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Lanello dei re - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 8

EPILOGO

Il demone Asmodeo rispose: «Toglimi la catena, dammi il tuo anello sul quale è inciso il nome di Dio e io ti mostrerò la mia superiorità». Allora Salomone gli tolse la catena e gli diede l’anello. Asmodeo ingoiò l’anello e scagliò Salomone lontano quattrocento parasanghe.

Fiaba ebraica

Città Santa della Mecca, 19 gennaio 2005

I modi per recarsi nella Città Santa, precetto che ogni musulmano deve osservare almeno una volta nella sua vita, sono sostanzialmente due: l’Hajj, il pellegrinaggio, oppure la Umra, la visita.

Mentre la seconda può essere effettuata in qualsiasi momento dell’anno, il pellegrinaggio deve svolgersi in un arco temporale preciso: tra l’ottavo e il dodicesimo giorno del mese di Dbul-Hijja, il dodicesimo mese lunare del calendario musulmano.

La pratica rituale della Umra consiste nel recarsi in stato di sacralizzazione (Ihram) al Masgid Al Haram, il tempio della Mecca. Qui giunti il fedele deve compiere il Tawaf, i sette giri in senso antiorario di circoambulazione della Pietra Sacra, la Ka’ba.

Quindi il visitatore deve effettuare i sette percorsi tra i colli di Safâ e Marwa, correndo, se gli è possibile, lungo un determinato tragitto. Alla fine la testa del fedele verrà rasata e questo coinciderà con la sua uscita dallo stato di sacralizzazione.

Il pellegrinaggio, invece, implica, oltre a quanto dettato per la Umra, rituali più complessi e impegnativi, che richiedono un maggior impiego di tempo. I pellegrini si spostano da un luogo sacro all’altro: Mina, Arafat, Muzdalifa e in ognuno di questi compiono i rituali previsti, quali per esempio il sacrificio del montone o la simbolica lapidazione di Satana gettando sette sassi contro tre steli di pietra.

Oswald Breil sorrise, mentre si accingeva a percorrere il sesto giro attorno alla Ka’ba. Portava una lunga barba posticcia che lo rendeva pressoché irriconoscibile. Mentre camminava ripercorse gli avvenimenti che avevano condotto lui, di fede ebraica, sino nel cuore della Città Santa dei musulmani.

Non c’era voluto molto per individuare nella Mecca il nuovo bersaglio del Giusto.

Jordan Cruner aveva fatto perdere le sue tracce una volta atterrato con una troupe televisiva con lo scopo di girare un servizio per la K.C. News nei luoghi sacri dell’Islam.

Non era facile per un occidentale varcare l’impenetrabile cortina posta a protezione della Città Sacra. Per un ebreo la cosa era praticamente impossibile. Certamente Breil non avrebbe potuto servirsi dei canali ufficiali per svolgere le sue indagini in loco.

L’occasione propizia si era presentata quasi per caso, mentre Oswald stava scervellandosi per trovare il sistema di raggiungere La Mecca senza dover mobilitare le forze speciali saudite, tristemente note presso gli israeliani per il loro scarso stato di addestramento.

«Il dottor Breil?» aveva chiesto una voce gentile in un inglese dalla leggera inflessione araba.

«Sì, sono io.»

«Mi sono permesso di chiedere il suo recapito personale alle massime autorità americane, dottor Breil. Spero di non disturbarla. Il mio nome è Qabil, sono il segretario personale di re Fahd, il sovrano dell’Arabia Saudita. Sua eccellenza mi ha chiesto di contattarla personalmente: egli vorrebbe parlare con lei, se non le spiace.»

«Non mi dispiace affatto. Mi dica solo quando, come e dove potremo parlarci e mi renderò disponibile.»

«Anche subito, se per lei può andare bene: in tal caso potrei passare la comunicazione al Custode dei luoghi sacri, re Fahd.»

Oswald sapeva che il regnante saudita aveva preferito l’appellativo di «Custode dei luoghi sacri della Mecca e di Medina» al posto del titolo di «maestà»: in tal modo il sovrano sperava di ammantarsi di una veste di sacralità che avrebbe forse fatto dimenticare al popolo dell’Islam la sua propensione per il lusso, le amicizie con gli occidentali e, non ultimi, i comportamenti dissoluti a cui alcuni componenti della sua famiglia indulgevano.

La voce del sovrano era molto cambiata rispetto a quella giovane e squillante che nel 1981 aveva elencato ai paesi arabi i punti del piano di riconciliazione con Israele. Il piano si era rivelato inaccettabile per tutti i componenti della Lega, ma Fahd sarebbe rimasto per lungo tempo uno dei pochi ad aver tentato un riavvicinamento tra i due paesi.

Il regnante dell’Arabia Saudita, passati ormai da tempo gli ottant’anni, viveva vecchio e malato nella sua residenza principesca a Ginevra. Di fatto aveva abdicato a favore del fratello minore, Abdallah, anche se a lui spettava ancora il titolo di re.

«Sono lieto di poter parlare con lei, dottor Breil», disse una voce stanca. «E sono ancor più appagato che una persona come lei stia perseguendo gli ideali di fratellanza e uguaglianza che dovrebbero esistere tra tutti i popoli. Per salvare molte vite musulmane lei ha messo a repentaglio la sua. Dio le renderà merito per il suo coraggio.»

«La ringrazio, eccellenza.»

«Certamente lei sa che la mia famiglia conta migliaia di parenti. C’è chi dice che siano addirittura cinquemila. Io, benché sia ormai vecchio, non sono mai riuscito a contarli tutti. Mi limito quindi a tenere sott’occhio quelli che mi sono più cari: molti di loro vivono qui in Svizzera, altri negli Stati Uniti. La piccola Safiya, la bambina che lei ha salvato in occasione dell’attentato alla scuola di Pasadena, è una delle mie nipotine più care.»

Dall’altro capo della linea, Oswald percepì la commozione nella voce dell’anziano monarca.

«Mi chieda quello che vuole, dottor Breil, e io esaudirò ogni suo desiderio. Qualsiasi somma sarà poca cosa, in confronto alla vita della piccola Safiya.»

«Lei non mi deve nulla, eccellenza. Mi sono comportato come ogni altra persona avrebbe fatto in quella circostanza.»

«Mi permetto di insistere, mi piacerebbe poterle essere utile in qualche modo, dottor Breil.»

I pensieri di Oswald tornarono all’impenetrabile cordone di sicurezza che si ergeva attorno alla Città Santa.

«Qualche cosa da chiedere forse l’avrei, vostra maestà… o meglio, custode dei luoghi sacri della Mecca e di Medina…»

Oswald era vestito con gli abiti rituali dei pellegrini: questi consistevano in due panni di stoffa bianca senza cuciture; l’uno, l’izar, era posto intorno alla vita; l’altro, la rida, era gettato sulle spalle come un mantello. Gli uomini dovevano avere il capo scoperto.

Al fianco di Oswald camminava Cassandra Ziegler, quasi irriconoscibile: i capelli sotto il velo erano neri corvini e la carnagione chiara era stata scurita artificialmente.

