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PROLOGO

Roma. Maggio 1996.

La primavera piena stendeva sulla città il meglio della sua tavolozza cromatica. Gialli dorati, cremisi stemperati, verdi brillanti. Nelle strade il clima era caldissimo. Tra la folla non particolarmente frettolosa si vedeva più di una persona tergersi il sudore dalla fronte e rivolgere uno sguardo al cielo, più perplessa che implorante. Quando finirà questo tormento? sembravano chiedere. Figurarsi, sembravano aggiungere, l’estate è ancora di là da venire. Ma lo spirito filosofico del carattere romano prevaleva immancabilmente. Il caldo sarebbe passato e finito, sarebbe arrivato l’inverno, e le lamentele sarebbero state di altro tenore. Anche quel caldo, in fondo, era mandato da Dio, il Dio temporaneamente in carica, uno dei tanti che avevano presieduto il cielo e le sorti di Roma nei suoi ben più che duemila anni di storia.

Comunque, maledizione, faceva un gran caldo.

Non, però, dietro le grandi finestre azzurrate di un terzo piano, nel quartiere dell’EUR. Un ufficio come tanti altri, apparentemente: il distaccamento di un ministero, un ente governativo, il centro studi di una banca, la sede di una multinazionale. Chi sollevava lo sguardo al cielo non aveva certamente né tempo né soprattutto motivo di soffermarsi su quelle finestre. Un po’ diverse dall’usuale, certo, ma se i romani dovessero meravigliarsi delle cose inusuali che ha loro riservato la storia, dovrebbero cominciare a farlo nei primi istanti della vita e continuare fino agli ultimissimi.

Lassù, dietro quelle finestre azzurrate, avevano semplicemente sede gli uffici di un centro studi. Un centro molto particolare, finanziato con fondi internazionali e creato al fine di cercar di decifrare i reperti archeologici dell’antica Roma, in qualsiasi forma essi fossero.

Dietro due di queste finestre, in particolare, una giovane studiosa era al lavoro davanti al grande monitor di un computer, diviso in tre settori (due vaste fasce verticali e una orizzontale, larga e bassa) e collegato a un’apparecchiatura che a un occhio profano sarebbe potuta sembrare una fotocopiatrice. Un po’ strana, certo, con un’arcana serie di luci, lucette e lucine che baluginavano o scorrevano su piccoli schermi oblunghi. Tasti, pulsanti, levette. Cavi, cavetti, fili.

In realtà non era affatto una fotocopiatrice, ma un sofisticatissimo esemplare di scanner scientifico — di cui erano equipaggiati non più di venti centri di ricerca in tutto il mondo -, realizzato attraverso una complessa combinazione di luce ultravioletta, radiazione infrarossa, beta-radiografia e raggi laser, in grado di leggere e trasferire in chiaro sullo schermo del computer il contenuto invisibile di certi antichi rotoli o fogli che un’altrettanto sofisticata apparecchiatura separava, scollava e restaurava prima che venissero fatti scorrere sul ripiano di cristallo dello scanner. Su di esso erano stati letti e interpretati decine di testi e documenti antichi, in forma di papiro, di pergamena, di tessuto, di cera o altro. Redatti in latino, in greco antico, in egizio, in aramaico, in siriaco. In tante altre lingue e alfabeti.

Questa volta, però, la sofisticata macchina non era alle prese con niente di tutto ciò. Stava leggendo comune carta. Ma una carta grossa, povera, friabile e sul punto di andare in polvere. Quando si era trovata davanti il suo impasto legnoso, la giovane studiosa aveva rischiato di scoraggiarsi.

Le pagine, in uno stato pietoso, erano così amalgamate tra loro da far temere che non sarebbe mai stato possibile separarle. Le muffe avevano avuto il sopravvento sui labili inchiostri vegetali.

