare dall’aria effeminata. Tra lazzi volgari e risate, molti dei presenti si prendevano gioco del buffone, stuzzicandolo sulle sue preferenze sessuali.

Adil e Vladislav erano vicini.

«Per domani avrei organizzato una battuta di caccia al cinghiale», disse il principe rivolto a Humarawa e Wu. «Mi farebbe davvero piacere conoscere le tecniche di caccia degli uomini d’Oriente. Sarebbe per me un onore se voi, compreso il giovane di cui mio figlio ha parlato come di un ottimo cacciatore, voleste far parte del gruppo.»

Il mattino dopo, i latrati dei cani al guinzaglio precedettero di qualche tempo l’arrivo della luce. Gli uomini si portarono ai limiti della foresta illuminando il cammino con le lanterne.

I cacciatori scomparvero tra il fitto fogliame mentre, partendo da un altro punto della foresta, un nucleo formato da una trentina di battitori attendeva il sorgere del giorno per spingere le prede verso i cacciatori. La battuta sarebbe durata sino alla sera del giorno seguente.

Gli uomini si muovevano in coppia: i cinghiali selvatici non erano animali da sottovalutare ed era più prudente che ognuno avesse un compagno al suo fianco in caso di necessità. Erano muniti di arco, di una spada corta e di un coltello affilato. Adil e Vladislav erano insieme.

Avevano camminato per chilometri e chilometri, e quando era giunta la sera ancora non avevano intercettato la loro preda. La caccia non era stata proficua. Adil disse: «Vladislav, mi pare che ci siamo lasciati alle spalle i battitori. Non vorrei che ci trovassimo fuori dalla zona di caccia».

«Non ti preoccupare: domattina, con la luce del giorno, ritroveremo la strada per il campo. Accendiamo il fuoco e mangiamo qualcosa. Purtroppo non abbiamo nemmeno un animale da arrostire sulla brace, ma ho alcune provviste nella bisaccia.» Vladislav prese una fiasca di vino e bevve un sorso, poi la passò a Adil.

Riscaldarono una minestra di fagioli e, insieme, risero scherzando della loro scarsa capacità venatoria.

I bagliori del fuoco sottolineavano il profilo di Adil e l’azzurro dei suoi occhi spiccava nella luce rossastra delle fiamme. Vlad si prese la testa fra le mani, come se volesse fermare il lieve capogiro provocato dal vino.

«Mi stanno succedendo cose strane da quando ti ho conosciuto, Adil. Sarà meglio dormire: domani ci aspetta di nuovo una lunga marcia. Buonanotte», borbottò il giovane.

«Buonanotte a te.»

Vladislav si sdraiò accanto al fuoco. Adil prese posto a poca distanza da lui.

Complici la notte scura della foresta e il cielo terso sopra le cime degli alberi, i due si avvicinarono, sino a quasi sfiorarsi. La mano di Vlad si posò dapprima sulla spalla, quindi accarezzò la nuca di Adil. Fu a questo punto che l’altro si volse e le loro labbra si incontrarono in un bacio lungo e appassionato.

«Che cosa stiamo facendo?» disse Vlad ritraendosi incredulo e imbarazzato. «Allontanati. Te ne prego.»

Adil si spostò, ma nello stesso tempo provò a parlare: «Aspetta, Vlad, non è come tu pensi…»

A un tratto un cespuglio poco lontano parve scosso da un vento tanto impetuoso quanto improvviso. Un istante più tardi un orso sbucava dalla macchia.

L’animale era di medie dimensioni, ma non per questo poco pericoloso: non erano rari i casi in cui gli orsi bruni dei Carpazi avevano dilaniato e ucciso uomini e bestiame.

La mano di Vladislav corse istintivamente alla cintura. Il giovane sguainò la spada e si preparò a combattere.

Adil invece fu colto alle spalle dalla carica dell’animale. La zampa anteriore dell’orso fendette l’aria dietro la testa del giovane, che ebbe però il tempo di girarsi di tre quarti e menare un fendente con il pugnale, nello stesso istante in cui l’orso stava per colpirlo.

Vlad si lanciò addosso alla bestia: se non l’avesse fatto l’orso avrebbe ridotto a brandelli il suo compagno. Lo colpì più volte alla schiena, ma non riuscì a ferirlo a morte, anzi l’unico effetto che ottenne fu di scatenarne ulteriormente l’aggressività. L’orso si volse, drizzandosi in piedi davanti a Vladislav, allargò minaccioso le zampe anteriori munite di artigli affilati come pugnali e si preparò ad aggredire. Adil strinse il pugnale nella mano e affibbiò un colpo dal basso verso l’alto tra le scapole dell’animale, che parve vacillare per alcuni istanti.

Allora Vlad mirò al centro del petto: la lama penetrò quasi sino all’elsa e l’orso si accasciò riempiendo la foresta del suo urlo di morte.

Ansimante, Adil ebbe la forza di rivolgere un sorriso al compagno, ma questi, ancora divorato dal rimorso per quel bacio contro natura, non osava alzare lo sguardo su di lui. La luce del fuoco era ancora viva: gli artigli dell’orso avevano strappato la casacca e la camicia di Adil.

Vlad si sincerò con un rapido sguardo che il compagno non fosse ferito. Fu allora che i suoi occhi increduli si fermarono sul seno sodo e tornito: la zampata dell’orso aveva ridotto a brandelli anche la fascia con cui Celeste soleva costringerlo e nasconderlo alla vista.

«Ma tu… ma tu sei…» Gli occhi di Vlad avevano un’espressione incredula e felice come quelli di un bambino di fronte alla magia di un illusionista.

«Era proprio quello che stavo cercando di dirti, Vlad, prima che questo bestione venisse a interrompermi. Volevo anche dirti che non sei il solo a cui sono capitate cose strane dal momento del nostro incontro…»

Celeste non fece a tempo a finire la frase: la bocca di Vlad sulla sua la ridusse al silenzio.

Il fuoco li vide avvinghiati, e fu il loro unico testimone mentre, sotto le stelle della notte d’estate, rotolavano nudi sulle stuoie.

Per la prima volta Celeste si strinse a un uomo, lo scoprì palmo a palmo. Si soffermò sulle loro diversità e imparò, guidata dalla mano di Vlad, a conoscere i segreti dei loro corpi.

L’istinto e il desiderio furono buoni maestri. Quando lo sentì premere contro di lei si aprì per accoglierlo.

Le labbra della giovane cercarono quelle di lui per soffocare il grido di dolore. Ma fu un attimo. Le bocche rimasero incollate in un interminabile bacio che trattenne nelle loro gole un urlo di piacere.

Con la forza della gioventù rimasero avvinti tutta la notte, cercandosi e donandosi a vicenda. Il giorno li sorprese ancora abbracciati.

«Perché eri travestita da uomo, Celeste?»

Brevemente la ragazza gli parlò di Campagnola e della persecuzione che il veneziano aveva compiuto ai danni della sua famiglia.

«Non avrai più nulla da temere: accanto a me non correrai alcun pericolo. Sempre che tu voglia restare al mio fianco… lo vorrei tanto… io… io credo di essermi innamorato di te.»

I due giovani legarono le zampe della preda a un palo e, non senza fatica, trasportarono l’orso sino alla residenza del voivoda di Valacchia. Non fecero parola con nessuno del loro segreto, sino a che Vladislav non si confidò con la madre e Adil parlò del suo desiderio di ritornare a essere donna con Humarawa.

Era sera quando, in una sala della residenza, Vladislav chiese la parola al padre.

Gli uomini, seduti attorno al fuoco e intenti a raccontarsi a vicenda epiche imprese di caccia, fecero silenzio.

«Avrei deciso di sposarmi, padre mio», disse il giovane al principe.

«Sei nell’età giusta, Vladislav. La figlia dei principi di Moldavia mi sembra un ottimo partito. Altrimenti cercherò tra i nostri confinanti per trovare una moglie adatta a te, figlio.»

«Se non vi dispiace, padre, avrei già scelto la mia sposa.»

«Mi auguro sia di nobile lignaggio…»

La moglie del principe lo colpì sotto la tavola con il ginocchio, ricordandogli con quel gesto che lei proveniva da una benestante famiglia di mercanti, ma non aveva certo origini principesche.

«Su chi sarebbe ricaduta la tua scelta, Vlad?» chiese il padre, cercando di non apparire troppo intransigente.

«Vorrei sposare… Adil… padre mio.»

«Adil?! Adil?!» Mano a mano che il significato delle parole del figlio prendeva corpo nella mente del principe, la sua voce si faceva più vibrante. I cacciatori erano improvvisamente ammutoliti. «Non starai parlando di quell’Adil? Il tuo compagno nella battuta di caccia, non è vero?»

«Proprio lui avrei scelto… aspetta un solo istante, padre.»

Ma l’incredulità ormai aveva lasciato il posto all’ira.

«Non è possibile… tu, mio figlio, sei… sei un… sodomi…» Non finì la frase.

Il vestito di gala che la madre di Vlad aveva prestato a Celeste aveva avuto bisogno di qualche ritocco e Rhoda si era impegnata con ago e filo per molte ore. Adesso la veste di colore azzurro tenue le stava a pennello.

Un corpetto ricamato con fili d’oro e impreziosito da pietre dure scendeva dalle spalle fin quasi alla vita. La parte superiore della veste era abbastanza aderente e lasciava intuire la soda rotondità del seno. Le maniche, anch’esse attillate, coprivano le braccia sino ai polsi. La sopraveste era in preziosa stoffa di Francia ricamata e terminava in un corto strascico. Sul capo, Celeste portava un cappello a rete dello stesso colore dell’abito, formato da due falde imbottite che si univano proprio sopra alla fronte. Qui Humarawa aveva personalmente inserito il proprio regalo di fidanzamento: uno zaffiro delle dimensioni di un uovo di quaglia, e blu come gli occhi della sua figlia adottiva.

Celeste era bellissima. Quando apparve nel vano della porta il silenzio si fece palpabile. Incedeva con passo sicuro, benché fosse la prima volta che indossava scarpe da donna.

Il principe Nicolae rimase a bocca aperta e la sua espressione irata si trasformò in bonario sorriso.

