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PARTE PRIMATERRALe radici

1.

Regione Rezia. Confine nordorientale dell’impero romano.

Anno 823 dalla Fondazione di Roma.

[70 d.C. (N.D.T.)]

Chi non ha mai conosciuto il clamore della battaglia non può nemmeno immaginare le sensazioni dei combattenti: l’intensità del pensiero, che quasi si materializza e prende forma tra i fumi dell’atmosfera irreale e caotica che precede lo scontro. La paura di morire, certo, anche quella. Ma, per contro, il desiderio di sopraffare, di vincere, di uccidere il nemico.

Ci eravamo fronteggiati per tre giorni senza che nessuno dei due eserciti accennasse ad assumere uno schieramento definito, ognuno sui due versanti della valle del Reno. Ormai le formazioni si trovavano a poche centinaia di cubiti l’una dall’altra, pronte all’attacco. I germani erano forse in numero inferiore ai dodicimila uomini della legione, ma non per questo da sottovalutare: sono un popolo guerriero, che sa combattere con una ferocia senza pari.

Controllai i legacci che mi assicuravano alla schiena la faretra con i sette giavellotti. Da lontano sentivo arrivare lo scalpiccio della cavalleria e i nitriti inquieti degli animali. Sapevo per esperienza che erano i rumori cui dovevo prestare la massima attenzione: compito delle nostre squadre era balzare fuori dallo schieramento prima che le formazioni venissero a contatto e, di concerto con la cavalleria, produrre una prima azione di disturbo. L’unico segnale, per i quindici uomini che comandavo, sarebbe stato il tuonare del galoppo.

La pelle di lupo mi scendeva lungo la schiena, le fauci spalancate dell’animale sovrastavano minacciose la mia fronte. Lo squillo di tromba scosse tutti da un apparente torpore. Muovemmo quasi all’unisono, lasciando aperti pochissimi varchi tra gli scudi e le lance della prima linea.

Ormai distinguevo perfettamente il nemico, vedevo il balenare sinistro delle armi, i visi feroci, gli occhi… Ecco arrivato il momento: vedevamo lo scuro delle pupille, dovevamo attaccare! Fu sufficiente un cenno: sgusciammo agili tra gli scudi dei nostri e ci scagliammo in avanti, bilanciando nelle mani il primo dei giavellotti. Qualcuno dei legionari urlava, forse per farsi coraggio; io preferivo mantenere il controllo della mente. Calcolai la distanza e identificai il mio bersaglio: un barbaro dai lunghi capelli. Inarcai la schiena e lasciai partire il pilum. Non potevo rimanere fermo a controllare l’esito del lancio: dovevo scoccare i giavellotti prima che il nemico ci fosse addosso o prima che le avanguardie della legione ci sopravanzassero. Finita la nostra azione saremmo stati risucchiati all’interno dello schieramento, pronti a sguainare la spada.

Una volta riguadagnata la nostra postazione alle spalle degli astati, non ci fu quasi il tempo di riprendere fiato. Immediato e formidabile sentii arrivare l’urlo dei guerrieri, seguito dal cozzo delle armi. Vidi le spalle dei legionari della prima linea contrarsi per reggere lo scontro, pochi passi dinanzi a me. Sguainai la corta spada e mi preparai a combattere.

La battaglia era cominciata da poco, e ancora nessuno dei due eserciti aveva abbandonato lo schieramento originario; lo spostarsi avanti e indietro per pochi passi delle due avanguardie assomigliava all’onda senza fine di un mare in tempesta. Sentii passare di bocca in bocca un urlo: «Hanno sfondato, sulla destra». Sapevo quale pericolo si celasse in quella frase. Voltatomi istintivamente, vidi che una parte dei nostri guerrieri sbandava senza ordine, costretta alla ritirata da un centinaio di barbari. Ordinai ai miei di seguirmi: dovevamo assolutamente tentare di chiudere quel varco e interrompere la penetrazione tra le nostre linee. Cogliemmo i nemici alle spalle; davanti a noi l’avanguardia della legione si richiuse ermeticamente, imprigionando il manipolo di germani in un tranello mortale.

Combattevo con impeto e con una straordinaria lucidità di mente. Più volte mi trovai a tu per tu con il nemico e ingaggiai feroci corpo a corpo, avendo sempre la meglio. La cosa che maggiormente mi esaltava, più che uccidere, era guardare negli occhi lo sfidante, riconoscervi la paura dopo i primi colpi di gladio e infine vederlo fuggire disperatamente. Spettacolo non frequente, con i germani: erano uomini votati alla morte, per niente al mondo propensi a ritirarsi se avevano ingaggiato un duello.

Lo scontro si protraeva ormai da parecchio tempo, e il compatto fronte iniziale si era frantumato in diversi focolai di battaglia. La legione stava avendo la meglio. Le frecce incendiarie degli arcieri avevano disseminato il campo di piccoli fuochi, che arrivavano spesso a piantare le loro radici nel costato di un guerriero.

Riconobbi a poca distanza da me il nostro generale Publio Marzio. Montava uno stallone nero come la notte. Lo vidi lanciarsi tra una selva di uomini spronando l’animale. Per un attimo scomparve, poi la sua figura si stagliò netta, la spada animosamente in pugno, le ginocchia serrate sui fianchi del cavallo. Lo osservai menare fendenti poderosi; sembrava persino, pur da quella distanza, di sentire il sibilo della lama. Distolsi lo sguardo dal nostro tribuno e lo rivolsi alla collina, da dove, davanti alla sua tenda, attorniato da strateghi e guardie personali, il legato imperiale ci stava osservando.

Ma il vero condottiero di tutti noi era Marzio; era lui a darci l’esempio con il suo comportamento. Sapevo che schemi e tattiche da noi adottati in battaglia erano frutto della sua mente. Il legato Cestio era soprattutto una figura simbolica, un buon padre di nobile famiglia, inviato a compiere la carriera d’obbligo presso una legione ai margini estremi dell’impero. Tornai a guardare in direzione del tribuno. Un movimento alle sue spalle attrasse la mia attenzione. Con grande preoccupazione mi accorsi che un barbaro stava correndo verso di lui; di lì a qualche istante gli sarebbe stato addosso da tergo.

Mi era rimasto un solo giavellotto, ma mi sarebbe comunque mancato il tempo per un altro lancio. Lo presi dalla faretra, era il più pesante: la gittata sarebbe forse stata inferiore, ma un giavellotto pesante garantisce una precisione maggiore e può essere letale in qualsiasi parte del corpo colpisca. Mossi la spalla destra, caricando il braccio. Feci tre passi veloci in avanti, prendendo la mira, e inarcai il corpo come un arco di legno di sandalo. Il giavellotto sibilò nell’aria, passandomi accanto all’orecchio, poi iniziò la sua parabola in direzione del nemico. Non lo persi mai di vista; lo vidi ridiscendere con la precisione del falco. Incontrò il corpo del germano a pochi passi dal cavallo del mio signore. Il barbaro sembrò incespicare.

Vidi la punta di ferro trapassargli la coscia in una parte non coperta dal corto gonnellino di maglia. Cadde, lasciandosi sfuggire un urlo di rabbia più che di dolore. Soltanto in quel momento Marzio sembrò accorgersi dello scampato pericolo. Osservò un attimo l’uomo che si dibatteva a terra, con l’asta che trapassava una gamba conficcandosi nell’altra. Io ero lontano, come affascinato da quel volo magico, quasi non del tutto cosciente del fatto che a guidare l’arma era stata la mia mano. Ma mi sembrò che Marzio sollevasse lo sguardo verso me, riconobbi distintamente un accenno di sorriso sulle sue labbra e un leggero movimento della testa. Poi la mente mi si annebbiò. Ero stato colpito. Non ebbi tempo di provare dolore: l’attimo fu comunque sufficiente a farmi intravedere la soglia della morte.

Mi risvegliai in un giaciglio dell’ospedale del fortilizio. Il dolore alla testa era insopportabile. Il volto bruno del giovane medico che mi stava davanti emerse da un vago alone di foschia.

«Ben tornato dal viaggio nell’Averno, legionario. Hai passato tre giorni e tre notti nel regno dei morti. È stato il tribuno Marzio a dare l’ordine di portarti qui, sebbene le tue condizioni sembrassero disperate.» I modi effeminati non avrebbero mai potuto fare di lui un buon soldato ma, in quanto esperto di ferite e cure, il giovane egizio sembrava sapere il fatto suo. Mi spiegò di avere appreso che un nemico mi aveva assalito alle spalle. «Devi la vita a questa vecchia pelle di lupo», continuò, mostrandomela. Presi dalle sue mani il fedele paramento: la testa dell’animale, proprio nel punto in cui la calotta cranica non era stata rimossa per dare un aspetto più realistico alle fauci, presentava una profonda fenditura. L’osso frontale era del tutto sbriciolato.

«Marzio», continuò l’egizio, «ha chiesto di essere costantemente informato sul tuo stato. Devo correre ad avvertire una delle sue guardie che ti sei finalmente svegliato!» Non mi diede il tempo di ribattere — forse non ne avrei nemmeno avuto la forza — e scappò via. I lamenti dei miei compagni d’armi mi costrinsero a guardarmi attorno. Ero circondato da feriti, molti dei quali adagiati per terra. Lo spettacolo riuscì a incutermi lo stesso senso di angoscia che si prova su un campo dove si è appena conclusa una cruenta battaglia.

Fui costretto a chiudere di nuovo gli occhi. Ero mortalmente stanco, il dolore sembrava comprimermi in una morsa le ossa della testa.

Credo fosse trascorso poco tempo quando una voce pacata e cordiale mi ridestò da quello stato di torpore. Vidi Publio Marzio ai piedi del mio giaciglio, notai l’espressione compiaciuta del suo viso.

«Sei di tempra rocciosa, legionario», disse. «Non avevo dubbi circa la tua guarigione. Come ti chiami?»

«Sono Giunio, signore, Giunio della città di Luna.»

«Sono debitore della vita», riprese Marzio, rivolto al suo seguito e alla piccola folla di convalescenti che stavano seguendo in un silenzio religioso le sue parole, «a questo valoroso soldato. Devo al suo tempismo e alla sua precisione di tiratore se sono ancora il vostro comandante. Per salvare me, ha messo a repentaglio la vita. Dispongo che tu venga promosso al grado di centurione, Giunio della città di Luna. Ti aspetto nel mio alloggio, non appena ti sarai rimesso del tutto.»

Nonostante il ronzio che continuavo a sentire negli orecchi, fui pervaso da un moto di orgoglio e soddisfazione. Le promozioni sul campo erano ormai una leggenda dei tempi delle grandi conquiste imperiali. Il nostro compito si limitava a difendere i confini della romanità, senza troppo concedere alle espansioni né di conseguenza — ciò che più contava — al bottino. Il Reno sembrava diventato il limite invalicabile dei territori dell’impero fin dai tempi di Augusto. Certo, i germani e le altre bellicose popolazioni barbare continuavano a costituire una minaccia, ma, in confronto alle grandi battaglie del passato, le nostre si potevano considerare secondarie scaramucce di confine.

Sarei diventato comandante di una centuria, avrei goduto del privilegio di combattere a cavallo. Ero fermamente convinto che, nonostante la mia giovane età, l’esperienza accumulata mi avrebbe consentito di dimostrarmi un ottimo ufficiale.

Roma odierna.

Sara scosse la testa, stringendo distrattamente una matita tra i denti. Era perplessa. Per la prima volta in vita sua, almeno da quanto ricordava, aveva avuto una notte difficile, tormentata. Aveva sì dormito, ma il suo sonno era stato agitato da sogni di guerrieri, battaglie, epiche gesta, sangue. In ciascuna di esse, nitidissima, perfettamente stagliata sul brulicare di corpi avvinghiati nel combattimento, si levava alta la figura di Giunio. Svegliatasi di buon mattino, in preda a un’agitazione del tutto ignota, si era accorta di avere un solo pensiero. Correre al più presto al suo laboratorio e riprendere il lavoro di trascrizione. Che cos’era successo, ancora, a Giunio e al suo mondo di antichi romani?

Quindi eccola lì, nel silenzio totale dei laboratori ancora deserti, seduta davanti allo schermo del computer. Già il sofisticatissimo scanner aveva interpretato a suo beneficio molte altre sbiadite e collose pagine del primo dei quattro volumi antichi in cui erano state trascritte in italo-spagnolo le gesta del legionario. Nella vicenda entrava in scena un nuovo personaggio, evidentemente destinato ad assumere una notevole importanza.

«Ahi ahi!» ridacchiò tra sé. «Cherchez la femme!» e si sfregò le mani. Le imprese di Giunio della città di Luna si stavano rivelando un vero e proprio romanzo d’avventura. Chissà che cosa intendeva il buon Oswald Breil, dannato omino, ovunque fosse e qualsiasi cosa stesse facendo, quando le aveva comunicato così seccamente che prima di tutto aveva bisogno di *capire*. *Capire* che cosa? Vabbè: *riassumiamo*, si disse. E, caso mai, *integriamo* con giudizio. Ma prima di tutto passiamo alla terza persona. All’opera.

ANNO 821 DE LA FONDA~IONE, lesse sullo schermo. Aperto in un angolo un elementare programma di calcolo preparato da lei stessa la sera prima, procedette in una frazione di istante alla conversione della data: il 68 dopo Cristo.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

L’Aedes Vestae, il tempio dedicato a Vesta, era situata nel Foro; pochi passi separavano la struttura circolare del luogo sacro dall’Atrium Vestae, la dimora delle vestali. Secondo la tradizione, le candidate erano venti, tutte di famiglia libera, non segnate da difetti fisici e figlie di genitori viventi e non dediti a mestieri ignobili. Le più giovani avevano appena superato i sei anni, le più adulte non superavano i dieci. Clelia, che stava per compierli, era totalmente presa nel suo sacrale ruolo di vergine prescelta per il possibile servizio della dea.

Avrebbero potuto suscitare qualche sorriso intenerito, mentre incedevano con passo solenne, piccolo corteo più simile a una nutrita e compunta scolaresca femminile che a un gruppo di fanciulle elette. Ma, no, nessuno avrebbe mai potuto sorridere: il popolo riconosceva in loro la volontà divina; chi stazionava nei pressi del Foro osservava il loro corteggio con spirito di sacra venerazione.

I littori precedevano la processione. L’espressione del volto di Cornelia, la Vestale Massima, non poteva lasciare dubbi circa la severità dei suoi modi.

Clelia osservò il portale di bronzo spalancato. Spinse lo sguardo nel tempio sorretto da diciotto colonne poste in cerchio attorno al grande compluvio. Le fiamme del braciere erano alte e rosse, la luce che riflettevano sulle pareti di marmo bianco sapeva davvero infondere la sacra tranquillità familiare a cui il culto di Vesta era votato. Quel fuoco non doveva mai spegnersi, ma ardere perenne, quasi a illuminare la sconfinata maestà dell’impero. Se si spegneva, la sacerdotessa responsabile della terribile sventura veniva punita personalmente dal Pontefice Massimo con la sferza. Il fuoco veniva poi riacceso non già usando un fuoco preesistente, ma creandone uno nuovo e incontaminato con gli specchi ustori.

Novaesium. Valle del Reno.

Anno 825 dalla Fondazione di Roma.

[72 d.C. (N.D.T.)]

L’inverno calava spinto dai primi venti gelidi di Aquilone. Al loro seguito sarebbero venute le nevi a ricoprire ogni cosa e a rendere impossibile qualsiasi attività militare. Per le truppe era tempo di riparare gradualmente all’interno del campo stabile, nella bassa valle del fiume. I quattro manipoli si erano messi in marcia alle prime luci. La brezza gelida si incuneava vorticosa tra i passi montani, acquistando ancor più vigore prima di abbattersi sulle file dei legionari.

Il carro del legato Cestio era esattamente al centro dello schieramento, che marciava in formazione ordinata nonostante le asperità del sentiero. Giunio non si accorse subito del pericolo. La pioggia di dardi infuocati piombò su di loro senza preavviso, seminando morte e scompiglio. Gli uomini ruppero le file, cercando improbabili ripari nel terreno brullo e pianeggiante.

Giunio vide le due pariglie trascinare via il carro del legato; i cavalli correvano come impazziti, una scia di fumo bianco si disperdeva nell’aria al loro seguito. Finché il carro non avvampò in una fulminea fiammata, non consentendo scampo a nessuno degli occupanti. Giunio osservò impotente i loro corpi ardere come faci, più volte intravide figure umane torcersi avvolte dalle fiamme. Nessuno riuscì a intervenire.

Già il tribuno Marzio si aggirava sul campo dell’agguato, cercando di ripristinare con la sicura calma dei suoi ordini gli schieramenti, di organizzare le difese. I militi romani erano intrappolati nella gola, in completa balia degli arcieri germani che li tenevano sotto tiro da una posizione elevata.

Giunio alzò lo sguardo: riuscì a distinguere le traiettorie delle frecce infuocate e il punto da cui venivano scagliate, dall’alto degli speroni di roccia, due o trecento piedi sopra di loro. Valutò che i nemici non dovevano essere molti, al massimo una trentina, ma erano comunque riusciti a immobilizzare i romani e li stavano decimando. Quando Marzio gli si avvicinò, stava ancora osservando attentamente un canalone che saliva a perpendicolo, restringendosi in diversi punti. Dagli spazi pianeggianti, lungo la costa, in cui erano appostati, i germani non potevano tenere sotto controllo quella fenditura nel fianco della montagna.

«Cestio è morto, Giunio», lo informò il tribuno, con una voce capace di levarsi sopra le grida dei fanti, «e temo che presto molti di noi faranno la stessa fine. Dobbiamo a ogni costo respingere l’assalto.»

Preso da una repentina ispirazione, ma senza rinunciare al tono deferente, Giunio lo pregò di ordinare che venissero approntate due catapulte. Sapeva bene che i proiettili non avrebbero mai potuto raggiungere le alture da cui i germani li tenevano sotto tiro: la mossa non era che uno stratagemma per tenere concentrati gli assalitori su un bersaglio, mentre lui avrebbe tentato di scalare il canalone e di cogliere i nemici alle spalle.

Chiese il permesso di condurre con sé dieci arcieri siriaci e una ventina di uomini scelti tra i più agili e valorosi. Cominciarono a salire, aggrappandosi agli spuntoni di roccia e puntando i piedi sui provvidenziali sostegni offerti dal fianco della montagna. Le grida dei legionari in difficoltà arrivavano fino a loro distinte, stimolandoli ad attaccare la parete con ancor più veemente vigore.

Quando finalmente affrontarono l’ultimo tratto, avevano tutti le mani e le gambe escoriate e indolenzite. Il camino nella roccia era poco più largo delle loro spalle, ma, puntellandosi con i piedi su un versante e con la schiena su quello opposto, gli uomini erano riusciti a issarsi a due per volta. Raggiunta la meta, si raccolsero in una zona pianeggiante per organizzarsi.

Un’altura coperta di vegetazione impediva loro di vedere i germani, ma per fortuna lo stesso valeva per i nemici. Strisciarono nel silenzio più assoluto fino alla macchia di cespugli. Appena superato il crinale, Giunio avvistò i germani: almeno venticinque arcieri, disposti di spalle immediatamente sul ciglio del precipizio. Dietro a quelli erano appostati una decina di uomini, con il compito di intingere i dardi nella pece rovente e di incendiare le punte delle frecce incoccate nell’arco. Osservò i suoi siriaci che, con perfetta, silenziosa, ammirevole disciplina, si disponevano in linea. Vide le corde dei loro archi tendersi all’unisono. Le frecce avevano le piume della cocca disposte a spirale, in modo da imprimere un moto circolare al dardo. La penetrazione nell’aria diventava maggiore, con conseguente aumento della gittata e della precisione.

Attesero il segnale, immobili come cani che avessero fiutato la preda, quindi rilasciarono le corde, tese fino quasi a spezzarsi. Le dieci frecce raggiunsero i bersagli con precisione, sebbene i nemici si trovassero a una sessantina di passi. Vide molti dei germani cadere trafitti da tergo e gli altri chiaramente disorientati dall’attacco improvviso. Non diede loro il tempo di organizzarsi e, mentre i suoi arcieri si preparavano a un nuovo lancio, esortò gli assalitori all’attacco. Molti dei nemici non fecero quasi nemmeno in tempo a impugnare la spada.

Qualche istante più tardi si affacciavano vittoriosi sul bordo del precipizio. I legionari imprigionati nella valle li riconobbero, prorompendo in un liberatorio urlo di gioia e trionfo. Il giovane e ardito comandante avevo perso solamente due uomini, e altrettanti erano rimasti feriti in maniera lieve.

Scescero dalla vetta mentre il sole calava. Marzio venne loro incontro. A Giunio i suoi modi erano ormai ben noti: accadeva di rado che si lasciasse andare a frasi adulatorie o a celebrare i successi dei suoi uomini. Un suo sguardo era sufficiente a infondere esaltazione o, per converso, l’onta della punizione.

«Grazie, centurione Giunio!» furono le sole parole che disse. «A te e ai tuoi uomini.» Tanto bastava.

La notte fu trascorsa in un campo improvvisato, poco distante dalla gola dell’imboscata. Il giorno seguente, alle prime luci, la carovana riprese il cammino verso la cittadella militare. Marzio volle che il centurione lo raggiungesse alla testa della colonna; dopo la morte di Cestio, il comando era ormai di sua esclusiva pertinenza. Nell’animo di tutti albergava la certezza che sarebbe presto arrivata da Roma la sua nomina a legato dell’impero.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

Trascorsi alcuni mesi, Clelia aveva visto perlomeno appannarsi gli entusiasmi dei primi tempi. Le giornate delle aspiranti erano piatte e monotone. Concluse le abluzioni obbligatorie e l’istruzione mattutina, cominciavano le ormai abituali operazioni sacre, sempre uguali, ripetitive, scandite dalla disciplina di ferro e dagli aspri rimbrotti dell’inflessibile Cornelia cui erano affidate. In pratica le giovani avevano tutti gli obblighi di una vera sacerdotessa, non ricevendo in cambio alcuno dei molti privilegi a esse riservati.

Spesso era lo stesso Protomagister, incaricato dall’imperatore di sostituirlo nella funzione di Pontefice Massimo, a tenere loro le lezioni di pratica religiosa o di comportamento. Ed era stato proprio durante uno dei suoi lunghi e rauchi sermoni che Clelia, per vincere il tedio, aveva cominciato a interrogare i propri sentimenti, rendendosi conto che una parte di vita le era sfuggita via senza che nemmeno se ne accorgesse: una piccola fetta di esistenza dopo i candidi giochi della prima infanzia. Si era imposta con fermezza di non ripercorrere mentalmente il passato, di non recriminare. Ma ormai si era resa conto con terrore che il futuro, nella migliore delle ipotesi, non poteva riservarle attimi, ore, giorni, mesi, anni diversi da quelli che stava vivendo.

La pubertà stava arrivando precocemente, il corpo stava assumendo le prime rotondità, i pensieri prendevano sempre maggiore spessore e concretezza. La bambina aveva una mente aperta e intelligente, pronta a imparare. Proprio per questo, forse, la Vestale Massima aveva provato fin dai primi giorni una sorta di malcelata avversione epidermica nei suoi confronti; per converso, le capacità di apprendimento della giovanissima candidata non cessavano di suscitare in lei un’acre meraviglia. Malgrado il carattere per niente remissivo, a tratti persino quasi riottoso, Clelia era una delle allieve più versate nello studio delle materie canoniche.

Le aspiranti vivevano in una residenza immediatamente a ridosso dell’Atrium Vestae. Gaia, la compagna di camera di Clelia, era una ragazza vivace e dal sorriso gentile. Tra le due bambine era nata fin dai primissimi giorni un’amicizia profonda e indissolubile.

Novaesium. Anno 827 dalla Fondazione di Roma.

[74 d.C. (N.D.T.)]

L’accampamento permanente era una sorta di piccola città funzionale e autosufficiente, dotata di officine, mercato, ospedale e luoghi di culto. Le camerate dei legionari ospitavano otto uomini ciascuna, con il loro nutrito equipaggiamento personale: nel corso degli spostamenti tattici, ogni legionario doveva trasportare a spalla quasi la metà del suo peso.

Erano probabilmente le sue origini di legionario a indurre Giunio a una visione più dinamica delle tattiche di combattimento e, di conseguenza, alla ferma convinzione che quel fardello costituisse un grave impedimento. Era giovane e si considerava beneficato dal dio della buona sorte, perciò non osava ancora dare spavaldamente voce alle proprie convinzioni, ma mordeva il freno: ardeva dal desiderio di farlo e sapeva che, non appena gli si fosse presentata l’occasione, sarebbe stata la sua stessa irruenza giovanile a imporglielo.

La maggior parte degli edifici erano riscaldati, compresi i dormitori della truppa, disposti in modo che ciascun blocco di isolati ospitasse due centurie. Gli alloggi dei centurioni erano situati alle estremità di ciascun blocco. Nel corso di quegli anni, Giunio aveva guadagnato altre due piccole onorificenze, ma quel che più contava, e lo riempiva di orgoglio, era il fatto che Marzio si fermava spesso a parlare con lui di tattiche e strategie. Spesso la parola del giovane centurione era ascoltata al pari di quella di un tribuno, sebbene il suo grado fosse quello di un ufficiale inferiore.

Una guardia venne a chiamarlo mentre si addestrava nel percorso d’equitazione. Marzio lo aspettava nei suoi alloggi. La nomina a legato gli era arrivata a soli pochi mesi dall’imboscata in cui era rimasto ucciso Cestio.

Gli alloggi del comandante erano collocati esattamente al centro dell’accampamento fortificato. Quattro guardie presidiavano costantemente le due palazzine del quartier generale. All’interno degli edifici si trovava il forziere nel quale era custodito il bottino di guerra. Un convoglio era incaricato di condurre periodicamente a Roma le ricchezze che i suoi combattenti riuscivano a catturare al nemico.

Marzio era in piedi davanti al tavolo. Con lui c’erano quattro dei cinque tribuni. «Tribuni», annunciò, «questo è il comandante della sesta coorte, il centurione Giunio.» Il giovane ufficiale salutò militarmente i superiori.

Marzio riprese subito a parlare, e soltanto in quel momento Giunio si rese conto di essere stato invitato a prendere parte a una riunione dello stato maggiore.

«I rigori dell’inverno si stanno attenuando», disse il generale, spostandosi verso un modello in terra argillosa che rappresentava con buona fedeltà il territorio dove erano stanziate le truppe romane. «Sarà quindi bene scrollare di dosso a noi stessi e ai nostri soldati il torpore di sapersi al sicuro nella città militare. Tra breve riprenderemo gli addestramenti. È inutile che mi soffermi a sottolineare l’importanza della nostra missione: nessuno è mai riuscito a varcare il Reno in maniera definitiva e ad annientare la minaccia dei germani. Ci aspettano battaglie difficili, ma il compito che ci ha affidato l’impero è arrivare dove altri non sono mai arrivati.» Quindi, indicando a una a una le località sulle montagnole d’argilla, Marzio cominciò a descrivere i luoghi ove si sarebbe accampata la legione e le valli che avrebbero potuto essere teatro degli scontri, sottolineando vantaggi e difetti di questo o quel terreno.

Il generale fece una pausa e chiese se qualcuno dei suoi collaboratori volesse prendere la parola. Giunio capì che il suo gesto rischiava di apparire irriverente ai patrizi gratificati del grado di tribuno militare, ma, non potendo trattenere la sua esuberanza giovanile, cercò di porvi rimedio esordendo: «Mi scuso con voi, nobili ufficiali, se, pur nella precisa coscienza di essere il più basso in grado, tenterò ugualmente di esprimere un mio parere. Forse, a indurmi alla visione personale che sto per esporvi, sono proprio le mie origini e l’abitudine a colpire con la massima velocità per poi ritirarmi nelle retrovie».

Così detto, fece una pausa, accorgendosi tuttavia che i superiori lo stavano ascoltando con attenzione. «La legione», riprese, «è lenta, generale. Gli uomini marciano piegati sotto il carico dei loro impedimenta, tanto da essersi meritati, come certamente sapete tutti, il soprannome di Muli di Mario, dal console che, duecento anni or sono, ha provveduto a riformare i ranghi militari. Da allora, poche cose sono cambiate, se si eccettuano le modifiche apportate da Augusto alla tecnica di battaglia. I nostri uomini si muovono con lentezza, arrivano stremati alla fine delle marce, affaticati dal peso delle salmerie e dell’attrezzatura da campo.»

Intervenne Sestilio, il tribuno che aveva raggiunto la legione quasi contemporaneamente alla promozione di Marzio. Il tono con cui si rivolse al giovane ufficiale, se non proprio di disprezzo, era perlomeno di sufficienza: «E tu che cosa proporresti, centurione? Che gli uomini marcino scalzi e disarmati per essere più agili?» Gli altri sorrisero, seppure con toni diversi, ma un perentorio gesto del generale incoraggiò Giunio a continuare.

«No, tribuno Sestilio», osservò, chiedendosi intanto come avrebbe potuto il fisico di quel cittadino azzimato — inviato all’estremo fronte dell’impero per semplici motivi di carriera e di equilibrio politico — affrontare le fatiche e le angustie cui erano costretti i soldati. «No, non arriverei mai a tanto. Quello che sostengo ha radici nell’esperienza che ho vissuto sul campo, più che nei trattati di tattica militare. Ricordi, legato Marzio, quando i germani ci hanno teso quell’imboscata, lo scorso autunno? Ricordi quanti dei centotrenta uomini che abbiamo lasciato sul terreno indossavano ancora lo zaino e gli altri fardelli?»

Il generale annuì e lui continuò di getto, rinfrancato: «La nostra legione è forte di un numero doppio di uomini rispetto alla norma, proprio perché ha il compito di presidiare un territorio difficile e un nemico insidioso. I veri addetti alla logistica sono soltanto i vivandieri e i cuochi. La quasi totalità delle altre operazioni sono affidate ai legionari, che si adattano alle esigenze più disparate, costretti a lasciare quasi all’ultimo posto quella che invece dovrebbe essere assolutamente primaria: la difesa dei sacri confini della patria romana. Chiedo, dunque: perché non potenziare progressivamente il settore logistico, lasciando ai soldati il solo compito di combattere? Il trasporto di quanto è necessario per erigere palizzate e accampamenti, sia cura di reparti specializzati».

Marzio ascoltava con espressione intenta, due dei tribuni stavano dimostrando un vivo interesse. Non così Sestilio, che prese di nuovo la parola. «Bene, così noi ufficiali di grado superiore stiamo qui a farci impartire lezioni da un semplice centurione, un giovane presuntuoso, convinto di poterci indottrinare sulle sue personalissime visioni delle tattiche militari, dimenticando il fatto per lui trascurabile che è proprio grazie a un assetto collaudato nei decenni che l’esercito di Roma ha conquistato il mondo. Non dire eresie, centurione Giunio, e controlla le tue parole.»

Giunio non era abituato a simili modi. Aveva semplicemente espresso un suo punto di vista, non capiva il motivo di tanta sufficienza. Mantenne comunque la calma e riprese: «Non giudicarmi avventato o, peggio, uno smidollato, nobile Sestilio, ma è mia precisa convinzione che un’armata più dinamica e leggera sarebbe capace di portarci a quel risultato a cui aneliamo ormai da molti decenni. La legione si muove come un elefante in catene: ha forza e velocità, nonostante la mole, ma le catene ne limitano i movimenti».