Ma Sara Terracini non si era persa d’animo, non era nel suo carattere. Aveva immediatamente chiamato con il telefono interno il più prezioso dei suoi collaboratori, Toni Marradesi. Tra il fango dell’alluvione di Firenze, da giovanissimo volontario, aveva saputo risolvere situazioni persino peggiori. E da allora la tecnologia aveva fatto passi da gigante. Lo stanziamento di fondi da parte del programma comunitario Laser Analysis and Restoration of Art aveva consentito al laboratorio in cui operava insieme a Sara di essere all’avanguardia nel mondo.

Sara gli aveva spiegato la situazione in poche parole. Dopo alcuni minuti il non più giovanissimo — anche se ancora quasi volontario, in termini di retribuzione — Toni era già al lavoro, operando con la freddezza di un chirurgo. Aveva rimosso i resti di legatura, recidendo i fili, e proceduto a una prima separazione dei blocchi di pagine ovunque era possibile. Quindi, prelevato un campione microscopico di carta, lo aveva inserito nell’analizzatore automatico di aminoacidi. Il responso della macchina lo avrebbe messo in condizione di stabilire il grado di corrosione per il bagno di separazione.

Sara lo aveva lasciato al suo lavoro, sicura di avere messo nelle mani migliori il preoccupante regalo mandatole dal suo vecchio amico Oswald Breil. Era tornata al suo posto di lavoro, in attesa di un messaggio di Toni.

Rimasto solo nel suo antro di stregone del restauro, Marradesi aveva eseguito una spettroscopia di fluorescenza sui blocchi di pagine incollate. La stessa tecnica usata per «vedere», sotto un dipinto, eventuali disegni preparatori o ripensamenti dell’artista. Lo schermo si era illuminato, rivelando segreti che nessuna radiografia di tipo tradizionale avrebbe potuto scoprire. Con aria soddisfatta si era alzato dal trespolo dove aveva l’abitudine di appollaiarsi come Eta Beta e si era messo ad armeggiare con alcune provette e con acqua distillata. Aveva incrociato le dita e immerso il primo dei gruppi di pagine nella soluzione.

Aveva scandito il tempo secondo per secondo, osservando il cronometro, e finalmente aveva estratto il blocco di fogli. Aveva controllato la temperatura del forno a conversione e regolato l’umidità. Poteva soltanto sperare, alla stessa stregua di un medico dopo un intervento rischioso.

Ma finalmente aveva potuto posare sul suo tavolo le prime pagine ingiallite, staccate le une dalle altre, seppure ancora illeggibili. Ci avrebbe pensato Sara. Adesso toccava a lei. Era salito di persona a portarle i primi risultati del suo lavoro.

Sottoposta a vicende sicuramente tormentose, per quanto ormai non più note a nessuno, quella carta sembrava non voler concedere al comune occhio umano niente di ciò che su di essa era stato puntigliosamente scritto al fine di tramandarlo ai posteri. Aveva sofferto sole e tempesta, acqua e aria, sale e sabbia.

Soltanto la rara macchina da svariate decine di migliaia di dollari, gestita con precisione chirurgica da Sara Terracini, avrebbe forse potuto penetrare nel suo segreto. Forse. Dopo tre giorni di lavoro, infatti, il dubbio restava. Fino a quel momento, nonostante l’ostinato impegno della giovane studiosa, l’antica carta non aveva voluto concedere assolutamente niente nemmeno a quella macchina avveniristica.

Ma Sara non desisteva. Aveva affrontato ben altre imprese. E di ben altra difficoltà sarebbe stato l’incarico affidatole se, invece di dover interpretare quei fogli scritti a mano, le fosse stato chiesto di decifrare i ben più antichi rotoli, purtroppo perduti, di cui, secondo Breil, essi erano probabilmente una prima trascrizione.