Gli occhi di Humarawa e Wu si incontrarono per un istante, poi il samurai e il cinese distolsero lo sguardo: due guerrieri della loro fama non avrebbero mai dovuto cedere alla commozione di cui si sentivano preda.

45

Agosto 2004

Dal diario di Asher Breil, Bucarest, 1968.

Certo, era vero quello che il conducator Nicolae Ceausescu mi aveva detto: io conoscevo più cose di quanto si potesse supporre. E se un giorno fosse riuscito a sapere come e perché ero giunto sino a lui, forse mi avrebbe fatto fare la stessa fine che si mormorava avessero fatto molti oppositori del regime. A dire il vero il conducator aveva bisogno di molti appoggi in quel periodo: il suo più ambito traguardo pareva consistere nell’affrancarsi dal giogo, non solo economico, dell’Unione Sovietica. Era inutile che si facesse altri nemici, oltre ai dirigenti del soviet che già non vedevano di buon occhio la sua smania di indipendenza.

Diverso era l’atteggiamento della moglie Elena, che in molti reputavano la vera mente della politica rumena, ma anche il braccio armato di Nicolae. Sin dal primo momento in cui l’avevo incontrata, avevo provato un’antipatia epidermica che, ne ero certo, la first lady ricambiava.

Elena Petrescu era di un anno più giovane del marito. Aveva abbandonato la scuola in tenera età: anche il lavoro di una bambina era importante per una famiglia molto povera. Aveva conosciuto Nicolae nel 1930 e nove anni più tardi si erano sposati.

Il marito, che mostrava nei suoi confronti una vera e propria venerazione, aveva in serbo per lei le cariche più prestigiose: appena giunto al potere, Ceausescu assegnò alla moglie incarichi di grande importanza. In pubblico Elena Petrescu era abile a recitare il ruolo di comprimaria e rimanere in disparte, apparentemente timida ed elegantissima nei suoi lussuosi tailleur di Chanel. Si diceva che i metodi adottati dalla polizia segreta rumena, la famigerata Securitate, fossero farina del suo sacco. E si trattava di metodi che poco avevano da invidiare al Ghepeu di Stalin o alla Gestapo di Hitler.

Commentando lo strapotere della polizia segreta, nell’entourage dei Ceausescu si faceva un gran ripetere che quella era la migliore forza di una «Romania che farà da sé!» Si trattava dello slogan di Gheorghiu-Dej, fatto proprio da Ceausescu e teso a sottolineare, in maniera meno traumatica possibile, la mira all’indipendenza di Bucarest da Mosca.

«In un modo o nell’altro bisognerà pure combattere i servi dei bolscevichi che occupano la Bessarabia!» sostenevano i più convinti nel giustificare i sistemi della Securitate. «Non si può pensare di tacitare persone come la Pauker solo con le buone maniere.»

Anna Pauker era stata una dirigente politica, paladina filosovietica, pronta a consegnare chiunque al plotone di esecuzione, compreso un marito colpevole di essere sospettato di attività antisovietica. L’eredità che Dej aveva lasciato all’ex ciabattino Nicolae Ceausescu era stata l’eliminazione di ogni esponente del fronte filosovietico, di cui anche la Pauker aveva fatto parte. L’impresa di mantenere nei confronti di Mosca una posizione critica e, nei limiti del possibile, neutrale, si era rivelata più facile del previsto per Ceausecu, liberato dal peso di una pericolosa opposizione interna. E contro il rinascere di qualsiasi moto antigovernativo vigilava il regime del terrore instaurato dalla Securitate.

Il lavoro da me svolto come copertura mi poneva in una posizione di vantaggio, rispetto a qualsiasi cittadino straniero di stanza a Bucarest: oltre ai privilegi di cui godevo grazie alla confidenza che si era instaurata tra me e Ceausescu, ero il solo a conoscere buona parte degli spostamenti dei fondi «paralleli». Non mi illudevo che tutti i conti segreti del leader e della sua compagna transitassero per il mio ufficio, ma ero convinto che una buona parte dei loro «depositi familiari» fosse affidata al segreto dei conti cifrati nella banca svizzera da me rappresentata. E gli affari dei Ceausescu di cui mi occupavo corrispondevano a cifre da capogiro. Spesso venivo invitato dal leader a partecipare a cruente battute di caccia all’orso nel casino di Dealul Negru (Colle Nero).

Il copione era sempre identico: giungevamo in zona con un elicottero, quindi venivamo condotti alla residenza. Al mattino ci si trasferiva sul luogo dell’appostamento e lì iniziava la mattanza: nelle circa quattrocento aree venatorie della Romania dove si trovavano gli orsi, gli addetti provvedevano costantemente a rifornire gli animali del nutrimento supplementare. Le «stazioni di ristoro» per orsi erano composte da una mangiatoia e una rastrelliera a cui venivano appesi brandelli di carne e altre prelibatezze.

Ceausescu si appostava in un’altana sopraelevata dotata di un paio di stanze, bagno, cucinino e frigorifero. Faceva fuoco sugli animali rimanendo seduto in poltrona e, a volte, arrivava a uccidere sino a venti orsi al giorno.

Io restavo a guardare: quel tiro a segno contro un animale indifeso non faceva per me. Eunica cosa che mi induceva a trascorrere intere giornate in una stanzetta mimetizzata nel mezzo della foresta erano le confidenze a cui si lasciava andare il conducator in quei momenti. Ognuna di queste, ricomposta come in un puzzle, avrebbe potuto rappresentare la sola strada in grado di condurmi fino al simbolo del nostro popolo: il sigillo del Re dei Re.

«Vorrei parlarle ancora di un personaggio molto importante per il mio paese, messo al bando tra gli occidentali a causa dell’opera di uno scrittore dotato di grande fantasia. Sto parlando di Vlad Dracula: un eroe che ho intenzione di riabilitare agli occhi del mondo intero», mi disse un giorno, mentre eravamo impegnati in una logorante attesa della preda sorseggiando rari tè indiani accompagnati da prelibati dolci serviti su vassoi d’argento. «Ciò che noi sappiamo di Dracula, o meglio, ciò che il mondo conosce, corrisponde alla figura del vampiro di Bram Stoker. Il protagonista degli incubi di migliaia di lettori. In alcuni casi, invece, il Vlad realmente esistito è considerato come uno spietato assassino, passato alla storia con l’appellativo di Tepes, l’Impalatore. Dracula fu invece un sovrano integerrimo. Non nego sia stato inflessibile e severo, ma come non esserlo a quei tempi, con la minaccia dell’Islam alle porte? Fu lui che impedì ai musulmani, con invalicabili barriere, di invadere l’Europa. Il mondo occidentale deve anche a Vlad Tepes la preservazione delle proprie frontiere e la sopravvivenza della civiltà cristiana. Non creda che questa sia una rilettura della Storia da parte di un uomo di governo accecato dal sentimento patriottico: Dracula fu una pedina importante nello scacchiere europeo di quell’epoca.»

«Anche Dracula faceva parte del disciolto Ordine del Drago, non è vero?»

«L’Ordine del Drago non è mai stato sciolto, dottor Breil. Molte persone tuttora ne fanno parte e ancora oggi si adoperano affinché il loro mondo non cada nelle mani sbagliate…»

«E col Mio permesso risuscitasti il morto…» ripeté ancora una volta Cassandra Ziegler rivolta a Oswald Breil.

Così si concludeva l’ultima missiva del Giusto.

«Quale segreto si nasconde dietro a queste parole?»

«Ragioniamo con calma», disse Oswald premendosi le mani sulle tempie. Quindi, aprendo una copia del Corano, disse, prima di incominciare a leggere: «Quella frase fa parte di un versetto del Corano che recita: E quando Allah dirà: ‘O Gesù figlio di Maria, ricorda la Mia grazia su di te e su tua madre e quando ti rafforzai con lo Spirito di Santità! Tanto che parlasti agli uomini dalla culla e in età matura. E quando ti insegnai il Libro e la saggezza e la Torà e il Vangelo, quando forgiasti con la creta la figura di un uccello, quindi vi soffiasti sopra e col Mio permesso divenne un uccello. Guaristi, col Mio permesso, il cieco nato e il lebbroso. E col Mio permesso risuscitasti il morto. E quando ti difesi dai Figli d’Israele allorché giungesti con le prove. Quelli di loro che non credevano, dissero: “Questa è evidente magia” ’».

«Si tratta della quinta sura del Corano, ‘La Tavola Imbandita’. È uno dei tanti passi coranici in cui si fa riferimento alla vita di Cristo. Naturalmente il morto resuscitato è Lazzaro, che Cristo riporta in vita con il permesso di Allah misericordioso.»

Cassandra lesse per l’ennesima volta la copia della lettera. L’originale, come sempre, era già stato inviato alla CIA, titolare delle indagini: «Quando giungerete dove il morto è vissuto per poi morire, riceverete nuove informazioni. ‘E col Mio permesso risuscitasti il morto’…»

Il solito sigillo ne confermava la provenienza.

«Lazzaro… Lazzaro…» disse Oswald come se il miracolato da Cristo potesse in qualche modo illuminarlo… «Il Giusto vuole mandarci in un luogo, un luogo legato a Lazzaro vivo…» Le dita di Oswald corsero rapide sulla tastiera del computer, impartendo i comandi e, in breve, apparve sul monitor una pagina corredata da alcune fotografie.

Oswald lesse: «San Lazzaro è il patrono di Larnaca, l’antica Kition: le sue spoglie riposano nei pressi della città moderna. Resuscitato da Cristo in Betania e perseguitato poi dai giudei, si recò a Cipro dove divenne vescovo. Quando morì, dopo trent’anni, fu deposto nel sarcofago sotto la chiesa di Agios Lazaro che reca incisa l’epigrafe: ‘L’amico di Cristo’».

«Ecco il luogo ove il Giusto vuole che ci rechiamo: l’isola di Cipro.»

«Cipro?» chiese Cassandra guardandolo con aria interrogativa.