«Dicci, centurione, illuminaci. Siamo tutto orecchi», ribatté Sestilio in un tono fattosi sprezzante.

Imperturbabile, Giunio si rivolse direttamente al comandante: «Marzio», riprese, «chiedo che mi venga affidato un contingente di trecento uomini scelti, insieme con l’autorità di potermi muovere al di fuori degli schieramenti della legione».

Fu con un autentico tuffo al cuore che vide il legato chinare la testa in cenno di assenso. Qualcosa di molto simile a un brivido gli corse nella spina dorsale: non poteva, non doveva fallire la prova.

Le sortite cominciarono a essere intensificate ai primi segni del disgelo. Quando venne approntato l’accampamento estivo e cominciarono i preparativi per le estenuanti manovre di contrapposizione all’esercito nemico, i suoi uomini erano ormai perfettamente addestrati. Giunio aspettava con dissimulata ansia il momento del primo scontro.

I trecento uomini ai suoi ordini avevano lasciato lo schieramento della legione la sera prima. Adesso, distanti quasi mille passi dal terreno della battaglia, potevano sembrare un semplice drappello della retroguardia.

Erano lì quando gli squilli di tromba diffusero nella valle il segnale della battaglia. Ma non era ancora il momento di agire. Il centurione segnalò silenziosamente agli uomini di aspettare, prima di procedere alla mossa accuratamente studiata, piombando sul fianco del nemico. Dopo qualche lungo minuto, valutato che fosse giunto il momento, alzò il braccio. I trecento uomini scattarono come un unico corpo perfettamente coordinato, agile, inarrestabile, letale. L’impatto, tanto più tremendo in quanto imprevisto, fece vacillare lo schieramento dei germani di quel tanto che bastava per romperne il fronte.

La strada per la conquista della Germania si aprì con quella prima, fulminea e schiacciante vittoria.

«Se devo essere sincero», continuava Giunio nelle sue memorie trascritte in italiano spagnoleggiante, «non so quale sia stato il preciso contributo dato al successo dalla manovra del mio contingente. Ricordo soltanto che Marzio mi mandò a chiamare, in un raro momento di pausa tra le battaglie che si susseguivano ininterrotte a mano a mano che avanzavamo. Sembrava che nessuno fosse in grado di opporci resistenza.»

«Siediti, Giunio», gli disse il generale, non appena fu entrato nella sua tenda. Quindi, invitati con un gesto pacato ma perentorio i presenti a lasciarli soli, riprese: «Ho deciso che d’ora in avanti tu debba partecipare a tutte le riunioni dello stato maggiore. È giusto».

«Generale», si schermì il giovane, «il grado che porto non consente un simile privilegio. Sai bene quanto non sia facile per un ufficiale inferiore godere della fiducia di un tribuno o anche soltanto essere ascoltato da lui!» Non era falsa modestia. Giunio sapeva perfettamente che più di uno dei suoi diretti superiori avrebbe osteggiato una qualsiasi presenza estranea nella loro cerchia, e di conseguenza fatto di tutto per rendergli difficile la vita, se non impossibile.

«Voglio parlarti con estrema sincerità, Giunio. Sono diversi anni che sei ai miei ordini. Ti ho osservato, ho avuto modo di apprezzare i tuoi progressi, la tua costanza e il tuo valore. Sai, invece, a chi sono di fatto affidati i nostri uomini?»

Fissò lo sguardo negli occhi del centurione, scosse la testa e riprese: «Lo sai come lo so io, è troppo tempo che vivi nelle tende militari e all’addiaccio, ma te lo ripeterò ugualmente. A cinque giovincelli patrizi, nominati tribuni militari sebbene non abbiano alcuna esperienza sul campo, con la testa piena di presunzione e unicamente in cerca della gloria che possa garantire loro un ruolo politico, tra un paio d’anni, una volta rientrati a Roma. Per questo sento la necessità di avere al mio fianco la tua esperienza e il tuo senso di responsabilità. Considera Sestilio, per esempio: tra meno di un anno rientrerà nella capitale per ricevere un incarico diplomatico, poi si stabilirà definitivamente a Roma, con la carica di magistrato se non addirittura di senatore. Che cosa vuoi che sappia della ferocia della guerra e dello sguardo micidiale del nemico? Quando mai li ha incontrati sul suo cammino?»

«Signore», replicò Giunio con imbarazzo, «non mi è certamente lecito confrontare le mie nozioni con quelle dei miei superiori. Ricopro questo grado soltanto grazie alla tua magnanimità.»

Marzio sollevò con impeto un braccio, quasi volesse scacciare un insetto fastidioso. «La tua preparazione, Giunio, è perlomeno pari a quella di qualsiasi altro dei miei collaboratori, e hai il vantaggio di essere più giovane di molti di loro. Del tuo coraggio non voglio nemmeno parlare. Certo, le origini nobiliari degli altri possono costituire una differenza, ma si tratta di una differenza apparente, non certo sostanziale; l’esperienza che hai fatto sul campo è più che sufficiente per pareggiare i conti.»

«La tua, generale, è la forza del nome che porti. Mentre le mie origini sono delle più modeste: ho visto la luce nelle terre dei liguri, non tra i fasti patrizi di Roma…» interloquì d’impulso il giovane centurione.

Il tono di Marzio cambiò. Il saggio generale assunse un tono a metà tra lo scherzoso e il minaccioso. «Giunio della città di Luna, non è lecito a un centurione interrompere il suo generale, e tanto meno cercare di contraddire le sue decisioni. Roma ha bisogno della tua esperienza. E il mio è un ordine.» Così detto, Marzio batté seccamente le mani due volte, facendo comparire come per incanto uno schiavo sulla soglia della tenda. Recava in mano calzari, elmo e corazza dorati. La toga candida era orlata di porpora, l’ornamento delle uniformi da parata degli alti ufficiali.

«Hai vissuto la gelida notte delle Alpi avendo come sola protezione la pelle di lupo che portavi sulla testa. Ti sei battuto con valore, contribuendo in maniera decisiva alla nostra avanzata. Da questo momento, per i tuoi meriti, decido che tu venga promosso al grado di tribuno militare.»

Il rimescolio nell’intimo di Giunio stava raggiungendo i limiti della tollerabilità. Il giovane stentava a credere a ciò che sentiva. Le sue gesta sul campo di battaglia erano già diventate una leggenda tra gli uomini della legione. Ma soltanto nei suoi sogni più segreti e non svelabili avrebbe potuto immaginare una simile gratificazione. Gli girava la testa, sentì le gambe diventare molli in un modo molto poco confacente a un militare. Qualche istante più tardi, chi lo vide farsi strada tra le tende dell’accampamento con la divisa da alto ufficiale tra le braccia e un sorriso trasognato dipinto in viso poté pensare che il valoroso centurione fosse uscito di senno.

Negli otto mesi che seguirono, i romani dilagarono nel territorio dei germani, e quell’inverno non rientrarono al campo stabile: proseguirono inarrestabili la conquista del nuovo territorio. Marzio vietava ogni forma di violenza gratuita contro la popolazione inerme: soltanto in pochi casi fu costretto a ordinare che qualche villaggio di nemici irriducibili venisse raso al suolo, facendone una terra desolata e inabitabile. Di fatto i suoi soldati agivano da testa di ponte dell’impero; spettava loro spianare la strada alla civiltà di Roma, con le sue leggi e il suo ordine.

Roma odierna.

Riassumiamo, riassumiamo, pensò Sara Terracini, accesa in volto, tempestando con rinnovata energia sulla tastiera. Ma un po’ le dispiaceva. Era la storia della sua Città Eterna che si dipanava nei fogli marcescenti, quasi illeggibili, che Toni Marradesi continuava a recuperare con impegno certosino e lo scanner elettronico a leggere con ostinazione implacabile. Avanti, avanti. Stranamente, quel giorno, Oswald Breil non si era ancora fatto vivo. Dov’era finito?

Le sofisticate apparecchiature dello scanner continuavano con delicatissima e silenziosa precisione a leggere le pagine incartapecorite e a interpretarle. Avanti, avanti.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

Clelia si svegliò di soprassalto, tirandosi a sedere di scatto sul letto. La sua mente era ancora scossa dall’incubo.

«Che cosa succede, Clelia?» le chiese, assonnata, la voce di Gaia dall’altro letto.

«Niente, ho solamente fatto un brutto sogno.»

Gaia ravvivò la lucerna e si sollevò sui gomiti: «Dev’essere stato un incubo terribile: urlavi di terrore».

«Ho sognato che ero stata condannata alla pena capitale e venivo condotta al Campo Scellerato da un drappello di guardie.»

«Non siamo ancora sacerdotesse e già temi la punizione estrema?» replicò l’altra. Quindi fece una pausa e continuò meditabonda: «È diverso tempo che ti vedo strana, Clelia, agitata, preoccupata. Che cosa ti turba? Vuoi che ne parliamo?»

«Ho paura, Gaia, ho paura di non riuscire a sopportare questa vita di clausura», rispose la giovane con spontanea sincerità.

«Non è facile per nessuno, amica mia, vivere in queste angustie, isolate, costrette alle ferree regole della Vestale Massima. Cerca di fartene una ragione: è il passaggio obbligato per diventare, domani, una delle sei sacre sacerdotesse.»

«È proprio questo, Gaia, che temo: non so se riuscirò mai a diventarlo. E non tanto per le probabilità del sorteggio, quanto piuttosto per i dubbi che mi sorgono dentro. Non so se riuscirò a sopportare quel genere di vita, l’intransigenza di quei princìpi.»

«I momenti di sconforto capitano a tutti…» provò a consolarla l’amica. Ma la convinzione era scarsa.

«Non si tratta soltanto di un momento», ribatté Clelia. «È diverso tempo, ormai, che mi interrogo su passato e presente, e che temo il futuro. Mi sembra che la nostra esistenza qui dentro sia da paragonare a quella di tanti infelici animali in gabbia. Mi ritrovo spesso a compiere i sacri uffici con gesti meccanici, senza nessuna convinzione.»

Novaesium. Anno 829 dalla Fondazione di Roma.

[76 d.C. (N.D.T.)]

Gli uomini del tribuno Giunio varcarono le mura del campo stabile alla testa della legione. Anche grazie al loro valore, la Germania era ormai da tre mesi, di fatto, una provincia dell’impero. I soldati agli ordini del legato Marzio erano riusciti dove tutti gli altri avevano fallito.

Giunio non avrebbe mai voluto rischiare l’accusa di peccare di superbia, ma nell’intimo aveva la certezza che i suoi suggerimenti avevano contribuito — mai si sarebbe azzardato a valutare in quale misura — a conferire allo schieramento e al morale degli uomini una parte dell’impeto ancora necessario per completare la conquista di Augusto.

Tutti gli occupanti della cittadella erano ad attenderli sulle mura, dai furieri alle meretrici cui spettava l’ambiguo ma prezioso compito di ritemprare lo spirito dei legionari. La festa sarebbe iniziata quella stessa sera, e chissà per quanto tempo sarebbe proseguita tra libagioni e canti.

Il messo imperiale li aspettava nei pressi del comando; li accolse con calorose parole di benvenuto. Marzio smontò da cavallo, scambiò alcune frasi di circostanza, quindi varcò la soglia della sua residenza, seguito dal messo.

Giunio raggiunse i suoi alloggi: dopo un anno trascorso sul campo, tra i sentieri infangati e i glaciali inverni del Nord, la muratura delle stanze riservate ai tribuni gli parve il concretizzarsi di un sogno.

Si spogliò della tenuta da viaggio, il tepore del riscaldamento ipocaustico sciolse le sue membra infreddolite. Comandò che gli venisse preparato un bagno caldo e assaporò finalmente i piaceri del meritato riposo. Dopo poche ore era già a rapporto dal suo generale. Ormai lo conosceva come conosceva se stesso: riconobbe immediatamente l’orgogliosa espressione del suo sguardo.

«Il messo imperiale è venuto a comunicare il mio trasferimento. Tra due mesi verrò sostituito da un altro legato.» Una notizia non certamente positiva per le sorti future di quel teatro di guerra. Giunio l’accolse in un silenzio più espressivo di molte parole. Aveva capito che il tono di Marzio riservava altre novità.

«Vengo richiamato a Roma, tribuno Giunio», riprese il legato, e le sue labbra si aprirono in un franco sorriso: «L’imperatore ha deciso di celebrare un trionfo in onore delle nostre imprese!»

Un trionfo, trasalì Giunio: il più alto riconoscimento dell’impero!

«Credo che questo», continuò il legato, «preluda alla fine della mia carriera militare e all’inizio di un impegno nuovo quanto affascinante.»

Lo smarrimento espresso dallo sguardo dell’interlocutore lo indusse a proseguire: «Volevo chiederti di seguirmi in questo mio viaggio, tribuno Giunio».

Lo smarrimento si convertì in tumultuosa confusione. «A Roma… Io… La richiesta mi riempie di onore, generale. Ma non posso esimermi dal chiedere a te e a me stesso: ne sono degno? Sarò in grado di esserti d’aiuto fuori del campo di battaglia? Sono un soldato, Marzio. Non so cosa saprei fare lontano dalle armi.»

«La tua sincerità ti fa onore, tribuno, ma il mio consiglio è di non sottovalutare le tue possibilità. In altre persone che ti conoscessero meno bene di me, inoltre, un simile atteggiamento potrebbe suscitare pericolosi equivoci. Sei giovane e valoroso, hai imparato a scrivere e a fare di conto, e l’acume dei tuoi suggerimenti ha contribuito alla nostra vittoria. Come hai saputo primeggiare sul terreno, così saprai distinguerti in ogni altro campo. Ne sono sicuro. La politica del più vasto impero mai conosciuto mi aspetta, e ti chiedo di affrontare al mio fianco questa nuova avventura.»

Marzio non dovette insistere ulteriormente: Giunio lo avrebbe seguito anche da solo contro un esercito di germani. E più che mai adesso, che gli chiedeva di diventare il suo uomo di fiducia. D’altra parte, come sapeva benissimo, ogni suo volere equivaleva a un ordine.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

Il sorteggio tra le aspiranti avveniva con largo anticipo sulla data dell’investitura. Il fato sceglieva le nuove sacerdotesse a gruppi di cinque, e nell’ordine del sorteggio esse subentravano alle altre quando un posto si rendeva vacante. Il Consiglio Pontificio era schierato al gran completo nel tempio di Vesta. Il Protomagister si erse in tutta la sua statura e diede solennemente inizio al sorteggio. Rappresentava la più alta carica religiosa di Roma, ai suoi fianchi avevano preso posto le vestali. Molte di loro mostravano i segni inesorabili del tempo. La Vestale Massima era invece rigidamente eretta accanto al Palladio, il sacro simulacro di Minerva che la leggenda voleva portato nei lidi laziali da Enea.

Il nome che Cornelia scandì con voce grave e perentoria in apertura della cerimonia fu quello di Gaia. Il Protomagister pronunciò in ieratici toni bassi la formula rituale della «cattura». «Te, Amata, capio…» disse: «Così io ti prendo, o Amata, come sacerdotessa vestale per celebrare i riti che una sacerdotessa vestale è giusto che celebri nell’interesse del popolo romano e dei Quiriti, essendo compiutamente idonea per la legge». E, afferrata la giovane per il braccio come una prigioniera di guerra, la condusse nell’angolo ritualmente preposto.

La cerimonia proseguì immediatamente. Il viso di Cornelia si torse in una smorfia, che nessuno poté tuttavia percepire nella penombra del tempio. Dopo un breve silenzio carico di significati imperscrutabili, la sua voce si incrinò leggermente nel pronunciare il nome successivo: «Clelia».

E anche la seconda nuova vestale fu «catturata», sotto lo sguardo commosso del padre, a cui il Protomagister la sottraeva per sempre. Per almeno trent’anni sua figlia sarebbe stata totalmente dedita a Vesta e alla verginità.

Clelia e Gaia erano ormai indissolubilmente unite nella sorte come nell’amicizia.

Novaesium. Anno 830 dalla Fondazione di Roma.

[77 d.C. (N.D.T.)]

Le procedure di affiancamento ai nuovi ufficiali superiori durarono quasi tutto l’inverno. Erano gli ultimi giorni di febbraio quando il legato e Giunio si accinsero a partire. Marzio aveva disposto che un contingente di trecento uomini li accompagnasse nel viaggio verso la capitale e aveva affidato al giovane tribuno il compito di comporre la coorte. I sette carri che trasportavano il tesoro conquistato ai germani potevano sicuramente costituire un validissimo motivo per spingere un gruppo di briganti ad attaccarli. La strada per Roma era lunga e pericolosa. Giunio andò a cercare a uno a uno i componenti del suo contingente scelto e concesse loro l’opportunità di far parte del corpo di spedizione. Nessuno di essi rifiutò l’onore. Rinunciavano alla maggiorazione di soldo destinata ai militari impegnati sul fronte, ma il miraggio del trionfo era tale da vincere ogni dubbio.

La legione fu schierata in ordine perfetto, appena fuori della cittadella. Gli scudi color sangue di bue formavano una linea interminabile. Le insegne dorate riflettevano in infiniti bagliori la luce del sole e il biancore dei campi ancora innevati. Giunio procedeva con cautela, controllando con attenta perizia il passo del cavallo: doveva non sopravanzare il generale, ma al tempo stesso mantenersi all’altezza del tribuno Sestilio, che procedeva al suo fianco. Al loro passaggio, centurioni e alfieri presentavano fieramente le armi. Raggiunto il centro dello schieramento, venne loro incontro il nuovo comandante con il corteggio degli alti ufficiali.

Con molti di essi Giunio aveva diviso le ansie della battaglia, il dolore delle ferite, le gioie della conquista. Al pensiero che stava abbandonando per sempre il furore dei combattimenti, l’odore della battaglia, provò una sensazione di vuoto. Il passo del suo cavallo rischiò per un istante di vacillare. Era giusta, la decisione che stava prendendo? Soltanto il tempo avrebbe potuto dirlo. Si erse fieramente in tutta la sua statura e proseguì oltre.

La cerimonia del passaggio delle consegne fu semplice. Quando fu conclusa, Marzio rivolse un’allocuzione agli uomini con cui aveva diviso il pane del guerriero. Un silenzio attento e carico di rispetto accompagnò le sue parole, pronunciate con voce sicura e stentorea in modo da farsi udire dal maggior numero possibile di militari, ma anche, forse, chissà, da dissimulare un’inevitabile punta di commozione.

«Uomini», disse, «eroi di Roma e della civiltà. L’imperatore mi chiama per tributarmi il più alto onore che possa essere riconosciuto a un soldato. Ho precisa coscienza del fatto che questa gratificazione non spetta a me solo ma a tutti voi: dal primo degli ufficiali al più umile degli inservienti delle stalle. La Germania è romana soltanto grazie a voi. I tribuni Giunio e Sestilio e i militari che mi accompagneranno in questo viaggio rappresentano l’intera legione, sono ognuno di voi. Lascio questa terra pacificata e le mie truppe al comando di un valoroso comandante e di molti ufficiali che già conoscete bene. Gli dei siano con voi, intrepidi romani.»

Malgrado la strenua disciplina della parata, un irresistibile mormorio si alzò dalla truppa per trasformarsi a poco a poco in un tonante boato: il nome di Marzio si levò alto verso le vette perennemente innevate delle Alpi. Tale fu il saluto dei soldati di Roma a un comandante stimato e amato.

Quando si affiancò al generale, appena intrapreso il cammino, Giunio si rese immediatamente conto dell’intensa commozione di quell’uomo saggio e giusto: era pari a quella da cui era pervaso lui stesso.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

«Così sei stata prescelta per servire la Sacra Dea!» Il tono di Cornelia non fece niente per dissimulare il disappunto.

Deferente come imponeva il suo ruolo, Clelia rispose con un disciplinato cenno di assenso, e la superiora continuò: «Certo, se non fosse dipeso dalla sorte ma dal mio giudizio, non so se saresti stata scelta: ho seri dubbi su di te. Sia comunque fatta la volontà degli dei». E il suo sguardo si fece cattivo e pericoloso, mentre continuava: «Attenta, Clelia, da questo momento ti osserverò in ogni istante. Nessun tuo errore, benché minimo, nessuna tua titubanza troverà la mia comprensione. Non hai alternative, prescelta tra le novizie: o diventerai una casta ed esemplare servitrice di Vesta o subirai le punizioni più inesorabili. Ho finito, puoi andare».

La bambina uscì dalla stanza. Nel cortile della dimora delle vestali, le due novizie godettero i raggi di un sole timido, assaporando uno dei rari e brevi momenti di svago.

Osservando il volto scuro dell’amica, Gaia si accorse subito del suo turbamento. Non appena fu messa al corrente del colloquio con la Vestale Massima, la esortò con calore: «Sta’ in guardia, Clelia, quella donna è potente quanto malvagia. E, chissà per quale misterioso motivo, è chiaro ormai da tempo che non ti ama. Forse perché sei tanto bella, Clelia, anche se una eletta non dovrebbe mai cedere a simili considerazioni. Ma, ahimè, nonostante la sacra funzione rimaniamo ugualmente esseri umani. E quella donna inacidita non può mai essere stata bella. Non come te, in ogni caso, gli dei mi perdonino. Per lei, condannarti al peggiore dei supplizi sarebbe una specie di gioco perverso. Guardati da lei!»

Alpi Rezie. Anno 830 dalla Fondazione di Roma.

[77 d.C. (N.D.T.)]

Il cammino era impervio. Avevano superato passi innevati e sentieri pericolosi, aggirato cime invalicabili. Gli uomini sembravano tuttavia non sentire stanchezza; si dedicavano con ogni energia ai sette carri colmi del bottino conquistato ai germani, cercando di sopperire con i loro sforzi alle difficoltà del percorso. Dopo quasi dieci giorni dalla partenza da Novaesium, Giunio si accorse che il cammino si stava facendo via via meno aspro. Le foreste avevano ceduto prima alle prataglie e poi ai campi coltivati, i germogli di un verde luminoso brillavano al sole del mattino. Decisero di accamparsi in uno slargo protetto da imponenti speroni di roccia. Diradatesi tensione e fatica, l’occhio addestrato del tribuno stava però cominciando ad avvistare nei legionari qualche pericoloso segno di rilassamento. Si ingiunse di stare più che mai all’erta.

La tormenta di neve arrivò quasi inaspettata, anche se, per fortuna, quando le tende erano già state montate, perché in caso contrario la coorte avrebbe avuto serie difficoltà a erigere il campo. Il sole si oscurò di colpo, nubi basse e grigie cominciarono a scorrere veloci, spinte da un vento gelido e umido. I primi fiocchi caddero sparsi, infittendosi via via sempre più fino a diventare una muraglia invalicabile per gli sguardi. In breve il manto bianco coprì ogni cosa. L’esperienza insegnava che, data la stagione, la tormenta non poteva durare a lungo. Ben altra cosa sarebbe stata se la tempesta li avesse colti non ai piedi delle montagne ma ancora lungo i sentieri precipiti tra le rocce.

Lasciato un turno di dieci uomini di guardia, Giunio si ritirò nella sua tenda. Il vento fischiava rabbiosamente, impedendogli di riposare. Era inspiegabilmente teso e nervoso, ma imputava questo suo stato alla furia degli elementi. Non riusciva a chiudere occhio, si rivoltava pieno di agitazione sullo spartano giaciglio da campo che gli era stato allestito. Inutile rimanere lì. Tornò a indossare gli indumenti pesanti; per antica abitudine, più che per scelta, prese con sé un arco e alcune frecce e uscì nella tormenta. Sperava di imbattersi in qualche animale commestibile uscito dalla tana in cerca di nutrimento. Un po’ di carne fresca non avrebbe fatto male alla loro mensa.

Il muro bianco limitava la visibilità a pochi passi. I fiocchi di neve turbinavano quasi orizzontali prima di posarsi a terra.

La stessa abitudine antica gli fece volgere lo sguardo intorno a sé in cerca delle sentinelle. Nel riverbero della tormenta non riuscì a vedere nessuno, finché una voce possente non gli intimò di fermarsi. Poco distante vide la prima. Appena lo riconobbe, il legionario abbandonò ogni tono aggressivo e ne assunse uno quasi sottomesso: «Scusami, tribuno Giunio», disse. «Non ti avevo riconosciuto».

«Fai buona guardia, Vito», rispose: aveva combattuto fianco a fianco con ognuno di loro, li conosceva tutti per nome. «Meglio stare all’erta, anche se credo che l’unica minaccia possa provenire da un qualche orso affamato!»

Quindi lo salutò, dopo avere scambiato con lui alcune brevi battute sulle prede che avrebbe potuto catturare. Si avviò lungo il tracciato battuto dai passi del legionario. Calcolò mentalmente la distanza che avrebbe dovuto intercorrere tra un posto di guardia e l’altro. La neve arrivava già ai polpacci, il solco scavato dai passi regolari della sentinella gli consentiva se non altro di non sprofondare. Pensò di avere ormai raggiunto l’area di sorveglianza di un’altra guardia. Improvvisamente le orme si fecero più numerose e sparse. Le macchie di sangue risaltavano sul candore della neve. Il corpo della guardia era poco lontano; chi lo aveva ucciso aveva cercato di nascondere il corpo in un cespuglio.

Si avvicinò con grande cautela, all’erta, tendendosi in tutte le sue facoltà. Il sangue sgorgava ancora dalla gola recisa, circondato da un alone di condensa. Gli occhi erano vitrei nell’immobilità della morte. L’assassino non doveva essere lontano. Istintiva la sua mano destra si portò sopra la spalla e le dita estrassero una freccia dalla faretra. Contemporaneamente la sinistra sollevò l’agile arco siriaco. La punta del dardo guidava il suo sguardo. Girò il busto in direzione della foresta. Li vide subito: si muovevano con l’agilità dei cervi. Alcuni, per meglio dissimularsi nell’ambiente innevato, portavano una pelle candida sulla schiena. Spuntavano da dietro gli alberi, facevano pochi passi e di nuovo scomparivano dietro un altro nascondiglio. Si voltò verso l’accampamento o, meglio, verso il luogo dove riteneva fosse il campo, al di là di quella bianca cortina impenetrabile. Era troppo lontano per lanciare l’allarme. Tornò sui suoi passi. Non ebbe quasi tempo di accorgersi che anche Vito giaceva a terra esanime.

Avvistate le prime tende, urlò con quanto fiato aveva in gola: «All’armi, romani, all’armi! Siamo attaccati! All’armi!»

Gli uomini uscirono precipitosamente dai loro ripari, la maggior parte già con la spada in pugno; pochi istanti più tardi i misteriosi assalitori erano loro addosso. Se fossero riusciti a cogliere di sorpresa l’accampamento, quasi sicuramente avrebbero avuto ragione dei romani. Erano almeno ottanta, ma, contrariamente alle loro previsioni, non si trovarono di fronte un gregge di militari storditi dal sonno ma un corpo scattante di legionari in armi pronti a respingere lo scontro. Spentosi l’impeto del primo assalto, i romani furono finalmente in grado di organizzare al meglio le forze e di far valere la schiacciante superiorità numerica. Gli aggressori si dimostrarono ottimi combattenti, ma poco avrebbero potuto in uno scontro così impari. Batterono in ritirata di lì a poco, dopo aver lasciato almeno venti uomini sul terreno.

Perplesso, pur nella concitazione dell’inseguimento, a Giunio parve quasi che alcuni rallentassero la fuga per dare il colpo di grazia ai compagni feriti. Li inseguirono per un breve tratto, ma poi preferirono tornare nei pressi dei carri del bottino: la lunga esperienza insegnava che poteva essere soltanto un diversivo per allontanarli dal campo. Trentasei legionari erano rimasti uccisi e dodici feriti.

Giunio si avvicinò al corpo di uno degli assalitori: aveva un grosso squarcio al petto e il collo seccamente reciso nella parte posteriore. Colpi chiaramente inferti in momenti diversi. Rimase qualche istante immobile, chino sul cadavere, immerso in profonde riflessioni. Quello che gli era parso di intuire corrispondeva a verità: i briganti non volevano lasciarsi dietro testimoni. Perché? L’uomo impugnava ancora la spada, forzò le sue dita per liberarla. Poco sotto l’elsa vide perfettamente inciso il marchio delle fucine imperiali. Lo conosceva fin troppo bene: ogni arma in dotazione ai legionari portava lo stesso marchio.

«Quanti uomini abbiamo perso?» chiese Marzio, ricevendo una risposta puntuale e immediata. Annuì in tono preoccupato. «Tanti», commentò a mezza voce. «Ma sarebbe andata molto peggio», considerò, «se una delle sentinelle non fosse riuscita a dare l’allarme. Giunio, voglio conoscere il valoroso che ha salvato la vita a tutti noi e il prezioso carico che portiamo a Roma.»

In realtà era stata soltanto una serie di circostanze a far sì che Giunio avvistasse gli assalitori. La sua sincerità innata gli impose di spiegarlo al suo signore, informandolo concitatamente che a dare l’allarme era stata la sua voce.

Marzio annuì una seconda volta, con espressione meditabonda. «Strano e fortunato destino, il mio, Giunio. Ti sono tre volte debitore della vita», disse, rivolgendogli un gesto di paterno affetto.

Sestilio si era mantenuto in disparte. Giunio non ricordava di averlo visto durante la battaglia. Fu costretto a riflettere che il suo pari grado non sembrava davvero animato dalla propensione al combattimento che contraddistingueva lui come ogni altro soldato inviato dall’impero in quelle remote regioni di confine: nelle rare occasioni in cui doveva arrivare allo scontro, il nobile tribuno si faceva circondare da un manipolo di guardie scelte, con la dichiarata scusa di guidarle all’assalto, ma in realtà in modo da esserne protetto.

Strano soldato davvero. Gli tornarono rapidamente alla memoria le spontanee e amare considerazioni di Marzio sui motivi di puro vantaggio personale per cui certi rampolli della nobiltà romana chiedevano di essere mandati per qualche tempo al fronte. La carriera politica. Sestilio sembrava già perfettamente versato in quelle arti sottili e subdole. Sarebbero mai riusciti a impararle due uomini addestrati soltanto alla guerra, come lui e Marzio? Ma non era tempo di riflessioni. Bisognava agire, rimanendo il più possibile all’erta.

«Rinforzate i turni di guardia», ordinò agli uomini, cercando di sovrastare il rombo della tormenta. «Le sentinelle si dispongano in modo da vedersi l’una con l’altra. I legionari in tenda tengano le armi a portata di mano.» Quindi si rivolse nuovamente a Marzio: «Perdonami, comandante. Debbo parlarti».

Pochi istanti più tardi entrava nella sua tenda. La presenza di Sestilio, che da quando lo aveva visto non si era più allontanato da lui, aveva ormai il potere di metterlo profondamente a disagio. Chiedeva protezione anche a lui? Chissà. In certi momenti gli sembrava addirittura che lo controllasse. Cercò di scacciare il pensiero. Sestilio era un ufficiale dell’impero romano come lui, inviato in quelle terre direttamente dall’imperatore.

Si scrollò di dosso la neve e batté i piedi sul suolo; al centro della tenda ardeva un braciere, la temperatura era accettabile, quasi confortevole. Con poche battute mise al corrente il legato delle modalità dell’assalto, soffermandosi sugli aspetti oscuri dell’imboscata. «I nostri assalitori», concluse, «si muovevano in maniera esperta e combattevano ordinatamente. Hanno preferito uccidere i loro compagni piuttosto che lasciare testimoni in mano nostra. Inoltre, particolare davvero inquietante, alcune delle loro armi provenivano dalle officine imperiali.»