Le donne, limitatamente ai vincoli che la legge musulmana imponeva loro, avevano maggiore libertà riguardo all’abbigliamento. A differenza degli uomini erano obbligate a tenere il capo coperto.

Ogni pellegrino doveva osservare il divieto di pettinarsi, radersi, profumarsi, congiungersi carnalmente, litigare e cacciare.

Oswald si grattò infastidito il mento, allontanando i peli ispidi della barba.

«Ma guarda un po’ come mi sono dovuto conciare: mi sembra di essere una brutta copia del fauno di Fantasia.»

«Lo dici a me, Oswald?!» gli rispose Cassandra. «Pensa che ho dovuto sottopormi a una decina di sedute di lampada abbronzante per sembrare più scura, proprio io che tengo tanto alla mia carnagione color della luna.»

«Devo dire, però, che questa abbronzatura ti dona. Se non mi sentissi a tutti gli effetti un pellegrino ti farei una proposta indecente.»

«Speravo proprio di averti sedotto, Oswald», scherzò Cassandra. «Peccato che i precetti di castità valgano anche per noi donne.»

Il fiume di fedeli scorreva lento, proveniente dagli ampi viali d’afflusso. Quindi il serpente umano si contorceva attorno al Masgid Al Haram e qui incominciava a compiere volute sempre più strette su se stesso, come una gigantesca spirale.

«Non mi sento affatto tranquilla, Oswald», disse Cassandra, controllando che il velo le coprisse il capo, lasciandole scoperto il volto così come comandava il precetto.

«E fai bene a esserlo: nonostante le amicizie altolocate che ci hanno consentito di giungere sino qui indisturbati, da ora in poi, in caso di incidente o se qualcuno dovesse riconoscerci, dovremmo cavarcela da soli. Non credo che un ebreo e una cittadina americana infiltrati sotto mentite spoglie nel luogo più santo dell’Islam, se scoperti, riuscirebbero a sfuggire a un linciaggio di massa.»

«Ciò che mi consola è che in mezzo a questa folla è piuttosto improbabile che qualcuno presti attenzione proprio a noi.»

Avevano compiuto il settimo giro attorno alla costruzione a forma di parallelepipedo, rivestita da grandi drappi di velluto nero ricamato in oro. Al suo interno era custodita la Pietra Nera, oggetto venerato dalla religione islamica. La Ka’ba, la cui origine è ancor oggi sconosciuta, sarebbe stata donata ad Abramo dall’arcangelo Gabriele: secondo la credenza, la roccia in origine era bianca e avrebbe assunto in seguito il colore nero a causa dei peccati degli uomini che l’avevano contaminata.

Oswald e Cassandra si trovarono nel flusso che si dirigeva verso l’interno del mausoleo. La pietra, danneggiata durante un incendio alla fine del Seicento, era racchiusa in una cornice rotonda d’argento. Oswald si chinò e la sfiorò con la fronte: «Un oggetto è sacro indipendentemente dal valore divino che gli attribuiscono gli uomini. È sacro per l’anima, le gioie e i dolori di tutti coloro che si sono rispecchiati in quell’oggetto e vi hanno riposto speranze, desideri, felicità e angosce», era solito ripetere Breil.

Era un fatto decisamente inusitato che un’alta autorità dello Stato d’Israele fosse ferma in religioso silenzio dinanzi a una reliquia islamica. Ma in realtà per Oswald Breil i dogmi religiosi erano solo dei pretesti: secondo lui, se gli uomini avessero fatto miglior uso della loro intelligenza, il fanatismo religioso non avrebbe avuto ragione di esistere e tante tragedie umane si sarebbero potute evitare.

Terminata la venerazione della Ka’ba, i precetti prevedono che il pellegrino si disseti alla fonte di Zarnzam.

Fu mentre si incamminavano verso la fonte che Cassandra si irrigidì. La donna si alzò sulla punta dei piedi, guardando davanti a sé.

«Che succede, Cassandra?»

«Mi è sembrato… mi è sembrato… No, non è possibile. Forse sono soltanto stanca. Ma sì, è proprio lui!»

A una trentina di metri da loro, la testa di George Glakas appariva e spariva come il capo di un naufrago tra i flutti.

«Vieni, cerchiamo di raggiungerlo», disse Oswald prendendola per mano e tentando con notevole fatica di oltrepassare la massa di persone che si frapponeva tra loro e la meta.

Erano trascorsi alcuni giorni da quando Glakas aveva emanato il suo ultimo ordine riguardo alle indagini sul Giusto: il mandato di cattura nei confronti del sergente Kingston aveva preceduto di poco la sospensione dal servizio del dirigente della CIA.

La vendetta personale del greco-cipriota naturalizzato americano era diventata ormai la sua unica ragione di vita. Ma per portare a conclusione il suo regolamento di conti verso le popolazioni di religione musulmana, Glakas aveva bisogno di sfruttare il braccio terribile e violento del Giusto in nome di Dio.

Aveva ragione il terrorista: loro due erano indissolubilmente legati e la sua sospensione passava in secondo piano dinanzi al fatto che, depistando le indagini, Glakas aveva concesso al complice un notevole vantaggio sugli inseguitori.

Una volta ottenuto il suo scopo, poco sarebbe importato a Glakas se lo avessero indagato per la sua complicità col serial bomber: dopo aver lavorato per tanti anni alla CIA, conosceva almeno una ventina di posti in cui avrebbe potuto vivere indisturbato, dimenticandosi dei sensi di colpa e dei debiti con la giustizia.

Per questo non si era tirato indietro nemmeno di fronte all’ultima, incredibile richiesta del Giusto.

«Abbiamo una cosa in comune tu e io, Glakas. Una cosa che ci rende insensibili a qualsiasi pietà nei confronti di quei figli di puttana: entrambe le nostre madri sono state uccise nel nome di Allah dalle mani degli assassini musulmani. Per questo so che tu sarai dalla mia parte sino in fondo», gli aveva detto il Giusto nel corso di una delle loro ultime conversazioni telefoniche. «E ormai ci siamo quasi arrivati, al fondo. Adesso ascoltami bene e stai a sentire che cosa mi serve.»

Anche un uomo abituato a tutto come George Glakas era trasalito nell’ascoltare la richiesta di quell’invasato, ma poi, nonostante tutto, si era dato da fare per accontentarlo, pur sapendo che non sarebbe stato facile.

Quando Glakas era stato sollevato dal suo incarico alla CIA, la cosa non lo aveva turbato più di tanto. Esaurite le sue mansioni ufficiali, si sentiva ora libero di agire come meglio credeva. Anche al di fuori dei limiti della legalità. La terribile azione che la perversa mente del Giusto aveva partorito poteva avviarsi a compimento.

Pareva che la muraglia umana avesse una consistenza elastica e nel contempo impenetrabile: Oswald e Cassandra non erano riusciti a guadagnare che pochi metri, quando Glakas scomparve dalla loro vista. La donna scrutò in ogni direzione con la speranza di veder ricomparire l’ex agente della CIA.

Ma quando stava ormai per abbandonare le speranze, lo vide di nuovo: Glakas, vestito anch’egli come un pellegrino, si trovava a fianco di una piccola porta sul lato destro della fonte di Zarnzam.