Glakas era tornato soltanto due volte nella terra che gli aveva dato i natali. In entrambe le occasioni la ragione del viaggio era stata un lutto in famiglia: motivo che non aveva certo contribuito a rendere piacevoli quelle visite. Ora che nessun vincolo familiare lo legava più all’isola del Mediterraneo, nulla avrebbe persuaso Glakas a rimetterci piede. Il solo pensare a Cipro provocava in lui un profondo senso di malinconia e una rabbia feroce nei confronti dei turchi che avevano causato la morte di sua madre, cancellando la sua giovinezza e ogni gioia di vivere. Era colpa dei musulmani turchi se George e i suoi parenti erano stati costretti ad abbandonare ogni cosa nell’arco di poche ore. Mille volte aveva meditato la sua vendetta personale, e si era ripromesso di metterla in atto non appena ne avesse avuto l’occasione. Ma per poterlo fare al meglio doveva avere il supporto di un incarico ufficiale che solo il raggiungimento dei più alti vertici della CIA gli avrebbe conferito. Così aveva continuato ad aspettare. Adesso ci avrebbe pensato il Giusto, sollevandolo da un compito tutt’altro che facile. In seguito Glakas sarebbe riuscito a chiudere il suo conto col serial bomber: era convinto di essere giunto alla sua identificazione.

Il vento del Mediterraneo spazzava la superficie dell’acqua, mitigando l’arsura dell’estate. Il profumo del mare si mischiava a quello delle spezie.

Oswald e Cassandra scesero dall’Executive e si infilarono nell’auto che li attendeva.

Alla guida si trovava un agente federale in servizio come capo della sicurezza presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Cipro, Carl Firenall, un americano alto e dinoccolato, che dimostrava una cinquantina d’anni. L’uomo aveva ormai perso le velleità di carriera della gioventù, depositandole lungo le tappe di un percorso di poliziotto distaccato presso le ambasciate americane in ogni angolo del mondo. Non si era mai sposato, anche se in ogni porto si accasava con quella che lui stesso definiva «moglie istantanea». Carl, con aria cinica, era solito paragonare il suo lavoro a quello del capo della sicurezza di un grande albergo: qualche ubriaco da tranquillizzare alla sera, qualche tipo sospetto da tenere d’occhio, una prostituta da allontanare e, quando capitava, il caso di una cassaforte svaligiata in una camera.

«Cavolo, dottoressa Ziegler», esclamò Firenall con sincera ammirazione. «Sapendo che sarebbe arrivata lei avevo intuito che qualche cosa di grosso stesse bollendo in pentola, ma addirittura questo signore…»

La Volkswagen Passat si mosse con un sobbalzo.

«Sono onorato di conoscerla, Oswald Breil. Davvero onorato», continuò l’agente americano voltandosi verso il sedile posteriore e tendendo la mano verso i nuovi arrivati. «Non avrei mai creduto di avere l’onore di stringerle la mano.»

Oswald ricambiò il saluto e pronunciò alcune parole di ringraziamento: quel genere di attestazioni di stima gli procurava sempre una punta di imbarazzo.

«La vostra guida per l’isola che diede i natali alla dea della bellezza è a disposizione, signori», disse Carl mimando un inchino rivolto ai passeggeri. «Ditemi soltanto che cosa posso fare per voi.»

«Le ricordo anzitutto l’assoluta riservatezza circa la nostra visita, agente Firenall…»

«Sarò muto come una tomba, dottoressa Ziegler…»

«Credo che l’eco delle imprese del serial bomber che si fa chiamare il Giusto in nome di Dio sia giunta anche in quest’oasi di colori mediterranei.»

«Certo, la zona turca dell’isola ha aderito alla dimostrazione di protesta proclamata qualche giorno fa da tutto il mondo musulmano.»

«Abbiamo il sospetto che sia proprio Cipro il prossimo bersaglio del terrorista.»

«Una cosa grave», commentò Carl. «Una reale emergenza… A maggior ragione consideratemi al vostro completo servizio.»

«Già, il fatto è che il Giusto non ci lascia molto tempo per tentare di fermarlo», aggiunse Breil. «Per prima cosa vorrei visitare la chiesa di Agios Lazaro, dove si trova l’urna che contiene i resti del santo.»

«D’accordo, ma prima dobbiamo raggiungere Larnaca.» Così dicendo Firenall diresse la Passat verso la città. Ci volle qualche minuto perché Cassandra e Oswald si abituassero alla guida a sinistra in vigore sull’isola, ultimo retaggio del dominio inglese.

Durante il viaggio Oswald indossò il travestimento che più gli consentiva di passare inosservato: una T-shirt con un disegno di Harry Potter, un paio di calzoni rosso fuoco pieni di tasche e toppe, e in testa un cappellino da baseball.

«Nonostante sia ormai vicino ai cinquanta», disse Oswald guardandosi nello specchietto retrovisore, «mi sento sempre un bambino…»

Gli occupanti dell’auto risero divertiti della capacità che Oswald aveva di sdrammatizzare anche il suo aspetto fisico.

Arrivati alla chiesa, Cassandra e quello che sembrava un ragazzino si misero diligentemente in coda dietro un gruppo di turisti italiani; quindi giunsero dinanzi all’urna nella quale erano deposte le ossa di Lazzaro.

«Quando giungerete dove il morto è vissuto per poi morire, riceverete nuove informazioni», disse Breil una volta che furono soli nella cripta. «Speriamo di aver interpretato correttamente le indicazioni del Giusto.»

Poco lontano la guida stava dicendo in italiano: «… da cui deriva il nome della città che ci ospita: Larnaca significa infatti ‘località dove si trova l’urna di Lazzaro’».

«Signora… prego, signora…» Un bambino che parlava un inglese zoppicante, con le tipiche inflessioni greche, giunse a fianco di Cassandra. «Mi hanno detto di consegnarle questa busta, signora.»

Cassandra guardò il bambino con aria stupita.

Oswald non perse tempo: «Chi te l’ha data?» chiese rivolto al bambino.

«Quell’uomo.» Il bambino indicò un punto verso le ultime panche della chiesa. «L’uomo che si trovava là. Mi ha dato dieci dollari americani.»

Gli occhi di Oswald e Cassandra si volsero nella direzione indicata, senza scorgere nessuno. Allora i due corsero fuori, risalendo la corrente dei turisti in pellegrinaggio.

«Non sono riuscito a vedere nessuno, con questo viavai di gente…» disse Carl Firenall, che era rimasto in attesa all’interno dell’auto, allargando sconsolato le braccia.

Le mani di Cassandra aprirono la busta con trepidazione. Non c’era tempo di osservare le consuete cautele per non contaminare l’involucro: Cassandra si trovava a migliaia di chilometri dalla sede dell’FBI, ed era certa che il Giusto avrebbe operato nella sua maniera asettica senza lasciare, come al solito, nessuna traccia.

Lascia che venga con noi domani a divertirsi e a giocare; veglieremo su di lui.

Due dei loro, timorati e colmati di grazia da Allah, dissero: «Entrate dalla porta; quando sarete dentro, conoscerete la Vittoria».

I miscredenti sono come bestiame di fronte al quale si urla, ma che non ode che un indistinto richiamo. Sordi, muti, ciechi, non comprendono nulla.

Cassandra lesse ad alta voce. Oswald ripeté i versetti, quindi disse: «Se la memoria non mi inganna, si tratta di tre brani differenti. Ma non credo che dovremo cercare il significato del messaggio nell’argomento delle singole sure.»

Breil si fermò un istante a riflettere, prima di rivolgersi a Carl. «Che cosa succede domani qui a Cipro, Carl? Qualche avvenimento particolare, festa, ricorrenza?»

«A Cipro nulla… domani è un giorno normalissimo… il 30 agosto… Un momento! Nella zona turca il 30 agosto viene festeggiato come ‘Giorno della Vittoria’!»

«…quando sarete dentro, conoscerete la Vittoria… Ci siamo!» esclamò Cassandra Ziegler.

L’ufficiale turco aveva un’espressione ottusa dipinta sul volto olivastro. Osservò Carl Firenall e formulò la domanda per l’ennesima volta: «Potresti ripetere, americano?»

«Mi ascolti con attenzione, tenente.» Firenall pareva sul punto di perdere la pazienza. «Forse lei ha visto troppi film sulla guerra fredda. Le ricordo che il mondo ha abbattuto il muro di Berlino, si figuri che cosa gliene frega del muretto di Nicosia o Leukosa, come vi piace chiamarla da questa parte. Tenga presente che lei non è Chruščëv ai tempi dei missili a Cuba, ma un fedele alleato degli americani. In questo momento un funzionario dell’ambasciata americana le sta dicendo che dentro quella Passat ci sono due persone molto importanti che stanno cercando di sventare una terribile minaccia che grava non solo sulla città, ma sul mondo intero. Detto questo, o apre quella cazzo di sbarra o domani farò scoppiare un tale casino che il suo muro sarà ridotto a macerie fumanti da uno stormo di F16. Ha capito bene, tenente?»

Il turco in un primo momento parve volersi ribellare a quel tono, quindi mise mano al telefono e parlò a monosillabi con qualcuno che doveva ricoprire un ruolo più importante di quello di un oscuro ufficiale assegnato al confine situato in fondo a via Lidras, tra la parte sud dell’isola di Cipro, greca, e quella nord, turca.

Pochi minuti più tardi la Passat entrava nella zona turca di Nicosia.

«La riunificazione delle due zone di Cipro, programmata per il maggio scorso, è fallita», disse Firenall, indicando la linea di confine, chiamata «Attila», presidiata da alcuni soldati delle Nazioni Unite con il classico basco blu chiaro. «E convinzione comune che sul tavolo delle trattative per l’entrata della Turchia nell’Unione Europea, l’unificazione di Cipro sarà una voce importante. Ma non sarà cosa semplice da attuarsi. Negli ultimi anni la popolazione autoctona è andata riducendosi e l’intera zona nord è diventata terra di immigrazione di coloni turchi provenienti dall’Anatolia. La colonizzazione imposta dai turchi ha rinfocolato gli attriti mai sopiti tra i due popoli costretti a convivere sull’isola.»

Cassandra stava ad ascoltare. Conosceva quella storia per sommi capi e fu Oswald a venirle in aiuto: «Nel luglio del 1974 le truppe turche invasero l’isola col pretesto di antiche rivendicazioni territoriali. Furono circa duecentomila i greco-ciprioti che abbandonarono le proprie case, mentre ventimila scelsero di restare, pur sapendo che sarebbero andati incontro a gravi problemi di convivenza».