Sommessi ronzii e bip elettronici turbavano appena il silenzio. La giovane studiosa era una donna di incisiva bellezza — capelli corvini su un sano colorito bruno, naso aquilino, brucianti occhi neri -: per strada non capitava di rado che un uomo si voltasse a seguirla con sguardo ammirato. Un’attrice degli studi televisivi di Saxa Rubra, una modella delle annuali sfilate di moda, pensavano. Certo, non conoscendola, era difficile pensare che si trattasse di una scienziata di grande rigore e professionalità. Se in quel momento Sara aveva caldo, non era certamente per il clima esterno. Dal suo laboratorio, caldo e umidità erano rigorosamente banditi.

Diversi piccoli schermi digitali inseriti nelle pareti, più uno appoggiato direttamente sul suo piano di lavoro, segnalavano con la massima tempestività ogni variazione di temperatura e tasso di umidità. Le due cifre erano quasi costantemente fisse sul 21 e sul 50. Se lo scostamento superava soltanto il mezzo grado o la mezza decina in più o in meno, il soffio sommesso ma perfettamente avvertibile dei condizionatori si affrettava in pochi secondi a ristabilire ai livelli ottimali. 21 gradi centigradi, 50 per cento di umidità. Le condizioni ideali per la sopravvivenza dei preziosissimi manufatti che in quel laboratorio venivano esaminati, studiati e decifrati, cedendo a poco a poco i loro secolari segreti.

Ma, nonostante il caldo della primavera romana, temperatura e tasso di umidità erano rimasti costantemente perfetti per tutto il pomeriggio. Il calore da cui si sentiva pervadere la giovane era di ben diversa origine. A provocarglielo erano i dati e le immagini che aveva cominciato a veder scorrere sulle due metà splittate in verticale del grande schermo davanti a cui era al lavoro, manovrando una tastiera molto più grande di quelle che di norma fanno da accessorio a un computer da scrivania.

Verificando la metà sinistra del monitor, zeppa di caselle e dati su uno sfondo argentato, modificò un’ultima volta i parametri. Di valori quasi infinitesimi rispetto all’ampiezza delle gamme possibili.

OPACITÀ SUPPORTO: +0,1

OUTPUT: +0,4

ILLUMINAZIONE MEZZI TONI: +3

CONTRASTO: -2

QUALITÀ: ExtraExtra +2

ROTAZIONE: Right 0,00001

Si morse il labbro superiore, intenta. Niente avrebbe potuto distrarla dal lavoro. Il pollice della mano destra andò a percuotere con estrema decisione il tasto di Ritorno. L’immediata scomparsa del lungo rettangolo argentato sulla sinistra dello schermo e una serie di ronzii e fremiti segnalarono che il lettore aveva ricevuto le istruzioni e le stava elaborando. Nessun bip di avvertimento venne a fermare il sordo crunk-crunk con cui la complessa apparecchiatura iniziava il suo ennesimo tentativo di interpretazione. I parametri erano stati accettati. Anche se questo non significava assolutamente che la lettura, possibile alla macchina, lo divenisse anche per lo schermo del computer e di conseguenza per gli occhi della bella studiosa. La quale, con la sinistra abbandonata sul fianco, compì un gesto tipico dello spirito popolaresco italiano: aprì indice e mignolo a formare due corna.

Per il resto rimase immobile, lo sguardo fisso sulla metà verticale destra dello schermo, ancora inesorabilmente bianca. Se nella stanza fosse riuscita a penetrare una mosca, il suo ronzio si sarebbe probabilmente levato alto sopra quello delle apparecchiature. Se accanto alla giovane ci fosse stata una persona, avrebbe con ogni probabilità potuto sentire il battere ritmico del suo cuore. Oltre a questo, silenzio e immobilità erano assoluti.

Nella parte bianca del video cominciarono a baluginare alcune forme grigiastre. Indefinite, indeterminabili, illeggibili per un occhio comune, per quanto acuto, ma non di sicuro per quello perfettamente addestrato di Sara Terracini.