«Presto, dobbiamo riuscire a raggiungerlo», disse Cassandra, cercando ancora una volta di aprirsi un varco.

«Ehi, voi due!» esclamò una voce imperiosa alle loro spalle, «smettetela di spingere. Non lo sapete che è vietato?»

L’uomo si trovava in una postazione sopraelevata e da lì controllava i movimenti della folla. Indossava la divisa della polizia saudita e imbracciava un mitragliatore di fabbricazione statunitense.

Il rischio che il panico si diffondesse tra i fedeli era sempre molto alto nei giorni di pellegrinaggio: era sufficiente un qualsiasi imprevisto per scatenare il terrore cieco in migliaia di persone. Incidenti di questo tipo, che a volte avevano causato un numero elevato di vittime, si ripetevano con cadenza quasi annuale, malgrado l’impegno delle forze di polizia per rendere più sicuri i luoghi santi. Inoltre, come sempre accade con i problemi connessi al traffico, anche per La Mecca pareva sempre che si fosse arrivati troppo tardi: una volta allargata la strada, era aumentato il transito in maniera esponenziale. I lavori e gli ampliamenti appena portati a termine si erano rivelati purtroppo insufficienti a scongiurare i pericoli derivanti da quegli assembramenti oceanici.

«Procedete con calma e andate avanti senza spingere, voi due!» disse ancora il poliziotto saudita, muovendo la mano con ampi gesti e guardando incuriosito Oswald Breil, come se quell’omino barbuto gli ricordasse qualcuno.

Il piccolo incidente fece sì che Glakas scomparisse ancora una volta alla vista dell’israeliano e della sua compagna.

L’agente, invece, continuava a guardare la coppia con aria sospettosa.

«Ashhadu an lâ ilâha illâ Allah. Ashhadu anna Muhammad Rasûl Allah.» Oswald salmodiò ciascuna delle frasi due volte, accarezzandosi la barba e alzando la mano destra in direzione dell’agente saudita in segno di scusa.

«Che cosa hai detto?» chiese Cassandra non appena si furono allontanati.

«Ho detto: ‘Sono testimone che non vi è alcun dio all’infuori di Iddio e Sono testimone che Muhammad è il Profeta di Allah’. In qualche modo dovevo pur placare i suoi sospetti. In fondo avrebbe anche potuto pensare che io sono un ebreo e tu un’americana, due infedeli all’interno della Città Santa. Ho solamente recitato due versi dell’Adhan, la preghiera del muezzin. Credo sia l’unica che conosco.»

Le persone alle quali Oswald si era rivolto avevano messo a loro disposizione un lussuoso appartamento in uno dei moderni palazzi sul lato orientale della moschea. Oswald sedette sul terrazzo al ventiseiesimo piano, che si affacciava sulla Ka’ba.

«Dove ti nascondi, maledetto?» si disse Oswald, consapevole che il Giusto stesse progettando uno tra i più terribili attentati della storia.

«Sino a questo momento gli indizi ci porterebbero a pensare alcune cose: l’attentato potrebbe avvenire domani, 21 gennaio, dopo il tramonto. Dal momento che il cambio della data per gli arabi si effettua al calar del sole, dobbiamo anticipare la scadenza indicata dal Giusto di alcune ore rispetto agli orari occidentali. L’attentato avverrà qui, nella Città Santa all’Islam, e avrà qualcosa a che vedere con una roccia, battuta da una verga… è qui che mi confondo…» Oswald sorseggiò la bevanda che teneva in mano mentre, sotto di loro, i pellegrini si riversavano senza sosta all’interno della moschea.

«Quanto a me, c’è un’altra cosa che mi disorienta: secondo te che cosa ci faceva Glakas in mezzo ai pellegrini?» chiese Cassandra.

«Credo stia cercando di prendersi una rivincita personale. E temo che, pur di raggiungere i suoi scopi, si sia messo in società con il Giusto.»

In quel momento il telefono della donna squillò.

Oswald capì dall’espressione corrucciata di Cassandra che non si trattava di buone notizie e maledisse la tecnologia che dava a chiunque la possibilità di venire raggiunti in ogni angolo del mondo.

«Era Deuville. E tu avevi ragione riguardo al motivo per cui Glakas si trova alla Mecca. Pare che il Giusto non agisca da solo, ma che abbia un complice. Al Centro studi nuovi armamenti nella sede della CIA è stato commesso un furto qualche giorno fa, per l’esattezza il giorno prima che Glakas venisse allontanato dal servizio. Il ladro ha quasi certamente agito da solo, dopo aver neutralizzato i sistemi di videosorveglianza. Era in possesso dei codici d’accesso del responsabile del Centro armamenti, che gli hanno consentito di oltrepassare indisturbato ogni porta blindata. Non ha lasciato impronte, ma gli inquirenti hanno trovato un capello. Poco fa hanno avuto il responso del DNA. Il capello apparteneva a George Glakas e si trovava dove non avrebbe dovuto essere: nei laboratori di studio degli armamenti della CIA. Il ladro si è appropriato di quella che noi chiamiamo suitcase nuke. Sai di che cosa si tratta, Oswald?»

«Una valigetta nucleare?»

«Esattamente, Oswald. Deuville mi ha detto che, in un primo momento, avevano sperato si trattasse di una messa in scena del funzionario della CIA, che si era visto sospendere su due piedi e sperava, recuperando un ordigno che lui stesso aveva finto di trafugare, di riabilitarsi agli occhi dei suoi superiori. Purtroppo la realtà è ben diversa: il legame che unisce Glakas e Cruner è ora provato e il furto di una bomba atomica assume proporzioni di gravità incalcolabile.»

«Ecco spiegata la presenza del greco-cipriota qui alla Mecca. Tornando alla suitcase, conosco l’oggetto, anche se non a fondo. Ne avevo già sentito parlare ai tempi in cui lavoravo per il Mossad. Ma a questo punto è necessario approfondire le cose. Che ne dici se interpelliamo la mia enciclopedia personale?»

Pochi istanti più tardi, Oswald leggeva quanto Bernstein gli aveva inviato riguardo alle suitcase nukes.

«Deuville ti ha per caso detto se la bomba era armata?»

«Mi ha accennato a qualche cosa circa un codice di armamento e di disarmo, ma mi ha anche detto che assieme all’ordigno è stato sottratto il cifrario dei codici.»

«In ogni caso ci conviene leggere quanto ha scritto Bernstein, anche se, dato che l’arma è di tipo sperimentale, le informazioni in merito saranno poco precise. Tieni.»