«Problemi che permangono ancora oggi: i lanci di sassi al di là del muro sono sempre più frequenti. Vige il divieto di avvicinarsi e di scattare fotografie al muro, l’unico ormai esistente in Europa», aggiunse Firenall.

«Bene, a ogni modo abbiamo superato il primo ostacolo: non ci resta che pensare a quale luogo possa aver scelto il Giusto per mettere in atto la sua ennesima minaccia.» Cassandra aveva appena terminato la frase che due auto di colore scuro affiancarono la Passat, stringendola verso il ciglio della strada.

L’uomo che scese dalla seconda auto non poteva che appartenere ai servizi di sicurezza. Con aria di superiorità fece cenno a Carl di scendere dall’auto. Oswald e Cassandra rimasero invece all’interno, rinfrescati dall’impianto di condizionamento che Firenall aveva il vizio di tenere sempre al massimo.

L’uomo con l’aria da James Bond parlottò brevemente con Firenall, quindi si accostò al finestrino posteriore e aspettò che Oswald lo aprisse. Quando vide il volto di Breil, il turco ebbe un moto di stupore.

«Chiedo scusa, signore», disse rivolto a Oswald, «ma lei è Oswald Breil, l’ex primo ministro di Israele?»

«Sì, sono io.»

«Sono onorato di fare la sua conoscenza e capisco che ci dev’essere qualcosa di molto importante perché uno come lei si trovi nella nostra isola. Mi chiamo Ihsan Sukru, generale Ihsan Sukru, comandante dei servizi di sicurezza turco-ciprioti. Ho ricevuto l’ordine di condurvi al vostro albergo, dove vi è stata riservata una stanza per ciascuno. Nel frattempo sarà nostro compito adempiere alle pratiche per…»

«Sono altrettanto onorato, generale Sukru.» Se si fosse trovato in un’altra circostanza, Oswald avrebbe sorriso, chiedendo quanta truppa fosse assoggettata al generale; ma non era quello il momento più adatto per indulgere al sarcasmo, e non bisognava dimenticare l’assoluta riservatezza che doveva contraddistinguere la loro missione. «Ma vorrei sottolineare l’importanza e la segretezza di questa nostra visita non proprio ufficiale al suo paese…»

«Capisco, dottor Breil.» Il generale pareva irremovibile. «Sarà mio dovere farvi ottenere il visto di ingresso quanto prima. Nel frattempo godrete degli ottimi servizi di un lussuoso albergo…»

«Generale, forse lei non ha capito bene: siamo qui per sventare una gravissima minaccia.»

«E io sono qui per far rispettare le leggi del mio paese. Se non le dispiace, dovrebbe consegnarmi i documenti suoi e quelli della signora. Le assicuro che vi verranno restituiti quanto prima con il visto di ingresso.»

«Generale», Cassandra era rimasta in silenzio sino a quel momento. «Il mio nome è Cassandra Ziegler. Sono uno dei direttori esecutivi dell’FBI. Non abbiamo tempo per restare confinati dentro un albergo mentre voi date avvio alla vostra ricerca di informazioni. Non abbiamo tempo per vederci consegnare tra qualche giorno un visto d’entrata. I minuti sono importanti e, se non sbaglio, domani si festeggia il Giorno della Vittoria nella zona musulmana di Cipro. Abbiamo fondati motivi per credere che proprio quella data sia stata scelta da un terrorista internazionale per commettere un terribile attentato. Ora sa tutto, generale Sukru, e non dovrà perdere ulteriore tempo per reperire notizie. Quello che le chiedo è di mostrarsi collaborativo nei nostri confronti.»

Non ci voleva un’intelligenza superiore per capire il tono di quelle parole: la reazione a un direttore dell’FBI quando formula un invito che può essere anche inteso come una minaccia deve sempre essere diplomatica.

«E chi mai dovrebbe essere questa minaccia planetaria?» chiese il generale con l’aria compunta di un gerarca di provincia.

«Il Giusto in nome di Dio, credo che lei ne abbia sentito parlare, Sukru.»

«Lasciate che vi conduca in albergo un paio d’ore, signori. Anche io ricevo ordini dall’alto e una visita come questa può non essere ben vista, se non se ne conoscono i reali motivi. Consentitemi di illustrare la situazione ai membri del mio governo, e poi sarò a vostra disposizione per sventare la minaccia.» Dalle parole del turco-cipriota trasparivano incredulità e scetticismo.

«Va bene, generale. Ma faccia davvero in fretta, anche i minuti sono preziosi.»

Il lussuoso albergo aveva servizi fatiscenti come quelli di una bettola malfamata, che stonavano in una struttura degna di un Grand Hotel della Costa Azzurra. Sorgeva lungo un viale alberato e mostrava i segni della più totale assenza di manutenzione.

Una volta in camera Oswald si gettò sotto la doccia. Quindi, dopo essersi rivestito con i suoi variopinti abiti da adolescente, si affacciò alla finestra e rimase a osservare la strada sottostante. Le auto in coda pareva utilizzassero il clacson per farsi strada come fosse la benna di una ruspa. I cartelloni pubblicitari sotto i tigli del viale… i cartelloni…

Oswald lesse a fatica, ma non ci voleva un esperto in lingua turca per capire che il cartellone reclamizzava un incontro di calcio che si sarebbe tenuto proprio nel Giorno della Vittoria. Guardò l’orologio: era trascorsa un’ora da quando Sukru li aveva accompagnati in albergo. Si calò il cappellino da baseball sul capo e infilò la porta: non c’era tempo da perdere.

Cassandra Ziegler sedette sul letto. Si era avvolta nell’accappatoio e con una seconda salvietta asciugava le gocce d’acqua che le imperlavano il volto. In quell’istante suonò il telefono. Convinta si trattasse di Oswald, Cassandra rispose con un tono amichevole. La voce contraffatta e metallica all’altro capo della linea la fece rabbrividire.

«Una bella donna come lei dovrebbe trovare un cavaliere più aitante dell’ometto che l’accompagna, dottoressa Ziegler.»

«Chi parla?» chiese Cassandra, mentre il dubbio iniziale si trasformava in certezza.

«Quello che lei e Breil state cercando, bella signora. O forse sono io quello che sta cercando voi? Staremo a vedere. Lascia che venga con noi domani a divertirsi e a giocare; veglieremo su di lui. Mi auguro davvero di vederla presto, dottoressa Ziegler. Sono sicuro che avrà mie notizie. Un caro saluto a lei e al suo uomo in miniatura.»

46

Dagli appunti raccolti da Asher Breil

a Cortina d’Ampezzo, 1967

Il piccolo lago alpino era circondato da abeti secolari. Le conifere addolcivano con i loro profumi balsamici l’aria delle Dolomiti. Sul tavolino esterno del ristorante a Lago Scin, poco distante da Cortina, Sciarra della Volta raccontava con ordine gli episodi della sua vita, dimostrando una capacità narrativa degna di un romanziere di professione.

Il colonnello Thomas Edward Lawrence aveva voluto che, in segno di riconoscenza, i suoi cammellieri si schierassero e rendessero gli onori militari all’ufficiale italiano. Sciarra passò in rassegna quegli uomini dal volto segnato dal sole del deserto, quindi si arrestò davanti al colonnello inglese. Lawrence era in sella al suo cammello, un animale eccezionale come il suo padrone: fedele e resistente a ogni fatica. Sciarra guardò Thomas Edward Lawrence: sapeva con certezza che non si sarebbe mai dimenticato del periodo trascorso al suo fianco.

Il copricapo candido circondava il viso magro e scavato dell’inglese. Il mantello di lana scendeva quasi sino a coprire mezza coscia del cammello.

L’italiano estrasse la sciabola e l’alzò dinanzi al volto in segno di saluto. Lawrence rispose con il medesimo gesto, quindi parlò con voce ferma: «È stato un onore, Alberto, poter lavorare con voi. Spero che non ci perderemo di vista».

«Anche io lo spero, Thomas. E sono io a esservi grato per avermi insegnato tanto: ora, grazie a voi, la guerra in questa terra non mi è più sconosciuta e potrò affrontare la prossima missione con maggiore consapevolezza, sapendo che reclutare tribù pronte a ribellarsi ai turchi non è sempre impresa facile.»

«Ricordatevi, Alberto: quella che combattiamo noi nel deserto non è una vera e propria guerra. Ho cercato di spiegarlo ai nostri strateghi, ma per loro è impensabile che ci siano altri modi di combattere che non siano lo scontro aperto. Io la chiamo guerriglia: colpire e fuggire senza lasciare traccia. Sono convinto che questo sia il modo migliore di operare in questi territori. Ora però separiamoci: gli addii non si adattano a un soldato.»

Sciarra si allontanò, scortato da una decina di arabi: i pilastri sui quali avrebbe creato un contingente analogo a quello del colonnello Lawrence.

Erano trascorsi due mesi da quel saluto. L’attività di Sciarra non si era fermata un attimo. Aveva arruolato un migliaio di uomini, che ora erano accampati nei pressi di Deir el Balah, ove aveva sede il comando del corpo orientale delle truppe alleate. Il colonnello italiano si trovava invece pochi chilometri più a nord-est, in vista della città di Gaza.

L’altura di Sansone si eleva per circa duecento metri a picco sul mar Mediterraneo. Due pattugliatori inglesi sorvegliavano le coste, sfilando a moto lento appena al di fuori della portata dei cannoni turchi.

La collina bunker 164 si trovava lungo la linea del fronte: da lì venivano sferrati i continui attacchi alle guarnigioni turche arroccate all’interno di Gaza. La postazione era stata presa nel corso degli scontri dell’aprile 1917 e da allora era rimasta in mano alla centosessantesima brigata inglese.

Sciarra avrebbe dovuto penetrare nella città e cercare di fomentare una ribellione interna, grazie anche all’aiuto di alcuni capitribù fedeli alla causa inglese. Tutto era pronto per la sortita: il colonnello, travestito da arabo, sarebbe stato accompagnato da un suo uomo, cugino dello sceicco di Gaza. La notte era calma e senza luna. Sciarra chiuse il quaderno sul quale era solito annotare le sue sensazioni. Chiuse anche il Registro Militare, dove aveva trascritto, seguendo le direttive dello stato maggiore, ogni azione degna di nota.