Marzio rimase pensieroso qualche istante, ma poi sembrò voler scacciare la tensione, rimandando ogni decisione. «L’importante è che siamo riusciti a limitare le perdite e che il tesoro dei germani non ci sia stato trafugato», disse. «Auguriamoci che i briganti non stiano raccogliendo le forze per un nuovo attacco.»

«Non credo che torneranno», intervenne Sestilio, facendo sentire la propria voce per la prima volta; la paura sembrava non aver ancora consentito ai suoi lineamenti di rilassarsi.

«Sono battuti in ritirata», proseguì, «non appena si sono accorti che la sorpresa era fallita. Se avessero avuto rinforzi li avrebbero di sicuro utilizzati subito, nel corso del primo attacco. Perché avrebbero dovuto lasciare altri uomini nelle retrovie?»

Una logica apparentemente ineccepibile. Quando voleva, Sestilio sapeva manifestare le doti di un saggio stratega.

Giunio sapeva tuttavia che avrebbe trascorso la notte in piedi, ispezionando più volte la catena delle sentinelle.

2.

Roma imperiale. Anno 821 dalla Fondazione.

[68 d.C. (N.D.T.)]

Se le vestali si avventuravano fuori del breve percorso dall’Atrium all’Aedes Vestae, ciò era in genere dovuto a motivi minuziosamente contemplati dalla legge, come l’obbligo di assistere alle funzioni sacre prescritte. In conseguenza di ciò, a una sola settimana dalla loro investitura Clelia e Gaia assistettero per la prima volta in vita loro a un sacrificio, inviatevi in rappresentanza della loro autorità religiosa. Dinanzi ai gradini del tempio dove erano state condotte videro l’animale, intactum e ancora ignaro del giogo, con la testa acconciata e il ventre fasciato. Videro i servitori con piatti di frutta e dolci, il sacrificante che, la testa semicoperta dalla toga, gettava sulla brace grani d’incenso. Videro comparire sulla porta del tempio il simulacro della divinità.

La vittima sacrificale venne aspersa di vino sulla fronte e poi cosparsa di mola salsa, il farro macinato misto a sale che avevano preparato nella loro dimora le tre vestali anziane e che un giorno anche Clelia e Gaia sarebbero state chiamate a preparare.

Se la sorte avesse loro consentito di diventare vestali anziane, ogni anno, dalle None di maggio fino al giorno prima delle Idi di maggio, avrebbero dovuto porre quotidianamente alcune spighe di spelta in ceste da mietitore; quindi, una volta seccate, le avrebbero frante e macinate. Infine, tre volte all’anno — per i Lupercali, per la festa della loro Divina Vesta e alle Idi di settembre -, a questo macinato avrebbero aggiunto sale bollito e sale non raffinato, coperto di gesso, cotto al forno e successivamente tagliato con una sega di ferro, ottenendo appunto il tritello da sacrificio, o mola salsa, da usare per la immolatio degli animali.

La immolatio fu accompagnata dalla preghiera con cui la vittima venne presentata alla divinità. Quindi l’ignaro animale fu stordito con un colpo d’ascia, e gli venne aperta un’arteria con un coltello a doppio taglio. A quel punto la bambina Clelia chiuse gli occhi e non vide più niente.

Non vide l’animale morire dissanguato tra mille cautele del sacrificante e dei presenti, affinché il sangue non avesse a macchiare l’altare o la loro persona. Non lo vide sventrare per l’esame di cuore, fegato, polmoni, milza, reni. Soltanto dalle preghiere che si levavano alte e fervide capì che gli organi erano senza difetto e quindi il sacrificio riuscito.

Quando finalmente si costrinse a riaprire gli occhi, timorosa che qualcuno si accorgesse del suo atteggiamento e le facesse infliggere una punizione dalla Vestale Massima; già le interiora bollite venivano raffreddate con vino, trinciate e nuovamente cosparse di mola salsa per essere deposte sull’altare e arse. Il fuoco avrebbe sottratto agli uomini il piatto destinato alla divinità; tramutato in vapore e fumo, il cibo sarebbe salito al cielo.

A quel punto, sul piazzale del tempio ebbe inizio il banchetto conclusivo della cerimonia. Non tenute a parteciparvi anche a motivo dell’età, le due giovanissime vestali si avviarono a rientrare nella loro dimora, ritualmente precedute dai littori. Al loro passaggio la gente mostrava grande deferenza; c’era chi si inchinava, chi le benediceva, chi osava avvicinarsi per chiedere un’intercessione presso la Divina Vesta.

Nei pressi del Foro, però, alcune urla concitate le spinsero a fermarsi, più incuriosite che spaventate. In una via laterale, attorniato da due ali di folla inferocita, videro un uomo anziano e curvo, coperto di sangue e di ferite provocate dalle continue percosse dei persecutori.

Clelia fece segno ai littori di proteggerla e si avviò verso l’orribile scena.

Non appena riconobbe la vestale, la gente si fermò e fece silenzio. «Quali reati ha commesso questo vecchio?» chiese la giovane, rivolta ai più esagitati.

«Rinnega i nostri dei!» le fu risposto.

«È cristiano!» incalzò un altro.

Clelia guardò il volto anziano e sfigurato dai colpi; negli occhi non vide paura ma l’orgoglio di morire in nome del Dio in cui lo sventurato credeva.

«Come ti chiami?» gli chiese.

«Valeriano, nobile sacerdotessa!» rispose il vecchio, incapace di sollevare il corpo martoriato, ma alzando uno sguardo franco e limpido.

«Queste persone sostengono che hai rinnegato gli dei.»

«Io credo in un solo Dio, vestale, che ha mandato suo figlio Gesù di Nazareth in terra», rispose ancora il vecchio.

A quelle parole uno degli uomini che brandiva un bastone lo colpì ai fianchi, inveendo. «Abbi almeno il ritegno di non bestemmiare di fronte alla messaggera di una dea, cane cristiano!»

«Fermo!» ordinò Clelia, alzando la voce. Avrebbe potuto essere figlia di molti di loro, eppure la canea si placò immediatamente. «Dove lo state portando?»

«Alle carceri, dove rimarrà chiuso per sempre senza poter provocare ulteriori guasti», rispose la folla quasi a una voce.

E due dei quattro littori si posero ai fianchi del cristiano, che a stento si rialzò sulle proprie gambe. Senza dire più niente, Valeriano fissò sulla giovanissima sacerdotessa uno sguardo indomito, che con la sua intensità le fece correre un inesplicabile brivido lungo la schiena. Sembrava che non riuscisse a distogliere lo sguardo da lei; mentre veniva trascinato via, cercò più volte di voltarsi a guardarla.

Clelia rimase ferma a lungo a osservarlo, chiedendosi quanto amore potesse legare quell’uomo al suo dio, al punto da infondergli, anche di fronte alla prospettiva del carcere perenne, il coraggio di un guerriero in battaglia.

Mentre la raggiungeva, si vide guardare da Gaia con un’espressione severa. «Non dovevi comportarti così, Clelia!» la ammonì severamente l’amica. «Ricordati che sei una sacerdotessa di Vesta e non una protettrice dei malfattori.»

«Quell’uomo era un cristiano, non un malfattore!» ribatté prontamente, senza riflettere.

«Non capisco dove sia la differenza», replicò l’altra. «Chi è responsabile dell’incendio di Roma e di crimini inauditi non può trincerarsi dietro il proprio blasfemo dio per giustificarli. Questi cristiani stanno attentando all’impero, Clelia, e meglio sarà riuscire a metterli a tacere in ogni modo, prima che la loro empia fede si diffonda ancora di più.»

Raggiunsero l’Atrium Vestae e riguadagnarono le stanze separate a cui erano state assegnate dopo la nomina. Non trascorse molto tempo che Cornelia mandò a chiamare Clelia. I toni con cui commentò il suo gesto furono severi e intransigenti. «Non azzardarti mai più a interessarti della sorte di un cristiano. Vuoi forse conoscere fin da adesso i piaceri del Campo Scellerato?»

Il solo nome fece rabbrividire la giovanissima sacerdotessa: era quello dell’orribile luogo dove, in segreti cunicoli sotterranei, venivano seppellite vive le vestali macchiatesi della colpa di avere mancato al voto di verginità.

L’istinto l’avrebbe indotta a ribattere, a difendere gli ideali di giustizia e di civiltà che si era sentita nascere nello spirito pur nel breve percorso della sua vita, ma preferì tacere e, chinando il capo, annuì.

L’ira di Cornelia sembrò placarsi di fronte alla sua sottomissione. «Lo considereremo soltanto un incidente dovuto alla tua giovanissima età», disse. «Tieni però ben presente che non ammetterò altri errori da parte di una Sacra Vergine Vestale.»

Clelia sentì le lacrime salire agli occhi, ma si impose di non darle ulteriore soddisfazione. Con il cuore gonfio di pena si congedò da lei, e soltanto quando fu sola nella sua stanza consentì libero sfogo allo sconforto. Aveva stranamente fisso negli occhi e nella mente lo sguardo del cristiano e le sue parole.

In vista della città di Luna.

Anno 830 dalla Fondazione di Roma.

[77 d.C. (N.D.T.)]

Si affacciarono dalla sommità di una collina coperta di verde e, lontano, videro risplendere di mille bagliori il mare. Il mare! Una vista che provocò in Giunio una profonda emozione. Laggiù, sotto di lui, si stendeva la sua terra. Si trattenne a stento dal gridare tutta la gioia che si era sentito montare in petto.

Dopo tanti anni passati in terre remote e inospitali, tra il gelo delle nevi e i picchi ghiacciati delle montagne, rivedere quel familiare luccichio di acqua e sole lo riportò con il pensiero all’infanzia, alla famiglia, ai vecchi amici del luogo.

Seguì con lo sguardo il corso del fiume che si snodava sotto di loro fino a versarsi nel mare. A poca distanza dall’estuario si stagliavano distinte le mura della città di Luna; già si scorgevano la grande struttura del Circo e, in posizione più elevata, il tempio di Venere.

A sud si perdeva una sottile striscia di sabbia; a nord, quasi d’improvviso, la costa si ergeva prepotente. Ancora più in là, nella sconfinata distesa d’acqua, le due isole compagne di tanti suoi sogni di bambino sdraiato sulla rena.

Aveva il cuore pieno di una gioia tumultuosa. Marzio gli si avvicinò senza che se ne accorgesse. «Capisco quello che stai provando, tribuno Giunio», disse. Furono le sole parole che pronunziò prima di comandare che si riprendesse la marcia e, questa volta, a passo veloce.

Poi si rivolse nuovamente al tribuno. «Prima di sera potrai riabbracciare i tuoi cari, Giunio», disse, rivolgendogli una di quelle espressioni di sincero affetto che il giovane aveva ormai imparato bene a riconoscere.

Gli sembrò che quella breve distanza fosse interminabile, ma finalmente, seguendo il corso tranquillo del Magra, il convoglio giunse in vista delle mura. Lontano, davanti al porto, si vedevano diverse navi da carico alla fonda, in attesa del loro turno per riempire le stive del prezioso marmo di Luna da trasportare in ogni angolo dell’impero.

Sapeva che un tempo suo padre usava rimanere nei campi fino al tramonto, sicché fece compiere al drappello una breve deviazione per verificare se ciò fosse ancora vero.

Al centro del ben noto campo coltivato, a circa mezzo miglio dalle mura, vide un grosso bue che spingeva un vallus.

Un uomo di corporatura alta ed eretta, nonostante gli anni, teneva la mano sinistra sulla cassa dell’attrezzo. I ganci ricurvi sistemati sul davanti del vallus raccoglievano legumi, foglie e piante all’interno della cassa; più tardi sarebbero state le donne a separare i baccelli commestibili dagli scarti.

Giunio spronò il cavallo verso la figura isolata, a cui le ombre del tramonto conferivano una particolare suggestione. Il vento tiepido di primavera gli batteva sul viso, sentiva l’odore del mare. L’uomo non si girò verso di lui, sebbene il suo galoppo fosse stato volutamente rumoroso.

«Cerco Giunio, vecchio!» disse il giovane non appena lo raggiunse, cercando di alterare la voce.

L’uomo si fermò, ebbe un attimo di esitazione, ma poi, sempre rivolto in un’altra direzione, rispose. «Sono sicuramente vecchio, e anche cieco, ma, grazie agli dei, non ancora sordo. Non riuscirai a ingannarmi così facilmente, legionario!»

Il giovane smontò rapidamente da cavallo, in preda a una commozione irrefrenabile. «Padre… Padre!» Furono le sole parole che riuscì a pronunciare, mentre le lacrime gli segnavano il volto temprato dalle battaglie. Il vecchio lo abbracciò con tenerezza, facendo scorrere a lungo le mani sul suo viso e sul corpo.

«Ti credevo impegnato a batterti contro i barbari, invece sento che non porti ferite né, gli dei ne scampino, mutilazioni. Qual buon vento ti riporta a casa, figliolo?»

La voce di Marzio, alle sue spalle, prevenne la risposta del giovane: «Il tribuno Giunio della città di Luna ha scelto di accompagnarmi a Roma e di diventare mio uomo di fiducia».

Gli occhi vacui del padre si girarono da quella parte, quasi potessero vedere la fonte da cui proveniva la voce autorevole. «Chi ha parlato?» chiese, puntando la testa verso di essa, ma in un atteggiamento strano.

Soltanto in quel momento Marzio capì di avere a che fare con un cieco; sceso da cavallo, si accostò al vecchio, spiegando. «Sono il legato Marzio, comandante della legione nella quale ha eroicamente combattuto tuo figlio, meritandosi la gratitudine mia e di tutto l’impero.»

Il vecchio, pur avendo a sua volta vissuto una lunga esperienza militare, non aveva mai avuto l’opportunità di scambiare una sola parola con un così famoso generale. Fece un cenno di sottomissione con la testa, ma le salde braccia del legato gli impedirono di inchinarsi.

«Marzio, la tua fama ti ha preceduto luminosa, consentendo anche ai miei occhi privi di luce di vedere le vostre gesta contro i germani, quasi fossi lì al vostro fianco, con l’arma in pugno come un tempo. Ho pregato a lungo che mio figlio non dovesse subire la mia stessa sorte, e che non venisse colpito dal nemico. Ma, dimmi, legato, dici il vero quando affermi che Giunio è un tribuno? Non menti?»

Espressioni irriverenti, ma il generale seppe capire l’incredulità di un uomo costretto a vivere al buio. «Certo, buon vecchio», rispose, «ha meritato sul campo e con il suo valore diverse promozioni, fino a raggiungere i gradi più alti e sedere al mio fianco, meritandosi non soltanto il mio rispetto ma anche il mio affetto.»

Le mani del padre vagarono per un istante nell’aria, incerte, prima di incontrare nuovamente il volto del figlio. A quel punto, vinto a sua volta dall’emozione e con un nodo in gola, il vecchio mormorò: «Quanto onore ci hai dato, figlio mio. Quanto orgoglio nutro per te… Tua madre… Dobbiamo andare a casa da tua madre… Non ha mai smesso di aspettarti».

Entrarono in città in formazione da parata; da ogni angolo le persone spuntavano sempre più numerose, pronte a festeggiare l’evento. C’era chi chiamava a gran voce il nome di Marzio, ma, non appena qualcuno riconosceva negli abiti di un alto ufficiale il concittadino Giunio, era il suo nome a risuonare alto per le anguste vie della città di Luna.

Il comandante della guarnigione locale, preoccupato per l’imprevisto movimento di truppe, si era fatto incontro al convoglio prima che raggiungesse le mura, scortato da un nutrito manipolo di uomini. Riconosciute le insegne, aveva però spronato alacremente il cavallo incontro ai combattenti tornati da tanto lontano, ansioso di organizzare un comitato di benvenuto che non lo facesse sfigurare di fronte al suo generale.

Giunio aveva fatto montare dietro di sé sul cavallo il padre, che adesso si teneva aggrappato saldamente alle sue vesti in preda a una gioia incontenibile. Gli gridava senza tregua negli orecchi: «Senti come chiamano il tuo nome, senti che accoglienza? È un grande onore per un vecchio, figlio mio, un grande onore».

Le truppe furono condotte fino allo spiazzo nei pressi del teatro, dove si sarebbero accampate per la notte. Poi, Marzio, Sestilio, Giunio e suo padre si diressero verso la casa di famiglia.

Non appena il giovane arrestò con perizia il cavallo, il genitore pretese di precederlo. «Non vorrei», disse, «che l’immensa gioia potesse avere pericolose ripercussioni sulla salute di tua madre, figlio.» Dovette individuare a tentoni lo stipite ma, una volta all’interno, si mosse come se ci vedesse.

Raggiunta la stanza dove la moglie trascorreva gran parte della giornata a cucire, non riuscì a nascondere la sua felicità. «Donna», annunciò, «credo che tu non possa immaginare chi è venuto…» Non poté finire la frase.

«Giunio!» gridò la madre e, abbandonati stoffe e fili, si precipitò fuori ad abbracciare il figlio.

Pianse a lungo, tenendolo stretto come se fosse ancora il bambino di tanti anni prima, accarezzandogli la testa e il viso con tanta dolcezza e amore da far comparire una punta di commozione anche negli occhi induriti da tante battaglie del generale.

«Sette anni lunghissimi, figlio mio», continuava a ripetere. «Sette anni interminabili in cui ho pregato ogni giorno gli dei che ti risparmiassero il buio dell’Averno.» Quindi, staccatasi finalmente dall’abbraccio, osservò attentamente il figlio. «Come sei stanco e sciupato, figliolo, ma… ma porti le vesti di un alto ufficiale!»

«È stato promosso al rango di tribuno, moglie», dichiarò il padre in tono solenne. «Nostro figlio è tribuno!» ripeté, non provando nemmeno a dissimulare l’intensa felicità.

«Questo, madre», riuscì finalmente a dire Giunio, indicando il suo generale, «è il legato Marzio, accompagnato dal tribuno Sestilio.»

«È un onore che un così valoroso generale visiti la nostra umile casa», rispose la donna, accennando una timida riverenza. Già stava percorrendo a una a una con la mente le stanze, timorosa che non fossero sufficientemente in ordine per ricevere due persone così eminenti.

Il clima di serena felicità sembrava avere contagiato anche Marzio e l’imperscrutabile Sestilio. Finita la frugale ma squisita cena, gli uomini rimasero nel triclinio. Il padre raccontò le sue avventure di veterano nelle legioni di Giunio Domizio Nerone. Indicando le ferite alle tempie, spiegò con profonda amarezza: «L’ultimo ricordo che ho della luce del sole è accompagnato dalla visione del volto feroce di un arciere nemico, che mi sta precipitando nel buio con la sua arma». Una freccia acuminata gli aveva infatti attraversato il cranio da parte a parte, all’altezza delle tempie, lasciandolo miracolosamente in vita ma irrimediabilmente cieco.

Era ormai tardi e la compagnia stava per congedarsi, malgrado la conversazione si fosse fatta sempre più piacevole, coinvolgendo tutti nel clima familiare della casa. Prima che si alzassero, il padre chiese licenza di consegnare una cosa al figlio e uscì con passo sicuro dalla sala, riapparendo dopo poco portando con sé un involto.

«Figlio», disse, «tu sai quanta importanza abbiano per noi e per la nostra gente queste piccole statue. Vorrei che riposassero a fianco dei tuoi Lari nella tua casa. Abbi cura di loro e proteggile. Loro proteggeranno te.»

E così detto consegnò l’involucro di paglia secca al figlio con gesti degni della solennità di un sacerdote. Giunio rimosse con cautela la paglia, anche per soddisfare la curiosità dei presenti.

Alla tenue luce delle lanterne apparvero le tre stele della Luna, luminose, sfavillanti. Tre singolari figure antropomorfe, un poco tozze, con la testa in forma di luna: la prima calante e la seconda crescente; la terza rappresentava la luna piena. L’oro massiccio con cui erano costruite non mostrava il segno dei secoli, sebbene fosse molto duttile e di un colore rossastro.

Quante volte le aveva viste. Quante volte ne aveva sentito raccontare la vicenda. Senza parole per l’emozione, Giunio tornò a riporle prudentemente nel loro involucro, quindi abbracciò il padre, sapendo benissimo che l’indomani lo avrebbe visto nella piazza dell’accampamento molto prima dello spuntar del sole, venuto lì per salutarlo.

Improvvisamente, con il sorgere del giorno, la città di Luna si animò. Sembrava che tutti fossero scesi in strada per rendere omaggio agli eroi dell’impero in partenza per la capitale.

Il convoglio aveva avuto ragione dell’impenetrabile ostilità dei monti, arrancando per superare passi impervi, inerpicandosi fin quasi ai limiti delle possibilità umane o scendendo cautamente per dirupi franosi. Sicché, adesso, la strada lastricata e pianeggiante che si trovavano davanti assomigliava ai loro occhi al placido corso di un largo fiume ove, comodamente sdraiati su di una zattera, si poteva lasciarsi trasportare dalla corrente.

I blocchi di pietra del selciato erano disposti con estrema precisione, con una perfezione di intarsi tale da ricordare un mosaico. La convessità del lastricato era stata accuratamente realizzata per favorire lo scolo delle acque piovane. Quanti uomini e schiavi dovevano aver lavorato a quell’opera e alle tante altre che testimoniavano la grandezza di Roma e il suo grado di civiltà.

Giunio era assorto in simili pensieri, quando sentì farsi più vicino lo scalpitare del cavallo di Marzio. «A che cosa pensi, tribuno?» gli chiese il legato.

«Sono felice, generale», rispose sincero il giovane. «Sono felice di poter vedere presto Roma, di aver potuto condividere le tue vittorie e che mi sia concessa la possibilità di lavorare al tuo fianco per il bene dell’impero.»

«Già», riprese Marzio. «Il bene dell’impero… Impegno tutt’altro che agevole, o privo di rischi. Nell’Urbe si fronteggiano schiere contrapposte di nemici giurati, che manovrano negli schemi di una politica ove tutto è lecito. La presenza di un militare al senato sarà tollerata, ma non certamente gradita: metterà in crisi gli equilibri preesistenti, già di per sé labili.» Così detto, Marzio fece una breve pausa, in preda a un’evidente inquietudine, ma lo sguardo curioso del suo interlocutore, ansioso di capire, lo indusse a continuare. «Sai quale credo sia l’unica vera differenza tra le nostre battaglie al fronte e la vita politica? Che in battaglia si può guardare il nemico negli occhi, mentre in politica questa facoltà non è concessa. Apparentemente tutti ti sono amici, ma nella realtà sono pronti a distruggerti con ogni mezzo. Non da ultimo, anche con un pugnale fatto vibrare da un sicario nella schiena.»

Per la prima volta, dopo l’attacco dei briganti, a Giunio tornò in mente in un lampo la visione, tra le loro mani, di quelle armi forgiate nelle officine imperiali. «Quei singolari aggressori con armi romane…» mormorò, dando voce alle proprie riflessioni.

Proprio in quel momento si accorse che Sestilio li aveva raggiunti come uscendo dal nulla, mettendosi a cavalcare alla sinistra di Marzio. Aveva evidentemente sentito, sembrò voler proporre una risposta logica per l’inquietante interrogativo: «Le avevano probabilmente sottratte a un nostro contingente», disse, con il tono di sufficiente onniscienza che usava spesso.

I destrieri marciavano affiancati alla testa del contingente, incrociando spesso carri o uomini a piedi che si fermavano sul ciglio della strada per levare con deferente rispetto il loro saluto non appena riconoscevano le insegne di un generale.

«Che cosa sono quelle statuette d’oro che ti ha consegnato tuo padre?» chiese Marzio a un tratto, dando voce a una curiosità che probabilmente nutriva dalla notte prima.

«Sono la cosa più sacra della mia città, vengono tramandate da secoli e secoli di padre in figlio e gelosamente custodite. Secondo la leggenda, alla morte del primo sommo sacerdote, quelle tre figure furono scolpite nella pietra per rappresentare le fasi della luna e tutti gli inesplicabili fenomeni ad esse connessi. Successivamente le tre statue sarebbero state tumulate assieme al corpo del sacro messaggero dell’Aldilà.

«Una notte Minerva sarebbe scesa nella tomba del sacerdote e lo avrebbe riportato in vita, conducendolo con sé come prezioso consigliere. Il mattino dopo le tre statue giacevano all’esterno del sepolcro; inesplicabilmente, non erano più scolpite nella rozza pietra ma in oro massiccio.

«I saggi della città disposero subito un’ispezione alla tomba: i sigilli risultavano intatti, ma il corpo del sacerdote non era più lì. Fu pertanto stabilito che le stele della Luna fossero assegnate in proprietà ai discendenti del sommo sacerdote — un mio antico avo -, che la dea aveva evidentemente voluto ripagare del fatto di aver loro sottratto il corpo mortale dell’eminente antenato.

«Si sostiene che siano dotate di poteri arcani e straordinari, e che sappiano salvaguardare il focolare presso cui sono conservate. In effetti, nel corso del tempo sono state sottratte diverse volte alla mia famiglia, ma, misteriosamente, sono sempre tornate di nostra proprietà.»

«Speriamo possano preservare anche noi dalla sventura», commentò a mezza voce Marzio. E le sue parole manifestarono ancora una volta come fosse importante il legame che si era venuto a formare tra lui e il giovane tribuno.

Sestilio mantenne un silenzio accigliato. Era roso dall’invidia, non poteva scopertamente sopportare il fatto che a lui, patrizio romano di antica stirpe, venisse preferito un qualsiasi provinciale di origini plebee.

Il convoglio percorreva circa novanta miglia al giorno, accampandosi per la notte e riprendendo il cammino alle prime luci dell’alba.

Secondo Giunio, quattro giorni di marcia sarebbero dovuti bastare per raggiungere la grande città imperiale, ma, quando Marzio gli rese noto il suo programma di viaggio, dovette correggere le proprie previsioni. «Faremo sosta presso la mia tenuta di famiglia a Ostia», disse una sera il legato, «in modo che uomini e animali possano riposare un paio di giorni e presentarsi in buon aspetto all’accoglienza trionfale. Nel frattempo tu, Giunio, compilerai un inventario accurato del tesoro. Insieme a Sestilio mi accompagnerai poi dall’imperatore, a cui comunicheremo il momento dell’arrivo del convoglio e la precisa consistenza del bottino, concordando con la sua augusta persona le modalità dell’ingresso in Roma.»

«Di solito», considerò il giovane, «è l’intera legione a marciare in parata nelle sfilate trionfali. È dunque un grande privilegio quello che ti viene concesso, Marzio.»

«È vero», riconobbe il generale, «sembra che si voglia tributare l’onore prevalentemente alla mia persona, più che all’operato complessivo delle nostre armate. Presumo che tutto questo rientri in un unico disegno, teso a ricomporre i dissidi che dividono la famiglia dei Flavii e altre legate ai Vitellii come la mia. Cercherò comunque di approfittare dell’opportunità per gettare le basi della mia candidatura al senato.»

Sestilio ascoltava sempre con la massima attenzione, anche se per converso sembrava calibrare con estrema cautela e precisione le parole dei suoi interventi. «A mio umile giudizio, comandante», disse, «è opportuno che tu proceda per gradi. Tieni nel giusto conto il fatto che, qualora la tua candidatura al senato dovesse fallire, il tuo avvenire politico sarebbe segnato, o comunque limitato in partenza.»

«Discendo comunque da una famiglia patrizia», replicò Marzio, «e i miei successi militari, ulteriormente amplificati dall’eco del trionfo, dovrebbero senz’altro garantirmi un seggio nella Curia.»

«In politica», riprese Sestilio con i suoi soliti modi di argomentare, insinuanti ma non per questo meno convincenti, «sai benissimo che niente è scontato. Personalmente ti consiglierei di frenare l’irruenza propria di noi militari e di agire con la massima cautela. A mio modo di vedere, una tua candidatura, preparata e rafforzata da un breve periodo di esperienza politica con risultati positivi, potrebbe essere più sicura.»

L’espressione di Marzio si fece pensosa; le argomentazioni del suo consigliere erano in buona misura condivisibili. Soltanto in buona misura, però. «Non posso certamente ricominciare tutto da capo e salire la scala degli onori partendo da edile o da questore per arrivare al senato soltanto tra dieci o venti anni, ti pare?» obiettò.

«Non era questo che pensavo, signore», precisò Sestilio. «Non intendo certamente sminuire l’eminenza della tua persona, ma non credi che essere uno dei duoviri di Ostia ti conferirebbe un credito più ampio presso la Curia, a maggior ragione avendo alle spalle una fortunata ed eroica carriera militare?»

Le sue parole stavano facendo breccia; i cenni di assenso di Marzio si andavano facendo sempre più frequenti. Quasi se ne sentisse spronato, il giovane patrizio incalzò: «La tua gens è originaria di quella città, vi ha diversi possedimenti e innumerevoli clientes. La carica di duovir dura soltanto un anno, e potrebbe comunque costituire un’esperienza utile. Ostia è una città importante, il fulcro dei commerci di Roma, il maggiore porto dell’impero, sicché, a mio modesto giudizio, potrebbe rappresentare un giusto piedistallo da cui mettere in luce le tue qualità politiche».

Così detto, Sestilio osservò di sottecchi Marzio: sapeva che le sue parole si sarebbero fatte strada nel suo spirito, arrivando a segno. A Giunio, nella sua limitata esperienza, sembrava che avessero una logica perfetta. Un anno, pensò, non è poi un periodo così lungo.

Roma imperiale. Atrium Vestae. Anno 828 dalla Fondazione.

[75 d.C. (N.D.T.)]

Gli anni erano trascorsi lentissimi, tediosi. La vita delle vestali era di una monotonia soffocante: la cura diuturna del fuoco sacro, le preghiere nel tempio; ogni mese di giugno la meticolosa organizzazione delle Vestalia, le festività della Dea. Otto giorni durante i quali corso il penus, la parte più interna del tempio, veniva sottoposto a solenne pulitura. Le immondizie venivano portate via per essere gettate nelle acque del Tevere, l’edificio veniva purificato con acqua sorgiva, la macina della mola e l’asino che la manovrava venivano ornati con corone. Finché, alla metà del mese, non arrivava il giorno contrassegnato dai calendari con la sigla QSDF, ovvero Quando Stercum Delatum Fas: lo «sterco», il sudiciume, era stato rimosso; in tutta la città, come nel tempio di Vesta, riprendevano le attività normali.

Tutto ciò inframmezzato — e via via più di frequente con il crescere di Clelia e Gaia — dal dovere di partecipare a una serie di manifestazioni pubbliche, dalle cerimonie solenni ai cruenti giochi del Circo. Ma costantemente sotto lo sguardo arcigno della Vestale Massima, sempre pronta a richiamare con durezza all’ordine le giovani sacerdotesse.

Clelia, ormai diciassettenne, sembrava non sapersi adattare a quel genere di reclusione; le capitava spesso di lasciar vagare la mente in confusi sogni di libertà. Le rare volte che ne aveva occasione, osservava con un doloroso senso di invidia le coetanee intente al complicato gioco dell’adolescenza, fatto di passioncelle e curiosità, per quanto futili e frivole.