Cassandra osservò il foglio che Oswald aveva appena stampato e si accinse a leggerlo tentando di imprimerne ogni dettaglio nella memoria:

FROM: 8200/CPT BRST

TO: MJ BRL

DATE: JAN 19, 2005

OBJ: SUITCASE

‹RIPORTO QUI SOPRA LO SCHEMA DI QUANTO MI HA RICHIESTO. LE NOTIZIE IN NOSTRO POSSESSO SONO SCARSE. IL MECCANISMO DI ESPLOSIONE DOVREBBE ESSERE IL SEGUENTE: IL PROIETTILE, COSTITUITO DA URANIO 233 O PLUTONIO 239, ATTIVATO DA UN’ESPLOSIONE AD ALTO POTENZIALE, VIENE PROIETTATO ALL’INTERNO DELLA CANNA DEL CANNONE NUCLEARE DOVE VIENE INVESTITO DA UNA PIOGGIA DI NEUTRONI AL SUO PASSAGGIO. IL MATERIALE RADIOATTIVO RAGGIUNGE QUINDI IL BERSAGLIO, COSTITUITO DA UNA QUANTITÀ DI MATERIALE ANALOGO, TALE DA RAGGIUNGERE LA MASSA CRITICA E INNESCARE L’ESPLOSIONE NUCLEARE. PER GLI ISOTOPI 239 E 233 LA MASSA CRITICA È DI 10,5 CHILOGRAMMI. SIGNIFICA CHE UNA QUANTITÀ SUPERIORE DI QUESTO MATERIALE INNESCHEREBBE IMMEDIATAMENTE UNA REAZIONE NUCLEARE.

‹LA PRIMA FASE AVVIENE ALL’INTERNO DI UN TUBO RESISTENTE AD ALTISSIME PRESSIONI. LA SECONDA, L’ESPLOSIONE NUCLEARE VERA E PROPRIA, INTERESSA L’AMBIENTE CIRCOSTANTE ALLA STREGUA DI UNA QUALSIASI ESPLOSIONE ATOMICA. SI PRESUME CHE LA POTENZA DI QUESTI ORDIGNI POSSA RAGGIUNGERE I 10 MEGATONI: CINQUECENTO VOLTE SUPERIORE ALLA BOMBA DI HIROSHIMA. L’ESPLOSIONE PUÒ ESSERE CONTROLLATA DA UN SISTEMA D’INNESCO TRADIZIONALE: A TEMPO, A PERCUSSIONE ECC. ECC. IL TUTTO PUÒ ESSERE CONTENUTO ALL’INTERNO DI UNA VALIGETTA DI CM 60x40x20, DEL PESO DI UNA QUINDICINA DI CHILOGRAMMI. UN BRUTTO ATTREZZO, IN OGNI CASO, CON IL QUALE NON VORREI AVERE NULLA A CHE FARE. A DISPOSIZIONE, MAGGIORE.

‹CAPT. BERNSTEIN.›

Cassandra posò il foglio sul tavolino: era veramente spaventata.

«Prova a immaginare se si dovesse ripetere la situazione della scuola di Pasadena», disse la donna.

«Cioè?»

«Se anche fossimo riusciti a individuare la bomba, non avremmo mai potuto disinnescarla.»

«Hai ragione, Cassandra. Chiedi a Deuville se può metterci a disposizione, nella più vicina base americana in Arabia, una squadra di artificieri esperti in questo genere di ordigni. Chiedi che siano mantenuti in stato di massima allerta, pronti a partire in ogni momento del giorno e della notte.»

Quella notte Oswald, in preda ai più cupi pensieri, non riusciva a prendere sonno, quando sentì un rumore nella stanza. Si alzò a sedere sul letto.

«Sono io, Oswald», disse la voce di Cassandra. «Posso stare qui a chiacchierare ancora un po’?»

«Anche tu non riesci a dormire?» disse Oswald, invitando la donna a sedersi sul bordo del letto.

Ma, con sua somma sorpresa, Cassandra sollevò il lenzuolo e si infilò sotto le coperte. «Sai, mi terrorizza il fatto che domani qualche milione di persone potrebbe morire e che noi, pur sapendolo, non riusciamo a fare nulla per fermare un massacro di innocenti», disse Cassandra raggomitolandosi accanto a Oswald.

Un fremito percorse le membra del piccolo uomo, mentre la pelle vellutata di Cassandra premeva contro di lui, separata dalla sua dal sottile strato di seta della camicia da notte.

«È la sensazione di essere a un punto di non ritorno che ti ha spinto sotto le mie coperte? Qualsiasi scialuppa, anche se molto piccola, va bene pur di abbandonare la nave che affonda?»

Non finì la frase: la bocca di Cassandra Ziegler era incollata alla sua.

Fecero l’amore con la foga di chi ha la sensazione che sia per l’ultima volta.

Al mattino seguente tutto sembrava rientrato nei limiti della normalità: in fondo una profonda amicizia e il rispetto reciproco avevano sempre caratterizzato il loro rapporto. Entrambi sapevano che non si sarebbero mai innamorati l’uno dell’altra, né avrebbero desiderato che ciò avvenisse. Il piacevole intermezzo della notte sarebbe stato considerato come uno sfogo della loro ansia. Uno sfogo che li aveva aiutati a dimenticare per qualche ora l’angoscia.

«Un po’ di caffè?» chiese Cassandra porgendogli una tazzina. «Non so tu, ma io non sono riuscita a chiudere occhio.»

«Anche io ho dormito poco… scialuppe di salvataggio a parte.»

«Sei stato una scialuppa straordinaria: e il tuo fisico, per quanto mi riguarda, non influisce minimamente sul tuo fascino. Non è detto che si debba essere un bronzo greco per suscitare l’interesse di una donna. Forse sarà strano, ma ho provato una forte attrazione fisica per te da quando ti ho conosciuto e sono contenta di aver soddisfatto la mia curiosità.»

«Ehm… bene, Cassandra…» Quello sembrava uno dei pochi argomenti in grado di mettere Breil a disagio. «Ma ora abbiamo un altro genere di curiosità da soddisfare: domani un ordigno nucleare potrebbe radere al suolo La Mecca, dove si calcola che, in questo momento, ci siano quasi due milioni di pellegrini. Innanzitutto dobbiamo scoprire dove si nascondono Glakas e Cruner.»

La mattinata era volata, come se fosse durata un attimo, mentre Oswald e Cassandra si aggiravano tra i luoghi sacri, senza trovare traccia di coloro che stavano cercando.

Si erano appena seduti all’ombra di un lungo porticato quando il telefono di Oswald, nascosto sotto l’izar, la fascia che gli cingeva la vita, prese a vibrare.

Breil si guardò attorno: il luogo era abbastanza deserto e ciò gli consentì di rispondere. Sorrise quando vide da chi proveniva la chiamata.

L’anziano re non si perse in preamboli: «Una persona con caratteristiche simili a quelle che lei mi ha indicato ha preso alloggio ieri l’altro all’hotel Fatma. Spero che questa informazione possa esserle utile, dottor Breil», disse Fahd. Quindi, dopo un breve saluto, chiuse la comunicazione.

Oswald era soddisfatto: aveva dovuto insistere non poco per poter condurre quella delicata indagine da solo con Cassandra. Breil aveva addotto motivi di sicurezza: uno spiegamento di agenti segreti avrebbe creato gravi disagi, e forse anche il temutissimo panico nella città invasa dai pellegrini.

In realtà Oswald non si sarebbe fidato di nessuno, oltre che di Cassandra, per condurre a buon fine quella delicata indagine. L’unico aiuto che aveva accettato da parte dei servizi sauditi era stato una sorta di appoggio logistico esterno. Adesso forse avrebbe raccolto i frutti della sua oculatezza.