Uscì nella notte d’Oriente. Respirò a pieni polmoni l’aria secca e fredda. In quell’istante scoppiò il finimondo.

L’artiglieria turca cominciò a bersagliare con tiri di grosso calibro la collinetta fortificata. Una granata scoppiò a poca distanza dal colonnello italiano, e Sciarra fu sbalzato in aria e scagliato a diversi metri di distanza. Forse perse anche i sensi, ma per pochi istanti. Non appena si riprese e le orecchie smisero di dolergli, sollevò verso il volto ferito la mano sinistra: era ridotta un ammasso di carni e ossa sanguinolente. Sedette in un angolo: stava perdendo molto sangue. Sganciò il laccio di cuoio dal calcio del revolver e lo usò come laccio emostatico. Quindi il buio calò di nuovo nella sua mente e lui si accasciò privo di sensi.

«Che ne dice se ritorniamo a piedi sino a Cortina, signor Breil?» chiese Sciarra, impugnando il bastone da passeggio in legno.

«Volentieri, generale. Se non è troppo pesante per lei.»

«Se dovessi nuotare forse mi troverei in difficoltà», disse l’italiano indicando il moncherino coperto da un guanto di pelle nero, «ma alla mia età una buona camminata è quello che ci vuole per mantenersi in forma. E mentre camminiamo, continuerò a raccontarle della mia vita, sempre che lei non sia stanco di ascoltarmi, signor Breil.»

«È impossibile stancarsi, generale.»

«La guerra è finita!» L’urlo girò di bocca in bocca. In pochi minuti l’intero porto di Genova assunse le sembianze di una nave sulla quale si stesse svolgendo una festa scatenata: la gente ballava e gridava tra le merci e i bancali pronti per essere caricati. Ogni attività venne sospesa per dare sfogo alla felicità irrefrenabile che era seguita al primo momento di incredulità.

Ma purtroppo gli assenti giustificati alla festa erano molti: gli italiani avevano perso seicentocinquantamila militari, i francesi un milione e trecentomila, l’impero britannico quasi un milione, oltre trecentomila la Romania. Quasi tre milioni erano i soldati caduti tra le fila della Triplice alleanza e dei suoi alleati. E tra i civili i morti erano stati più di sette milioni.

Quegli spettri avrebbero influenzato, in un modo o nell’altro, la storia del ventesimo secolo. Ma invece di servire da monito alle genti, mettendo in guardia il mondo sulle infamie della guerra, divennero pretesto per rivendicazioni e aspre vendette.

La voce amplificata dagli altoparlanti all’interno dei magazzini del cotone si diffuse sino agli angoli più reconditi della grande struttura a ridosso dei moli. «Siete tutti dispensati dalle operazioni di carico e scarico. Oggi, lunedì 4 novembre 1918, la guerra è finita. Che Dio benedica l’Italia vincitrice.»

Chi aveva parlato era colui che alcuni tra i dipendenti chiamavano «Manina di legno». Un urlo di gioia risuonò nel capannone.

Anche Alberto Sciarra della Volta, «Manina di legno» per alcuni e «il Generale» per tutti, si concesse una pausa dalle sue quotidiane operazioni. La guerra, anche per chi restava lontano dal fronte, significava enorme mole di lavoro, alla quale non corrispondeva alcuna garanzia di guadagno: tutto poteva succedere ed era pressoché impossibile assicurare qualsiasi carico. Gli U-Boot tedeschi erano in agguato nel Mediterraneo come branchi di lupi famelici. Una nave dispersa poteva significare il fallimento. Per fortuna la rinomata agenzia marittima Sciarra della Volta era sempre riuscita a evitare gravi perdite.

La felicità che Alberto provava in quel momento era enorme, gli pareva di poter toccare il cielo con un dito. Un piroscafo battente bandiera inglese, ormeggiato a poca distanza dalla banchina, emise un primo, lungo fischio di sirena. E in risposta a quel segnale, in breve tutte le navi presero a suonare. Sciarra rimase a guardare quello spettacolo, assaporando il gusto della pace e della libertà.

Il generale Sciarra della Volta era stato congedato dall’esercito in seguito al suo ferimento e all’amputazione della mano. Da allora si era dedicato anima e corpo al lavoro: quello era l’unico sistema con cui poteva essere d’appoggio alla sua patria.

Il piroscafo inglese, pronto a salpare alle sue spalle, emise un altro lungo suono. Alberto non ci pensò due volte: conosceva il comandante della nave dal momento che la sua agenzia aveva provveduto a effettuare le forniture di bordo. Salì lo scalandrone di corsa, senza voltarsi indietro e senza pensarci troppo: i suoi collaboratori, per la prima volta da qualche anno, si sarebbero dovuti arrangiare da soli. Entro cinque giorni Alberto Sciarra sarebbe arrivato a Londra.

Il treno ospedale si fermò sotto le ampie volte di Victoria Station nel mezzo della notte. Fuori dalla stazione c’erano ambulanze e carri militari con la croce rossa in campo bianco dipinta sulle fiancate o sui teloni di copertura.

Le operazioni di sbarco iniziarono immediatamente, tra lo strazio dei militari feriti e gli sguardi compassionevoli dei pochi presenti. Uno di questi, benché fosse mutilato della mano sinistra, vedendo che c’era bisogno di trasportare le lettighe giù dal convoglio si diede da fare per essere d’aiuto.

Kimberly scese dal vagone: per gli addetti della Croce Rossa la fine della guerra aveva coinciso con il peggioramento delle loro già impossibili condizioni di lavoro. C’erano malati da rimpatriare, ospedali da smobilitare, morti da seppellire, famiglie da consolare. Poco dopo il congedo di Alberto, Kimberly era stata destinata al fronte europeo: l’occupazione di infermiera era una copertura alla sua reale attività di agente del controspionaggio, ma ciò non la dispensava affatto dallo svolgere le sue mansioni di crocerossina. E quando erano cessate le ostilità, la giovane aveva preferito trattenersi al fronte per essere utile là dove più c’era bisogno di aiuto. Scriveva una lettera ogni settimana all’unico uomo al quale si fosse mai concessa, ricevendo di volta in volta la sua puntuale risposta. Ma per quanto tempo sarebbe andato avanti il loro amore? La distanza che li separava avrebbe potuto allontanare i loro cuori. Sino al punto di compromettere anche il più sincero dei sentimenti. Era meglio che non si facesse illusioni sul destino del suo legame con l’ufficiale italiano: sarebbe finito presto. Molto presto. Lei avrebbe sofferto, ma era una donna di carattere…

«Signor colonnello, vi prego!»

Stava camminando sfinita lungo la banchina della stazione, quando una voce dietro le sue spalle la costrinse a voltarsi. «Signor colonnello, sono un soldato di montagna che è sceso con un dirigibile rubato al nemico su una città in guerra. Sono stato spedito nel mezzo di un deserto infuocato che ho attraversato a dorso di cammello. In tutto questo non ho mai smesso di amarvi. Volete sposarmi, colonnello Kimberly Hadwin?»

Gli occhi di Kimberly si riempirono di lacrime di gioia, mentre si girava verso il punto da cui proveniva la voce. Non vide nulla, tranne le dense nubi di vapore di una locomotiva che stava mettendosi in moto, ma le sue braccia si aprirono pronte ad accogliere colui che sarebbe sbucato dalla nebbia. Quando riconobbe il sorriso di Sciarra, l’uomo era già stretto nel suo abbraccio appassionato.

Kimber e Alberto non volevano rassegnarsi al fatto di non riuscire ad avere dei figli. Ci avevano provato e riprovato, si erano rivolti a molti specialisti che non erano però riusciti a risolvere il problema.

Genova aveva accolto la moglie inglese del potente agente marittimo mostrando la consueta indifferenza, velata di curiosità, con cui le piccole città accolgono gli stranieri. Ma a Kimber erano stati sufficienti pochi mesi di matrimonio per capire che non avrebbe più potuto fare a meno del sole del Mediterraneo e, soprattutto, di avere Alberto accanto. C’erano stati momenti difficili, ma insieme erano riusciti a superare qualsiasi ostacolo con lo stesso entusiasmo con cui avevano affrontato le difficoltà della guerra. Anche la dolorosa mancanza di figli non era riuscita a minare l’affiatamento di quella che tutti consideravano una coppia perfetta.

L’attività di Alberto era impegnativa e richiedeva la sua assidua presenza e una reperibilità pressoché costante, ma egli aveva sempre cercato di ritagliare del tempo per loro e dedicava a Kimber ogni istante libero dagli impegni di lavoro.

«Le navi non sanno leggere le lancette dell’orologio», ripeteva Alberto ogni volta che, chiamato dai suoi collaboratori, era costretto a correre al porto a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Dopo circa un anno di matrimonio Kimber aveva espresso il desiderio di essere d’aiuto in azienda: trascorrere le sue giornate tra merende di beneficenza e tè con pasticcini nel centralissimo caffè Mangini non le si addiceva per niente.

Alberto l’aveva accolta con l’intesa che, se fosse rimasta incinta, avrebbe lasciato il lavoro. Ma i figli non erano venuti e Kimber si era rivelata una pedina insostituibile in un’impresa che si andava espandendo a vista d’occhio.

Ormai, dei tempi della guerra era rimasto un lontano ricordo e ne parlavano raramente.

Ciò che non era andata perduta era la corrispondenza con Minhea che, a quanto scriveva, continuava la sua ricerca dell’Anello dei Re. Con Lawrence il rapporto epistolare si limitava invece agli auguri in occasione delle festività o a qualche telegramma o lettera di congratulazioni in occasione di nuovi riconoscimenti per il colonnello inglese. L’eroe d’Arabia aveva raggiunto posizioni di rilievo nelle gerarchie politiche: apparentemente osannato da tutti, sembrava lanciato verso la più fulgida delle carriere. Ma a un occhio esperto non sarebbe sfuggito che quella era l’arma con cui i politici sapevano confinare gli eroi scomodi perché troppo dotati di intelligenza e di ambizione: davano loro delle redini di paglia da tenere, pronti a disarcionarli alla prima occasione e a relegarli nell’oscurità.