«Che strano», rifletteva tuttavia, «magari lo stesso sentimento lo provano loro nei miei confronti, sacra sacerdotessa di Vesta, tutta presa da gravi cure.»

Singolarmente, nei momenti di più profondo sconforto, quando le sembrava impossibile continuare in quella finzione ma non osava confidare le pene del suo spirito nemmeno a Gaia, l’unica cosa che sembrava poterla consolare era il ricordo degli occhi del vecchio cristiano, così pieni di luce e di gratitudine.

Pensava con quanto coraggio quell’uomo era pronto ad affrontare la morte per il suo dio e, per contro, alle difficoltà che incontrava lei nel vivere una vita vissuta sì nel nome di una divinità, ma ricca di privilegi.

Dove trovavano origine, su quale misteriosa forza si basavano la tersa luminosità dello sguardo di quel vecchio, l’evidente incrollabilità della sua convinzione?

Fu Gaia, un giorno, a confidarle: «Ho saputo da un edile, mio cugino, che quel vecchio Valeriano è ancora chiuso nelle segrete delle carceri, dove, contro ogni logica, sopravvive ad angustie indescrivibili, capaci di uccidere uomini ben più gagliardi e forti di lui».

Clelia fece finta di non prestare grande attenzione alle parole, ma si sentì riempire di un’emozione tumultuosa e giurò a se stessa che avrebbe cercato in ogni modo di incontrare ancora una volta il vecchio. Costasse quel che costasse. Doveva sapere. Capire.

Città di Ostia. Anno 830 dalla Fondazione di Roma.

[77 d.C. (N.D.T.)]

Giunsero in vista della città portuale quando il sole era ormai prossimo al tramonto. Gli uomini erano stanchi, ma fu ugualmente deciso di continuare la marcia fino alla dimora di famiglia del generale. I possedimenti di Marzio furono raggiunti a notte fonda e venne disposto che il campo fosse eretto su un’altura a circa mille passi dalla casa.

Dalla posizione in cui si trovava, Giunio poté osservare tutto lo sviluppo del perimetro della villa: non aveva mai visto niente di simile ed era convinto che niente potesse essere più magnifico e spettacolare.

Marzio si assicurò che la truppa fosse accudita dagli schiavi, accorsi in massa per salutare il ritorno del loro signore, poi chiese ai due tribuni di accompagnarlo alla villa, dove avrebbero passato la notte.

L’edificio sorgeva a poca distanza dal mare ed era protetto da un alto muro di cinta costellato di garitte equidistanti tra loro. Lungo la parte anteriore, al piano terreno, correva un grande porticato che dava su di un giardino perfettamente curato.

Le oltre quindici arcate sorreggevano, al primo piano, un loggiato, anch’esso aperto sul giardino, sul quale si affacciavano le stanze dell’appartamento padronale. Ai lati dell’edificio principale si estendevano orti e appezzamenti coltivati, che continuavano anche al di fuori della cinta murata. A poca distanza dalla casa padronale sorgeva il quartiere rustico dove venivano spremuti gli oli e le uve, accuditi i cavalli nelle scuderie, preparati i formaggi e immagazzinati raccolti e sementi.

Ogni locale della villa, dall’impluvio al triclinio, dal peristilio all’atrio, era riccamente decorato con pitture murali e stucchi. La maggior parte dei pavimenti erano in mosaico dalle azzurre tonalità del mare.

Quasi sapesse leggere i pensieri del giovane ospite e comprendesse la sua meraviglia, Marzio spiegò: «Questa è la dimora della mia famiglia. Sarà la nostra isola di tranquillità quando, una volta stabiliti a Roma, torneremo qui per rilassarci e riprenderci dalle fatiche della politica».

Il fattore che curava gli interessi di Marzio durante le sue interminabili assenze manifestava apertamente la gioia di essere di nuovo al fianco del padrone. Organizzò in brevissimo tempo una cena sontuosa.

La serata fu trascorsa in piacevoli conversazioni, sempre in compagnia del fattore, nei confronti del quale il padrone di casa manifestava un affetto paterno, ricambiando le sue appassionate spiegazioni circa i miglioramenti dei raccolti con racconti delle imprese militari sue e dei suoi ospiti. Soltanto a notte fonda la compagnia si ritirò nelle stanze assegnate: finalmente in un letto.

Non disturbato dai rumori dell’accampamento e dal senso di attiva preoccupazione che essi sempre suscitavano nel suo spirito improntato alla disciplina militare, Giunio si svegliò molto tardi. Scese nel cortile dove era stato sistemato il tesoro, guardato a vista da venti uomini, e iniziò il non facile lavoro dell’inventario.

Pur con l’assistenza di quattro uomini fidati, l’impresa richiese quasi due giorni interi. Concluso il lavoro, Giunio confrontò l’inventario appena compilato con quello redatto alla data della partenza. Rimase interdetto. Verificò il tutto una prima e poi una seconda volta. Lo stupore non poté che aumentare. Dall’ultimo carro sigillato mancavano settantacinque libbre d’oro, per un valore di circa trecentomila sesterzi. Una cifra enorme.

Quando fu messo al corrente della scoperta, Marzio si informò dello stato di chiusure e sigilli, ma nel complesso cercò di minimizzare, addebitando la differenza, più che a un furto, a una trascrizione affrettata e quindi errata al momento del primo inventario. In effetti, la pur rilevante somma significava molto poco rispetto al valore dell’intero bottino, che superava i trenta milioni di sesterzi.

«Ecco», disse quella sera stessa, «adesso siamo pronti per recarci al cospetto di Vespasiano.» Il mattino seguente, scortati da trenta uomini a cavallo, il legato e i due tribuni partirono alla volta della città imperiale.

Nel corso di una delle tante veglie serotine attorno ai fuochi del campo, celebrando con espressione sognante le bellezze di Roma, Marzio aveva chiesto a Giunio se l’avesse mai visitata. Alla risposta negativa del giovane ufficiale, gli aveva battuto allegramente una mano su una spalla e gli aveva profetizzato: «Bene, tribuno, ti assicuro che avrai di che meravigliarti». Mai profezia avrebbe potuto corrispondere di più al vero.

Tra le due strade che da Ostia portavano a Roma, il legato aveva scelto quella a sud del Tevere, molto meno ingombra di traffico di quella settentrionale, che puntava direttamente sul porto. «In questo modo», aveva spiegato, «raggiungeremo la capitale e il Foro con un notevole risparmio di tempo.»

Varcate le imponenti mura della città, dopo aver superato gli accampamenti di diseredati e piccoli commercianti che soggiornavano fuori della cinta, davanti agli occhi di Giunio si presentò uno spettacolo straordinario. Un reticolo di vie, in tutto e per tutto simile a un labirinto, si snodava tra case in mattoni alte quattro o cinque piani, le insule. Se avesse perso il contatto con la sua eminente guida, non sarebbe sicuramente mai riuscito a ritrovare da solo la strada del ritorno.

Non aveva mai visto niente di simile. Continuava a girarsi da una parte e dall’altra, frastornato, osservando con gli occhi sgranati la vita che si svolgeva tutto attorno a lui. Botteghe e taverne a ogni passo, zeppe di persone intente alle compere o a oziare beatamente in compagnia. Marzio cavalcava al suo fianco e, tenendo l’animale al passo, gli illustrava pazientemente le cose degne di nota: «La popolazione censita è di quasi un milione di persone», disse, «ma penso che in realtà ammonti a quasi il doppio. Per questo le strutture urbane sono in costante sviluppo, soggette a continue modifiche per rimanere al passo con le nuove esigenze della popolazione».

Via via che procedevano accanto a un’interminabile sfilata di monumenti e templi, ne descrisse le origini e la destinazione. Improvvisamente si parò loro davanti un’immensa arena. Senza attendere domande e indicando i cavalli che sputavano schiuma dalla bocca e dalle nari, Marzio spiegò: «È il Circo Massimo, giovane amico. Sai bene qual è la sua destinazione prevalente. Nei suoi vari ordini di posti può ospitare quasi trecentomila persone».

Fu poi la volta di un cantiere, dove si intravedevano le fondamenta di una grande struttura ellittica. «Quello è il nuovo anfiteatro voluto da Vespasiano», continuò il legato. «Sarà prevalentemente destinato ai combattimenti tra uomini. Nella valle dove adesso vedi il cantiere e sui colli Oppio e Celio che la racchiudono, Nerone, al culmine della sua follia, aveva voluto che gli venisse riservata una superficie enorme, dove aveva edificato la sua residenza, la Domus Aurea. Ho avuto modo di visitarla prima che venisse rasa al suolo nel tentativo di cancellare ogni ricordo dell’imperatore folle. Non puoi avere idea dello sfarzo sfrenato che regnava al suo interno.»

Lasciati i cavalli e la scorta a poca distanza dal tempio di Venere, finalmente raggiunsero il Foro. Giunio non poté fare a meno di confrontare le strutture e le dimensioni degli edifici sacri e degli stadi che andava via via incontrando con gli unici termini di confronto a sua conoscenza: il tempio di Venere, il Foro e il teatro della città di Luna. Non era davvero possibile fare paragoni.

Il movimento frenetico nella piazza del Foro si faceva ancor più caotico. Ovunque si vedeva un autentico turbinare di persone indaffarate in mille occupazioni, che passavano da questo a quell’edificio pubblico, o parlavano animatamente raccolte in piccoli crocchi, o si aggiravano sul lastricato di marmo.

Il modo incantato, quasi ammaliato, in cui Giunio girava continuamente la testa, soffermandosi ad ammirare ogni cosa, aveva già suscitato più di un moto di stizza in Sestilio, che ormai lo trattava apertamente alla stregua di un campagnolo ignaro di qualsiasi uso di mondo. Giunio se ne accorse, ma non si adontò. Il giovane patrizio aveva ragione: le uniche cose grandiose che avesse mai visto erano le vette delle Alpi.

Marzio, invece, sembrava orgoglioso di potergli mostrare gli splendori dell’Urbe e continuava a non lesinare le spiegazioni, qualsiasi fosse la struttura o l’oggetto che attirava lo sguardo del suo affascinato pupillo.

«L’altura che vedi di fronte a noi», disse, «è il colle del Campidoglio, con i templi di Giove e Giunone. In basso, sotto il Tabularium, ci sono invece quello della Concordia e quello di Vespasiano, appena ultimato. A destra, nel tempio di Saturno, viene custodito l’immenso tesoro dello stato. Migliaia e migliaia di libbre d’oro e argento, Giunio. Pietre preziose e monete per milioni e milioni di sesterzi.»

Quindi compì una rotazione completa del busto e continuò nella spiegazione: «Quello, invece, è l’arco di Augusto, fatto erigere dal senato per celebrare la restituzione delle insegne legionarie catturate dai parti. Proprio sotto quell’arco sfileremo nei prossimi giorni, e il mio nome sarà scolpito nella lapide interna, accanto a quello di tanti altri eroici condottieri». La sua voce aveva assunto toni di un’euforia che a Giunio risultava completamente nuova ma del tutto comprensibile.

«All’interno di quel tempio rotondo, dedicato a Vesta, arde il fuoco sacro», proseguì, mentre dirigevano verso il Palatino. «E quelle costruzioni sono le sedi dei pubblici uffici e dei tribunali.»

E finalmente, abbandonata la piazza del Foro e percorsa la via Sacra, il terzetto raggiunse la residenza dell’imperatore, sul cui monumentale ingresso dovette passare tra una lunga, doppia schiera di guardie e sottostare al controllo dei pretoriani, che procedettero alla loro identificazione e si accertarono che fossero attesi da Vespasiano, dopo di che ordinarono a due militari di condurre gli ospiti al cospetto del sovrano. Attraversarono sale sfarzose, con fontane zampillanti e colonne. Ogni cosa sembrava concepita per esaltare il potere dell’imperatore. Al centro esatto della residenza si trovava un immenso peristilio rettangolare, delimitato da un portico in marmo numidico, i cui capitelli corinzi sembravano capaci di sorreggere il mondo come Adante. Al centro spiccava una grandiosa fontana a forma ottagonale, tra i cui alti giochi d’acqua si distingueva un blocco statuario in bronzo ricoperto d’oro. Le fattezze delle divinità che lo componevano ricordarono a Giunio certi busti che aveva visto anche agli estremi confini dell’impero: vi erano raffigurati l’imperatore e i suoi figli Tito e Domiziano.

Giunsero infine di fronte a una porta in bronzo, davanti a cui stazionavano due littori con i grandi fasci armati tra le braccia. Al loro arrivo si spalancò di scatto; sentirono uno schiavo annunziare con voce stentorea i loro nomi. Furono introdotti in un’immensa sala, non coperta da una volta a cupola ma con diverse capriate che sostenevano uno sterminato soffitto a cassettoni, decorato con dipinti ricorrenti dai colori tenui; nelle pareti mirabilmente affrescate dominavano invece i toni purpurei, ocra e i verdi accesi.

Vespasiano imperatore sedeva in fondo alla sala, a più di quaranta passi dall’ingresso, su un trono coperto di seta arabescata; alla sua destra era assiso il collaboratore più fidato: il figlio Tito. Nella sala si trovavano altri cinque uomini, che Giunio comprese essere senatori dal laticlavio.

Quante cose nuove. Persino troppe. Ricordò improvvisamente le parole del suo signore circa la diversità dei rischi che si possono correre in battaglia e nella vita politica, dove essi possono essere infinitamente più sottili e subdoli.

Accolto il loro reverente inchino, l’imperatore prese subito la parola, rivolgendosi con solennità a Marzio: «Legato dell’impero», disse, «ho appreso dei tuoi valorosi successi sul Reno, che fin dai tempi del divino Augusto sembrava costituire l’estremo limite nordorientale dell’impero di Roma. Oggi, invece, grazie a te, so che così non è. Da quanto mi risulta, le legioni al tuo comando hanno ampliato i territori di Roma per centinaia di miglia, costringendo alla sottomissione popoli feroci e ribelli che costituivano una grave minaccia per la romanità. La conquista di città e territori ha già fruttato cospicui bottini, e mi risulta che ulteriori tesori mi sono recati in dono da te. Per il tuo valore, Publio Marzio, ho deciso ti venga tributato l’onore del trionfo militare, che sarà celebrato da oggi a…» — si girò verso Tito, che gli suggerì la data — «da oggi, dicevo, a dodici giorni. Così ho deciso». La faccia dell’imperatore era arrossata dallo sforzo di parlare a voce così alta, onde rendere più solenne il suo dire e farlo amplificare dalle volte della sala.

La conclusione del discorso equivaleva comunque a un congedo, sicché, disciplinati, non appena Marzio ebbe consegnato nelle mani di Tito una copia delle dodici pergamene dell’inventario meticolosamente stilato da Giunio, i tre lasciarono la sala delle udienze.

«Chissà», pensò il giovane, reso sfrontato dalla sua stessa ingenuità e inesperienza. «Chissà che tutto quel luccicare di gemme non addolcisca un poco la tua freddezza, divino Vespasiano. Dal canto mio», non poté trattenersi dal concludere, «sarei pronto a giurarci.»

Mai avrebbe immaginato di poter provare così poco timore reverenziale al cospetto di un imperatore. Ma nella sua memoria si affollavano troppi aneddoti irriverenti sentiti raccontare nelle camerate ai margini dell’impero. Il giovane edile Vespasiano che, reo di non aver fatto pulire adeguatamente le strade dalla spazzatura, viene coperto di fango dai soldati per ordine di Caio Cesare. Il proconsole Vespasiano che, durante un viaggio in Acaia, si addormenta e russa sonoramente mentre il divino imperatore Nerone canta, suscitando la sua furibonda rabbia e cadendo in pericolosa disgrazia. L’imperatore Vespasiano che, dietro ansiosa richiesta di un cieco, gli sputa negli occhi per fargli recuperare la vista, secondo una prescrizione ricevuta in sogno da Serapide.

Ma anche il rude e valoroso soldato che, infuriato, scaccia dalla propria augusta presenza un giovane prefetto, colpevole di prestare più attenzione ai profumi che al rispetto della disciplina: «Avrei preferito che puzzassi di aglio», si diceva gli avesse gridato, revocandogli il grado… Giunio si scoprì a ridacchiare, tanto da doversi portare una mano davanti alla bocca.

Furono accompagnati fuori della residenza dai cinque senatori, uno dei quali, quando furono di nuovo per strada, si accostò senza ambagi al legato. «Publio Marzio», disse, «sono il senatore anziano Menenio. Consenti che ti esprima la mia gratitudine per quanto hai fatto.» Quindi, ascoltate a stento poche parole di ringraziamento dell’altro, riprese immediatamente con uno strano lucore negli occhi: «Ai miei orecchi è giunta la voce che vorresti rientrare a Roma per dedicarti alla vita politica. È vero?»

Marzio sembrò disorientato dall’immediatezza della domanda; gli erano con ogni probabilità tornate alla mente le parole di Cesare: «La fama viaggia più veloce del vento, precedendo spesso gli avvenimenti».

«Niente è ancora deciso», rispose finalmente, «ma non ti nascondo che mi farebbe piacere poter essere di nuovo utile alla comunità.»

«Sappi, nobile generale», replicò il senatore, «che nel consesso che presiedo ci sarà sempre posto per persone del tuo valore.» Quindi alzò il braccio destro in segno di saluto e si allontanò rapido come era arrivato, accompagnato dai colleghi togati. I tentacoli della politica cominciavano evidentemente a tendersi prima ancora che l’eroe di tante battaglie combattute in nome dell’impero si fosse affacciato sul suo insidioso percorso.

Sestilio aveva mantenuto un silenzio enigmatico, che ruppe tuttavia d’improvviso, mentre il terzetto stava per riguadagnare i cavalli, con una proposta singolare: «È ancora presto, mio generale; perché non ci fermiamo in qualche taverna a festeggiare l’evento?» Fatto davvero strano, per un uomo perennemente assorto nei calcoli della convenienza.

Marzio scosse la testa, senza lasciar intendere i suoi sentimenti. «No», rispose seccamente. «Avremo tempo e modo di festeggiare una volta concluso il trionfo.» E senza ulteriori commenti montò la sua cavalcatura.

«Be’», insistette il tribuno, «perché, allora, non conduciamo il tribuno Giunio alla tua dimora di città, in modo da potergli mostrare gli infiniti altri splendori dell’Urbe?»

Giunio non poté non stupirsi del repentino cambio di atteggiamento da parte di Sestilio, che fino a quel momento era parso profondamente annoiato dallo svolgersi degli eventi, forse infastidito dallo scarso interesse rivolto alla sua persona, e che adesso invece insisteva per continuare la visita di Roma. A beneficio del giovane collega d’armi, per di più. Ancora non guastato dalle tortuose logiche della capitale, Giunio non volle prestarvi attenzione più di tanto. Attribuì il cambiamento di modi di Sestilio alla soddisfazione di essere arrivato al cospetto dell’imperatore, per di più alla presenza di un gruppo di senatori.

«Va bene», concluse non meno seccamente Marzio. «Allungheremo un poco la strada e passeremo davanti all’antica dimora della mia famiglia per rientrare a Ostia lungo la via settentrionale.» E pungolò immediatamente il cavallo.

Oltrepassato il Tevere su uno dei tanti ponti monumentali che lo sovrastavano, Marzio indicò a Giunio, tra molte altre ville, la casa patrizia della sua famiglia. Non sostarono tuttavia che pochi istanti, dopo di che proseguirono verso il mare incuneandosi bravamente tra il traffico commerciale diretto al porto, che, nonostante la loro perizia di cavallerizzi, frenò non poco il loro passo.

Giunti in vista della villa con notevole ritardo sul previsto, la singolarità di un fatto li avvertì immediatamente che qualcosa non andava: sopra il muro di cinta non si vedeva alcuna sentinella. Li prese un gelido senso di preoccupazione. Il presentimento di una tragedia andò facendosi più concreto a mano a mano che, avvicinandosi, sempre più chiaro appariva che la casa era deserta. Anche negli orti non ferveva la solita animazione degli schiavi intenti alla cura delle coltivazioni.

La spiaggia davanti alla villa era preclusa al loro sguardo da un avvallamento. Senza dire una sola parola, Marzio spronò il cavallo, immediatamente imitato dagli altri due. Superato di slancio l’avvallamento, ai loro occhi si presentò uno spettacolo di desolazione. L’accampamento mostrava tutti i drammatici segni di un assalto. Gli uomini lasciati di guardia vagavano come disorientati, brandendo armi ormai inutili. Alcuni di essi indicavano una vela all’orizzonte.

Sulla spiaggia si vedevano tre carri. Le loro ruote, insabbiate, avevano evidentemente impedito agli assalitori di trafugarli. Dalle cinte di ferro che rinforzavano i cassoni appariva chiaro che erano parte dei carri del bottino. E gli altri?

Un ufficiale si fece loro incontro e, confuso e concitato, riferì l’accaduto. Poco dopo la loro partenza per Roma, una flottiglia di piccole imbarcazioni da pesca aveva cominciato a incrociare nel tratto di mare davanti alla casa. Sembravano pescatori intenti a una battuta, nessuno aveva prestato loro grande attenzione; nemmeno quando si erano accostati a riva per tirare le reti. Al di là di esse era apparsa una grossa nave, con la balconata sovrastata da un grande aplustro in forma di cigno, che aveva ammainato le vele a poca distanza dalla costa.

L’ufficiale era con il resto della guarnigione all’interno dell’accampamento e, come tutti gli altri uomini appostati sulla collina, si era reso conto che stava succedendo qualcosa di grave soltanto quando aveva scorto i carri aggiogati correre sulla sabbia. Si era precipitato armi in pugno verso il mare, ma troppo tardi. Abbandonati senza indugi sulla sabbia i carri insabbiati, i falsi pescatori avevano assicurato ciascuno degli altri a due barche da pesca disposte parallelamente ai loro lati.

Gli oltre duecento legionari non avevano potuto fare niente di più che rimanere lì a guardare le imbarcazioni che si allontanavano con larghissima parte del tesoro destinato all’imperatore, che era stato caricato sulla nave, pronta a prendere immediatamente il largo.

«Gli uomini nella villa… che sorte è toccata al corpo di guardia?» gridò Giunio, già presagendo la portata della tragedia.

L’ufficiale scosse la testa, sconsolato, e la smorfia del suo viso diede conferma ai più tristi presagi.

Quando raggiunsero la casa, attraverso il portale di bronzo spalancato, ai loro occhi si presentò un orribile spettacolo di morte e devastazione. Le tre sentinelle poste a guardia del muro perimetrale erano state trafitte da frecce precise, che le avevano falciate spietatamente senza lasciare loro alcuna possibilità di dare l’allarme.

Gli assalitori erano dunque penetrati nella cinta, infierendo sugli altri difensori, colti completamente alla sprovvista. Erano tra i migliori uomini scelti da Giunio: il fatto che giacessero riversi e orrendamente mutilati testimoniava la crudeltà ma soprattutto l’esperienza degli assalitori.

Giunio vide il suo generale inginocchiarsi accanto a un corpo coperto di sangue. Non si accorse subito che si trattava di una donna. La moglie del fattore. Poco più in là videro lo stesso fattore, trafitto da un giavellotto che, dopo averlo colpito e trapassato da parte a parte, si era conficcato profondamente in una porta di legno, inchiodandovelo ancora ritto. E adesso il fedele servitore sembrava guardarli con gli occhi sbarrati e una chiazza di sangue rappreso sul petto tutto attorno all’asta assassina.

Almeno cinquanta schiavi erano stati rinchiusi, sotto la minaccia delle armi, all’interno del magazzino del grano. Altrettanti giacevano a terra accanto ai corpi dei legionari. Nel giardino della casa non c’era più traccia del tesoro dei barbari.

I saccheggiatori non avevano limitato il loro scempio all’esterno della casa, ma avevano razziato tutte le stanze. Con un tuffo al cuore, Giunio si precipitò verso la cassapanca dove aveva riposto le stele d’oro della Luna, nella camera da letto che gli era stata assegnata. Quando vide che non erano più lì, la sua angoscia si fece infinita. Il loro singolare destino di scomparse e ritrovamenti sembrava volersi ripetere all’infinito.

Quella notte, adempiuto al triste compito di dare sepoltura ai morti, nessuno riuscì a prendere sonno. All’alba le ultime speranze di rientrare in possesso del bottino di guerra parvero cadere. Avevano subito mandato un plotone al porto, per far salpare due navi in caccia degli assalitori, ma un messaggero rientrò alla villa riferendo che, nonostante le ricerche, quella dei predatori, pur così riconoscibile, sembrava essersi dissolta nel nulla.

Le ricerche sarebbero comunque continuate per altri due giorni, ma le possibilità di individuare i fuggitivi nel mare erano ormai molto scarse.

Giunio non riusciva a darsi pace; gli sembrava impossibile che gli assalitori si fossero dileguati senza lasciare traccia. Il luogo migliore per iniziare le indagini non poteva che essere il porto di Ostia: avrebbe interrogato gli equipaggi di tutte le navi in arrivo, chiedendo se avessero incrociato un vascello con un grande cigno a poppa. Chiunque lo avesse avvistato non avrebbe mai potuto scordarselo.

Poco dopo già si stava aggirando tra le taverne affacciate sul molo principale, in cerca degli equipaggi in attesa di un ingaggio, ma soprattutto di quelli occupati a ritemprare con il vino le fatiche di un viaggio appena concluso.

Era prostrato. La notte insonne e la tensione, unite al profondo sconforto per la perdita delle Pietre della Luna — cimelio tanto prezioso per la sua famiglia, che glielo aveva affidato -, pesavano sul suo fisico più di quanto avrebbe mai potuto immaginare.

Per quanto girasse, scrutasse e interrogasse, nessuno sembrava aver incontrato gli assalitori. Sconsolato, stava per abbandonare le ricerche, quando la sua attenzione venne richiamata da due uomini in vesti dimesse, seduti a un tavolo appartato in una taverna sgangherata.

Due volti alla cui vista sentì il sangue montare alla testa e le gambe, suo malgrado, piegarsi. Uno di essi era il senatore Menenio. Ascoltava con i crudeli lineamenti da falco torti in un’espressione torbidamente soddisfatta. Quanto all’altro, che parlava animatamente, non avrebbe mai potuto non riconoscerlo: era Sestilio.

Giunio si nascose dietro lo spigolo scrostato della porta e rimase lì qualche istante, cercando di recuperare il fiato e la capacità di riflettere. Che cosa ci facevano in quel luogo, chiaramente mascherati sotto vesti dimesse procurate chissà dove e da chi, quei due ambigui individui?

Impostesi calma e cautela, si dileguò in silenzio prima che i due si accorgessero di lui. Come comportarsi? Decise che per il momento era prematuro rendere partecipe Marzio della sua singolare scoperta: quell’incontro poteva essere frutto del caso, assolutamente nulla lo legittimava a esternare i suoi sospetti.

Rientrato alla villa, apprese che il generale, prima di mettere l’imperatore al corrente dell’accaduto, aveva deciso di aspettare il rientro degli inseguitori, ma che poi, caduta anche l’ultimissima speranza di recuperare i quattro carri trafugati, aveva deciso di recarsi immediatamente a Roma per chiedere udienza a Vespasiano.

L’imperatore lo ricevette senza farlo attendere. Sicuramente era già stato informato dell’accaduto, ma, sentendosi raccontare i dettagli dell’imboscata, finse ugualmente stupore.

«Così vorresti dire», tuonò, «che più della metà di un bottino appartenente al popolo di Roma ti è stato sottratto per la negligenza tua e dei tuoi uomini?» Sulla sala calò un silenzio minaccioso. «Non posso accettarlo», proseguì Vespasiano. «Dispongo pertanto che il trionfo che avrebbe dovuto celebrare le tue gesta venga annullato, anche se la mia magnanimità mi impone di tenere ugualmente conto delle tue valorose imprese. Ritieniti graziato dall’accusa di alto tradimento e inchinati alla mia persona, ringraziando gli dei che mi hanno ispirato nel farti salva la vita.»

Non occorreva altro. Dopo tanti anni passati al servizio di Roma, dopo interminabili battaglie e sacrifici inenarrabili, sotto sole, pioggia, tempesta e neve, dopo avere visto tanto sangue e avere versato in più occasioni anche il proprio, il legato Marzio era un uomo finito agli occhi di ogni romano. L’umiliazione che provava lo spinse a non tentare nemmeno una difesa. S’inchinò meccanicamente e abbandonò la stanza.

Quando Giunio tornò alla villa, dopo aver effettuato un ulteriore, ostinato giro di indagini infruttuose al porto, né Marzio né Sestilio, che non appena informato della partenza del generale per Roma si era precipitato a seguirlo, erano ancora rientrati.

Imponendosi di superare ogni scrupolo, si insinuò di nascosto nella stanza di Sestilio e rovistò con metodo tra le sue cose. Ma che cosa cercava? Che cosa avrebbe potuto trovare per dare corpo alle sue supposizioni? Perché di supposizioni si trattava, e niente di più, si ripeté più volte; probabilmente generate dalla scarsa simpatia che Sestilio manifestava apertamente per lui, dal suo tono di sufficienza, persino dal suo elegante latino di cittadino di Roma, tanto diverso dal suo, greve di inflessioni provinciali.

Scuotendo la testa, scontento di se stesso, decise di smettere con quella follia. Doveva mettere da parte ogni dubbio, ogni dissapore personale; di Sestilio doveva fare un alleato nelle ricerche. Stava per mettere la mano sulla pesante maniglia della porta, quando sulla parete opposta notò una cassapanca in cui, nella concitazione del momento, non aveva guardato. Ancora una volta mise da parte gli scrupoli e l’aprì. Come aveva ispezionato tutta la camera, poteva ispezionare anche quella.

Nella cassapanca aperta, come prevedibile, non vide che gli indumenti di Sestilio. Ma sul fondo, in un angolo, un lieve bagliore metallico colse il suo sguardo. Infilò la mano tra il legno e gli indumenti. Quando la ritirò, stringeva un piccolo disco di bronzo. Portatolo accanto a una finestra, lo osservò attentamente. L’effigie a rilievo che recava era una copia identica del sigillo che si vedeva sull’anello di Marzio. Che cosa poteva significare? A quale uso era destinato quel dischetto di bronzo? A ingannare quali occhi? E, se di eventuali inganni si poteva parlare, anche il mistero dell’oro mancante avrebbe forse potuto cominciare a mostrare contorni più definiti. E Sestilio poteva non essere estraneo ai due sanguinari attacchi subiti dal convoglio. Possibile?

Inutile vivere di dubbi. Decise che, appena fosse riuscito a rimanere solo con Marzio, lo avrebbe informato delle sue scoperte, fossero o non fossero soltanto supposizioni.

Rientrato sul far della sera, il generale gli raccontò l’esito dell’incontro con l’imperatore. Nessuno avrebbe potuto riconoscere in lui lo spavaldo condottiero, il vincitore di tante battaglie sui limiti estremi dell’impero. La sua proverbiale forza indomita, la saggezza che lo aveva fatto amare da migliaia di soldati sembravano dissolte.

Purtroppo, però, fino al momento di ritirarsi ciascuno nelle proprie stanze, Sestilio non li abbandonò nemmeno per un istante, sicché Giunio non ebbe modo di esternare i suoi sospetti. D’altra parte, gli sembrava veramente poco opportuno, per non dire inutile, dare ulteriori preoccupazioni a Marzio proprio quella sera. «Domani», pensò, «avrò tutto il tempo di restare solo con lui.»