La giovane si morse con rinnovata energia il labbro inferiore. Staccò il palmo della destra dalla tastiera e accostò tre dita ai pulsanti della luminosità, del colore e del contrasto, alla base dello schermo. La lunga esperienza le consentiva di manovrarli contemporaneamente. Le minuscole forme scure sulla colonna bianca dello schermo, a destra, si fecero più definite.

Sara si lasciò sfuggire un’espressione di trionfo che l’abituale controllo di sé le avrebbe certamente inibito. Ma ora tutte le sue facoltà erano spasmodicamente concentrate su quella metà dello schermo, che con una lentezza quasi crudele stava cominciando a rivelare il mistero della prima pagina dei quattro grossi volumi di carta antica, devastata dalle vicissitudini di assai più di una vita.

La giovane lesse le prime righe, comprensibilissime nonostante l’italiano arcaico in cui erano state puntigliosamente vergate quattro secoli prima, costellato di espressioni spagnole altrettanto arcaiche. Espressioni che risvegliarono in Sara Terracini un tumulto di emozioni. Era la lingua in cui si esprimevano i suoi abuelos materni, costretti a lasciare Granada più di un secolo prima che quei quattro volumi venissero vergati con cura certosina: un sontuoso castigliano antico che, nella sua famiglia, veniva tramandato di generazione in generazione per consentire la lettura dei diari che avevano fissato la memoria della cacciata di quella famiglia di ebrei dalla Spagna di Isabella la Cattolica, regina di Castiglia, e di Ferdinando II d’Aragona. Perché la memoria di quei lontanissimi, dolorosi eventi rimanesse viva. Fez, Algeri, Alessandria, Aleppo, Smirne, Salonicco, Costantinopoli. Com’era stato lungo il viaggio, prima che la famiglia si stanziasse definitivamente a Roma…

L’attenzione di Sara si tese spasmodicamente a cercar di interpretare quello che si cominciava a intravedere sulla parte bianca dello schermo. Per quanto fremente, l’attenzione non le consentì tuttavia di ignorare una bandierina colorata che, accompagnata dallo squillare imperioso di una campana, era scattata nell’angolo in alto a destra del suo computer: MESSAGE! MESSAGE! MESSAGE! Premette rapidamente uno dei tasti piccoli nella zona superiore della tastiera.

Nella parte bassa dello schermo, in orizzontale, si aprì una lunga e stretta finestra nera, dentro cui cominciò a scorrere in bianco il messaggio. Composto da una parola sola: ALLORA?

Sara sorrise e scosse la testa. Batté in rapida successione i tasti CTRL e R e poi poche lettere sulla tastiera. La sua risposta, anch’essa composta di una parola sola, scorse rapida nella striscia nera: EUREKA.

BRAVA, fu la laconica nuova risposta del sistema di comunicazione telematica. Una risposta che veniva da migliaia di chilometri di distanza. Chissà dov’era, in quel momento, il suo interlocutore. Diabolico individuo.

Sempre sorridendo al pensiero dell’amico da cui aveva ricevuto il messaggio elettronico — un vero mago nell’uso delle apparecchiature computerizzate di ricerca, un uomo a cui era legata da un’intensa simpatia personale oltre che da un’incrollabile stima professionale -, ma soprattutto, ancora, per il senso di trionfo da cui era pervasa, Sara riportò l’attenzione alla lunga strisciata sulla destra del computer, dove ormai si leggeva con discreta chiarezza un testo scritto a mano in un’antica calligrafia spigolosa, che tuttavia la macchina si era dichiarata in grado di decifrare.

Ormai sarebbe bastato tradurlo in una qualsiasi delle sette lingue moderne — oltre alle diverse antiche — che la giovane era perfettamente in grado di padroneggiare. L’italiano, naturalmente, ma anche il francese, lo spagnolo, l’inglese, il tedesco, il russo e l’ebraico. Più qualche concreto rudimento di arabo, cinese e giapponese, che le aveva consentito di badare molto bene a se stessa nei diversi viaggi di studio e piacere che aveva compiuto in Medio ed Estremo Oriente.