Caro Thomas,

ho appreso dalla stampa dei vostri incontri con Winston Churchill per discutere la situazione mediorientale. Conoscendo voi e l’interesse che vi lega a quella tribolata regione, sono convinto che saprete indirizzare i leader del vostro paese verso la scelta più appropriata perché i valorosi popoli d’Arabia possano infine godere di pace e autonomia. Apprendo altresì dei difficili negoziati che state conducendo con re Hussein. Anche la stampa italiana ha dato grande risalto ai contenuti del trattato dell’Hegiaz, condotto in porto grazie al vostro intervento. Sono fiero e onorato di potermi vantare della vostra amicizia. Vogliate gradire i miei più sinceri e fraterni auguri di un indimenticabile Natale e di un prospero 1922. Con sincero affetto,

Alberto

Questa lettera fu spedita nel dicembre del 1921. Quasi nello stesso istante in cui Sciarra sigillava la busta, il piroscafo Re Vittorio ormeggiava nel porto di Genova.

Come la gemella Regina Elena, era stato costruito nel 1908 e aveva una stazza lorda di circa ottomila tonnellate. I due fumaioli neri con una grande banda bianca — il nero e il bianco erano i colori della Navigazione Generale Italiana — erano disposti tra due alberi in legno sui quali si trovavano le antenne radio e le luci di via.

Durante il periodo bellico la nave era stata adibita al trasporto truppe e aveva avuto fortuna migliore della gemella, affondata dal siluro di un U-Boot tedesco nel 1918.

Riarmata e adibita al trasporto passeggeri per e dalle Americhe, la Re Vittorio poteva alloggiare un centinaio di passeggeri in prima classe, più del doppio in seconda e milleduecento in terza.

Ora, dopo aver fatto scalo a Trieste e a Napoli, si era fermata a Genova, prima di solcare l’Atlantico con destinazione New Orleans.

Come faceva spesso, Sciarra si recò a bordo della nave e trascorse mezz’ora in piacevole compagnia del comandante, un simpatico ligure con un paio di candidi baffi da tricheco.

«Una cortesia, generale Sciarra», disse il comandante mentre stavano per congedarsi, «assieme alle provviste di bordo e a quant’altro troverete nella lista, il mio direttore di macchina insiste perché gli venga fornito un lubrificante speciale, fondamentale per il funzionamento delle sue diavolerie a vapore. Sono certo che soltanto la Sciarra della Volta sia in grado di accontentare le bizzarre richieste del mio ufficiale. Pare che senza quell’ingrassante la Re Vittorio rischi di restare in mezzo all’oceano con entrambi i motori in avaria.»

«Non preoccupatevi, comandante. Col vostro permesso vorrei raggiungere il vostro sottoposto in sala macchine per farmi spiegare da lui di che cosa abbisogna.»

Sciarra scese a passo veloce nel ventre della nave, lasciandosi alle spalle il lusso dei ponti superiori.

La sala macchine di un transatlantico si avvicina alla visione comune di un girone infernale. Gigantesche caldaie di ghisa spalancano le loro fauci, pronte a ingoiare le tonnellate di carbone che viene immesso da uomini seminudi e coperti da uno spesso strato di polvere nera. Tutto intorno, tra rumori assordanti e sbuffi di vapore, grosse bielle d’acciaio paiono testimoniare l’esistenza del moto perpetuo. Questo territorio a sé stante, sconosciuto a chi passeggia sui ponti e si riscalda alla luce del sole, è un mondo che non può fermarsi, nemmeno durante la più feroce delle tempeste: senza la spinta delle eliche, anche il più grande transatlantico sarebbe sopraffatto dalle onde oceaniche.

Sciarra rimase a osservare gli uomini alle prese con manometri e caldaie, quindi vide il direttore di macchina.

Stava andando verso di lui quando, improvvisamente, la sua mente venne percorsa da un lampo e la memoria lo spinse a ritroso nel tempo. Fu un attimo, ma Sciarra era certo di aver già visto l’assistente di macchina che gli era appena passato davanti, per quanto la fuliggine lo rendesse pressoché irriconoscibile.

Turbato dall’incontro, chiese al primo ufficiale come si chiamasse l’uomo.

«Chi, quello? Si chiama Olt, Arisztid Olt. È un ungherese e, se posso essere sincero con voi, signor Sciarra, non sono molto soddisfatto di lui. C’è di buono che parla poco, ha detto a un sottufficiale di essere un attore e che probabilmente si fermerà in America in cerca di fortuna… ma se non mi inganno, vista la sua scarsa voglia di lavorare, credo che di fortuna non ne incontrerà molta.»

«Olt, Arisztid Olt…» ripeté Alberto Sciarra tra sé.

Nel quartiere di Carignano due bambini giocavano al più bello dei giochi per i piccoli e al più brutto per i grandi. Sciarra superò i due piccoli guerrieri armati di fucili intagliati nel legno. Il pensiero del generale corse alla guerra, ai molti conti che questa aveva lasciato in sospeso. Improvvisamente Sciarra ricordò: ecco dove aveva già visto quell’uomo!

L’ultima volta che lo aveva incontrato, qualche anno prima, si trovavano all’interno di un castello in Romania, e colui che adesso si faceva chiamare Olt aveva cercato di fare la pelle a lui e al tenente Minhea Petru. Allora si chiamava Blasko, tenente Béla Blasko, dell’esercito ungherese.

Alberto Sciarra non entrò neppure in casa, fece dietrofront scendendo le scale di corsa. Quando giunse all’imboccatura del porto il piroscafo era ormai lontano. E con lui Béla Blasko.

47

Romania, 1386

«Questa è la mia storia, Mircea, figlio mio…» La donna mostrava sul volto pallido e scarno i segni dell’età e della malattia. Ma i lucenti occhi color cobalto brillavano ancora di intelligenza e di vitalità. «Promettimi di tramandarla a chi verrà dopo di te, completandola con le vicende della tua esistenza che, ne sono certa, sarà radiosa e ricca di soddisfazioni. E fa’ in modo che possa servire da sprone a chi ti seguirà. Questo perché non si perdano le origini della nostra stirpe e perché il prezioso talismano che oggi ti consegno mantenga negli anni il suo potere. Esso è appartenuto al Re dei Re: ricorda, solo chi è giusto potrà godere dei benefici del talismano. Comportati quindi secondo coscienza e con rettitudine. Rispetta gli amici, sii capace di amare e difendi la tua gente. Che Dio sia con te, Mircea, principe di Valacchia.»

Celeste ben conosceva la tempra di Mircea, il suo primogenito: era un valoroso e certo il suo nome sarebbe rimasto scritto nelle pagine della storia della loro nazione. La Valacchia era divenuta la patria di Celeste, l’unico posto dal quale non era stata costretta a fuggire, il luogo in cui aveva abbandonato definitivamente il suo travestimento ed era diventata donna, moglie e madre felice. I ricordi di una vita piena e intensa le passarono davanti agli occhi: i figli che giocavano nel prato dinanzi al castello di Vladislav. Le loro prime cavalcate, l’ansia materna che venissero disarcionati, le fatiche e la soddisfazione di crescerli forti e sani. Le sembrava che tutto fosse accaduto in un attimo, e non appena Celeste si apprestava a godere una meritata vecchiaia assieme all’uomo che mai aveva smesso di amare, erano arrivati i primi nipoti, figli di Mircea.

Celeste si era ritrovata a rincorrerli per ore, mentre questi muovevano i primi incerti passi, sdraiandosi la sera accanto a loro per raccontare le meravigliose avventure di due nemici che si erano fronteggiati per tutta la vita per mare e per terra.

Erano storie epiche, le stesse che, prima che ai nipoti, aveva narrato ai figli. Ma non erano leggende: tutti sapevano che si trattava del racconto della sua vita, un marchio di coraggio che sarebbe rimasto impresso nella tempra dei discendenti di Celeste.

Mircea e sua madre erano legati da un rapporto che trascendeva dai consueti legami tra genitori e figli.

Per il bambino Celeste era stata madre affettuosa, sicuro rifugio dalle ire paterne, maestra di vita; ma la sua dolcezza sapeva trasformarsi in severità quando vestiva i panni del più intransigente degli istruttori. Era lei che lo aveva cresciuto come un nobile guerriero, insegnandogli l’arte di combattere e le micidiali tecniche dei samurai, e Mircea era diventato preciso e rapido sia con le armi tradizionali che con la katana, la terribile spada dei nobili guerrieri.

Egli non poteva immaginare quanto sua madre si fosse imposta con la forza di essere severa e rigorosa: gli occhi del figlio — gli stessi occhi suoi e di suo padre, il grande Muqatil — quando si facevano imploranti avrebbero potuto ottenere da lei qualsiasi cosa.

Un sorriso sereno e soddisfatto si dipinse sul volto di Celeste, mentre il resto della famiglia entrava nella stanza in penombra: avrebbe lasciato una buona parte di sé sulla terra.

«In fondo dispiace quando finisce», disse la donna con un sorriso rivolto al marito, che si trovava ora accanto al letto e le stringeva la mano.

«Che cosa deve finire, Celeste?» chiese lui.

«La vita, amore mio. La vita meravigliosa che ho passato al tuo fianco.»

«Non dire sciocchezze. Voglio che pensi solo a guarire.»

«Non ho più tempo né energia per guarire, Vladislav. Se davvero esiste un mondo oltre la morte, vi raggiungerò mio padre e mia madre, Humarawa, Wu e Rhoda.»

Anche sul principe gli anni avevano lasciato il loro segno: i capelli erano di colore bianco candido. Rughe profonde ne solcavano il volto stanco, sul quale si leggeva un’espressione carica di amore e di apprensione.

«Non voglio sentirti parlare così. E poi che cosa farei senza di te, amore mio? Il prossimo anno dobbiamo festeggiare il trentesimo anniversario delle nozze… Ricordi quando dissi a mio padre che mi volevo sposare con un… uomo?»

Celeste annuì, gli occhi chiusi e la bocca serrata. La malattia sembrava averla prosciugata. Tutti e quattro i loro figli erano in piedi attorno al letto. La più giovane aveva poco più di sedici anni e non aveva mai smesso di piangere.

«Non piangete, ragazzi miei. Non piangete. Adesso è il vostro turno di affrontare la vita. Io spero di avervi aiutato a capire come farlo al meglio. Non piangete.»