All’alba, invece, fu svegliato di soprassalto da uno scalpiccio di cavalli al galoppo. Uscito dalla stanza, si affacciò al loggiato che dava sul giardino. Due pretoriani, accompagnati da dieci guardie imperiali, stavano varcando la cinta. Scese al piano inferiore per riceverli, accorgendosi che anche Marzio, inquietato dalla visita, si era a sua volta precipitato in giardino.

«Chi di voi è il tribuno Giunio?» chiese uno dei pretoriani.

Giunio si fece avanti e quello continuò con voce stentorea: «Abbiamo l’ordine dell’imperatore di condurti a Roma».

Cercò di chiedere spiegazioni, di conoscere i motivi della convocazione, ma il pretoriano si strinse sprezzantemente nelle spalle: «Non sei convocato, tribuno, sei in arresto».

Roma imperiale. Atrium Vestae.

La soppressione della solenne cerimonia che avrebbe dovuto celebrare il trionfo di Marzio offrì a Clelia uno spiraglio di libertà. Chiese e ottenne di potersi recare in visita alla propria famiglia, che non vedeva da lungo tempo.

Velata, irriconoscibile, si sarebbe mossa senza la scorta dei littori, così come era d’uso nelle rare occasioni non ufficiali che connotavano la vita di una sacerdotessa. Giunta in prossimità dell’ingresso del carcere, tuttavia, lo imboccò senza esitazione, scostando brevemente il velo per far riconoscere l’abito.

Le guardie rimasero attonite: non soltanto una donna, ma addirittura una divina sacerdotessa chiedeva di parlare con un prigioniero. Un cristiano, per di più.

«Questore», disse la giovane, rivolgendosi al più alto in grado e sfoderando come meglio poteva il tono imperativo che era prerogativa del suo stato sacrale, «la legge e gli dei mi conferiscono il privilegio di cercare di riportare quell’uomo sulla giusta via, di fargli abbandonare le sue stolte e criminali convinzioni per tornare ai nostri diletti dei e in particolare a Vesta.»

Il capo delle guardie, costretto alla remissività di fronte a una tra le più alte personalità dell’impero ma anche convinto della nobiltà della missione della giovane vestale, non oppose resistenza.

Clelia fu fatta entrare in una stanza buia e maleodorante, dove venne pregata di attendere che il prigioniero venisse prelevato dalle segrete e condotto lì. Nell’attesa si guardò intorno, non riuscendo a immaginare in che stato dovessero versare quelle segrete, se il fetido, buio locale in cui si trovava era la stanza di accoglienza.

La porta si spalancò e una guardia spinse dentro il vecchio, richiudendo immediatamente l’uscio. Valeriano era di una magrezza spaventevole, con la barba e i capelli incolti, la pelle dei polsi e delle caviglie ridotta a un’unica piaga sanguinante nei punti dove stringevano le catene. Ma gli occhi erano tuttora pieni della luce, della fierezza e imperturbabilità che Clelia portava impresse nella memoria.

La giovane allungò una mano e sfiorò il volto martoriato, senza dire una sola parola. Gli occhi del vecchio si riempirono di lacrime, le sue braccia si tesero.

«Questa è la carità che ha predicato Cristo», disse. «Questo è l’amore di cui spesso non riusciamo a capire la vera natura. Ho pregato a lungo per te, vestale, perché nei tuoi occhi ho visto l’innocenza, l’amore e la misericordia propri del Gesù di Nazareth.»

«Ti ho pensato», rispose lei, «ti ho pensato molto, Valeriano, ogni volta che cadevo in preda a sconforto e desolazione. Ho pensato ai tuoi occhi fieri, al tuo Dio che insegna l’amore tra gli uomini, al tuo sacrificio. E ogni volta questo è bastato perché la nebbia che avevo nell’anima si diradasse come per incanto.»

Incerto, non osando toccarla con le dita sudicie e torte dai ferri, il vecchio le sfiorò il viso con grande tenerezza, replicando: «Dio saprà ricompensare il tuo operato, giovane donna. Non ti chiedo di abbandonare la strada che hai scelto o ti è stata imposta: diverresti immediatamente vittima delle inesorabili leggi delle tue divinità. Ma, qualsiasi cosa accada, promettimi che agirai sempre per il bene e nel rispetto del prossimo».

«Te lo giuro, uomo di fede.»

Proprio in quel momento la guardia bussò alla porta; il tempo concesso era volato. Quando il vecchio fu sgarbatamente allontanato da lei, Clelia ebbe la sensazione che le venisse strappata una parte del cuore.

3.

Roma imperiale. Caserma dei pretoriani.

Anno 830 dalla Fondazione.

[77 d.C. (N.D.T.)]

Giunio venne immediatamente trascinato in una cella, senza che nessuno si degnasse di notificargli di quali reati fosse accusato. Si aggirava nell’angusto e buio sudiciume delle quattro mura come un leone in gabbia. Il senso di impotenza, l’essere all’oscuro delle imputazioni e la convinzione, comunque, della sua innocenza avrebbero potuto farlo impazzire.

Dopo tre giorni di isolamento e digiuno, venne finalmente prelevato e, sempre in catene, condotto davanti al magistrato. Il viso arcigno del difensore della legge si accompagnava con la durezza e intransigenza dei suoi toni. Formulate le domande tese ad accertare l’identità dell’uomo portato al suo cospetto, rimosse dal tavolo un drappo di stoffa.

Le Pietre della Luna apparvero con i loro riflessi d’oro rossastro. Sebbene stremato, Giunio non riuscì a trattenere un sorriso nel rivedere le familiari figure: sapeva che non potevano rimanere a lungo lontane da lui. Aveva sempre avuto la certezza che un giorno o l’altro le avrebbe riavute lì, davanti a sé.

«Conosci queste statue, tribuno?» chiese il magistrato con un grave tono inquisitorio che lo fece trasalire. Che cosa stava succedendo? Che cosa si voleva da lui?

«Certo che riconosco le Pietre della Luna», rispose prontamente. «Fanno parte dei beni della mia famiglia da tempi remoti, forse ancora da prima che Enea sbarcasse sugli arenili di Lavinio».

«Tu menti, Giunio!» tuonò il magistrato. «Questi ori fanno sì parte di un tesoro, ma di quello del popolo di Roma. Ancora non sappiamo come tu abbia potuto fare, ma ti sei introdotto nelle stanze dell’Erario e hai sottratto ai romani il loro oro. È un reato grave, tribuno, punibile con la morte!»

Giunio cercò di respirare lentamente, di vincere il tremito che sentiva in tutte le membra, effetto di prostrazione, fame e sete. Era comunque più tranquillo. Si erse in tutta la sua statura di combattente. «Ci sono diversi testimoni», rispose, «che possono confermare che quelle statue le ho ricevute in dono pochi giorni or sono da mio padre, nella città di Luna, dopo che erano state custodite per secoli dai miei avi.»

«Questi testimoni saranno ascoltati al processo, che decreto sia tenuto nella piazza del Foro, al cospetto del popolo di Roma», concluse sprezzante il giudice, facendo bruscamente cenno alle guardie di portare via il prigioniero.

Giunio rimase chiuso nella cella della caserma dei pretoriani un tempo che il buio non gli consentì di calcolare con precisione: il corpo, abituato alla disciplina militare, gli permise tuttavia, in base al ritmo di veglia e sonno e allo scarso e fetido cibo che gli veniva portato, di valutarlo in una decina di giorni. Un mattino venne finalmente trascinato in catene all’appuntamento con la giustizia. Dopo tanto buio, la luce abbagliante non gli permetteva di vedere niente. Le gambe, anchilosate dalla lunga immobilità a cui le avevano costrette i ceppi, stentavano a muoversi. Procedeva meccanicamente, con gli occhi semichiusi, sentendo sulla schiena i colpi dei suoi custodi che lo pungolavano come se fosse un animale.

Quando finalmente riuscì a vincere il dolore e a socchiudere gli occhi brucianti, vide che la piazza del Foro era gremita di folla: per i cittadini romani, avidi di giochi crudeli e di intrighi, il processo pubblico a un tribuno militare accusato di furto ai danni dell’impero era uno spettacolo da non perdere. Sulla tribuna dei rostrati era schierato il consiglio dei giudici nella veste dell’alto rango: l’imputato fu spinto in catene davanti al loro consesso.

Giunio vide il volto di Marzio, pallido, sconvolto, spuntare tra le teste delle prime file. Lo vide scuotere la testa con rabbia e rassegnazione. Capì quanto profonda e astutamente congegnata fosse la macchinazione.

Lo stesso giudice che lo aveva interrogato dichiarò aperta l’udienza e, con voce profonda e squillante, simile a quella degli attori tragici, comandò: «Sia sentito il sacro custode dell’Erario».

La lunga toga bianca ornata di porpora di un senatore fece sentire il suo fruscio nel silenzio assoluto, carico di aspettative, del pubblico. Menenio andò a sistemarsi al centro della tribuna e, rivolgendosi al consesso dei giudici, ma in modo da poter essere udito da tutta la piazza, dichiarò: «Ho portato con me l’inventario del sacro tesoro dai tempi del divino Augusto». E, così detto, indicò con un dito simile a un artiglio una moltitudine di rotoli ordinatamente disposti in una scaffalatura mobile in legno. «E da allora», continuò in tono grave, dardeggiando sguardi di fuoco sul pubblico, «da quei tempi gloriosi e remoti, che le tre stele in oro raffiguranti le fasi della luna fanno parte del tesoro di Roma.»

La celebre eloquenza del senatore anziano aveva affinato negli anni tutti gli artifici oratori necessari per fare presa sulla gente assiepata, per inchiodare a sé l’attenzione degli ascoltatori. Per quanto conoscesse alla perfezione il proprio diritto e sapesse benissimo che tutto ciò non poteva essere vero, Giunio non poté trattenere un fremito di angoscia, che lo scosse in tutto il corpo. Aveva la certezza che quelle statue appartenevano ai suoi avi fin dalla notte dei tempi, eccettuate le poche volte che erano state sottratte, per essere tuttavia recuperate in modi arcani.

Il sacro custode dell’Erario aveva senza dubbio contraffatto i documenti dell’inventario. Ma come avrebbe potuto, lui, ignaro di ogni intrigo, del tutto inerme di fronte alle tortuose macchinazioni della capitale, dimostrare la propria innocenza? Capì di essere perduto. Sentì che il pubblico cominciava a rumoreggiare. Era allo stremo delle forze, gli occhi bruciavano nelle orbite, le tempie gli martellavano, le membra anchilosate faticavano a reggersi erette. Con uno sforzo formidabile si impose di non cedere.

«Chiedo», stava dicendo il perfido Menenio, «che il magistrato prenda visione dei documenti e confermi quanto sostengo.»

Il presidente del tribunale estrasse un rotolo indicatogli dall’amanuense e prese a leggere: «Tre piccole statue in oro rosso del peso di cento once ciascuna, raffiguranti le fasi della luna, donate al divino Augusto dalla gente di Liguria». La descrizione, precisa, apparentemente inconfutabile, si ripeteva anno per anno fino all’ultimo inventario, compilato poco tempo prima.

«Quest’uomo», riprese Menenio, puntando l’artiglio accusatore sull’imputato e concitando ulteriormente i toni terribili della sua perorazione, «è penetrato con arti subdole nelle stanze del tesoro, eludendo scaltramente ogni sorveglianza, e si è impadronito del vostro oro, cittadini di Roma. Ci sono sette persone oneste pronte a testimoniarlo. Sette, vi dico.»

La gravità dell’affermazione, lo stesso numero dei testimoni, ritenuto magico da molti aruspici e dal popolino, fece immediatamente la presa desiderata. La folla cominciò ad agitarsi rabbiosamente e a urlare furibondi insulti all’imputato, finché un gesto imperioso del senatore non riportò il silenzio.

«Fortuna ha voluto che un probo cittadino di cui preferisco non rivelare il nome abbia smascherato il ladro e recuperato la refurtiva. Chiedo che il reato sia punito con la morte per crocifissione, come prescrive la legge dei romani per ladri e traditori!»

Dalla piazza si levò un boato di approvazione.

Per quanti sforzi facesse, Giunio non riuscì a tenere gli occhi aperti. La sua mente non riusciva ad accettare la realtà del fatto che proprio lui fosse il protagonista di quella farsa tragica. Ma gli occhi chiusi gli ridiedero la lucidità. Tutto si stava chiarendo: dallo strano attacco dei briganti sulle pendici delle Alpi, al massacro dei suoi uomini, alla sottrazione del tesoro. E, con esso, delle Pietre della Luna, preda evidentemente altrettanto ambita per motivi che lui, per quanto si sforzasse, non riusciva a chiarire. Che cosa si voleva da lui? Di quale spietato gioco era diventato una pedina inconsapevole?

Fu quindi la volta dei testimoni, che sfilarono argomentando le loro deposizioni con resoconti della più agghiacciante accuratezza. Chi avrebbe mai potuto smascherarli? C’era chi sosteneva di avere visto il tribuno entrare nel tempio di Saturno con aria circospetta, chi lo aveva osservato a lungo mentre si dirigeva con mosse furtive verso le stanze dell’Erario, chi lo aveva visto scendere la grande scalinata con un involto tra le braccia.

Il fatto stesso di vedersi definitivamente perduto caricò Giunio di una forza sovrumana. Riuscì a ergersi di nuovo in tutta la sua statura, puntò uno sguardo di fuoco sul suo principale accusatore, che lo osservava con un’espressione crudele e beffarda, provò un ultimo, disperato tentativo di autodifesa nell’unico modo che gli risultava possibile: raccontando la verità.

«Non so», disse, mettendo il massimo impegno nel mantenere ferma e squillante la voce, come aveva imparato dal suo subdolo accusatore, «quali artifici tu abbia messo in atto per entrare in possesso di quelle tre stele, senatore. So soltanto che venti eroici legionari — uomini onesti e intrepidi, davvero pronti a dare la vita per difendere e accrescere i tesori di Roma — sono morti soltanto per cercare di salvaguardare immense ricchezze dello stato che essi stessi, con il loro sudore e il loro sangue, avevano contribuito a conquistare ai barbari. E, senza saperlo, per cercare di mantenere il possesso di quelle piccole statue al loro legittimo proprietario. Cioè a me, il loro comandante militare, tribuno Giunio della città di Luna. Se c’è un traditore, quello non sono certo io, ma gli infidi uomini che si sono macchiati dell’omicidio di tanti valorosi soldati, difensori del bene dei romani fino al sacrificio estremo. Le stele sono proprietà della mia famiglia fin dall’antichità, come può testimoniare ogni abitante della città di Luna. Quegli inventari ufficiali sono stati contraffatti al solo scopo di farmi cadere vittima di una congiura. Badate bene, voi che mi ascoltate: si tratta di una violazione sacrilega.»

«E tu credi, tribuno», lo interruppe sempre più sprezzante Menenio, con voce addestrata in tante battaglie oratorie e quindi agevolmente in grado di sovrastare la sua, «credi, ripeto, che la testimonianza dei tuoi genitori e di qualche parente stretto possa mettere in dubbio quanto risulta dagli antichi documenti imperiali e viene confermato da sette — badate bene, romani!, sette! — testimoni spontanei, privi di qualsiasi interesse personale nella vicenda?»

E il senatore concluse la sua allocuzione con una risata sarcastica, che salì fino ai toni striduli del grido di un falco. Quanto aveva dichiarato era di una logica inconfutabile: la montatura era perfetta. Quasi a coronare il successo del raggiro, Menenio riprese: «Tuttavia, ho immaginato fin dal principio che la tua linea di difesa avrebbe cercato di basarsi su questi espedienti meschini e risibili, sicché ti ho prevenuto». Quindi, fatta una pausa abilmente studiata, lasciando scorrere sul pubblico il suo sguardo di rapace, concluse a gran voce: «Chiedo che avanzi al cospetto del tribunale, onde rendere la sua testimonianza, un cittadino libero della città di Luna, nelle terre dei liguri».

Giunio non ricordava di averlo mai visto, eppure il nuovo convenuto asserì di essere un suo conterraneo e di conoscerlo fin dall’infanzia. Disse tra l’altro che era vero che un tempo le Pietre della Luna erano di proprietà degli avi dell’imputato, stimata famiglia, irreprensibili cittadini romani, ma che il padre del padre di suo padre ne aveva fatto dono al divino Augusto durante un viaggio dell’imperatore nelle terre dei liguri.

Giunio si sentì pervadere da una rabbia furente, cercò di scagliarsi alla cieca contro la perfida mente che aveva architettato tutta la macchinazione, ma le guardie ebbero facilmente ragione del suo corpo esausto prima che riuscisse a raggiungere Menenio.

«Tu sai che sono innocente», urlò fuori di sé, «maledetto mentitore assassino, vipera sanguinaria. Dopo aver fatto massacrare i miei valorosi uomini per rubare il bottino conquistato ai germani, che cosa vogliono ancora da me le tue sordide trame?»

Venne immediatamente ridotto al silenzio e all’impotenza da una schiera di nerborute guardie nubiane, che lo tempestarono di tremende sferzate su tutto il corpo. Il presidente del tribunale si alzò e, non appena le guardie furono con discreta fatica riuscite a ristabilire l’ordine tra il pubblico tumultuante, pronunciò l’espressione di rito: «Chi è a conoscenza di qualche fatto a noi ignoto lo dichiari adesso, prima che venga emessa la sentenza».

Una voce si levò dalle prime file della canea inferocita. «Chiedo la parola.» Era Marzio, che fendeva senza fatica la folla, intimidita e ammutolita dalla sua imponente figura di grande comandante militare. «Chiedo di essere ascoltato.»

Giunio sentiva il sapore del sangue in bocca, aveva la vista annebbiata da un velo rosso. Sentì le gambe cedere. L’onesto, incorruttibile Marzio, accorrendo generosamente in suo aiuto, rischiava di mettersi alla totale mercé degli spietati organizzatori dell’intrigo. Per una scelta precisa, vista irrimediabilmente compromessa la propria posizione, il giovane tribuno aveva evitato di chiamarlo in causa come testimone. Sapeva di dover morire e riteneva del tutto inutile invischiare nella turpe vicenda altre persone, con il solo effetto di avere qualche compagno sulla croce.

Giunto davanti al palco dei giudici, Marzio enunciò con toni solenni il suo grado di generale e il nome patrizio che portava. La gente lo riconobbe e il silenzio calò ancora più profondo sulla piazza percorsa dai fremiti della passione popolare.

«Ho conosciuto quest’uomo in battaglia», disse infine quando gli fu concessa la parola. «L’ho visto combattere sui limiti estremi dell’impero in nome di Roma e per il bene dei romani. Il grado di alto ufficiale che porta è premio del suo valore e della sua incorruttibile onestà. Il tribuno Giunio ha recuperato tesori inestimabili e li ha destinati all’imperatore. Io stesso ho visto suo padre fargli dono di quelle statue pochi giorni orsono, e sono pronto a giurarlo al cospetto degli dei.»

Un mormorio si diffuse tra la folla. L’ostilità nei confronti dell’imputato si era attenuata: nei presenti regnava una nuova incertezza, che venne peraltro immediatamente spazzata via non appena Menenio riprese la parola.

«È un vero piacere apprendere l’opinione di un così valente condottiero; tanto valente da lasciarsi trafugare, nel giardino della sua stessa villa, quasi sotto i suoi occhi, senza muovere un solo dito — un solo dito, romani -», ripeté, levando più che mai alto il suo artiglio, «metà del tesoro conquistato ai germani e, secondo le sue parole, destinato al tesoro del popolo di Roma.

«Il tuo estremo, quanto penoso e vano, tentativo di difesa mi commuove, Marzio», continuò sarcastico. Ma il lampo di perfidia che non riuscì a dissimulare nello sguardo fece finalmente capire chi fosse il vero obiettivo della congiura. «Tuttavia», riprese, «non saprei con precisione quale espressione impiegare. Mi commuove o mi insospettisce? Ripeto: non saprei. Potrebbe essere, legato dell’impero, che il tesoro dei barbari sia ancora in possesso dei tuoi uomini? Chissà.»

Un’accusa infamante, e Menenio lo sapeva. «Quanto poi all’onestà del tuo protetto», riprese con un risolino sprezzante, «consentimi di nutrire seri dubbi. Risponde o no a verità che durante il solo viaggio di ritorno è sparito oro per un valore di trecentomila sesterzi? Quanti si può dunque temere che ne siano stati trafugati lassù, in quelle che vi compiacete di definire le gelide e selvagge terre del nemico?»

Facendo scorrere lo sguardo sul pubblico, Giunio ebbe la certezza che nessuno ormai nutriva più il minimo dubbio circa la sua colpevolezza. Si sentì squassare da un brivido incontenibile al pensiero che le uniche persone al corrente dell’ammanco erano Marzio, lui stesso… e il ladro. Gli apparve finalmente fin troppo chiaro come avesse fatto Menenio a entrare in possesso dell’informazione: ecco svelati i motivi delle sue frequentazioni nelle taverne più turpi, e la presenza, tra gli effetti di Sestilio, della copia del sigillo di famiglia di Marzio… Valeva qualcosa, avere capito? Come impedire a quelle terribili persone di conseguire i loro sordidi fini?

Quasi fulminato da identici pensieri, Marzio tentò un estremo tentativo di difesa attaccando. «Risponderai in seguito di queste tue falsità infamanti, Menenio. Quello che mi preme adesso è salvare un innocente dalla morte e dalla vergogna. Il tribuno Sestilio, che tu stesso ti sei stranamente precipitato a inviare in missione lontano da Roma soltanto qualche giorno fa, era presente con me alla consegna delle statue da parte del padre di Giunio.»

«Quand’anche fosse vero, e tutto non sembrasse smentirti in maniera lampante e clamorosa», ribatté il senatore con un sorriso di trionfo sulle labbra livide, «ciò non sposta il problema di un solo crine, per così dire, d’asino. La legge prescrive comunque la morte, per chi ruba come per chi ricetta refurtiva proveniente dal tesoro imperiale. Quindi, va’ in pace, valente condottiero, e consenti al tribunale di pronunciare il suo verdetto. Va’.»

La sentenza fu emessa in pochi istanti: l’imputato, riconosciuto colpevole, era condannato alla pena capitale, oltre che spogliato di ogni suo avere e dei gradi di alto ufficiale dell’impero romano, che aveva disonorato con i suoi atti.

La voce del magistrato risuonò lontana come l’eco che mille volte Giunio era rimasto ad ascoltare nelle remote valli tra i monti. Aveva affrontato la morte un numero incalcolabile di volte, non poteva averne il minimo timore, ma a prostrare ogni sua residua volontà di resistenza era il modo infamante in cui sarebbe morto, e la consapevolezza della mostruosa beffa congegnata ai suoi danni.

Fu circondato da otto guardie nubiane che, fendendo la folla, lo trascinarono verso il suo triste destino. Non vedeva niente. Non sentiva niente. Non chi sputava sulla sua persona, non chi lo riempiva di ingiurie, non chi cercava di sfondare lo sbarramento delle otto gigantesche guardie per aggredirlo, non le pietre che lo colpivano. Più niente.

A poca distanza dal luogo del suo martirio, una giovanissima vestale, celata sotto i canonici veli, stava percorrendo frettolosamente i pochi passi che la separavano dalla dimora delle sue consimili. Appena superato il portico degli Dei Consenti, si accorse che la piazza del Foro era gremita. Come spinta da un impulso irresistibile, prese a farsi largo tra la folla che, non appena si accorgeva della sua sacra presenza, si affrettava a scansarsi.

Il prigioniero procedeva ormai quasi in stato di incoscienza tra due ali di persone inferocite. Mai avrebbe saputo quale forza irresistibile lo avesse spinto ad aprire, per quella che riteneva l’ultima volta, gli occhi. La vide a poca distanza da sé, visione celestiale, eretta in tutta la sua luminosa presenza, con il velo a riparare la testa e i capelli, ma aperto più sotto per rivelare la veste di sacra sacerdotessa di Vesta.

Giunio pensò a un miraggio di preannunzio della morte, alla visione ultramondana di una dea. I loro sguardi si incontrarono per un lungo istante: quelli della vestale erano del colore degli zaffiri ed esprimevano al tempo stesso una bontà profonda e un intenso dolore nel vedere un uomo tradotto a morte.

La folla era improvvisamente ammutolita. Nessuno sputava più, nessuno tirava pietre, nessuno spingeva, finché nel silenzio non si levò stentoreo un grido: «Gli dei non vogliono che quest’uomo sia giustiziato».

«Sia applicata la legge e rispettata la volontà di Vesta!» gli fece immediatamente eco un’altra voce.

Soltanto in quel momento Giunio si rese conto che la celestiale apparizione rappresentava il salvacondotto per la grazia. Le guardie si fermarono, incerte, poi si voltarono di nuovo verso la tribuna dei rostri e si avviarono a ripercorrere a ritroso la piazza.

I magistrati non avevano ancora abbandonato il palco. Confabularono tra loro a lungo, con toni agitati di voce e gesti concitati, ma infine il presidente del tribunale si alzò per pronunziare la nuova e definitiva sentenza.

«La legge dispone che tu sia graziato, Giunio. Devi la vita alla dea Vesta, che nella sua imperscrutabile saggezza e pietà ha voluto farti incontrare una sacra sacerdotessa sul tuo percorso verso la giusta punizione. Non so tuttavia in quale misura ti convenga gioire di tanta pietà. Da oggi, infatti, sei condannato a vita ai lavori pesanti di pubblica utilità per il popolo di Roma. Mai ti sarà consentito di toglierti le catene.»

Roma imperiale. Anno 831 dalla Fondazione.

[78 d.C. (N.D.T.)]

Sesto Giulio mise da parte i disegni del percorso di una nuova condotta indispensabile, quella che attingeva alla polla dell’Anio Novus, e si preparò a lasciare il suo luogo di lavoro nella Basilica Giulia, proprio sulla piazza del Foro. L’unica cosa che riusciva a distrarlo un po’ dal fluire dell’acqua nelle gallerie degli acquedotti era il Circo, con gli spettacoli gladiatorii di cui era appassionato seguace. Quel pomeriggio doveva recarsi ad assistere a un torneo equestre, e per niente al mondo sarebbe stato disposto a perdersi lo spettacolo delle bighe lanciate in corsa sfrenata.

Sesto Giulio Frontino ricopriva il grado di Curatore delle Acque. La sete dell’Urbe era un tarlo per la sua mente. La sua unica ragione di vita sembrava essere diventata il rifornimento delle oltre mille fontane, dei dieci grandi complessi termali e dei circa settecento di più modeste dimensioni, dei quindici ninfei e dei due laghi artificiali usati per le battaglie navali, per non parlare delle esigenze di quasi due milioni di cittadini. Roma era un immenso pozzo in cui si perdevano giornalmente centoquarantacinque milioni di litri d’acqua, convogliati da undici acquedotti. E sembrava che non fosse ancora sufficiente.

Quando incontrava il suo eminente protettore politico, il senatore Menenio, era solito ripetergli: «Le grandi civiltà della storia ci hanno lasciato opere munifiche, ma improduttive. Pensa alle tombe dei faraoni o alle arti dei greci e paragonale alle nostre costruzioni, ai tortuosi e interminabili percorsi degli acquedotti, che sono portatori di vita». Nella sua logica aveva perfettamente ragione. Forse proprio per questo Menenio non lesinava mai nell’attingere dai beni della comunità per soddisfare le richieste del responsabile dell’approvvigionamento idrico.

Le immense arcate che convogliavano l’acqua nella città rappresentavano soltanto una parte del percorso di un acquedotto, che doveva snodarsi anche sotto terra. Laggiù, gli schiavi condannati ai lavori pesanti erano uniti a tre a tre con pesanti catene di poche maglie di ferro e lavoravano in condotte a malapena sufficienti per permettere il passaggio di un uomo. Alle difficoltà create dall’angustia degli spazi si aggiungeva dunque il doloroso impedimento di queste catene. Se tra i prigionieri non regnavano affiatamento e una perfetta combinazione dei tempi, riuscire a portare a termine il lavoro era quasi impossibile.

Il compito principale della squadra di Giunio era quello di scavare il cunicolo combattendo con le rocce, le asperità e la polvere acre che si depositava nei polmoni. Dovevano sempre mantenere una linea discendente, cercando per quanto possibile di traguardare i tre piedi di pendenza ogni mille di tracciato. Un agrimensore si sarebbe successivamente preoccupato di verificare le pendenze effettive utilizzando i suoi strumenti e immergendosi in calcoli. Le squadre che seguivano avrebbero infine provveduto a rifinire il lavoro, rivestendo di calcestruzzo la condotta e riducendo la discesa ai valori prestabiliti.

Da ormai quasi un anno Giunio lavorava all’ultimazione dell’Acquedotto Nuovo. Per fortuna aveva raggiunto con i due prigionieri aggiogati alla sua stessa catena un grado di sincronia che permetteva loro di muoversi come se fossero un corpo unico. Erano diventati letteralmente inseparabili. I suoi due compagni di pena erano accusati di reati secondari. Uno di essi aveva la pelle scura come il mogano e la forza di un cavallo da soma. Sosteneva di discendere da una stirpe di guerrieri della sua tribù, nel cuore dell’Africa. Era stato rinominato Leone per il passo agile che ricordava una fiera. L’altro era un giovanetto greco che aveva avuto l’imprudente arroganza di non cedere alle voglie del patrizio che lo aveva pagato ben milleduecento sesterzi. Era simpatico e colto, di sicuro più debole degli altri due, ma sapeva sopperire ai limiti fisici con un’intelligenza pronta e viva. Si chiamava Pericle. Ormai da diversi giorni era squassato da forti colpi di tosse e mostrava in volto i segni della malattia, anche se la sua indole coraggiosa gli vietava di essere d’impaccio ai due compagni di sofferenze.

L’ultimo diaframma che li separava dall’aria aperta stava per cadere, dopo di che, alla luce del sole, lavorare sarebbe stato più agevole. Faticavano da diverse ore, quando Leone vibrò con il piccone un colpo apparentemente più poderoso degli altri. O forse, di diverso, c’era soltanto il suono che rimbombò dalla roccia. Si sentì un forte scricchiolio, seguito da un rumore di smottamenti e crolli. Posatasi la polvere, i tre schiavi videro un abbagliante fascio di luce filtrare da un minuscolo foro nella roccia. Il possente africano ricaricò le braccia, e il sottile strato di pietra rovinò tra le grida di gioia dei lavoratori. Su novanta miglia di percorso totale, ben settanta erano state scavate sotto terra.

Ormai rimanevano da erigere soltanto i ponti e le grandi arcate; infine, una volta raggiunta la città, gli schiavi avrebbero dovuto costruire la grande cisterna. La luce del sole costrinse Giunio a socchiudere gli occhi. Mentre usciva coperto di polvere dal cunicolo, si accorse che Leone aiutava il giovane greco a reggersi in piedi.

Il grido di trionfo dei compagni di sventura li distrasse per un momento, ma la voce inesorabile del capo delle guardie li richiamò immediatamente alla dura realtà. «Inutile festeggiare, schiavi. Il vostro lavoro non è ancora finito: ci sono quei blocchi di pietra da trasportare fino alle arcate.» E, così detto, il rozzo individuo fece schioccare la frusta, quasi a sottolineare che non avrebbe ammesso indugi da parte di nessuno.