L’hotel Fatma era piuttosto scadente e anonimo. Oswald e Cassandra si trovavano davanti all’ingresso dell’albergo da poco più di quaranta minuti, quando i loro sforzi vennero premiati.

Glakas uscì in strada, si guardò intorno con aria circospetta e quindi si avviò verso la Ka’ba.

«Non ha né una borsa né una valigia con sé: è probabile che l’abbia già consegnata a Cruner. Seguiamolo. E questa volta cerchiamo di non perderlo di vista», disse Breil.

Ogni volta che Glakas si voltava per assicurarsi che nessuno lo stesse seguendo, Oswald e Cassandra trovavano riparo tra la folla. Giunto nei pressi della fonte di Zarnzam, lo stesso luogo dove l’avevano perso di vista il giorno prima, Glakas si fermò. Si guardò attorno, aprì una porticina poco distante dalla fonte sacra e scomparve.

«L’acqua… la roccia battuta con la verga… credo che ci siamo», sussurrò Oswald a Cassandra.

Attesero qualche minuto prima di avvicinarsi alla piccola porta.

Nel frattempo Oswald fece una chiamata: in una principesca residenza sul lago di Ginevra, un telefono prese a suonare.

Oswald aprì la porta.

Il battente chiudeva una lunga galleria naturale, scavata nella roccia friabile dal flusso dell’acqua della fonte di Zarnzam. L’acqua era stata ora incanalata in grossi tubi d’acciaio che correvano saldamente ancorati al soffitto. Il percorso era illuminato da lampade a forma di tartaruga allineate lungo il lato destro. La galleria era abbastanza ampia da far passare un paio di persone affiancate ed era alta, in media, un paio di metri.

Oswald e Cassandra camminavano lentamente, attenti a non far rumore. Entrambi impugnavano una pistola.

Percorsi un centinaio di metri giunsero a una biforcazione. Oswald si fermò, incerto. Furono delle voci provenienti dalla sua sinistra a indicargli la direzione da seguire.

Cruner e Glakas si trovavano in un’ampia grotta naturale, vicini a una profonda fenditura della roccia. La voce di Cruner giungeva sino a Oswald e Cassandra amplificata dalle volte.

«Ecco fatto. Adesso che l’abbiamo sistemata nella faglia, dobbiamo soltanto allontanarci il più in fretta possibile: tra un’ora e trenta minuti esatti l’ordigno salterà in aria con la devastante potenza di una bomba nucleare di dieci megatoni. All’impatto dell’esplosione si aggiungeranno le conseguenze dovute alla pioggia radioattiva e alla contaminazione che subiranno cose, animali e persone», stava dicendo Cruner. «Quello che è proprio impossibile calcolare è la magnitudo del terremoto che si svilupperà a seguito dell’esplosione: abbiamo collocato la bomba all’interno di una faglia sismica di superficie. Le conseguenze potrebbero essere ben più gravi dell’esplosione atomica: il recente terremoto in Oriente e il relativo tsunami possono dare un’idea della catastrofe generata dallo smottamento di una faglia. Il Piper che ho noleggiato fingendomi un ricco arabo ci aspetta su una pista poco distante da qui. Ci godremo lo spettacolo dall’alto, a una debita distanza di sicurezza.»

«Alzate le mani immediatamente o apriamo il fuoco!»

Glakas e Cruner si girarono nella loro direzione, con un’espressione incredula.

«Vi ho detto di alzare le mani, e fatelo in fretta se non volete che anticipi il verdetto della corte che vi dovrà giudicare. E vi assicuro che mi farebbe un immenso piacere farmi giustizia da solo. Lei mi capisce, vero, Cruner ‘il Giusto’?»

Lentamente i due sollevarono le mani. Se i loro sguardi avessero potuto lanciare fiamme, Oswald e Cassandra sarebbero stati inceneriti in un attimo.

«Adesso vi allontanerete dalla bomba e resterete con le spalle contro la parete rocciosa sino a che non vi darò ordine di muovervi nuovamente.»

«Obbediremo a tutto quello che dice, caro il nostro nano. Tanto non c’è più nulla da fare, ormai. La bomba è innescata e qualunque cosa lei farà, a meno che non sia un esperto in disinnesco di ordigni nucleari o non sia dotato di un razzo vettore interplanetario su cui collocare la valigetta, buona parte di questa regione di infedeli verrà comunque cancellata dalla faccia della terra.»

«Staremo a vedere. Si sposti, Cruner.»

«State tutti fermi e tenete le mani bene in vista!» disse in inglese una voce dalla decisa inflessione araba dietro di loro.

Lo stesso poliziotto che li aveva redarguiti il giorno prima, mentre sgomitavano per raggiungere Glakas tra la folla, teneva il fucile mitragliatore puntato contro Oswald e Cassandra. Era visibilmente nervoso. Grosse gocce di sudore gli imperlavano la fronte.

«Posate a terra le pistole, voi due!»

«C’è un grave errore, agente. Noi siamo qui per scongiurare un…»

«Stia zitto. Il suo viso mi era sembrato subito familiare. Oggi, quando vi ho visto di nuovo, ho avuto un’illuminazione e vi ho seguiti. Le ho detto di posare a terra la pistola, Oswald Breil. Lei e la sua amica dovrete spiegare alle autorità saudite che cosa ci facevate nella Città Santa.»

Oswald e Cassandra obbedirono.

Il militare arabo sembrò rilassarsi. Ma fu un attimo e un’aria attonita si dipinse sul suo volto, mentre il proiettile gli disegnava un cerchio preciso, dai contorni rosso fuoco, sulla fronte.

Cruner stringeva nella destra una pistola automatica e, a giudicare dalla mira dimostrata, pareva saperla usare molto bene. Con una smorfia simile a un ghigno, l’anchorman rivolse l’arma verso Glakas. «Ormai non mi servi più, Glakas: anche nel tuo ambiente puzzi come un pesce marcio.»

Cruner premette il grilletto e Glakas, colpito in pieno petto, si accasciò a terra.

«… e finalmente avrò il piacere di liberarmi di voi due. A lei l’onore di essere il primo, dottor Breil», disse il Giusto puntando l’arma in mezzo agli occhi dell’israeliano.

Quando lo sparo risuonò all’interno della grotta Oswald stava pensando all’appuntamento che aveva dato a Sara Terracini da lì a pochi giorni. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe stato quello il pensiero che lo avrebbe accompagnato in punto di morte. E infatti non si trovava in punto di morte.

Con le ultime forze che gli rimanevano Glakas aveva estratto la pistola e aveva esploso un solo colpo prima di morire, ma non aveva centrato in pieno il bersaglio: Cruner aveva la mano destra a brandelli. Il sangue zampillava copioso dalle vene recise.

Cassandra gli balzò addosso senza esitazione, seguita in una frazione di secondo da Oswald, che si era appena ripreso dallo stupore: insieme ridussero Cruner all’impotenza.

Oswald raccolse la sua pistola e afferrò la suitcase nuke. Quindi, indicando la via con la canna dell’arma, fece cenno a Cruner di precederli.