Un respiro più profondo scosse il petto di Celeste. «… un Muqatil non piange mai…»

«No, madre, no, ti prego…» disse Mircea, la voce ridotta a un sussurro: non voleva rassegnarsi all’idea di perdere il faro che, fino a ora, gli aveva indicato ogni rotta.

Poco gli importava se entro qualche giorno sarebbe arrivata per lui la nomina a voivoda di Valacchia. Mircea strinse l’Anello dei Re, mentre una lacrima gli rigava le guance. «No, madre, non mi sto comportando come un Muqatil», sussurrò Mircea, «come un guerriero che non conosce la paura. Adesso non ci riesco. Ma ti assicuro che ogni tua volontà verrà rispettata, madre mia.»

48

Agosto 2004

Dal diario di Asher Breil, Bucarest, 1968.

Il conducator stava seduto sulla poltrona di fronte a una feritoia nell’altana in cui eravamo appostati. Ceausescu si ostinava a chiamare quella carneficina «caccia all’orso».

«… Sì, dottor Breil, l’Ordine del Drago non è mai morto», aveva proseguito il leader rumeno, «Vlad II, padre di Dracula, salì al trono di Valacchia nel 1418, dopo che Mircea aveva regnato per trentadue ininterrotti anni. Un vero record per tempi in cui un’investitura difficilmente ne durava più di tre o quattro. Mircea il vecchio, salito al trono nel 1386, si dimostrò un sovrano intelligente, giusto e amato dal popolo, e un grande guerriero. Durante il suo regno dovette tenere a bada da solo le mire espansionistiche musulmane: la Chiesa era impegnata a soffocare nel sangue le grandi eresie nell’Europa occidentale. A lui succedette il figlio, Vlad II. Era il 1431 quando Vlad venne investito del cavalierato dell’Ordine del Drago da Sigismondo, imperatore del Sacro Romano impero. L’ordine, di tipo militare, aveva come scopo ufficiale l’annientamento dei nemici della Chiesa ovunque questi si trovassero. Ma molti altri erano invece i suoi reali scopi e i vincoli segreti di fratellanza che legavano la cerchia degli affiliati.»

«So che lo stemma dell’Ordine era un drago alato. Nell’arte popolare rumena tale creatura impersonava il demonio», dissi io.

«Esatto. Forse fu proprio a causa di quella analogia che Dracula e suo padre vennero rappresentati nella storia come demoni.»

«O forse fu per la loro ferocia.»

«Non si dovrebbe mai essere affrettati nei giudizi, dottor Breil. Le persone vanno valutate nel contesto in cui vivono: chi spara a un uomo disarmato è un assassino ma, se colui che spara fa parte di un plotone d’esecuzione, diventa una persona che agisce nel rispetto della giustizia. Vede, la percezione della realtà cambia quando diverso è il punto di vista. Non si deve guardare alle vicende antiche con l’occhio di un uomo del ventesimo secolo, ma provare a calarsi nell’epoca, nei luoghi e nei costumi che facevano da contorno all’evento o alla persona di cui lei sta valutando l’operato.»

Chi fosse transitato nella zona turca della città di Nicosia — chiamata dai suoi abitanti Leukosa — non si sarebbe certo stupito nel vedere un bambino davanti al manifesto che reclamizzava l’incontro di calcio, evento culminante dei festeggiamenti, fissato per il 30 agosto, giorno della vittoria dei turco-ciprioti sui greci. Il bambino era in piedi: aveva un cappello da baseball sul capo e i suoi vestiti erano di colori sgargianti. Pochi sarebbero stati in grado di riconoscere in lui uno tra gli uomini più famosi del mondo. Oswald lesse il nome dell’ente organizzatore che compariva sul manifesto: Kuzey Kibris Turk Cumhuriyeti, equivalente a «Lega calcio turco-cipriota». Era singolare come una popolazione di poco superiore alle settecentomila unità, che occupava una superficie di novemila chilometri quadrati, fosse rappresentata, a livello internazionale, da due formazioni sportive per ciascuno sport: accanto alla federazione di scherma cipriota-greca, esisteva quella turco-cipriota, così per la canoa o il lancio del disco, il tiro al piattello e il dressage. Per non parlare del calcio: due stadi, due campionati, due federazioni. Oswald annotò mentalmente il nome dell’impianto sportivo in cui sarebbe stata disputata la partita Çetinkaya contro Gönyeli, le due squadre che militavano in testa al campionato: il 20 Temmuz Stadyum di Kyrenia.

Quindi tornò in albergo.

Cassandra era rimasta molto scossa dalla telefonata del Giusto: abbassato il ricevitore aveva subito provato a contattare Oswald, ma senza successo. Era quindi uscita dalla stanza e si era diretta verso la hall dell’albergo dove li avevano cortesemente confinati gli uomini dei servizi segreti locali. Sperava che Breil si trovasse lì.

Oswald era invece sbucato dall’ascensore.

«Credo di aver capito dove avverrà l’attentato», disse Oswald d’un fiato mentre, con altrettanta foga, Cassandra cercava di metterlo al corrente della telefonata del serial bomber.

«Ci sta tenendo d’occhio, Oswald», disse la donna quando si ritirarono in una delle loro camere.

«La cosa non mi meraviglia. Ogni assassino seriale gode nel vedere i propri inseguitori annaspare nel tentativo di catturarlo. Figuriamoci se il Giusto si sarebbe perso uno spettacolo del genere.» Quindi, per l’ennesima volta rilesse le ultime parole del Giusto, anche se ormai conosceva a memoria quei versetti. «E col Mio permesso risuscitasti il morto… Questa è stata la prima delle indicazioni. A parer mio ha già fatto la sua parte: serviva soltanto per farci arrivare sin qui. Quelle che ci dovrebbero mettere sulla strada giusta sono invece le tre indicazioni che abbiamo ricevuto qui a Cipro, dinanzi all’urna di San Lazzaro: Lascia che venga con noi domani a divertirsi e a giocare; veglieremo su di lui.

«Due dei loro, timorati e colmati di grazia da Allah, dissero: ‘Entrate dalla porta; quando sarete dentro, conoscerete la Vittoria’.

«I miscredenti sono come bestiame di fronte al quale si urla, ma che non ode che un indistinto richiamo. Sordi, muti, ciechi, non comprendono nulla.

«Abbiamo appurato che soltanto nella zona turca di Cipro si festeggerà domani il Giorno della Vittoria. E, secondo il messaggio coranico, qualcuno dovrebbe divertirsi e giocare proprio in questo giorno. Le due squadre di calcio in vetta alla classifica locale si incontreranno domani allo stadio 20 Temmuz. Credo sia tempo di togliere le tende da questo albergo, che il nostro generale Ihsan Sukru lo voglia o no.»

I due andarono a chiamare Firenall. Pochi minuti più tardi uscivano di corsa dalla porta dell’hotel. La sera stava calando sulla città. Non appena fu seduto sul sedile anteriore della Passat, Oswald guardò l’orologio: avevano sempre meno tempo per sventare la minaccia.

La cittadina rivierasca di Kyrenia dista una trentina di chilometri dalla capitale cipriota. Una lingua di terra racchiude un piccolo porto naturale di forma circolare. Quando l’automobile giunse dinanzi allo stadio, situato nella parte occidentale della cittadina, era ormai notte.

«Adesso dobbiamo trovare qualcuno disposto ad aprirci e ad accendere un po’ di luci», disse Breil indicando il cancello principale dell’impianto sportivo.

Poco più tardi un assonnato guardiano faceva ciondolare un mazzo di chiavi nella mano destra, mentre nella sinistra stringeva la banconota da cento dollari che Firenall gli aveva dato.

Sino al momento in cui non vennero accesi i fari, disposti sui quattro tralicci ai lati del campo, nessuno di loro si era reso conto delle dimensioni dello stadio. Cercare un ordigno in quel luogo equivaleva a trovare il classico ago nel pagliaio.

«Da dove incominciamo?» chiese Carl Firenall, provando a non farsi vincere dallo scoramento.

L’alba li trovò intenti a sollevare a uno a uno i sedili delle tribune e a ispezionare gli spogliatoi, i servizi igienici e i punti di ristoro.

Cassandra stava quasi per arrendersi: non c’era alcuna traccia dell’ordigno collocato dal Giusto.

«Ai sensi della legge sull’immigrazione», la voce del generale Ihsan Sukru echeggiò nella struttura deserta illuminata dal primo sole del mattino, «siete perseguibili per i reati di…»

«Non ci interessa molto dei suoi reati, generale», rispose Breil, distogliendosi per un attimo dalla sua affannosa ricerca. «Anzi ci serve la sua collaborazione: ognuno degli uomini di cui può disporre deve aiutarci a individuare la bomba che crediamo sia stata collocata nello stadio. Chiami dei rinforzi e lo faccia subito.»

«Quali prove ha per essere tanto certo di ciò che sta dicendo, Breil?» chiese il generale con aria di sfida.

«Semplici deduzioni, generale.»

«E lei pensa che le semplici deduzioni di un israeliano possano riuscire a far cambiare programma a qualche decina di migliaia di persone, incluso il nostro presidente? Le ricordo che tra qualche ora verrà disputata su questo campo una partita di calcio attesa da mesi e nessuno avrà il potere di interromperla. Non c’è bisogno di alcun rinforzo: i tre uomini che sono con me sono più che sufficienti per fare quello che ho intenzione di fare.»

«Se fossi in lei, generale, non mi soffermerei molto sul problema dei tifosi privati del loro spettacolo: tutti quelli che saranno all’interno di questo stadio correranno il rischio di saltare in aria», ribadì Oswald.

«La stessa cosa potrebbe accadere in ogni impianto sportivo del mondo e in ogni momento: il pericolo di attentati è ovunque. Ma non mi sognerei mai di far perdere tempo a una squadra di miei uomini o, peggio, di far sospendere la partita dell’anno senza nemmeno un indizio. Dichiaro lei, Oswald Breil, lei Cassandra Ziegler e lei Carl Firenall in arresto per immigrazione clandestina all’interno del territorio turco-cipriota. Vi invito a seguirmi e vi assicuro che questa volta non sarà un comodo albergo ad accogliervi.» Tre uomini di Sukru si misero alle loro spalle. Senza una parola il corteo uscì dall’impianto sportivo.