Come ogni sera Giunio si coricò con le membra a pezzi, ascoltando preoccupato gli ansiti del giovanissimo Pericle al suo fianco. Sapeva che quella vita di stenti, la fatica e la scarsa alimentazione, prima o poi, avrebbero ucciso anche lui, ma cercava di tenere duro con ferrea determinazione, nella certezza che un giorno — chissà quando, chissà come, ma senza il minimo dubbio — avrebbe riacquistato la libertà.

L’indomani erano già al lavoro per un tratto delle arcate lungo un quarto di miglio e alto quasi cento braccia. Eccitato dalla luce del sole e dalla purezza dell’aria dopo tanto tempo trascorso nei bui e maleodoranti condotti sotterranei, Giunio osservava per quanto gli era possibile il lavoro dei posatori e ascoltava quasi con piacere il rumore del martello che batteva sulla chiave di volta per assicurarsi della solidità di un arco. Ogni rintocco rappresentava un ulteriore passo verso la fine dell’opera e, conseguentemente, l’avvicinarsi di un possibile periodo di fatica meno massacrante.

I tre schiavi erano stati assegnati a un argano che controllava il movimento laterale di un’enorme gru. Quel giorno era in programma la visita del Curatore imperiale, sicché la già spietata severità dei carcerieri era aumentata.

Mentre il braccio stava basculando sotto la pressione di un grosso masso squadrato, Pericle cedette. I suoi due compagni di fatica cercarono di bilanciare il peso del macigno con le sole loro forze, ma non fu possibile. La ruota dell’argano si mise a girare vorticosamente e li travolse. Il masso andò a schiantarsi con violenza contro i pilastri, e fu un vero miracolo se la struttura dell’intero sistema di sollevamento non andò in frantumi.

Il capo degli aguzzini fu loro addosso mentre Leone e Giunio si rialzavano doloranti e coperti di polvere. La frusta sibilò nell’aria, aprendo una striscia di fuoco sulla spalla dell’ex tribuno. Quindi si abbatté sulla pelle bruna del suo compagno, senza che questi emettesse un solo lamento.

Pericle era accasciato a terra accanto a loro, esanime. Un fiotto di bava gli usciva dalla bocca. La frusta si alzò ancora e si abbatté sul petto del giovane, che non ebbe nessuna reazione. Quasi indispettito, il carceriere urlò: «Alzati, cane», e colpì una seconda volta. «Ti ordino di alzarti!» Il corpo del giovanissimo greco fu squassato da una convulsione, mentre un rivolo di sangue gli sgorgava dalla bocca. La guardia caricò una terza volta il braccio armato di frusta.

Prima che potesse colpire, tuttavia, Giunio sentì le catene tendersi e si trovò trascinato in avanti, mentre la potente mole bruna di Leone si scagliava come una belva infuriata contro il carceriere. Il moro travolse l’aguzzino, ed entrambi gli schiavi rotolarono con lui nella polvere. Giunio vide distintamente la mano del suo compagno strappare la frusta al persecutore, ma quasi nello stesso istante si accorse che il guardiano aveva impugnato la spada.

Con un movimento fulmineo il gladio penetrò fino all’elsa nel costato dell’africano. Il capo delle guardie si rialzò con un’espressione di trionfo, mentre lo schiavo ferito era scosso da convulsioni. Incredibilmente, il poderoso africano ebbe comunque la forza di alzarsi in piedi e di accennare una nuova reazione. Il carceriere gli fu addosso, gli passò alle spalle, e la lama recise la gola, facendone sgorgare un fiotto di sangue rosso e rovente.

«Credo che lo spettacolo di questa tua testa scellerata servirà da esempio», esclamò la voce rauca della guardia. Bloccato dai ceppi a pochi passi di distanza, Giunio vide che affondava la spada nel collo del suo compagno, da cui il sangue continuava a sgorgare abbondante, nel tentativo di recidere completamente la testa.

Il rosso di quel sangue sembrò colorare tutta la sua visione, invadergli la mente. Nonostante l’impedimento dei ceppi, con uno strattone sovrumano riuscì a rimettersi in piedi e a scagliarsi contro il militare chino sul corpo ormai senza vita del suo compagno.

Ma si trattava appunto di un militare, rotto ai combattimenti e addestrato a tenere sotto controllo ogni possibile pericolo. Sapeva di dover temere una reazione del compagno di pena dell’uomo ucciso, e ne stava seguendo le mosse con la coda dell’occhio. Scartò repentinamente di lato con un balzo agile, vanificando l’impatto della carica. Giunio lo vide alzare il braccio e vibrare il colpo dall’alto in basso. Ma i lunghi anni di guerra sul confine, contro uomini feroci e abilissimi nell’uso delle armi, lo avevano a sua volta temprato, insegnandogli a schivare mosse ben più pericolose. La spada non lo sfiorò nemmeno; prima che l’avversario potesse rialzare l’arma, lo colpì ai genitali con un calcio in cui cercò di mettere tutta la forza che gli rimaneva. L’uomo si lasciò sfuggire il fiato con un sibilo rumoroso, ma non si piegò. I suoi occhi sprizzavano odio.

Giunio lo fronteggiò cercando di mettersi in una posizione che gli consentisse di scartare rapidamente di lato, ma la catena e i corpi esanimi dei due compagni riducevano a quasi niente le sue possibilità di movimento. Il nemico lo caricò frontalmente con impeto furibondo, mulinando la spada. Giunio riuscì ancora una volta a schivare il colpo e, quando l’altro lo sorpassò trasportato dallo slancio, gli sferrò un colpo di taglio sulla nuca. L’uomo barcollò un solo istante, ma tanto bastò perché lui gli fosse addosso, riuscendo a immobilizzarlo.

Più che la mente, a suggerirgli le mosse successive fu la lunga abitudine al combattimento. Prese la catena che lo serrava alle caviglie e che lo univa senza più tensione ai corpi esanimi dei compagni, la sollevò di scatto e la strinse attorno al collo dell’aguzzino. Ebbe un attimo di esitazione, nella mente improvvisamente lucida gli balenarono le sicure conseguenze del suo gesto, ma poi vide il corpo morente di Pericle, straziato dai segni delle frustate. Poco più in là giaceva il guerriero africano con la testa semistaccata dal busto. Non volle vedere più niente. Strinse le maglie con una forza che la furia rendeva sovrumana, finché non avvertì il rantolo di morte del nemico.

Riaprì gli occhi soltanto quando lo sentì completamente immobile. Si rialzò coperto di polvere, di sudore e del sangue dell’avversario. Sapeva di non avere più scampo. Rimase a testa china, le braccia basse, in attesa delle conseguenze. Invece sentì soltanto una voce pacata, alle sue spalle, priva di qualsiasi emozione. «Come ti chiami, schiavo?»

Si voltò. Stagliato nella luce del sole, non ebbe difficoltà a riconoscere l’imperiale Curatore delle Acque.

«Giunio della città di Luna», rispose meccanicamente, il petto ancora squassato dall’affanno.

«Ah, il tribuno Giunio.» Evidentemente Sesto Giulio Frontino conosceva la storia del prigioniero. Il suo protettore Menenio aveva senza dubbio provveduto a raccomandargli un trattamento particolare nei suoi confronti.

«A quanto pare, quel che ho sentito raccontare delle tue gesta guerresche corrisponde al vero», riprese la voce, tuttora priva di qualsiasi emozione. «Uhm… Sarebbe un vero peccato far giustiziare un così valido combattente», continuò, in tono meditabondo. «Va bene. Dispongo che tu non venga passato per le armi sul posto, come imporrebbe la legge, ma assegnato a una scuola gladiatoria, affinché della morte di un cane rabbioso tuo pari possano almeno avvantaggiarsi i giochi del Circo.» E, fatto un rapido cenno alle due guardie che lo affiancavano, voltò la schiena e scomparve.

Roma imperiale. Atrium Vestae.

«Come stanno i tuoi genitori?» le aveva chiesto Cornelia non appena era rientrata. Sembrava scesa appositamente nell’ombroso atrio per aspettare il suo rientro.

«Bene!» aveva risposto Clelia, mentendo a cuor leggero. L’incontro con il condannato a morte, l’essere riuscita a salvare una seconda vita, l’aveva riempita di una felicità senza limiti. Nella sua mente, il viso dolente e martoriato del vecchio cristiano era adesso costantemente affiancato da quello — le era apparso giovane, schietto e di virile bellezza anche sotto la patina di sudiciume — dell’uomo che aveva sentito chiamare Giunio.

L’espressione di Cornelia si era torta repentinamente in una smorfia di furore, gli occhi si erano trasformati in due globi di fuoco.

«Tu menti!» aveva esclamato la donna, rauca. «Non sei nemmeno passata da casa tua, ma hai compiuto un gesto inaudito. Sei andata alle carceri per incontrarti con quel prigioniero cristiano!»

Era inutile negare l’evidenza. Clelia aveva chinato la testa ed era rimasta in silenzio.

«Comunque», aveva continuato la Vestale Massima, dimostrando di essere al corrente di ogni movimento delle sacerdotesse affidate alle sue arcigne cure, «visto che la tua occupazione preferita sembra essere portare soccorso ai nemici dell’imperatore condannati alla loro giusta pena, è mia convinzione che sia opportuno infliggerti una punizione esemplare. Da oggi resterai chiusa nella dimora per un anno intero, senza nessuna possibilità di uscire né di vedere alcuno all’infuori delle tue compagne.»

Clelia ricordava le spietate parole a una a una. Le aveva accolte senza nessuna particolare emozione. Aveva il cuore gonfio di ben altri sentimenti. Le era sembrata una punizione pesante ma sopportabile.

Adesso, invece, a quasi sette mesi da quel giorno, la condizione di clausura la faceva sentire come un animaletto in gabbia. Si era chiusa in se stessa e non partecipava quasi più alle discussioni delle sacerdotesse, anche perché gli argomenti affrontati riguardavano soprattutto un mondo al quale non aveva più accesso. La vita di Roma e del suo popolo.

Erano sicuramente stati quei silenzi coatti, le interminabili ore trascorse a riflettere, il continuo interrogarsi su se stessa e sulla vacua scelta di vita che le era stata imposta, il confronto della sua perenne, privilegiata malinconia con la luminosità dello sguardo del vecchio Valeriano, con la sua serenità anche nell’estrema disgrazia, a riempirla di un’intensa curiosità per la spiritualità dei cristiani, che sempre più le appariva un universo di vita in confronto all’anticamera della morte in cui si sentiva reclusa. Per il loro… sì, per il loro misterioso dio ùnico e onnipotente, di cui non sapeva nulla.

Scuola gladiatoria di Stabia.

Si mormorava che Velio il Trace, essendo un assassino sanguinario e spietato ma capace di tacere anche sotto le più terribili torture, avesse prestato i propri nefandi e prezzolati servigi a ben più di un potente di Roma. Per questo, si diceva ancora, invece di essere condannato a un più che giusto supplizio da un tribunale del popolo romano, si era ritrovato a gestire una scuola di gladiatori, una delle migliori dell’impero, quella di Stabia.

Giunio vi fu portato di notte, ma non appena arrivato venne ugualmente condotto al cospetto del lanista, il direttore di quello sciagurato genere di scuola. Il Trace lo scrutò a lungo, facendolo girare più volte su se stesso e notando subito che l’uso degli attrezzi pesanti aveva modellato i suoi muscoli in un modo poderoso e perfetto.

«Hai un fisico da combattente, schiavo. Non credo che quello che mi è stato riferito di te sia stato solamente effetto della fortuna. Hai esperienza delle armi?» chiese, senza distogliere un solo attimo lo sguardo dalle membra dell’uomo che aveva davanti.

«Conosco abbastanza bene la lotta e l’uso delle armi da taglio e da lancio», rispose brevemente Giunio. Un improvviso senso di prudenza gli sconsigliava di parlare della sua esperienza militare.

La faccia del gladiatore sembrava un sacco di pelle di montone cucito in fretta e male. Le cicatrici la solcavano; l’occhio sinistro era coperto da una benda nera. «Bene», concluse Velio. «Domani stesso vedremo che cosa sai fare.» Quindi ordinò alle due guardie che avevano scortato il suo nuovo allievo di togliergli le catene. «Non è mai successo che qualcuno riuscisse a scappare dalla mia scuola», rise cavernosamente.

Giunio venne condotto in una camerata simile a quelle dei legionari, dove gli fu indicato un giaciglio. Si massaggiò le caviglie, quasi incredulo di sentirle finalmente libere dopo più di un anno di ferri. Nei punti dove le fasce metalliche avevano serrato la pelle si erano formate due vaste zone callose. Non se ne curò più di tanto, gustando soltanto il piacere di potersi allungare senza essere costretto dai ferri a mantenere la posizione supina. Una sensazione che temeva di avere dimenticato e di non provare mai più. La stanchezza del viaggio ebbe quasi subito il sopravvento. Sprofondò in un sonno senza sogni.

Il rumore degli altri occupanti la camerata lo svegliò molto presto; guardandosi attorno, immediatamente all’erta, si accorse subito che in quell’ambiente sconosciuto regnavano uno spirito di corpo e una solidarietà molto simili a quelli dei ranghi militari. I suoi nuovi compagni vennero spontaneamente a conoscerlo e a presentarsi. Erano tutti schiavi, prigionieri di guerra o criminali sfuggiti all’esecuzione capitale, ma si comportavano da buoni commilitoni, in nome del destino che li accomunava e che non avrebbe lasciato loro scampo. Alla scuola del Trace vivevano più di trecento gladiatori o aspiranti.

Provveduto alle abluzioni obbligatorie, consumato l’abbondante pasto del mattino — il primo decente che consumasse da mesi e mesi a quella parte — e uscito a godere la luce del sole, scrutò con attenzione gli edifici che componevano la scuola. Sul lato orientale erano situati gli alloggi dei gladiatori e quelli del lanista, su quello occidentale i magazzini e l’armeria. Al centro del perimetro si trovava l’arena della palestra, dove si svolgevano gli allenamenti. Le stalle erano in una costruzione appartata, a monte, di fianco alla pista per le bighe. Uno dei quattro lati confinava con una scogliera a picco sul mare.

Attraverso una scalinata si arrivava all’approdo, attrezzato di un molo di legno e di bitte per l’ormeggio delle imbarcazioni. Su uno scalo vide alcuni scafi tirati in secco. Si accorse subito che erano miniature di navi da guerra, identiche in tutto tranne che nelle dimensioni. Misuravano circa due terzi delle oltre settanta braccia di una quinquereme da battaglia, e il pescaggio era ridotto in modo — come avrebbe appreso successivamente — da consentire il combattimento nelle arene allagate.

La baia era riparata dai venti e dal mare, aperta soltanto al tepore dell’Austro. Verso monte, sul lato opposto, la scena era dominata dalla mole fumante di un vulcano.

Venne chiamato quasi subito alle prove di abilità. Sotto il severo sguardo di Velio gli fu consegnata una spada smussata e non affilata. Il lanista volle cominciare per gradi, facendolo scontrare con avversari prima mediocri e poi via via sempre più temibili. I lungi mesi di viaggio e di prigionia avevano non poco appannato la sua esperienza di combattente, ma si accorse subito che riusciva comunque a tenere testa in maniera soddisfacente agli altri gladiatori.

La vera scoperta venne però quando impugnò il giavellotto; non credeva di saper lanciare ancora, né che la sua mira fosse rimasta quella di un tempo. Su dieci tiri da distanze progressivamente maggiori, non sbagliò un solo colpo.

Il Trace sembrava molto soddisfatto, e più volte gli batté la mano sulla spalla in segno di compiacimento. «Dovrai prendere dimestichezza con la rete», disse, congedandolo con un’ultima robusta pacca sul dorso nudo, «ma, vista l’abilità che dimostri con le armi lunghe, sono convinto che diventerai un ottimo reziario.»

Giunio non aveva mai assistito ai giochi del Circo, ma aveva sentito molte volte parlare delle diverse categorie di gladiatori. Sapeva che il reziario combatteva armato di forca e di una rete appesantita da piombi alle estremità, non portava né elmo né armatura e vestiva una corta tunica stretta da un largo cinturone. Nei combattimenti veniva generalmente contrapposto agli inseguitori, che si battevano armati di gladio, elmo e scudo in bronzo.

Fu inevitabile che ripensasse alla sua vita di legionario, ai lunghi anni passati con la pelle di lupo sulla testa e il giavellotto in pugno. Velio aveva visto giusto: il suo nuovo allievo dalle spalle poderose e dai muscoli che sembravano scolpiti nel marmo sarebbe diventato un ottimo reziario. Al di là di ogni più rosea previsione.

La discussione tra Sesto Giulio Frontino e Menenio sulla distribuzione delle acque si stava concludendo. Il senatore si era congratulato con il funzionario per la fermezza dimostrata nel reprimere la corruzione dilagante in quel genere di lavori pubblici e nel soffocare i continui tentativi degli abitanti meno abbienti di attingere abusivamente alla rete idrica. Non vedeva tuttavia motivo di soffermarsi sul trascurabile particolare che gran parte del danaro recuperato da Sesto con le sue operazioni di disciplina non finiva affatto nelle casse imperiali, bensì nelle sue capaci e fameliche borse.

Sul punto di congedarsi dall’ottimo funzionario, come per caso, chiese con aria vaga: «Quello schiavo… Giunio, mi pare… ti avevo raccomandato di riservargli un trattamento particolare, è riuscito a sopravvivere alle tue attenzioni?»

«Non soltanto è sopravvissuto, ma stava acquistando un pericoloso ascendente sui compagni di fatica», rispose prontamente Sesto, convinto di aver avuto una intuizione geniale. «Così, quando ha massacrato il comandante delle guardie, ho ritenuto opportuno e prudente affidarlo alla scuola di Velio il Trace. In quell’ambiente sapranno sicuramente accorciargli la vita!»

Menenio spalancò gli occhi. «Ha ucciso un capo delle guardie?» urlò stridulo. «E me lo dici con questo tono idiota? Hai avuto la possibilità di toglierlo definitivamente da questo mondo e invece lo hai graziato, elevando addirittura la sua condizione a gladiatore?»

«Ho pensato di agire nel migliore interesse di tutti, signore, e principalmente nel tuo», rispose costernato il funzionario. «Facendolo giustiziare, visto l’ascendente che aveva sugli altri, avrei rischiato una rivolta. Sai bene quali tempi calamitosi stiamo vivendo con gli schiavi, come stia dilagando perniciosamente tra loro l’idea del dio dei cristiani, che li rende pronti ad affrontare la morte con il sorriso sulle labbra, nella convinzione di finire in non so bene quale vita superiore e celeste. Illusi. Ma riottosi e pericolosi.

«In secondo luogo, ho affidato la sua vita alle sapienti mani di un tuo fedele servitore che, grazie alla tua generosità, gestisce la scuola gladiatoria più titolata dell’impero. Non credo ti sarebbe difficile ottenere che un banale incidente in allenamento tolga di mezzo il già tribuno Giunio, senza pericolosi echi o ripercussioni sul popolino superstizioso, legato all’idea che la sua vita sia stata risparmiata dal volere di Vesta. Ah! Vesta! Gli dei! Ehm… perdonami, signore, mi sono lasciato trascinare… Ma presta orecchio a quanto ti dice un fedele servitore: nei giochi di quest’anno potresti avere un motivo in più per divertirti.»

Una smorfia, più simile al ringhio di un lupo che a un sorriso, torse le labbra del senatore. L’infimo omuncolo aveva probabilmente ragione; la sua lungimiranza sarebbe stata ancora una volta oggetto di encomio e premio. Altrimenti… Be’, lo avrebbe spedito a occuparsi delle fogne cittadine, che avevano bisogno di cure almeno come gli acquedotti. Quanto a Giunio, avrebbe davvero potuto provvedere il Trace. Ma vederlo squartare nel Circo, o sbranare da una fiera…

Roma odierna.

«Una prospettiva di sogno», digitò rapidamente Sara Terracini. «Al pensiero, il patrizio romano sentì un fremito all’inguine, reso flaccido dagli eccessi più che dall’età.»

E, battuto sui tasti CTRL+SAVE, la giovane studiosa si abbandonò sullo schienale della poltroncina ergonomica, con le belle labbra carnose socchiuse in un sorriso malizioso. Chissà che cosa avrebbe pensato l’omino denominato Oswald Breil leggendo queste parole. Diabolico com’era, si poteva giurare che avrebbe capito subito che si trattava di una volgare interpolazione. Quando mai il pudibondo frate che, secondo lui, aveva provveduto alla trascrizione delle pergamene dal latino in un italiano irto di espressioni spagnole, avrebbe usato il termine «inguine». «Flaccido», per di più…

Ma se non le veniva lasciato qualche infinitesimale spazio di libertà, se non poteva dare almeno un po’ di sfogo all’innato spirito romanzesco che l’aveva indotta ad affrontare quell’estenuante esperienza di quasi clausura personale per soddisfare gli indecifrabili ghiribizzi di un nano inafferrabile…

A proposito, che cosa potevano mai combinare le vestali chiuse nei loro casti conventi protofemministi? Bisognava pensare un po’ anche alla piccola e sfortunata Clelia… E il buon Oswald andasse pure nella più vicina delle Geenne.

Oh, be’, la quasi reclusione che stava vivendo non faceva di lei una vestale. Dio ne scampi. Sara si scoprì ancora una volta con le dita della destra tese nel gesto delle corna. Scoppiò in una risata allegra. Fuori delle finestre si vedeva uno splendido tramonto romano, reso ancora più teatrale dalla colorazione dei vetri. Niente al mondo avrebbe potuto privarla di una serata delle più piacevoli in un locale di Trastevere, se non addirittura nel fresco dei Castelli. In ottima compagnia. Ottimissima, anche se non si poteva dire.

Tornò ad allungare la destra alla tastiera e premette alcune volte CTRL+QUIT. La macchina chiuse disciplinatamente tutte le finestre aperte sullo schermo, zittendo di botto ogni fruscio e ronzio.

«Quittiamola qui», esclamò ad alta voce Sara, a esclusivo beneficio delle pareti. «La vestale del computer se la batte, caro dottor Breil. Buonanotte.»

Stabia. Anno 832 dalla Fondazione di Roma.

[79 d.C. (N.D.T.)]

La notizia della morte di Vespasiano giunse poco prima della prevista partenza dei gladiatori per Roma, dove Giunio avrebbe dovuto prendere parte al suo primo combattimento. Ma ogni rappresentazione fu sospesa in segno di lutto e rinviata a data da destinarsi.

Al defunto imperatore era succeduto il figlio Tito, ma più di una voce malevola sosteneva che quest’ultimo, sebbene fosse stato un ottimo consigliere per il padre, non potesse essere all’altezza del ruolo di guida suprema dell’impero.

I gladiatori continuarono comunque gli allenamenti, in vista dei ludi che avrebbero dovuto celebrare l’ormai imminente inaugurazione dell’anfiteatro Flavio.

Giunio aveva acquisito sempre maggiore dimestichezza ed esperienza con la forca e la rete; in particolare, dei continui esercizi si erano avvantaggiate le gambe, fattesi sempre più forti e agili. Com’era inevitabile, la voce dei suoi trascorsi di tribuno militare aveva fatto in fretta ad arrivare anche alla scuola, guadagnandogli un soprannome canzonatorio che accomunava le sue esperienze alle sue origini: per tutti era ormai Giunio, il tribuno di Luna.

Durante un allenamento si sentì chiamare alle spalle. Pur non avendo riconosciuto subito la voce, il tono ostile e gelido di essa gli diede un istintivo brivido alla spina dorsale. Istantaneamente in guardia, si voltò.

Vide il Trace al fianco di Menenio, accompagnato come sempre dal suo fedelissimo seguito di membri del senato.

«Dunque», disse il senatore anziano, «ci rivediamo, schiavo Giunio. Pensa alla fortuna di cui hanno voluto favorirti gli dei: dovresti essere stato giustiziato almeno due volte e invece ti scopro vivo. E proprio qui, in questa scuola che è la mia stessa generosità a finanziare.» Il solito ghigno malvagio, più simile al ringhio di un lupo che a un sorriso, gli torse le fattezze del viso… «Vedo che ti trovi bene nella pratica di questa arte nobile e pericolosa. Mi auguro che i successi nei combattimenti ti aiutino ad abbandonare le brutte strade che avevi intrapreso.»

Un augurio che suonò come una maledizione. Senza ulteriori parole, il senatore si allontanò con portamento altero, seguendo il lanista nelle sue stanze. Giunio ebbe l’amara certezza che, a partire da quel momento, la sua vita sarebbe diventata ancora più complicata e piena di insidie. Lo assillava inoltre un’ulteriore angustia: se il finanziatore della scuola, così notoriamente generoso, era l’infido senatore, nessuno poteva togliergli dalla testa che i suoi rapporti con Velio non si limitassero all’addestramento dei combattenti. C’era sicuramente dell’altro. Giurò a se stesso che avrebbe fatto tutto il possibile per scoprirlo.

«Quell’individuo ha tante vite come le divinità degli inferi», stava intanto inveendo Menenio, furente, rimasto solo con Velio. «Devi garantirti nel modo più assoluto che non venga a sapere niente del nascondiglio dei carri, né dei nostri rapporti privati. Nemmeno un vago accenno, la minima traccia, l’indizio più evanescente. Chiaro? Anzi, no, lasciamo perdere le strampalate idee di quello sciocco di Giusto Frontino. Avrò occasione di veder morire tanti altri uomini nel Circo. Vediamo quindi, non appena se ne presenta l’occasione, di fare in modo che un incidente tolga di mezzo questo tribuno di Luna. È un uomo molto pericoloso.»

«Come comandi, signore», replicò il lanista, raggrinzendo la cartapecora del volto in un ghigno scaltro. «Mi occuperò personalmente di lui.»

Inaspettatamente, Giunio doveva avere conferma dei suoi sospetti già il mattino dopo, quando, affacciandosi sullo specchio della baia dalla finestra della sua camerata, non riuscì a frenare un moto di sorpresa e indignazione. Davanti ai suoi occhi, tranquillamente all’àncora, la nave da carico che i suoi uomini avevano cercato con tanto inutile impegno beccheggiava pacifica sulle onde. I marinai erano intenti a ripiegare le vele e si accingevano alla manovra di accosto.

Il grande aplustro in forma di testa di cigno svettava sulla balconata di poppa. Scese precipitosamente la scala che conduceva al mare, costringendosi a dissimulare l’ira. Quando chiese a un inserviente addetto all’ormeggio di chi fosse la nave, conosceva già la risposta. «Appartiene alla scuola», rispose l’uomo, «viene utilizzata per il trasporto delle provviste o dei gladiatori.»

Animato da una nuova determinazione, salì di nuovo verso gli edifici della scuola. Le rocce che costeggiavano la scala erano di natura lavica e si aprivano di frequente in immense grotte o in cunicoli profondi. Arrivato nella palestra, vide che Velio lo stava aspettando. La sua aria ambigua lo mise immediatamente in guardia.

«Hai fatto progressi straordinari, Giunio», disse il lanista. «Addirittura impensabili, nonostante l’esperienza che ho di uomini e combattimenti. Ho notato con vero piacere che ormai, in allenamento, nessuno riesce più a tenerti testa. Oggi voglio pertanto metterti alla prova. Ti allenerai con me.»

A terra giacevano già la rete e la forca spuntata. Velio strinse la cinghia dell’elmo e gli fu addosso prima ancora che potesse raccoglierle.

Con un abile scarto, Giunio riuscì a svincolarsi dalla stretta e a impugnare fulmineamente le sue armi. Per farlo, aveva tuttavia perso istanti preziosi. Schivò un primo colpo di spada, ma il secondo, abbattutosi potentissimo sul manico ligneo della sua arma, lo tranciò di netto. La lama di Velio non era di quelle innocue che i gladiatori usavano in allenamento: aveva il filo arrotato alla perfezione. Giunio capì che l’incontro con Menenio aveva avuto immediatamente l’effetto prevedibile. Il lanista era pronto a uccidere, come confermava la luce livida del suo sguardo.

Si lasciò cadere sulla sabbia e rotolò più volte su se stesso, non abbandonando mai la forca, sebbene fosse ormai ridotta a uno spezzone poco più lungo del suo braccio, e la rete. Non disponeva di altri strumenti di difesa o attacco. Cercò di parare con la rete il secondo assalto, ma la lama affilata lo sfiorò sulla parte alta del torace, facendo scaturire un fiotto di sangue.

Una ferita superficiale, di quelle che nei lunghi anni di guerra aveva imparato a non tenere in nessun conto: sarebbe guarita in pochi giorni. Ma ben più letali minacciavano di diventare gli effetti degli attacchi del Trace. L’unica maniera per cercare di difendersi era trasformarsi da aggredito in aggressore. Ma Velio aveva dalla sua decenni di esperienza: scartando di lato con una potente torsione delle gambe e del busto, schivò l’affondo del moncone di forca e affibbiò un calcio poderoso allo stomaco dell’avversario. Giunio rimase senza fiato per qualche istante, cercando di tenere lontano il lanista con tutti i mezzi possibili per riuscire a riprendere fiato e vendere cara la pelle. Appena il dolore si fu attenuato, fece roteare la rete sopra la testa e la lanciò in direzione dell’assalitore, già ripartito alla carica.

Lo vide tentare di districarsi dalle solide maglie, ma ogni suo movimento otteneva l’effetto contrario. Cadde rovinosamente a terra e lui gli fu addosso in un lampo, premendogli le ginocchia sui bicipiti immobilizzati al suolo.

Levò alta sopra la testa la forca, che era sì spuntata ma comunque in grado di provocare la morte se vibrata con decisione da così poca distanza, ma fu costretto a bloccarsi un attimo, quasi ipnotizzato dall’unico occhio del suo avversario. Vi si vedeva una paura livida, incontenibile, forse la medesima paura di morire che lo stesso Trace aveva visto dipinta sul volto del fattore di Marzio o in quello di sua moglie. Sentì svanire ogni esitazione. «Muori!» gridò, e vibrò il colpo.

Ma aveva sottovalutato la forza del lanista, addirittura raddoppiata dalla disperazione. Con un guizzo poderoso, Velio si liberò dalla morsa delle sue gambe e lo fece ruzzolare a poca distanza. Giunio fece in tempo a vedere che si stava liberando dalla rete, ma in un lampo, prima che potesse rialzarsi, si trovò a sua volta immobilizzato.

Vide la letale lama abbassarsi verso la sua gola. «Sarai tu a morire, cane!» sibilò il Trace, alitandogli in faccia un respiro fetido. Lo vide prepararsi all’esecuzione, attese con rassegnazione il colpo mortale. Aveva fatto tutto quello che poteva.

Ma evidentemente gli dei non si erano ancora dimenticati di lui. In quel preciso istante la terra tremò e si aprì sotto di loro come mai avrebbe immaginato che potesse succedere. In un lampo gli edifici furono ridotti a macerie polverose, e una fenditura, larga diversi passi, si fece strada a grande velocità esattamente al centro del cortile, con una tremenda serie di crepiti e schianti. Vide alcuni gladiatori cadere e sparire nel baratro, mentre contemporaneamente sentiva la presa dell’avversario farsi meno potente. Il tremito della terra si fece ancora più terribile, tutto sembrava andare in frantumi, inabissarsi, esplodere. Velio era come paralizzato, il braccio ancora levato a colpire, un ginocchio a terra, uno sguardo di terrore fisso sullo spaventevole scenario di distruzione.