«Dobbiamo fare presto, Cassandra, se non vogliamo fare cancellare i nostri nomi dai registri d’anagrafe e l’intera Arabia Saudita dall’atlante.»

Una volta fuori, Oswald osservò il cielo: nell’oscurità, vide il faro dell’elicottero che si avvicinava da sud.

«Cerchi di fermare l’emorragia, Cruner. Tra poco arriverà l’elicottero e lei riceverà cure mediche, mentre noi cercheremo di disinnescare la bomba.»

«Che cosa cambia, per me? La mia missione sta per compiersi e voi e la bomba dovrete restare a terra con me», disse Cruner con un’espressione folle dipinta in volto. Quindi, si rivolse urlando alla folla di pellegrini che camminavano a pochi passi da loro. «Ascoltatemi, voi, maledetta carne di maiale putrefatta. Io sono il Giusto in nome di Dio e ho avuto il piacere di fare a brandelli molte delle vostre mogli, dei vostri padri, dei vostri figli.»

L’elicottero, un CH47 Chinook da trasporto truppa che stava volteggiando sopra le loro teste, aveva i colori delle forze armate arabe: la fusoliera era dipinta di bianco e il ventre era giallo.

«Ho goduto nel vedere le loro membra dilaniate disperse nel raggio di decine di metri. Io sono il Giusto in nome di Dio», sbraitava ancora Cruner, mentre il rumore dei rotori dell’elicottero copriva in parte le sue parole.

I pellegrini in un primo momento non gli avevano prestato attenzione, quindi si erano fermati interrompendo la preghiera. Ognuno di loro aveva raccolto nel corso delle giornate precedenti le sette pietre con cui avrebbero dovuto simulare la lapidazione di Satana il giorno successivo: le pietre, lungo i percorsi del pellegrinaggio, erano diventate rare più dei diamanti e ogni fedele si premuniva per tempo. Il primo sasso colpì Cruner a una spalla, proprio nel momento in cui veniva calato il cavo di salvataggio dal velivolo.

Oswald e Cassandra si assicurarono alle imbracature e dall’elicottero diedero avvio al recupero.

Oswald guardò in basso: centinaia di pietre, scagliate da altrettante mani, stavano cadendo come una pioggia di proiettili contro colui che si era proclamato il Giusto in nome di Dio.

Oswald vide Cruner accasciarsi, incespicando nella protesi della gamba amputata, il volto ormai ridotto a una maschera di sangue. Il fatto che fosse caduto a terra semisvenuto non fu sufficiente perché i pellegrini interrompessero il lancio contro Satana in carne e ossa. Il Giusto stava morendo lapidato.

«Benvenuto a bordo, dottor Breil. Se permette mi occupo io del suo bagaglio», disse una voce familiare.

Deidra Blasey e il sergente Kingston presero la suitcase nuke dalle mani di Breil.

«Quanto tempo abbiamo?» chiese Deidra prima di iniziare le operazioni.

«Credo ci sia rimasta un’ora e una quindicina di minuti e mi lasci aggiungere, colonnello, che sono felice di rivederla», rispose Breil.

«Un’ora e diciotto minuti», lo corresse Kingston indicando il display sul detonatore.

«Dovremmo avere il tempo sufficiente per individuare il codice e disattivare l’innesco.» Mentre parlava, Deidra si era già messa all’opera.

«Comandante Breil», disse uno dei membri dell’equipaggio dell’elicottero.

Oswald si trovò a pensare da quanto tempo nessuno lo chiamava più «comandante».

«Comandante Breil», ripeté il soldato saudita. «C’è una comunicazione radio per lei.»

Oswald si mise le cuffie e la voce di re Fahd gli giunse nitida alle orecchie: «So quello che ha fatto per il mio paese, Oswald. E mi creda, non saprò mai come ringraziarla. Ho già avvertito il mio governo. Credo proprio che il suo operato sarà un ottimo punto di partenza per dare avvio a un futuro di pace tra i nostri paesi».

«Sono io a ringraziare lei, eccellenza, se non fosse stato per il suo tempestivo intervento, adesso non saremmo a bordo di questo elicottero delle forze armate saudite: un velivolo americano che avesse sorvolato La Mecca senza autorizzazione avrebbe creato non poco scompiglio e avrebbe corso il rischio di essere abbattuto dai militari arabi. Comunque, ‘non dire gatto, finché non ce l’hai nel sacco’.»

«Che cosa ha detto?» chiese re Fahd.

«Nulla, eccellenza, nulla. Solo un vecchio proverbio. Volevo dire che non è finita. Ora stiamo dirigendo a tutta velocità verso il mare aperto, ma a bordo abbiamo ancora una bomba atomica innescata.»

Un’ora e quindici minuti più tardi Deidra Blasey digitava l’ultima cifra di una combinazione di sei numeri sulla tastiera del sistema d’innesco.

«Te ne prego, Martell», sussurrò Deidra.

Da qualche parte nel cielo, il figlio del colonnello dei marine parve ascoltare la preghiera di sua madre: il display, con un’ultima pulsazione, si spense.

Snagov, Romania, 27 gennaio 2005

Sara Terracini entrò per prima nella cappella annessa al monastero sull’isola di Snagov. La giovane osservò per qualche istante il sepolcro dove si pensava riposassero le spoglie di Dracula, ma all’interno del quale era stato rinvenuto solo lo scheletro di un animale.

Fu Bernstein, che non aveva voluto perdersi il gran finale, a parlare per primo: «Vede, dottoressa Terracini, a differenza di quanto si pensa nel mondo occidentale, il nome di Dracula, qui in Romania, è associato all’immagine di un eroe nazionale ed è un punto di riferimento per tutti i governanti di questo paese».

«Un tale punto di riferimento», continuò Oswald, «da condizionare l’intera vita, ma soprattutto le ultime ore, di Nicolae Ceausescu.»

«In che senso?» chiese Sara.

«Durante il periodo della sua dittatura, Nicolae Ceausescu ha messo in opera una vera e propria campagna di glorificazione del suo eroe culminata, nel 1976, con una sontuosa celebrazione del quinto centenario della morte del principe di Valacchia. In quella occasione venne anche coniato un francobollo commemorativo che reca il ritratto di Vlad Dracula l’Impalatore. L’evento, o meglio, la serie di eventi, che ancora oggi a noi sembrano incomprensibili, sono accaduti quasi tredici anni dopo, nei giorni immediatamente precedenti il Natale del 1989.»