Il sole, ormai alto nel cielo, annunciava un’altra giornata limpida e calda.

Sukru chiese a Oswald e a Cassandra di salire sulla sua auto, e collocò un suo uomo di guardia a Firenall che guidava la Passat.

Firenall mise in moto, quindi si accorse che l’interruttore dell’aria condizionata era sulla posizione di off.

«Strano», fu l’ultima parola che mormorò, mentre ruotava il comando di accensione.

Dall’auto di Sukru, Oswald e Cassandra osservarono sbigottiti la Passat che veniva avvolta da un cerchio di fuoco, quindi la macchina fu sollevata dalla violenza dell’esplosione, mentre pezzi di carrozzeria arroventata furono scagliati nel raggio di molte decine di metri.

Oswald fu il primo a scendere: corse in direzione del relitto dell’auto di Firenall. Si accorse subito che sia per Carl sia per l’agente non c’era più nulla da fare.

Breil non aveva voglia di parlare. I suoi occhi passarono dai due corpi straziati alla figura del generale. «Ritiene questo un indizio sufficiente, Sukru?»

L’ufficiale gli restituì un’occhiata carica di diffidenza. «No, dottor Breil. Non mi è sufficiente», disse Sukru con aria supponente. «Mi chiedo per quale motivo un terrorista che tiene in scacco il mondo intero da un paio d’anni con la sua abilità si dovrebbe mettere a preavvertire le vittime del suo prossimo attentato.»

«Che cosa intende dire, Sukru?»

«Esattamente quello che ho detto: il Giusto non avrebbe avuto alcun interesse a far saltare in aria una vettura nel luogo da lui prescelto per un’azione terroristica.»

«La bomba nell’auto è stata collocata per uccidere noi, generale», intervenne Cassandra, tenendo d’occhio Oswald che sembrava sul punto di perdere il controllo dei propri nervi.

«Vedo che sta arrivando alle mie conclusioni, dottoressa Ziegler.» Sukru stava sfoggiando modi da investigatore infallibile. «Lei e il suo amico ebreo avete scelto il mio paese per praticare il gioco che più vi piace: quello della guerra tra spie. Sono convinto che questa sera, quando vi avrò fatto salire a bordo di un aereo in partenza per l’Europa, non sentirò più parlare né di bombe né di terrorismo.»

Breil si mosse con la rapidità di un felino. Affibbiò un pugno ai genitali dell’uomo che gli stava vicino e sgattaiolò all’interno della zona riservata agli adeti.

«Presto, prendetelo!» esclamò Sukru.

Ma l’uomo che Oswald aveva colpito era rimasto a terra dolorante, mentre l’altro era impegnato a sorvegliare Cassandra.

La dirigente dell’FBI fece il tifo per Breil mentre lo guardava muovere velocemente le sue gambine e correre verso la salvezza. Inutili furono le ricerche dei due uomini di Sukru e degli agenti che accorsero in massa, chiamati dal generale dei servizi di sicurezza.

Dieci ragazzini, vestiti con una tuta di colore blu e un cappellino con visiera, si disposero ai lati del rettangolo di gioco: il loro compito sarebbe stato quello di restituire ai giocatori i palloni terminati fuori campo. Nessuno, nel caos della partita che stava per incominciare, prestò attenzione all’undicesimo raccattapalle, che si era andato a disporre a lato del campo.

Oswald era rimasto diverse ore in un’intercapedine tra il locale docce e il muro portante. Quindi era riuscito a impossessarsi di una tuta e di un cappellino e si era intrufolato sul terreno di gioco.

Le tribune erano gremite di tifosi festanti.

La mente di Oswald lavorava freneticamente in cerca di una soluzione mentre, con fare distratto, rimaneva a guardare i giocatori impegnati a piazzare il pallone in una delle due porte.

Oswald si drizzò come una tigre pronta ad attaccare. Le parole del messaggio del Giusto gli comparvero davanti agli occhi come se fossero state scritte sul grande tabellone dello stadio: «Entrate dalla porta; quando sarete dentro, conoscerete la Vittoria».

Fu allora che il pallone rotolò tra i piedi di Breil. Oswald lo sollevò da terra e scosse il capo, rifiutando di renderlo al giocatore che ne chiedeva insistentemente la restituzione.

Tra i fischi del pubblico un altro raccattapalle consegnò una nuova sfera. Nel trambusto quasi nessuno si era accorto che Oswald aveva praticato un taglio nel pallone lungo il suo diametro. Aveva quindi infilato le mani tra la camera d’aria e le cuciture interne. Gli furono sufficienti pochi istanti per estrarre il minuscolo sensore alimentato da una batteria al litio.

Sukru si trovava nella tribuna d’onore a fianco del presidente. Spostava in continuazione il binocolo, nella speranza che tra le file del pubblico gli apparisse il volto di Breil. Quel maledetto nano non poteva essere uscito dallo stadio: i poliziotti l’avrebbero immediatamente bloccato. Doveva per forza trovarsi ancora lì dentro. Quando il raccattapalle si era appropriato del pallone, Sukru non aveva perso tempo: aveva sceso le scale di corsa e, pochi secondi più tardi, si trovava sul terreno di gioco.

«Dottor Breil, io la…» provò a dire il generale.

«Lei la deve smettere, Sukru, e darmi ascolto, malgrado io sia israeliano e tutto il resto. Sa che cosa è quest’oggetto che ho appena estratto dall’interno del pallone?»

Sukru scosse la testa e Oswald continuò: «Si tratta di un sensore. Quasi certamente ne troveremo un altro in ciascuna delle due porte: dovevano servire a far detonare la carica nel momento in cui la palla fosse terminata in rete».

Un urlo assordante invase lo stadio: un attaccante del Çetinkaya aveva infilato la palla nella porta avversaria.

«Appena in tempo, generale. Se non avessi fatto sostituire il pallone, in questo momento staremmo contando un gran numero di morti. Si è convinto, adesso?»

Sukru prese tra le mani il sensore e il suo indiscusso acume investigativo parve vacillare.

Mentre le grida dei tifosi si andavano smorzando e il gioco riprendeva, gli altoparlanti diffusero la chiamata: «Il signor Breil… il signor Breil è pregato di contattare il centralino con la massima urgenza».

Oswald scese nel tunnel che conduceva agli spogliatoi e sollevò la cornetta di un apparecchio telefonico appeso alla parete di un corridoio.

«Le passiamo una chiamata della massima urgenza da parte di un suo familiare, signor Breil», disse la centralinista, non appena Oswald si fu presentato.

Una voce contraffatta dal timbro metallico rispose dall’altro capo della linea. «Pensare che mi sono dovuto spacciare per un suo parente per riuscire a rintracciarla, dottor Breil.»

«Che cosa vuole?»

«Non le conviene scaldarsi: siamo ancora in agosto e il caldo può giocare brutti scherzi. Quanto a me, mi sto godendo un’avvincente partita di calcio alla televisione. Il problema è che non c’è stata quella vera e propria esplosione di tifo al momento del goal. Non trova, Breil?»

«Le ripeto la domanda. Che cosa vuole da me?»

«E io la accontento, Breil: le cariche sono ancora innescate e io posso far saltare in aria lo stadio quando voglio. Data la mia magnanimità e alla luce dei suoi meritevoli risultati, ho deciso di concederle un’altra chance: spingerò il bottone fra tre ore esatte. Se non sarà riuscito a disinnescare le cariche l’intera struttura salterà in aria. Ma stia bene attento: lo stadio non dovrà essere evacuato. Inventatevi una scusa per gli spettatori, ma nessuno potrà abbandonare le gradinate, pena una mia azione anticipata! Si dia da fare, Breil. Le rimane poco tempo.»

Sukru aveva condiviso la cornetta con Breil. Ormai non aveva più dubbi: l’israeliano aveva ragione e loro erano nelle mani di un pazzo. L’angoscia paralizzò la mente del generale.

«Ci sono almeno diecimila persone sugli spalti in questo momento. Come possiamo metterli in salvo senza che quello se ne accorga?»

«L’unico modo per farlo è disinnescare la carica.»

«Ha qualche idea, Breil?»

«Nessuna. L’unica cosa che mi viene in mente è che avremo comunque bisogno di una persona esperta in esplosivi: un artificiere che sia in grado di disinnescare l’ordigno quando l’avremo trovato. Nel frattempo facciamo in modo che nessuno sospetti nulla: mi sembra inutile diffondere l’allarme tra il pubblico.»

«Sono d’accordo. La partita deve proseguire. Per quanto riguarda invece l’artificiere, mi sembra di ricordare che gli uomini del contingente delle Nazioni Unite di stanza a Cipro stiano seguendo un corso sulle mine proprio in questi giorni. Il seminario è tenuto da un ufficiale dei marine, una vera e propria autorità in materia di esplosivi e campi minati.»

Deidra Blasey aveva preso alloggio in una villetta all’interno della base dei Baschi Blu delle Nazioni Unite. Era comodamente seduta su una poltrona da giardino e si godeva la breve pausa dal lavoro. Quel lunedì 30 agosto 2004 era il primo giorno di licenza da tempi immemorabili, se si faceva eccezione per il periodo di convalescenza seguito al suo ferimento. Il ciclo di lezioni sui campi minati e le trappole esplosive era in anticipo rispetto alla tabella di marcia. Forse sarebbe riuscita a tornare a casa prima del previsto. Si era da poco sistemata orientando la sdraio verso il caldo sole cipriota, quando l’elicottero militare atterrò a pochi passi da lei.

Il sergente Kingston si sporse dal portello, facendole segno di salire a bordo. Gli anni trascorsi nei corpi speciali l’avevano abituata a ogni emergenza. Deidra raccolse velocemente le poche cose che aveva sparpagliato nei pressi della sedia e la borsa nella quale aveva piegato una T-shirt. Si avviò di corsa in direzione del velivolo, cercando di proteggersi dal turbinare del vento sollevato dalle pale. Salì a bordo che ancora indossava la parte alta del bikini, un paio di bermuda e le ciabatte infradito.

Non appena fu seduta sulla panca dietro al pilota, Kingston la mise al corrente della grave situazione per la quale si era resa necessaria la sua presenza.