Chiamate disperatamente a raccolta le ultime forze, Giunio inarcò la schiena e se lo scrollò di dosso, scaraventandolo lontano. Il corpo di Velio rotolò sul terreno fino alla tremenda fenditura, che sembrava essersi fermata proprio per aspettare lui. Lo vide precipitare, scomparire, lasciando cadere sul terreno la letale spada. Le dita opposero un’ultima resistenza, macchiandosi di sangue, aggrappate per qualche istante ai bordi della voragine. Finché un nuovo scossone del terreno, meno violento ma ugualmente devastante, non lo fece precipitare verso il ventre della terra, fino al posto sicuramente a lui destinato nell’Averno.

Il vulcano stava vomitando fuoco e seminando distruzione ovunque. Sotto lo sguardo attonito di Giunio e degli altri gladiatori accorsi all’aperto, gli orli del baratro si riaccostarono, suturandosi come una ferita e chiudendo per sempre la tomba del malvagio Trace. Gli altri, disorientati e in preda a un panico incontenibile, presero a fuggire in ogni direzione. Lui no. Gli dei gli avevano mostrato in maniera inequivocabile il loro volere: gli avevano assegnato una missione, e doveva portarla a termine. Il sospetto sorto in lui quel mattino, per quanto persino più labile di quelli nati alla vista del colloquio segreto tra Menenio e Sestilio, era un motivo imprescindibile per rischiare ancora. Chi poteva essere stato, se non gli stessi dei, a mettere sotto il suo sguardo in quel modo la nave oneraria dal lungo collo di cigno?

Sapeva che nelle stalle c’era un magazzino il cui accesso era rigorosamente precluso a tutti i gladiatori. Raccolta meccanicamente la spada di Velio, si precipitò in quella direzione, mantenendo faticosamente l’equilibrio sul suolo tuttora scosso da squassanti tremiti. Mentre correva verso la costruzione, da cui sentiva arrivare i nitriti degli animali impazziti per il terrore, cercò di dare ordine ai suoi sospetti. Se era stato lui a trafugarle, Menenio non poteva essersi disfatto in così breve tempo delle enormi ricchezze del bottino conquistato ai germani. Non avrebbe mai potuto farlo senza dare pericolosamente nell’occhio. Sarebbe stato smascherato in breve tempo: le guardie imperiali erano in possesso del meticoloso inventario redatto da lui stesso nella residenza di Marzio a Ostia, oggetto per oggetto: barre d’oro, gemme, monili d’ambra, fibule.

Doveva averlo nascosto da qualche parte, in attesa che le acque fossero più tranquille. E la scuola dei gladiatori poteva essere un posto buono come tutti gli altri. Il migliore, anzi, il più inavvicinabile, il meglio protetto.

Appena superato l’ingresso, l’odore pungente dello stallatico gli riempì le narici, coprendo addirittura quello di zolfo di cui era impregnata tutta l’atmosfera. Nelle stalle, tra i poveri animali, abbandonati al loro destino dagli stallieri fuggiti alla prima scossa, regnava una confusione inverosimile. I cavalli, legati a un’unica solida fune, stavano strattonando rabbiosamente il morso, riducendosi la bocca a una maschera di bava e sangue. Ma per il momento Giunio non si curò di loro. Non aveva tempo. Era preso da un’urgenza incontenibile, un fremito fratello in tutto e per tutto di quelli che avevano appena devastato la terra. In fondo allo stanzone aveva avvistato la porta rinforzata del magazzino vietato. Si precipitò in quella direzione, ma, fatti pochi passi, si bloccò. Con le sue sole forze non avrebbe mai potuto avere ragione di quel portale di bronzo, fermato da una sbarra trasversale dello stesso metallo.

Scelse i due animali che sembravano meno terrorizzati e li separò dagli altri, legandoli in fondo alla stalla, verso la porta del magazzino segreto, lontano dal cavo che attraversava l’ambiente da un capo all’altro e al quale erano assicurate tutte le cavezze. Quindi fece passare l’estremità di una fune nel primo dei due anelli terminali di ferro che, uno dopo l’altro, tenuti uniti da una correggia tripla di cuoio, fissavano il cavo comune alla parete di fondo della stalla. Infine, assicurata con una serie di esperti nodi l’altra estremità della fune alla sbarra di bronzo che univa i due montanti della porta del magazzino, tagliò la tripla correggia con un colpo secco dell’affilatissima spada del Trace e incitò i cavalli con urla e scudisciate.

Il cavo comune, improvvisamente libero dalla tensione che lo teneva fissato al muro, vibrò come un serpente, torcendosi nell’aria con una sferzata tremenda che colpì diversi cavalli, aumentandone la frenesia. Come impazziti, gli animali scattarono verso l’ampia uscita, trascinandosi dietro tutto il cavo, in cui le cavezze erano rimaste incastrate. L’anello di ferro che fissava il cavo verso l’apertura della stalla cedette di schianto, lasciandoli finalmente liberi di scappare, e i pochi attimi di tensione della forza di venti cavalli sani e robusti sulla sbarra che bloccava il portale furono sufficienti a svellerlo.

Uno dei due battenti si abbatté di schianto e venne trascinato rovinosamente per diversi metri sul pavimento della stalla, sollevando una nuvola fetida di polvere e stallatico, e finalmente il branco delle bestie imbizzarrite riuscì a fuggire verso la libertà.

Quando il denso pulviscolo si fu diradato, Giunio entrò nel magazzino. In un istante i suoi sospetti trovarono conferma. I quattro carri che aveva portato dalla Rezia erano lì allineati, con le braghe disposte verso l’uscita.

Non perse tempo, incurante delle scosse di terremoto che continuavano a succedersi e dei paurosi gorgoglii del vulcano. Aggiogò ciascuno dei due animali separati in precedenza dal branco a un carro e, tenendo a mano le briglie, si lanciò di corsa verso lo strapiombo sul mare.

Sebbene a fatica, i poveri cavalli, terrorizzati ma lieti di poter fuggire lontano dall’inesplicabile furia delle rocce, riuscivano a trainare lo stesso peso a cui, nel corso del viaggio della legione verso Roma, erano aggiogate ben due coppie di tiro per ogni turno.

Nel corso degli addestramenti, Giunio aveva notato l’esistenza di una grotta a poca distanza dall’inizio della scala che scendeva all’approdo. Dal mare era impossibile vederla, in quanto completamente riparata dietro uno sperone di roccia. Non senza difficoltà, riuscì a guidare i cavalli appaiati fino all’inizio del vertiginoso dirupo che si levava dalla spiaggia, e poi, legate le briglie del secondo animale al primo carro, fece avanzare il più possibile il duplice convoglio all’interno della grotta fino a un punto in cui, restringendosi, le pareti impedivano di proseguire oltre.

Quindi, liberati dal giogo i puledri, montò il più fresco dei due e, stringendo le briglie dell’altro, raggiunse nuovamente il magazzino delle stalle per ripetere l’operazione. Precisamente in quel momento metà della montagna sembrò esplodere con un fragore tale da provocargli un cocente dolore alle orecchie. Una massa di rocce volò verso il cielo ricadendo come una pioggia martellante di pietre roventi e cenere.

Governare i cavalli era diventato quasi impossibile, ma riuscì comunque ad abbandonare la stalla con il suo prezioso carico nello stesso istante in cui un blocco di lava incandescente colava sul tetto, facendo cedere di schianto la struttura già lesionata dal terremoto.

Una vera pioggia di fuoco accompagnò il secondo viaggio verso la grotta. I due poveri animali dovettero essere frustati a sangue e trascinati con tutte le forze per il morso, ma finalmente la missione richiesta dagli dei protettori del tesoro di Roma fu compiuta.

Liberati i cavalli e lasciatili andare con una sonora pacca sul dorso schiumante di sudore, Giunio rimase qualche istante a osservarli galoppare verso sud, in cerca della salvezza. Avesse potuto imitarli e scappare in quel modo anche lui, libero come un giovane animale sano.

Ma non era possibile. La missione di cui si sentiva investito dagli dei aveva un seguito obbligato, a cui non avrebbe mai potuto sottrarsi. Alzò gli occhi alla scuola. Delle strutture originarie non rimanevano che poche rovine fumanti. Corse verso il mare, scendendo la scalinata con la velocità del vento.

Una bonaccia gonfia di vapori irrespirabili bloccava la nave dove avevano cercato scampo i suoi compagni. Dall’alto vide che, martellata com’era dall’incessante pioggia di proiettili fiammeggianti, sembrava bersaglio del lancio di mille catapulte.

Le vele erano strappate in più punti e stavano per essere preda delle fiamme. A bordo regnava il panico; nessuno riusciva a ordinare la fuga. Si tuffò dal pontile e raggiunse la murata nuotando in un mare che sembrava ribollire. Issatosi a bordo a forza di braccia, mise a profitto i lunghi anni di comando militare e di vita marina, e, cercando di mantenere lui stesso la calma, tentò di ristabilire una parvenza di ordine tra gli uomini terrorizzati.

Erano più di centocinquanta, stipati in ogni spazio disponibile. Levando alta sul frastuono degli elementi una voce a cui cercò di conferire una sicurezza che non provava affatto, ordinò a un gruppo di occuparsi di domare gli incendi, altri li comandò alla voga con i sei lunghi remi normalmente utilizzati per le sole manovre o per i vuoti di vento. E finalmente, con una lentezza esasperante, la grossa nave cominciò ad allontanarsi dalla baia e dalla mortale portata delle esplosioni del vulcano.

Appena raggiunta la sicurezza, non poté non riflettere su quanto fossero strane le coincidenze: quella nave, che aveva seminato la morte tra i suoi legionari determinando un radicale cambiamento della sua vita, adesso lo stava portando in salvo.

Spinse lo sguardo a poppa, al di là della grande testa del cigno. L’aria era tuttora oscurata da una densa nebbia giallastra, formata dalle ceneri in sospensione, ma a tratti si riuscivano a distinguere la vetta del Vesuvio e i fiumi di lava che ne rigavano il versante a mare, travolgendo e distruggendo ogni cosa. Se quello che aveva vissuto era l’effetto dell’eruzione sulla lontana zona di Stabia, che cosa poteva mai esserne stato di località più vicine al vulcano, come Pompei o Ercolano? Su tutta la costa martoriata, i superstiti dovevano essere ben pochi.

L’oscurità calò con notevole anticipo, favorita dalla coltre impenetrabile che gravava sulla zona. Il buio rimase pervaso da un turbinio di livide iridescenze rosse e violacee, testimonianza visibile delle colate laviche e delle fiamme che dilagavano ovunque.

Gli uomini osservavano ammutoliti il terribile, inarrestabile spettacolo. La lava era ormai arrivata al mare, sprofondando tra vapori e fumi. Ogni cosa cedeva al peso e al calore di quel fiume rosso. Dalla vetta rimbombavano ancora sinistre esplosioni; qua e là, nel buio venato di rosso, si intravedevano le colonne d’acqua sollevate dai proiettili esplosi dal vulcano.

Ma la furia degli dei nei confronti degli uomini era ben lungi dal placarsi. Nel cuore della notte la tempesta scoppiò improvvisa, preannunciata soltanto da un refolo di vento nella calma più piatta. Il mare montò, quasi volesse non dimostrarsi da meno di fronte allo scatenarsi degli elementi terrestri.

Le vele erano state ammainate e alcuni uomini stavano cercando di riparare i grossi strappi provocati dai lapilli incandescenti. Non sarebbero comunque mai riuscite a reggere la furia del vento che si scatenò dopo pochi minuti.

I fuggiaschi cercarono di riparare dietro le isole di Ischia e Procida, ma governare la nave era diventato impossibile. I colpi del mare si abbattevano senza sosta sul ponte stipato di uomini, trascinandone alcuni in acqua ogni volta.

Le onde avevano ormai distrutto quattro remi su sei, i timoni erano prossimi a spezzarsi. Rivolto lo sguardo al ribollire delle acque, Giunio pregò mentalmente Nettuno di perdonarlo. Quali potevano essere le sue colpe di fedele servitore dell’impero romano? Se altri dei gli avevano affidato una missione, non avrebbe voluto il dio dei flutti marini consentirgli di portarla a termine?

La nave offrì il fianco alle onde; preoccupato si volse verso il lato della tuga dove si trovava il timone di sopravvento, che avrebbe dovuto essere ancora in grado di preservarli da quella pericolosa manovra. Non vide tracce del timoniere, probabilmente trascinato via da un’onda. Gli apparve evidente che, se avessero subito ancora qualche colpo di mare al traverso, sarebbero stati inevitabilmente travolti. Si trovava qualche braccio più in alto rispetto al timone di dritta, quindi si lanciò nel vuoto, cercando di afferrare al volo durante la caduta la lunga impugnatura della pala del timone. Spinse con tutto il peso del corpo e sentì che a poco a poco, con uno sforzo sovrumano, lo scafo aveva ragione della sbandata, finché non vide la prora allinearsi alle onde e fendere le mortali pareti d’acqua.

Sperò che le strutture dell’oneraria non li abbandonassero proprio allora, ma il fasciame sembrò tenere senza grossi problemi; era di vitale importanza non presentare di nuovo il fianco alle onde.

Vento e mare li flagellarono per quasi tutta la notte. Una notte di paura e invocazioni agli dei: vedere la morte in faccia sgomentava anche quegli uomini votati a doversi giocare giorno per giorno un’esistenza comunque breve. Gli dei vollero essere clementi con loro: alle prime luci dell’alba, improvvisa com’era venuta, la tempesta cessò e il sole cominciò a colorare di rosso le murate di sinistra.

Presero terra nei lidi a sud di Roma, abbandonando al suo destino la nave oneraria con la grande scultura a forma di cigno. Era ormai irreparabilmente danneggiata dalla furia di quella sola notte di tempesta.

Giunio la seguì con lo sguardo, vedendola andare alla deriva e finalmente scomparire: senza gli uomini impegnati a gettare fuori bordo l’acqua imbarcata, si inabissò in pochi istanti. Vedendo il cigno scomparire per sempre tra i flutti, provò un inesplicabile senso di sollievo.

Nessuno dei gladiatori pensò di approfittare della libertà concessa loro dalle forze della natura. E del resto sarebbe stata una libertà precaria. Dopo una rapida consultazione tra i capi riconosciuti del gruppo, fu deciso di fermarsi a una certa distanza dalla città e che una delegazione si sarebbe recata dal senatore Menenio, patrono della scuola, a chiedere istruzioni.

Quinto, il giovane ordinato alla guida della delegazione, tornò il giorno dopo, promosso al grado di lanista. Il senatore aveva disposto che venisse loro assegnata una caserma dell’esercito temporaneamente abbandonata, nei pressi della città, dove il nuovo lanista avrebbe potuto riorganizzare la scuola e prepararla ai giochi indetti da Tito.

Data la giovane età, Quinto era entusiasta dell’incarico ricevuto — ogni gladiatore sognava di poter un giorno dirigere una scuola -, ma sapeva che quella carica era soltanto temporanea. Trascorse infatti un brevissimo periodo nel corso del quale ciascuno dei suoi compagni accettò disciplinatamente di trattarlo con il rispetto dovuto al capo, ma già dopo pochi giorni, assieme al carico delle armi, giunse il nuovo lanista, e Quinto fu rispedito senza cerimonie ad allenarsi con gli altri.

Il nuovo titolare della scuola, Celsio, era un ottimo istruttore militare, e fu forse per questo che tra lui e Giunio nacque una spontanea affinità. Ma la sua esperienza di combattimenti circensi era evidentemente scarsa, al punto di indurre spesso i gladiatori a rimpiangere i consigli del malfido e crudele Trace scomparso nel ventre della terra.

Per loro fortuna, tuttavia, arrivati in prossimità dei giochi, le redini della scuola vennero di fatto prese saldamente in mano dall’impresario, Saulo, un uomo originario dell’asiatica Galazia, che ostentava una grande padronanza dei giochi. A suo dire, la scuola di Stabia avrebbe dovuto in gran parte la propria fama ai suoi continui interventi di organizzazione e al suo costante interessamento. Non aveva certamente l’aspetto del combattente: era grasso e molle, con pochi capelli su una testa perennemente sudaticcia, e i pochi denti rimastigli in bocca erano ridotti a moncherini di un colore brunastro, ma per il resto era piacevole ascoltare i racconti che, finiti gli allenamenti, dispensava ai gladiatori raccolti attorno a lui per il consueto scambio di opinioni e giudizi.

«Credo che nessuno di voi», disse una sera il Galata, «possa nemmeno immaginare la maestosità del nuovo anfiteatro voluto dalla famiglia Flavia.» E così dicendo tracciò un’ellisse sulla rena, mettendosi a descrivere la struttura fin dalle fondamenta. «Sotto il piano si trovano i magazzini e un labirinto di sotterranei, nei quali aspetterete il vostro turno. Vi sono poi gabbie capaci di contenere fino a quasi cinquecento fiere, e sistemi di sollevamento per introdurle nell’arena senza alcun contatto diretto con gli inservienti. Per celebrare il nuovo anfiteatro, il divino Tito Flavio ha indetto cento giornate ininterrotte di giochi. Quasi cinquantamila persone potranno assistere ogni giorno alle lotte e agli spettacoli.

«Ma ricordate, e ficcatevelo bene in quelle teste dure, che il torneo sarà a eliminazione», sogghignò, mostrando i pochi denti malati, «e del resto non potrebbe essere altrimenti. Vi esibirete secondo un calendario prestabilito che prevede, per ogni turno, un giorno di battaglia e uno di riposo. Le due scuole che riusciranno ad arrivare allo scontro finale si cimenteranno in una tra le più grandiose battaglie navali mai allestite in un Circo. Come sempre: massima gloria o morte.»

Quindi, fatta una breve pausa perché tutti assimilassero a fondo le sue parole, riprese: «Voglio augurarmi che le recenti disavventure non abbiano compromesso lo spirito della scuola di Stabia, la più valorosa che sia mai esistita».

Parole che suonarono come un incitamento alla battaglia: gli uomini risposero con un boato carico di ardore: «Massima gloria!»

«Non c’è bisogno», riprese ancora il Galata, «che spieghi proprio a voi che l’imperatore sarà magnanimo con chi si distinguerà nei giochi. Molti di voi potrebbero tornare uomini liberi, talmente ricchi da comperarsi non una ma dieci scuole.»

Il discorso dell’impresario aveva toccato nel vivo quei combattenti: uomini forti e senza paura, ma schiavi. Dopo quella sera gli allenamenti furono condotti da tutti con impegno ancor più indefesso. Massima gloria o morte.

4.

Roma imperiale. Anno 833 dalla Fondazione.

[80 d.C. (N.D.T.)]

Trascorrere un intero anno chiusa tra quattro mura costituiva senza dubbio un sacrificio duro, anche se gli ampi e lussuosi spazi della dimora delle vestali non erano certamente paragonabili a una prigione. La scadenza del termine della sua punizione si stava avvicinando, e Clelia aspettava con ansia l’inaugurazione del nuovo anfiteatro, evento a cui, data la particolare solennità con cui l’imperatore aveva ordinato venisse celebrata la cerimonia, nessuna delle sacerdotesse sarebbe potuta mancare. Finalmente, in anticipo di quasi una settimana sullo scadere del castigo, la giovane sarebbe potuta rientrare in possesso della libertà personale, seppure nella consueta forma limitata e controllata.

Gaia era stata la sola persona che sembrasse rendersi conto del suo stato di prostrazione. Al rientro dalle preghiere nel tempio o dalle cerimonie, trascorreva ogni volta diverso tempo in compagnia dell’amica, raccontandole con dovizia di particolari ogni evento degno di nota. Ma non era il solo argomento delle loro conversazioni. Una sera, per esempio, Clelia chiese a Gaia che cosa si dicesse in città dei cristiani. La seconda assunse un’aria preoccupata.

«Una notte che non riuscivo a dormire, venuta nella tua camera in cerca di un po’ di compagnia sperandoti sveglia, ti ho invece sentito parlare nel sonno dell’uomo di Nazareth», disse per tutta risposta. «Bada bene, Clelia, fino a che sono io a scoprire i tuoi segreti non corri alcun pericolo, ma cerca di immaginarti che cosa accadrebbe se fosse Cornelia a origliare alla tua porta e ad ascoltare le preghiere che ti sento a volte recitare. Te l’ho già detto diverse volte e te lo ripeto: sta’ in guardia. Temo che aspetti l’occasione buona per disfarsi di te fin dal momento in cui sei stata consacrata alla dea.

«Non c’è bisogno che sia io a ricordartelo: il suo cuore è di pietra. Ha un concetto quasi fanatico della propria e nostra funzione sacrale. Se arrivasse soltanto a sospettare quello che so io, non credo avrebbe la minima esitazione a metterti una lucerna nella destra e un tozzo di pane nella sinistra e a segregarti a vita in una delle celle sotterranee del Campo Scellerato.»

Erano ormai trascorsi sette mesi dalla data dell’eruzione, e le calde serate primaverili costringevano i gladiatori a rimanere svegli fino a tardi, in animate discussioni sui metodi di lotta. Con il passare dei giorni i ranghi dell’antica scuola di Stabia si erano reintegrati. Dei centoquarantuno uomini riusciti a salvarsi con la nave, oltre ottanta erano gladiatori, gli altri costituivano parte dei famigli e degli addetti alle scuderie o al cantiere navale. Altre duecento persone circa, anch’esse scampate alla furia del vulcano fuggendo via terra, li avevano raggiunti non appena erano venuti a sapere dove si era ricostituita la scuola del Trace.

Così, alla vigilia degli importantissimi giochi di inaugurazione della nuova arena imperiale, una delle più apprezzate scuole dell’impero sembrava essere stata semplicemente sfiorata dal disastro. In una cosa Velio aveva dimostrato di conoscere alla perfezione gli uomini affidati ai suoi insegnamenti: a nessuno dei gladiatori, sebbene schiavi, era venuto in mente di fuggire. Erano uomini votati alla morte: il loro destino era quello, non avrebbero mai potuto immaginarne un altro.

Giunio trascorse insonne diverse notti di vigilia, come un tempo, ripercorrendo mentalmente con puntiglio gli schemi appresi presso la legione e i compiti che gli spettavano in battaglia, dapprima come legionario e poi come ufficiale. Mai aveva tuttavia provato le sensazioni da cui era pervaso in quel frangente. Era trepidante, forse persino intimorito come una recluta alla prima missione.

Dell’ultima notte insonne pensò per un momento di trovare la causa nel grande banchetto che si era svolto quella sera in onore dei gladiatori della sua scuola. Banchetto offerto dai sostenitori che desideravano osservarli da vicino e valutarli, al fine di avere gli elementi di giudizio in base a cui, il giorno dopo, correre a scommettere. Ma in fondo sapeva che l’impossibilità di dormire non dipendeva dal cibo e dal vino, dei quali non aveva peraltro abusato. Dopo lunghe ore passate con gli occhi sbarrati nel buio, si appisolò quando mancava poco all’alba, cadendo in un sogno agitato in cui antichi ricordi del mare vicino alla città di Luna si mescolavano con altri meno antichi, riguardanti questa o quella battaglia, e ad altri ancora più recenti. Al filtrare della prima luce nella camerata si trovò sveglio. Provveduto alle abluzioni e a un pasto, scese a prepararsi per l’adunata nel cui corso sarebbe stata indicata la prima squadra di combattenti. I nomi dei prescelti venivano volutamente annunciati all’ultimo momento, al fine di evitare tensioni o un eccessivo rilassamento negli uomini il cui impegno era rimandato a più tardi: ognuno di loro doveva essere pronto a battersi sempre.

Era quasi sicuro di appartenere al novero dei primissimi candidati, ma quando il lanista pronunciò il suo nome per ultimo, accompagnato dal grado di comandante della squadra, si sentì ugualmente pervadere da un fremito. Montarono sui carri quando il sole appena sorto illuminava le mura della città, facendole sembrare un interminabile serpente, rossastro e minaccioso. Nonostante la brevità del riposo, si sentiva carico e concentrato come non mai.

Improvvisamente notò una grande animazione: una moltitudine di persone si dirigeva a passo veloce verso la medesima meta. Dopo pochi istanti, maestoso e imponente, davanti ai loro sguardi apparve il luogo dove avrebbero riscattato la loro vita o incontrato una morte orribile.

L’anfiteatro Flavio era composto da tre ordini di immense arcate, sovrastati da un’ulteriore soprelevazione. L’intera circonferenza era delimitata da oltre duecento pali di ferro progettati per sorreggere l’enorme velario, che riparava il pubblico dalla pioggia o dal sole e la cui manovra era affidata ai marinai della flotta imperiale di Miseno. I due ordini di arcate che sovrastavano le ottanta porte di accesso erano adorni di statue in varie pose di combattimento.

Il convoglio dei carri raggiunse finalmente la piazza nella valle, tra il Palatino, il Celio e l’Esquilino, dove sorgeva il Circo. A poca distanza, la statua in oro del dio Sole — un tempo simulacro del folle Nerone — sembrava osservare dall’alto dei suoi quaranta cubiti l’inesauribile affluire di pubblico.

La folla si assiepava attorno all’ingresso e, non appena alcuni riconobbero le insegne della scuola di Stabia, si levarono grida e incitamenti mescolati a improperi e dileggi. Abituato all’attività militare, alla solenne gravità delle manifestazioni ad essa connesse, mai Giunio avrebbe immaginato che la passione per i combattimenti del Circo potesse portare a simili manifestazioni. I carri si fecero largo, avanzando con difficoltà in mezzo alla moltitudine vociante. Sulla sua destra, Giunio notò la presenza di almeno altre cinquecento persone, dall’aria dimessa, guardate a vista da molti militari.

Stupito, chiese a Saulo chi fossero, e il Galata rispose con un sorriso maligno: «Non lo sai? Dove sei vissuto fino adesso, gladiatore? Sono i bestiari che non riescono a trovare posto nei sotterranei, ormai zeppi». Ancora più stupito, Giunio obiettò: «Non mi sembra che vestano le armature, o che abbiano le armi di chi combatte contro le belve, anzi…»

«E chi ha detto», ribatté il Galata con una volgare risata, che rese stridula la sua voce tenuta alta per sovrastare le acclamazioni della folla, «chi ha detto che un cristiano debba godere del beneficio delle armi per difendersi da un leone? Non hanno già la protezione del loro dio unico e misericordioso a preservarli dal male?» E la risata si levò ancora più alta e sinistra.

Entrarono direttamente nella caserma dei gladiatori, subito a ridosso della cinta dell’anfiteatro, prendendo possesso della grande stanza rettangolare loro assegnata e cercando di ingannare la febbrile attesa compiendo esercizi o esaminando le armi. Giunio prese tra le mani la rete e ne verificò la robustezza maglia per maglia, quindi bilanciò il tridente nella destra, rendendosi conto per la prima volta di quanta sicurezza fosse capace di infondergli l’unica arma di offesa di cui disponeva. Infine varcò la soglia e si mise a girovagare nel dedalo di corridoi fino a raggiungere il sottopassaggio che portava ai sotterranei esterni del Circo. Il forte odore selvatico degli animali gli riempì le narici, sempre più pungente a mano a mano che si avvicinava alle gabbie. Osservò a lungo l’eleganza dei movimenti delle belve, le loro dimensioni, la ferocia delle loro espressioni. Ve n’era di ogni tipo, dai maestosi leoni d’Africa alle temibili pantere. Sembravano pronti, appena liberi, a far pagare con un sanguinoso tributo di vite umane lo stato di cattività in cui erano tenute.

Quando degli inservienti comunicarono loro di prepararsi a entrare nell’arena, non sapeva quanto tempo fosse passato: come gli avevano preannunciato i compagni esperti, era sembrato interminabile, a lui come a tutti gli altri. Accertatosi che i trenta gladiatori al suo comando fossero pronti, si mise alla guida del drappello dirigendosi verso le scale che conducevano all’ingresso. Le torce illuminavano gli angusti passaggi, deformando ulteriormente i volti dei suoi uomini, già stravolti da curiose smorfie di tensione.

L’improvvisa luce del sole lo abbagliò per qualche momento, mentre un urlo assordante si levava da oltre cinquantamila gole. L’interno dello stadio corrispondeva in tutto alla maestosità che aveva avuto modo di osservare all’esterno: ogni ordine di gradinata era stipato di pubblico urlante che non aspettava altro se non l’inizio dei combattimenti e delle carneficine.

A poco a poco, abituandosi alla luce, lo sguardo gli rivelò uno spettacolo straordinario: il perimetro dell’arena era scandito da accurate scenografie che raffiguravano con meticolosa precisione scorci di paesaggi d’oltremare, macchie di foresta inestricabile, colline e laghetti artificiali. Erano i ripari dove avrebbero dovuto sfuggire agli inseguitori, i nascondigli da cui tendere le imboscate.

Sebbene l’eccitazione rischiasse di prendere il sopravvento sulla lucidità della sua mente, ricordò a uno a uno gli insegnamenti del Galata e le sue descrizioni circa i vari punti di riferimento. Sulla destra vide la porta da cui venivano evacuati i corpi privi di vita. Il pensiero che molti di loro, se non forse lui stesso, sarebbero stati trascinati per le braccia o per le gambe attraverso quell’anticamera dell’Averno, con le membra abbandonate nella sabbia, gli diede un nuovo brivido di furore. Era pronto a vendere carissima la vita.

Esattamente di fronte a sé vide il palco dell’imperatore, su cui troneggiavano due colonne adorne delle insegne imperiali. Puntò con passo risoluto verso Tito, seguito dai suoi uomini in ordine di marcia. Un silenzio irreale aveva avvolto ogni cosa. Erse fieramente la testa e, rivolto all’imperatore, pronunziò le frasi di rito, provate e sentite provare tante volte durante gli allenamenti, e presentò la sua forza.

«Divino Tito», disse con voce stentorea, sentendo le sue parole levarsi alte tra l’attenzione spasmodica, «davanti a te è schierata la scuola di Stabia, pronta a battersi con onore fino alla morte. Ave, Caesar, morituri te salutant!» Un boato gli riempì le orecchie: migliaia di voci scandivano il nome della scuola.

Si accorse che in quello stesso istante entravano in campo gli avversari, anch’essi accolti dagli incitamenti del pubblico. Valutò con occhio esperto la struttura fisica di ciascuno di essi: era ormai abituato a quei volti segnati dalle lame affilate, l’aspetto truce dei nemici non poteva impressionarlo. Il cerimoniale di saluto si ripeté e, finalmente, un cenno della mano di Tito diede il via al combattimento.

Si dispersero prontamente nel grande spazio, trovando riparo dietro i giganteschi monoliti adagiati sulla sabbia o tra gli alberi piantati in aiuole di terra riportata; cercando, comunque, di non perdere mai di vista l’avversario.

Al primo cozzo di armi, Giunio sentì il sangue scorrere più veloce e, scorto uno degli inseguitori nemici, lo fronteggiò mulinando la rete e puntandogli il tridente al petto. Cominciò a combattere sotto un sole alto e sfolgorante; quando stava per tramontare, ebbe ragione dell’ultimo avversario. La sua squadra aveva perso solamente due uomini, mentre una sorte ben più amara aveva subito il nemico. Abbandonarono l’arena accompagnati dagli incitamenti entusiasti e sfrenati della folla.