Oswald si incamminò lungo la parete perimetrale della cappella e nel frattempo continuò a parlare. «Come ti ho già detto, Sara, l’ultima delegazione ufficiale che si recò in visita nella Romania di Ceausescu fu quella cinese. In quella circostanza Nicolae, che ormai sentiva sul collo il fiato della controrivoluzione, fece dono agli esponenti del governo di Pechino dell’Anello dei Re. ‘Poco male’, avrà pensato il conducator, ‘quando, e se, dovessi chiedere asilo alla Repubblica Popolare Cinese, riuscirò a rientrare in possesso dell’antico talismano. In caso contrario, se rimarrò saldamente al comando della mia nazione mentre ovunque il comunismo si va sgretolando, il mio indiscusso potere mi consentirà di reclamare un insignificante, anche se antico, anello d’oro in qualsiasi momento.’ L’Anello dei Re prese allora la via dell’Oriente, sino a ritornare nelle nostre, o meglio nelle tue mani, il giorno dell’attentato al Palazzo di Vetro a New York. Il Giusto-Jordan Cruner, che si trovava sul luogo per compiere il suo primo attentato, deve aver trovato per un caso fortuito l’anello: se ricordi, era rotolato fuori dalla macchina al momento della prima delle esplosioni. Il destino, a volte, è davvero imperscrutabile: nessun oggetto più dell’Anello dei Re sarebbe stato più adatto a sigillare le deliranti comunicazioni del terrorista.»

Oswald fece una breve pausa. La sua ombra, proiettata sulle pareti della chiesa, dava l’impressione che il piccolo uomo fosse un gigante. Ma Oswald era davvero un gigante a discapito della sua statura.

«Torniamo al conducator: quello che la stampa occidentale definirà ‘Il satrapo ignorante’, viene fucilato assieme alla moglie, Elena Petrescu, in una località segreta, il 25 dicembre del 1989. Il luogo dell’esecuzione si rivelerà poi essere stato la base dei rivoluzionari a Tirgoviste. Le riprese filmate delle ultime ore di vita del dittatore faranno nascere pesanti dubbi circa la veridicità dell’esecuzione. Ma questo, per quanto riguarda la nostra storia, è di scarsa rilevanza.»

Oswald continuava a camminare all’interno della piccola chiesa, percorrendone il perimetro a passi lenti.

«E ora veniamo a Nicolae Ceausescu e a Elena Petrescu nei giorni appena precedenti alla loro fucilazione: è il 15 dicembre quando un pastore evangelico di origini ungheresi, Laszlo Tokes, al punto culminante della sua predica nella chiesa di Timisoara, dice quello che pensa, e che tutti pensano sul regime in Romania. La sua non è una protesta isolata: le rivoluzioni avvengono perché una goccia fa traboccare un vaso già pieno da tempo. Quando la gente si riversa sulle strade, gli uomini della Securitate intervengono con determinazione, ma la folla oppone una strenua resistenza. Scoppiano tumulti. Si contano anche i primi morti, che una squadra speciale della polizia rumena provvede a cremare immediatamente senza troppa pubblicità. Seguono due giorni di relativa calma, poi la protesta di quelli che Ceausescu denuncia come ‘infiltrati fascisti ungheresi’ riprende vigore nelle vie di Timisoara. Si è ormai alla guerra civile ed è combattuta senza esclusione di colpi negli stretti vicoli della città. La polizia e, soprattutto, la Securitate, vengono autorizzate all’uso di proiettili veri anziché di gomma. Il 21 dicembre Ceausescu trasmette per radio un comunicato al popolo rumeno. La reazione non è quella che il leader si era aspettato: solo otto minuti dopo che il conducator ha finito di parlare la gente scende in ogni strada del paese. Lo slogan più gridato è: ‘Siamo pronti a morire per Timisoara’. E difatti saranno in molti a rimanere esanimi sul selciato. Il giorno seguente l’esercito si rifiuta di sparare contro i civili inermi. La diserzione diventa subito un fenomeno nazionale e sfocia nella ribellione contro i membri della Securitate, gli unici rimasti fedeli al dittatore. Dopo una serie di scontri cruenti, viene istituito un Fronte rivoluzionario provvisorio, al cui vertice siederà Ion Iliescu. Il 22 dicembre i Ceausescu lasciano Bucarest a bordo di un elicottero. La gente è convinta che la scure della giustizia non si abbatterà mai su di loro, nonostante le colpe di cui si sono macchiati: i Ceausescu hanno accumulato un patrimonio incalcolabile sotto forma di depositi in ogni paradiso fiscale del mondo. Con il loro elicottero potrebbero mettersi in salvo fuori dalla Romania e godere indisturbati delle loro ricchezze. Contrariamente a ogni previsione, i due vengono arrestati quello stesso giorno. Subiranno un sommario processo nel corso del quale il conducator rifiuterà più volte l’autorità di un tribunale militare. Nicolae ed Elena Ceausescu verranno ufficialmente seppelliti in due tombe anonime nel cimitero di Ganchea.»

Le candele all’interno della chiesa illuminavano le antiche travi in legno del soffitto. Sara e Bernstein, in silenzio, ascoltavano avvinti le parole del piccolo uomo.

«Ciò che incuriosisce è che cosa abbia spinto Ceausescu a un comportamento illogico: perché un uomo in fuga invece di allontanarsi dal pericolo pare volervisi gettare? L’elicottero si alza dal tetto della sede del Comitato centrale del Partito comunista di Bucarest. La folla preme attorno al palazzo. Entro breve romperà i cordoni dei pochi fedeli rimasti. L’ordine che il conducator impartisce al pilota deve essere suonato incomprensibile anche per lo stesso elicotterista, tanto che se lo fa ripetere alcune volte: il dittatore non chiede di raggiungere uno dei qualsiasi paesi confinanti, pronto ad accogliere Nicolae amichevolmente. ‘Diriga verso Snagov!’ dice Ceausescu al pilota.

«Giunto in questa zona Nicolae Ceausescu verrà arrestato da una pattuglia del Fronte di liberazione che ha intercettato l’elicottero mentre atterrava a pochi passi dalla riva del lago. Sono in molti a sostenere che il conducator volesse raggiungere a tutti i costi questo luogo.»

Nella cappella erano in corso alcuni lavori di manutenzione. Oswald prese un martello che si trovava in un secchio pieno di attrezzi da muratore.

Oswald ripercorse, indicandole con un dito, le prime cinque stazioni della Via Crucis. Si fermò alla sesta e guardò Sara. «Ricordi, Sara? Le Equidistant Letter Sequences? Qual era il risultato dell’enigma? La sesta stazione!» Così dicendo Oswald brandeggiò il martello e colpì con forza il muro, proprio tra le lettere V e I che componevano il numero sei in caratteri romani. La parete rispose con un tonfo sordo, a riprova che il punto corrispondeva a una cavità nel muro perimetrale della chiesa.

Oswald diede una seconda martellata e la sottile parete di mattoni cedette.

«In questo vano segreto», continuò Oswald, «oltre al vero sepolcro di Vlad III l’Impalatore, credo che troveremo il ‘lasciapassare per il futuro’ del principe di Valacchia e il leggendario tesoro di Dracula. Ho già preavvertito le autorità rumene. Tra circa un’ora saranno qui per prendere in consegna quello che, se non mi sbaglio, è un tesoro dal valore incalcolabile.»

Breil stava per sferrare un altra martellata quando una voce lo bloccò. «Basta così, dottor Breil. A questo punto lei ha detto tutto ciò che volevo sapere, anche se con alcune imprecisioni. La più evidente è che non saranno le autorità rumene a impossessarsi del tesoro, ma io stessa.»

Tutti si volsero verso il luogo da dove proveniva la voce. Fu Bernstein il primo a riprendersi dallo stupore: «Bors! Il colonnello Bors!» esclamò l’ufficiale del Mossad.