Con pochi movimenti di tasti e barre della tastiera, Sara provvide a salvare il testo originale con un programma di scrittura. In pochi istanti la macchina lesse il testo e lo fece comparire in una nuova finestra, sulla sinistra dello schermo, accanto a quella in cui si continuava a vedere il manoscritto quasi illeggibile. La giovane cominciò a leggere, provando, come le capitava ogni volta, quasi un senso di timore reverenziale nei confronti dei diabolici geek dell’elettronica capaci di elaborare un programma in grado di leggere qualsiasi calligrafia, per quanto involuta e antica potesse essere.

Il testo era ben lontano dalla perfezione. Il programma di decifrazione aveva tempestato quello di scrittura di una lunga serie di «~», a indicare un’altrettanto lunga serie di caratteri non interpretati. Ma, nel suo complesso, il testo era quasi perfettamente comprensibile. Salvata e chiusa la finestra del programma di decifrazione e aperta una nuova finestra del programma di scrittura di fianco a quella in cui la macchina aveva interpretato l’antico testo, cominciò velocemente a trascriverlo.

Le prime parole erano semplicissime. Dicevano: Regio~e Re~ia. Confine No~d Orientale de lo I~pero Ro~ano. Anno 823 de ~a Fo~da~ione de Ro~a. Perfettamente comprensibili, nonostante i caratteri non riconosciuti dalla macchina.

Qualche problema cominciava invece appena sotto, stile aulico e involuto del testo, che era sì comprensibile ma difficile da rendere in una lingua moderna.

«Infelice mortale», cominciò a digitare Sara, «egli che mai avrà vissuto della pugna il clamore. Costui, certo, mai potrà giungere a fantasticare» — a fantasticare? Uhm, pensò tra sé Sara — «le emozioni dei guerrieri, l’intensità dello spirito…» Bello, però… Smise di digitare, meditabonda.

In quel preciso istante lo squillare imperioso della campana e lo sventolare della bandierina nell’angolo in alto l’avvertirono dell’arrivo di un nuovo messaggio. Nella stretta finestra nera al piede dello schermo vide scorrere velocemente le seguenti parole: NIENTE VOLI PINDARICI, COMUNQUE. MI RACCOMANDO. NIENTE *LETTERATURA*. IN QUESTO MOMENTO ABBIAMO PRIMA DI TUTTO BISOGNO DI *CAPIRE*, NON DI *EMOZIONARCI* PER LA BELLEZZA DELLA PROSA. CASO MAI, *RIASSUMI* E, SE NECESSARIO, *INTEGRA* CON GIUDIZIO.

Digitò CTRL-R e compose immediatamente la risposta. Una semplicissima sigla, seguita da una parola e da un punto esclamativo: OK. OK. ACCIDENTI!

BENISSIMO, BUON LAVORO, fu la laconica conclusione del brevissimo scambio elettronico di battute.

Sara scoppiò in una fresca risata. Accidenti davvero. Dannato Oswald Breil, era capace di leggere nel pensiero anche attraverso le reti telematiche, a migliaia di chilometri di distanza? Diavolo di un uomo. Sì, diavolo di un uomo. Del resto, lo sapeva già che era fatto così.

Le sembrava di vederlo, appollaiato di fronte a una centrale di computer persino più complessa e futuribile di quella davanti a cui era seduta lei, in mezzo a un’intera selva di dischi rigidi, dischi ottici, lettori, decodificatori, scanner, diavolerie, con la grossa testa china verso lo schermo e i piedi sollevati da terra. Diavolo di un omino. Di un… ma sì: di un nano! Amatissimo nano.

Okay, Oswald, mormorò tra sé. Niente voli pindarici, niente *letteratura*. Abbiamo bisogno di *capire*. Ancora ridendo, riprese alacremente a digitare sui tasti la sua trascrizione.