«Sì, capitano, ma può chiamarmi con il nome che mi hanno dato i miei genitori: Jenica Bàlaj.»

Il silenzio all’interno della chiesa di Snagov ora era assoluto. Ed era un silenzio denso di paura.

«Tutto quello che lei ha detto, dottor Breil, corrisponde a verità. Le manca, però, il rovescio della medaglia, e io sono e sarò la sola custode di quei segreti. Glieli racconterò. Li racconterò a voi tutti, dato che nessuno di voi potrà mai divulgarli. Non ci volle molto ai miei genitori, spie per conto dei paesi del blocco comunista negli Stati Uniti, a individuare la residenza di Minhea Petru in America. Penetrarono nella sua camera all’ottavo piano dell’hotel Plaza e recuperarono l’Anello dei Re. Tramortirono quindi il principe rumeno, gli versarono addosso un paio di bottiglie di liquore e facilitarono il suo volo fuori dalla finestra. Riuscirono anche a trafugare dalla villa di un divo di Hollywood, Béla Lugosi, l’antico forziere portagioie: la vita è spesso strana, amici miei. Pensate che nessuno aveva intaccato la fortuna contenuta nel cofanetto: il tesoro era passato di mano in mano attraverso i secoli ed era rimasto intatto. Allo stesso modo si comportarono i miei genitori, anche perché pochi giorni più tardi furono arrestati. Mia madre venne prosciolta poco dopo e mi ha cresciuto istillandomi nel cuore il desiderio di vendetta nei confronti delle persone che mi avevano privato di un padre e di un tesoro. Era desiderio di vendetta quello che mi spinse a sedurre suo padre — peraltro un amante alquanto modesto —, Oswald. Era desiderio di vendetta quello che mi fece sedere alla guida di un autoarticolato e travolgere l’auto in cui i suoi genitori viaggiavano. È desiderio di vendetta quello che mi ha portato qui, a recuperare quello che mi spetta.»

Oswald capì che Jenica Bàlaj era determinata a raggiungere il suo scopo e che per fare ciò avrebbe compiuto una carneficina. I muscoli del piccolo uomo si tesero: avrebbe tentato il tutto per tutto e avrebbe cercato di fermarla.

Jenica non si lasciò sorprendere, e puntò la canna al torace del piccolo uomo prima che questi scattasse in avanti: «Lei è il primo a non servirmi più, Oswald Breil».

Il colpo della pistola lacerò il silenzio della chiesa come una bestemmia urlata in un luogo sacro. La giacca di Oswald parve esplodere all’altezza del cuore. Breil si fermò a mezz’aria, rinculò, quindi cadde a terra.

Sara si girò su se stessa: tutto quello che stava accadendo le sembrava irreale.

La giovane ricercatrice romana si scagliò contro Jenica Bàlaj come una furia. Non le importava di morire. Voleva solo vendicare il compagno di tante battaglie, l’amico dei momenti tristi e di quelli felici, la carica che l’aveva fatta sentire viva in mille e mille occasioni. Mentre Sara si gettava contro l’ex colonnello della Securitate, capì che c’era qualche cosa di più profondo che la legava a Oswald Breil. Quasi non si accorse del proiettile che le attraversava le carni.

E questa volta fu Jenica a essere colta di sorpresa: Sara Terracini le si era avventata contro con l’agilità e la ferocia di una pantera. Jenica aveva esploso un primo colpo senza prendere la mira e, mentre si preparava a sparare di nuovo, la mano di Bernstein calò su quella della donna con la forza di un maglio di acciaio. La pistola cadde a terra. Il capitano del Mossad cercò di impossessarsene, e la stessa cosa fece il colonnello Bors.

Bernstein non aveva i tratti né i modi di un agente segreto, anzi assomigliava assai più a un impiegato di banca. Un agente addestrato come la Bors, seppure donna e non più giovane, avrebbe potuto avere facilmente ragione di lui.

La pistola che Jenica stringeva sparò una terza volta, mentre lei e Bernstein erano impegnati in un furioso corpo a corpo. Il capitano israeliano stralunò gli occhi, si portò la mano al ventre in attesa di sentirla riempirsi di sangue. Fu invece Jenica Bàlaj a irrigidirsi. Un rivolo uscì dall’angolo della bocca dell’ex agente rumeno. Il corpo del colonnello Bors-Bàlaj-Mantu si accasciò senza vita sopra l’ufficiale del Mossad.

Sara Terracini si strinse con la mano destra il braccio sinistro poco sotto la spalla. La ferita non era grave: il proiettile le aveva solamente attraversato il muscolo da parte a parte. Si mosse verso Oswald mentre la disperazione cresceva in lei.

Breil giaceva immobile. Il foro di entrata del proiettile era visibile al centro del torace. Aveva sul volto il pallore della morte. Sara si gettò su di lui.

Dimentica della sua ferita, sollevò il capo di Oswald dal freddo pavimento e se lo appoggiò in grembo. Non riuscì più a trattenere le lacrime e, con la voce scossa dai singhiozzi, disse: «No! Non è giusto! Non ci siamo ancora detti tutto. Te ne prego, Oswald, non te ne andare… Come farò senza di te? Tu sei la mia vita, tutto quello che ho. Tu sei l’unica persona capace di farmi sognare, rabbrividire, vivere… tu sei l’unica persona che amo… sì, io ti amo, piccolo uomo. Non puoi lasciarmi proprio adesso. Non ne hai il diritto». Il suo pianto disperato si alzò tra le volte della piccola chiesa.

Bernstein si asciugò le lacrime che gli rigavano le guance e accarezzò i capelli della donna.

«Non c’è più nulla da fare, Sara. Dobbiamo rassegnarci: la parte più importante della nostra vita non tornerà più.»

Una piccola scatola in argento, recante l’esagramma di Salomone intarsiato in oro, apparve davanti ai loro occhi come fosse una visione. La mano di Oswald Breil la sorreggeva, mentre l’altra indicava una profonda scalfittura provocata dal proiettile proprio al centro della stella a sei punte.

«L’avevo infilata nella tasca interna della giacca per darla a te, Sara, dopo averci messo dentro l’Anello dei Re. Quell’oggetto ti appartiene e io volevo restituirtelo», disse Oswald con la voce ridotta a un sussurro. «Credo che il Re dei Re abbia voluto salvarmi la vita: la corsa del proiettile è stata deviata dalla custodia dell’anello. Ho un forte dolore al petto e respiro a fatica: credo di avere un paio di costole fratturate, ma non penso che ci sia altro di cui dobbiamo preoccuparci.»

Sia Sara che Bernstein lo guardarono increduli, mentre Oswald continuava: «Il sogno di tutti i vivi è quello di prendere parte al proprio funerale. Alla luce delle attestazioni inconfessabili che ho ricevuto, credo che non mi dispiacerebbe morire ogni giorno».

«Esperienze uniche in terra di Romania», disse la donna ripetendo una frase pronunciata solo pochi giorni prima da Breil. «Accidenti a te, Oswald Breil! Accidenti a te!» disse Sara Terracini, stringendolo ancora più forte…