Quegli spettacoli cruenti non erano certamente fatti per rallegrare lo spirito di Clelia che, al contrario delle altre, rimaneva quasi in disparte nel palco riservato alle sacre sacerdotesse, immediatamente di fianco a quello dell’imperatore. Non riusciva a darsi ragione di come le scie di sangue lasciate sulla sabbia dagli uomini feriti o morenti potessero infiammare gli animi di tutti, compreso quello della Vestale Massima che, abbandonato ogni ritegno e sporgendosi dalla balaustra, gridava espressioni inaudite alla volta dei gladiatori perdenti.

Quando poi vide il gruppo malconcio e impaurito che aspettava inerme la morte al centro della grande platea, non riuscì a trattenere le lacrime. I cristiani erano una cinquantina; li vide stringersi l’uno all’altro quasi per farsi coraggio. Vide vecchi, donne e bambini, riparati al centro dell’improvvisato schieramento circolare, mentre nella parte esterna erano disposti gli uomini validi, disarmati.

Nel silenzio spasmodico dell’attesa, un cigolio sinistro sembrò riempire lo stadio: le gabbie erano state aperte, e nell’arena si riversavano da ogni lato leoni e pantere. Vide le fiere fermarsi un attimo, interdette, probabilmente accecate dalla luce improvvisa, e poi, annusata l’aria, dirigersi con le loro andature eleganti e letali verso le prede. Ebbe ancora la forza di guardarle girare lentamente attorno a quella povera gente, quasi volessero valutarne la pericolosità, e poi le vide balzare con gli artigli protesi.

In quell’istante chiuse gli occhi. Ma non poté fare a meno di sentire le urla disperate, i ruggiti delle fiere, il clamore della folla. Si sentì invadere da un dolore intollerabile. Una misericordiosa forza celeste ebbe pietà di lei, perse i sensi.

Quando riprese conoscenza si trovava nell’infermeria del Circo, e Gaia le stava accanto tenendole la mano.

«Perché?» chiese con voce tremante. «Perché?»

«Il tuo malessere mi ha evitato di assistere al resto dello spettacolo», rispose una Gaia completamente nuova, un tempo tanto eccitata all’idea degli spettacoli del Circo e adesso, invece, tremante, indignata. «Non puoi sapere con quanto sollievo abbia abbandonato gli spalti. Ma temo che, nostro malgrado, dovremo abituarci. La regola vuole che presenziamo a tutti i cento giorni di combattimenti.»

Lo svenimento di Clelia costituì tuttavia un alibi accettabile. Dal giorno seguente la giovane poté fingersi malata, evitando di assistere nuovamente a quegli spettacoli di intollerabile crudeltà.

Roma imperiale. Anfiteatro Flavio.

A mano a mano che Giunio e i suoi procedevano di vittoria in vittoria, il valore dei loro avversari si faceva sempre più elevato. E insieme aumentava la passione del pubblico, che ormai conosceva tutti i nomi dei suoi favoriti, i quali, nel corso di un combattimento, si sentivano esaltare in maniera cieca dall’urlo della folla.

Nuovo a quegli spettacoli, Giunio non si era forse reso conto fino in fondo di quanto fosse idolatrato dalla folla, ma non poté non notare che ogni volta che scendeva nell’arena il suo nome si levava alto. La folla aspettava i gladiatori all’esterno dell’arena, nella speranza di poterli accostare, vedere da vicino, toccare, di poter manifestare loro il suo favore con frasi di incoraggiamento.

Una sorta di pazzia collettiva da cui a poco a poco si era lasciato contagiare. Continuava a ritenere inutile provocare la morte di un avversario ormai sconfitto, ma con sempre minore esitazione affondava l’arma nella gola del nemico quando la folla inferocita gli gridava: «Non avere pietà, Giunio di Luna, sgozzalo!» E per converso, nei rari casi in cui il pubblico e l’imperatore ritenevano degno di grazia un gladiatore battutosi con particolare coraggio e valore, gli sembrava di non compiere a fondo la sua opera. La fine dei giochi si avvicinava rapidamente; sempre più prossimo diventava il giorno dello scontro finale.

Aveva chiesto più volte a Saulo notizie di Marzio, ma non era mai riuscito a cavare dal torbido impresario dei giochi niente più di qualche frase generica. Finché, improvvisamente, una sera, venne da lui tratto in disparte e si sentì dire: «Ho finalmente saputo dove si trova il generale Marzio». Quindi, accertatosi con una pausa di avere conquistato tutta la sua attenzione, il Galata riprese: «Pochi giorni dopo il tuo processo, è stato a sua volta condannato per alto tradimento e poi graziato dalla pena capitale in virtù dei suoi meriti militari. È comunque accusato di appropriazione di beni della collettività, a causa della scomparsa del tesoro dei germani. Attualmente è chiuso nelle carceri di Ostia, dove sconta una condanna a venti anni».

«Marzio in carcere?» replicò, incredulo.

«Sì, e ti assicuro che, se fosse stato chiuso al Mamertino invece che in quelle più umane prigioni vicine al porto, a quest’ora non sarebbe di certo più in vita.»

Lo sguardo di Giunio si perse nel vuoto. Adesso aveva davvero qualcosa in cui credere e per cui combattere.

Cento giorni possono non sembrare molti, ma, come sempre, nel chiuso della dimora delle vestali il tempo sembrava non passare mai. Clelia trascorreva le sue giornate in un’inedia totale, fino al rientro delle compagne dai giochi. Ma anche allora continuava a fingersi malata, cospargendosi il viso di ciprie chiare e sottolineando con un tocco di tinture d’Egitto le cerchiature sotto gli occhi. Aveva colto più volte lo sguardo sospettoso della Vestale Massima, ma era riuscita a schivare abilmente le sue pressanti domande fingendo violenti colpi di tosse convulsa. Sapeva comunque che la finzione non poteva continuare a lungo.

Parlandole dei giochi, Gaia si era soffermata a lungo sulle gesta di Giunio, un gladiatore invincibile, capace di infiammare gli animi con il suo coraggio e il suo valore.

A poco a poco Clelia si era lasciata convincere. Se fosse stata smascherata, avrebbe pagato caro il suo stratagemma. Quindi decise di ridurre gradualmente i falsi sintomi del malessere e di essere presente all’ultima giornata dei giochi. L’arena sarebbe stata allagata per una finta battaglia navale, e Clelia pensava, a torto, che lo spettacolo sarebbe stato meno cruento.

Nel corso dell’ultima settimana gli allenamenti si erano fatti ancora più duri: in aggiunta ai consueti esercizi di lotta, i gladiatori trascorrevano molto tempo sulle imbarcazioni da battaglia, esercitandosi nelle manovre e negli speronamenti, simulando fughe o volando all’inseguimento, pronti ad arrembare. Nelle manovre di accostamento avevano raggiunto una tale sincronia, una tale perfezione e velocità da stupirsi essi stessi. Quando il corvo — la lunga passerella che permetteva di trasformare uno scontro navale in una battaglia corpo a corpo — era solidamente conficcato nel fasciame del ponte avversario, facevano destramente ruotare l’imbarcazione in modo da affiancarla all’altra. Quindi, invece di avanzare dove era naturale che i nemici li aspettassero, scavalcavano le murate contigue delle due navi e dilagavano sul ponte.

La prima volta che Giunio aveva ordinato ai suoi di provare questa ardita tecnica, la squadra con cui si stavano allenando era stata colta di sorpresa, ancora schierata a prua in attesa di un assalto proveniente dalla passerella d’arrembaggio.

Negli ultimi due combattimenti nel Circo, Giunio aveva perso un numero rilevante di uomini, quasi il doppio di quanti ne erano caduti in tutti gli altri giorni, ma ormai gli restava da affrontare soltanto una squadra nell’attesissima battaglia finale.

Venivano da una terra lontana, a oriente di qualsiasi paese conosciuto; la loro forza si ammantava di leggenda; l’abilità con cui si battevano era tale da suscitare al tempo stesso ammirazione e sconcerto. Portavano armi inusuali e sopperivano a evidenti limiti fisici con un’agilità mai vista e una tecnica micidiale. I gladiatori della scuola d’Oriente erano temuti e rispettati ovunque: combattere contro di loro significava quasi sempre soccombere.

Nella valle scorreva un piccolo rio, che un tempo alimentava il laghetto posto al centro della monumentale residenza di Nerone. Durante i lavori di costruzione dell’anfiteatro, il corso del ruscello era stato deviato e il suo letto incanalato con le stesse tecniche di costruzione di un acquedotto. L’apertura di una chiusa bastava per allagare il piano dell’arena. Nel giro di una notte l’acqua arrivò a lambire la base del palco imperiale, consentendo alle navi di navigare agevolmente. I magazzini e gli accessi che si trovavano sotto il livello dell’acqua erano stati sigillati con pesanti portali di legno, nelle cui fessure era stata colata pece fusa.

Nonostante i giorni passati a combattere al centro dell’arena, vedere l’anfiteatro così trasformato per accogliere l’ultimo scontro provocò in Giunio una profonda emozione. Quando poi ebbe modo di osservare gli occhi sottili e freddi degli avversari, provò una sensazione che dovette riconoscere di disagio, se non addirittura di timore.

Ai due poli dell’ellisse, gli scenografi avevano creato due isole artificiali, dove erano ormeggiate le imbarcazioni. Le due flotte, ciascuna di tre navi, si fronteggiavano minacciose in attesa del segnale d’inizio del combattimento. Una terza isola era stata sistemata direttamente davanti al palco imperiale: su quel rialzo i vincitori avrebbero ottenuto il meritato trionfo.

Il pubblico appariva diviso in due fazioni quasi uguali; i nomi che venivano alternativamente scanditi, mischiandosi spesso con un effetto curioso, sembravano essere solamente il suo e quello di uno degli avversari. Viste da lontano, le navi erano una copia esatta delle deceres, ma con una riduzione proporzionale delle dimensioni che ne consentiva quel tipo di impiego. Invece di oltre seicento uomini, tra fanti e marinai, ne potevano accogliere ottanta ciascuna. Anche il numero dei remi e dei manovratori era proporzionalmente ridotto. La linea rimaneva snella e filante, e i vessilli sventolavano sgargianti nella calda brezza estiva.

Notato un inesplicabile ribollire dell’acqua in una zona del campo di battaglia, Giunio cercò di capirne il motivo. Aveva sentito parlare più volte di quei ripugnanti animali, simili a gigantesche lucertole con la pelle più dura della pietra, ma non li aveva mai visti. Invece, adesso, a pochi passi da lui, ne vedeva diversi impegnati a contendersi con furia un grosso pezzo di carne sanguinolenta. Distinse con chiarezza le fauci dai denti aguzzi. Capì che nessuno, una volta caduto in acqua, poteva avere scampo.

Le sue navi si portarono al centro dello specchio d’acqua con rapidi colpi di remi, immediatamente raggiunte da quelle degli avversari. Con le prore rivolte verso l’imperatore, entrambe le squadre levarono alto il saluto, rimanendo in attesa del segnale.

Erano ancora affiancati, con gli sguardi fissi sul grosso vessillo che, una volta issato, avrebbe decretato aperti i giochi, quando Giunio notò una strana agitazione sulle navi nemiche. Di norma gli attacchi veri e propri erano preceduti da momenti di attesa in cui gli avversari si studiavano prima di decidere le tattiche dell’assalto. Ma quella volta non fu così.

Il vessillo non aveva ancora raggiunto la sommità dell’asta, quando, improvvisamente, dalle torri in legno che sovrastavano la poppa di ogni vascello nemico vide partire una pioggia di dardi che si lasciavano dietro una scia di fumo nero, piombando sul ponte della sua nave più vicina e seminando il panico tra l’equipaggio. Sentì arrivare chiarissime le imprecazioni degli uomini che tentavano di spegnere i molti incendi scoppiati simultaneamente. La nave avvampò come un fuscello secco e in un baleno divenne un rogo indomabile. Vide i suoi uomini cercare scampo gettandosi in acqua. Sulla piccola isola posta davanti al palco di Tito, scorse gli animali strisciare sulla terraferma, apparentemente goffi ma in realtà veloci, per tuffarsi in acqua e puntare sulle prede indifese.

Fu costretto ad assistere impotente al massacro, fremendo a ogni invocazione di aiuto, presto soffocata dagli spasimi di una morte atroce. Gli uomini scampati al nutrito lancio di frecce incendiarie venivano fatti a pezzi dalle fauci voraci dei coccodrilli. Adesso si trovavano in netto svantaggio, oltre che disorientati dall’improvviso attacco.

Non ci volle molto perché si riprendesse dallo sgomento e organizzasse la difesa. Guardò le tre navi nemiche che viravano con sincronia perfetta. Vide le loro prore, sollevate dal vigore dei vogatori, avanzare minacciose verso l’altro suo vascello. Si accorse che quei suoi compagni cercavano di sottrarsi all’impari sfida. Curiosamente, la nave amica e le tre avversarie presero a inseguirsi una in coda all’altra. Vide che i suoi arcieri stavano mietendo vittime sul ponte della prima delle inseguitrici. Decise che era il momento di intervenire.

Ordinò di manovrare in modo da accodarsi alla fila, fino a che la loro prua non fu a ridosso della poppa nemica. Gli orientali ebbero un attimo di esitazione, un impercettibile rallentamento che fu sufficiente per cozzare contro di loro con forza. Gli giunse distinto il frastuono del fasciame che cedeva di schianto sotto la potenza del rostro. Gridò immediatamente ai suoi di invertire la direzione di voga, in modo che lo sperone di bronzo a triplice punta si liberasse dai legni dello scafo avversario.

Un nuovo schianto secco lo avvertì che si stavano disincagliando. Vide una colonna d’acqua riversarsi nella poppa della nave orientale attraverso l’ampio squarcio; l’imbarcazione si inclinò quasi subito, cessando di inabissarsi soltanto quando incontrò il fondo dello specchio d’acqua. Comandò all’arrembaggio soltanto una parte dei suoi, già pronti, preferendo trattenerne a bordo la maggioranza per fronteggiare eventuali nuove minacce.

Vide gli uomini scagliarsi dal parapetto contro il vascello così curiosamente inclinato, mentre dalla loro torre le frecce continuavano a bersagliare i nemici non caduti in acqua per il contraccolpo. Li osservò battersi con tenacia ma, prima di poter essere certo dell’esito della battaglia, si accorse che una seconda nave nemica stava dirigendo verso di loro. Tentò di scostare, ma la catena dell’harpago li teneva saldamente ancorati agli attaccanti. Prima di raggiungerli, infatti, gli orientali avevano scagliato con la catapulta la pesante pertica armata di uncino, e adesso sembrava si stessero preparando all’arrembaggio.

Abbandonata la sua postazione a poppa, corse verso il punto dove si era conficcata la punta di ferro che li tratteneva. Già diversi uomini stavano cercando inutilmente di estrarre il grosso arpione. Gli orientali erano ormai loro addosso, sicché non poterono fare altro che prepararsi allo scontro. Giunio aveva insegnato ai suoi a non lasciare mai l’iniziativa agli avversari. Ordinò pertanto di rientrare i remi: non appena le murate si urtarono e prima che gli altri avessero il tempo di invadere il loro scafo, si riversarono sul ponte nemico seminandovi lo scompiglio. Nel raggiungere la bitta a cui era assicurata la catena di ferro dell’harpago, Giunio riuscì ad abbattere almeno tre orientali. Liberate rapidamente le volte, lasciò scivolare le maglie fuori bordo. Quindi, al segnale prestabilito, la maggior parte dei suoi riguadagnò con perfetto tempismo il proprio scafo, che finalmente era tornato in grado di governare.

La manovra di allontanamento fu rapida, e altrettanto improvvisa fu, non appena preso un po’ di abbrivio, la forza con cui speronarono l’imbarcazione nemica. Lo squarcio che si aprì quando si allontanarono fu tale da far colare a picco l’imbarcazione in pochi istanti. Sul ponte ancora emerso dall’acqua, notò diversi nemici rimasti in assetto di battaglia. Decise che sarebbe stato meglio occuparsi in seguito di quel manipolo di uomini, immobilizzato dalla chiglia posata sul fondo e quindi inoffensivo, rivolgendo altrove la sua attenzione.

La carena della loro terza imbarcazione emergeva in tutta la sua lunghezza, mentre con inaudita violenza il rostro di quella nemica continuava a percuoterla dopo brevi rincorse. Dal ribollire dell’acqua attorno allo scafo capovolto si rese conto che anche per quei valorosi gladiatori non c’era scampo. Ormai rimanevano soltanto due navi: la sua e l’altra ammiraglia.

Gli orientali puntarono velocissimi su di loro, e per alcuni interminabili momenti i due vascelli si inseguirono a vicenda, accompagnando ogni avvicinamento con un nutrito lancio di frecce.

Mentre accostavano da prora l’avversaria, un gruppo degli uomini di Giunio era intento alle manovre del corvo. Rilasciate le cime, la passerella si abbatté oltre la murata dell’altra nave e lo sperone d’acciaio penetrò profondamente nel pagliuolo. I nemici si assieparono nel punto in cui terminava il sottile ponte, su cui già si stavano riversando alcuni degli attaccanti. Intenti a fronteggiare l’assalto simulato, gli orientali non si accorsero che i vogatori, mentre rientravano i remi da una murata, dall’altra remavano a tutta forza, creando mulinelli con le pale nell’acqua torbida.

Le murate vennero a contatto e furono ancora una volta scavalcate per un nuovo arrembaggio. L’improvviso assalto dal fianco trovò gli orientali impreparati, e gli uomini di Giunio avrebbero potuto concludere la battaglia con quello scontro, se la passerella di prora non avesse ceduto di schianto. Le due navi si sarebbero presto separate.

Giunio emise di nuovo il fischio che significava la ritirata, e i suoi lo seguirono in perfetto ordine, scavalcando i parapetti che ormai stavano allontanandosi l’uno dall’altro. Saltò per ultimo, quando la distanza tra i due scafi era diventata quasi invalicabile. Fu soltanto la certezza della morte per mano degli avversari o, prospettiva ancora più orrenda, nelle fauci fameliche dei coccodrilli a dare alle sue gambe la sovrumana forza necessaria per superare il vuoto. Atterrò pesantemente sul bordo del parapetto, accolto da un urlo di trionfo dei suoi uomini.

Calcolò di avere praticamente dimezzato le forze nemiche: adesso era lui a trovarsi in vantaggio, già vedeva la vittoria a portata di mano. Sicuramente consapevole dello stato di inferiorità in cui si trovava, il comandante nemico fece accostare l’imbarcazione al lato opposto dell’arena, e da li puntò nuovamente la prora, prendendo una lunga rincorsa.

Giunio ordinò immediatamente ai suoi di comportarsi nello stesso modo, sicché i due scafi si fronteggiarono, lanciati uno contro l’altro. L’urto frontale avrebbe sicuramente comportato la perdita delle due navi, ma qualsiasi tentativo di manovra rischiava di far mostrare il fianco al rostro di bronzo del nemico.

Giunio vedeva due baffi di spuma formarsi davanti alla prora che avanzava minacciosa: l’impatto era questione di attimi. Sull’arena era calato un silenzio greve, rotto soltanto dal ritmo dei tamburi che davano il tempo ai rematori.

L’urto fu tremendo e lo scaraventò sul ponte; colpì con la nuca la base della torre, perse i sensi per qualche istante. Fu il contatto con l’acqua a rianimarlo istantaneamente: si trovava in equilibrio su un’ordinata di legno della nave. Era miracolosamente illeso. Sorte ben peggiore stava toccando ai pochi uomini che, caduti in acqua, cercavano di combattere un’impari lotta contro i giganteschi sauri.

Vide, a poca distanza da sé, Quinto impegnato in duello con uno di questi nemici invisibili, che lo trascinava sotto il pelo dell’acqua. Sporse le mani per tirarlo in salvo, ma quando riuscì finalmente a sollevarlo e a estrarlo dall’acqua vide con raccapriccio che le gambe del suo compagno non esistevano più. Non poté fare altro che rigettarlo in acqua, cercando di vincere la nausea.

La corrente e pochi guardinghi colpi con le mani nell’acqua lo portarono fino all’isoletta davanti al palco di Tito. Respirando a fatica, la bocca invasa dal sapore della bile, il petto squassato da singhiozzi privi di lacrime, si stava avviando verso il palco quando si accorse che la folla era ammutolita, e fu forse quel silenzio innaturale a metterlo all’erta. Si voltò di scatto e vide il comandante degli avversari ergersi dall’acqua con due occhi sottili e gonfi di odio.

La mano destra era già corsa istintivamente al fodero del pugnale, la sinistra aveva afferrato la rete mai abbandonata e ancora portata a bandoliera. L’orientale gli fu addosso con piccoli passi agili e veloci. Lo vide spiccare un salto; i piedi uniti volarono nell’aria, colpendolo in pieno sterno, togliendogli il respiro e facendolo ruzzolare a terra. Precipitatosi su di lui, l’irriducibile nemico cercò di immobilizzarlo inchiodandogli le braccia al suolo. Mai Giunio avrebbe pensato che un giorno sarebbe stato costretto a ringraziare Velio il Trace e le sue lezioni. Ma furono proprio i trucchi da lui appresi a consentirgli di sottrarsi alla presa mortale.

Si sentì tuttavia colpire di taglio a mani nude, quindi vide l’orientale allontanarsi e prendere una nuova rincorsa. Lo intercettò a mezz’aria con un abile lancio della rete e, quando lo vide a terra, ormai immobilizzato, gli si scagliò addosso. Con tutta la rabbia che aveva nei visceri sollevò le mani congiunte, scaricando sulla nuca indifesa la forza omicida che si era sentito decuplicare in corpo. Sapeva che un colpo del genere avrebbe potuto uccidere un uomo, ma il comandante degli orientali, apparentemente invincibile, perse soltanto i sensi.

Giunio raccolse il pugnale che gli era scivolato di mano nel corso del combattimento, pronto a fargli pagare la vita di tutti i suoi uomini. L’urlo della folla salì in un crescendo inarrestabile. «Sgozzalo!» gridavano a una sola voce i cinquantamila spettatori.

Come imponeva la rigida norma, volse lo sguardo verso il palco di Tito per ricevere l’ordine imperiale, ma si sentì paralizzare da due occhi color cobalto fissi nei suoi. Attraverso la nebbia di terra e sudore, in quello che ormai sapeva essere il palco delle vestali, vide una giovane bellissima. Leggermente in disparte rispetto alle compagne, osservava la scena con espressione sgomenta. La riconobbe subito, sebbene la sua smorfia di orrore fosse parzialmente coperta dal velo. A quel viso doveva la vita.

L’urlo del pubblico si levò ancora più forte; l’avversario stava riprendendo conoscenza. Lo fissò negli occhi, già sapendo che cosa vi avrebbe visto. Non avrebbero mai potuto esprimere paura; la loro fierezza gli vietò di vibrare il colpo fatale. Un impulso irresistibile lo costrinse a voltarsi ancora una volta verso il palco delle vestali. Le sacerdotesse sembravano aver perso ogni contegno e si sporgevano dalla balconata unendosi smodatamente all’urlo della folla: «Iugula, Iunius!» «Sgozzalo, Giunio!» puntando spietate il pollice verso il suolo.

Soltanto lei taceva, immobile. Ma finalmente, dopo qualche interminabile istante, quasi avesse colto la domanda espressa dallo sguardo di Giunio, schiuse le labbra in un sorriso malinconico e volse il pollice al cielo.

Il gladiatore chinò la testa e ripose la lama nel fodero.

Tra gli spettatori e nel palco dello stesso Tito calò un silenzio smarrito. Un istante brevissimo, seguito da un crescendo di voci. Evidentemente appagata dal sangue scorso, la folla prese a scandire il nome di Giunio, prima quasi in sordina e poi sempre più alto, fin quando Tito non si compiacque di mostrare a tutti il pollice alzato.

Giunio si erse in tutta la sua gagliarda statura sull’isola artificiale di fronte al palco imperiale. Vide uno schiavo avvicinarsi a Tito reggendo sulle braccia protese un cuscino ricamato. L’imperatore sollevò verso il cielo la spada di legno che gli era stata portata, simbolo della riacquistata libertà dello schiavo, e gliela gettò. Giunio ne seguì con sguardo incredulo il volo fin quando non arrivò a toccare terra ai suoi piedi. La raccolse trepidante e la sollevò a sua volta al cielo: gli dei lo avevano assistito, era di nuovo un uomo libero.

Roma imperiale.

Clelia non riusciva a cancellare dalla mente il volto del gladiatore. Le era stranamente familiare, sebbene non ricordasse dove potesse avere già incontrato quell’uomo, il cui nome le era stato rivelato dalle urla della folla e delle sue stesse compagne: Giunio della città di Luna.

Il ricordo non voleva abbandonarla, finché un pensiero confuso non si fece strada nel buio della sua mente. Rivide una piazza gremita di folla inferocita, un uomo condotto a morte, coperto di insulti e sputi. Le apparvero due occhi sgomenti e increduli. Ecco il perché dello sguardo angosciosamente interrogativo che si era levato a lei dall’arena, del privilegio concessole di decidere per la vita di un altro uomo.

Quel corpo atletico e segnato dalle ferite, quel viso sconvolto dalla fatica e dal dolore, quello sguardo fiero e onesto. Il nome le affiorò spontaneo alle labbra, irresistibile. «Giunio», mormorò. Si lasciò cadere sul letto. Capì che avrebbe portato per sempre con sé il pensiero di quell’uomo.

Sapeva che si trattava di un pensiero vietato, sacrilego. Ma non poteva mentire a se stessa: avrebbe voluto avere quell’uomo accanto a sé.

Il cavallo correva a briglia sciolta. In lontananza si scorgeva il mare, sulla cui sponda spiccava la residenza di Marzio. Da quella distanza sembrava che niente fosse cambiato, ma, a mano a mano che si avvicinava, agli occhi ansiosi di Giunio divenne sempre più evidente lo stato di degrado della proprietà. Quando abbandonò la cavalcatura all’interno del cortile, si vide circondare da uno stuolo di schiavi e inservienti, inquieti quanto lui.

Il nuovo fattore lo mise al corrente delle difficoltà che stavano attraversando, rappresentate anzitutto dalla chiusura di ogni sbocco per le merci provenienti dalle tenute di un patrizio accusato di essere un traditore della patria. Insieme a lui, Giunio organizzò la spedizione per le prime ore della mattina seguente.

Giunsero a Stabia al tramonto. Aveva condotto con sé trenta schiavi a cavallo, due carri carichi di attrezzi e dodici animali da soma. Era ormai trascorso un anno da quando il Vesuvio aveva seminato morte e desolazione. Il paesaggio era completamente cambiato. Dove un tempo c’erano verdi vallate ubertose e prosperi centri abitati, adesso si vedeva un’unica distesa di ceneri e roccia lavica solidificata a comporre curiose sculture, o drammaticamente venata di solchi e crepacci. Uno spettacolo desolante.

Mentre si dirigevano verso il mare, Giunio si augurò che la colata non avesse ostruito l’ingresso della grande grotta in cui aveva portato i carri, o che gli uomini di Menenio non avessero scoperto il nuovo nascondiglio del tesoro. Notò che la morfologia delle coste era stata trasformata dalla colata lavica, e che le ampie strade di accesso al mare erano scomparse. Analoga sorte avevano subito gli edifici della scuola. Ormai il manto bruno si stendeva sopra ogni cosa.

Localizzò a mente la posizione della grotta. La grande imboccatura originaria era stata parzialmente ostruita, ma rimaneva un’angusta fenditura, quasi messa lì da una forza superiore per segnalare ai suoi occhi la posizione esatta del nascondiglio. Introdottosi nel cunicolo con una torcia, verificò l’integrità dei carri.

Lottarono tutta la notte contro la roccia dura come il ferro, ma, finalmente, alle prime luci dell’alba il foro d’entrata era abbastanza ampio da lasciar passare un carro. Lavorarono senza sosta, con l’aiuto di diversi argani, sin quando — sul far del tramonto — i carri del bottino di guerra non furono allineati in un viottolo di campagna risparmiato dalla lava.

Decise di non ascoltare le proteste degli uomini che, esausti, reclamavano qualche ora di meritato riposo, e diede l’ordine di dirigersi verso Roma. Una volta estratto da quel recesso inviolabile ed esposto agli sguardi del mondo, il tesoro poteva trasformarsi in un’arma micidiale. Sapeva per antica esperienza che Menenio aveva occhi e tentacoli ovunque. La perdita anche solo di pochi minuti poteva essere fatale. La marcia si rivelò più faticosa che all’andata; i buoi sbuffavano rumorosamente dalle narici nel trascinare l’enorme peso dell’oro dei germani. Ma, fortunatamente, le due notti e il giorno necessari per completare il viaggio trascorsero senza incidenti.

Alla mattina del secondo giorno entrarono in città. Giunio sapeva che, come ogni primo del mese, l’imperatore avrebbe presenziato alla riunione della Curia. Aveva scelto con cura la data; e anche per questo aveva cercato di evitare ogni indugio. Guidò la carovana fin sulla piazza del Foro.

Gli sarebbe certamente stato difficile incolpare Menenio dei suoi crimini: nessun tribunale sarebbe mai stato disposto a prendere per buone accuse tanto infamanti nei confronti del senatore da parte di un ex gladiatore. Perché lui ormai era questo, e nient’altro. Non un fedele servitore dell’impero, un soldato che aveva versato con onore il sangue per Roma, ma un ex schiavo sottratto alla catena soltanto per la sua scelta di uccidere altri uomini nei ludi del Circo. Ma non gli importava. Ciò che più gli stava a cuore in quel momento era rendere la libertà a Marzio.

I littori che montavano la guardia al senato si meravigliarono nel vedere i quattro carri percorrere il lastricato della piazza, ma, colti di sorpresa e in assenza di istruzioni, preferirono non intervenire. Con l’avanzare del mattino la folla si andava intanto facendo sempre più numerosa, finché, sulla soglia della Curia, non comparve lo stesso Tito, accompagnato dalle guardie e da un seguito di senatori. Nessuno di loro avrebbe potuto non vedere i quattro carri ordinatamente allineati. Sottile fu il piacere di Giunio, quando vide Menenio impallidire.

«Chi osa turbare le riunioni del senato di Roma?» tuonò la voce dell’imperatore, sovrastando il brusio dei presenti.

«Il mio nome è Giunio, divino Cesare, uomo libero grazie al tuo magnanimo volere», rispose.

A quelle parole Tito abbassò uno sguardo furente sull’uomo che aveva osato rivolgergli la parola, violando la più elementare regola del cerimoniale. Lo scrutò a lungo, tanto perplesso da tardare a impartire l’ordine che lo sfrontato venisse fatto sparire dalla sua vista, finché sembrò ricordarsi improvvisamente del gladiatore a cui soltanto pochi giorni prima aveva conferito la libertà.

«In segno di gratitudine per il dono che hai fatto alla mia umile persona», si affrettò a riprendere Giunio, prima che l’effetto della sorpresa svanisse, «ho recuperato la parte misteriosamente scomparsa del tesoro del popolo di Roma. Per questi carri colmi d’oro, noi legionari abbiamo combattuto con valore e abnegazione tra i freddi perenni, portando le nostre insegne al di là del Reno. Ma, ahimè, chi ci ha guidato con ardore e patriottismo alla vittoria oggi langue in prigione, ingiustamente infamato da accuse gravi quanto false.»

«Che cosa vuoi dire, gladiatore?» chiese Tito con voce rauca, ormai sorpreso al punto da avere lui stesso dimenticato le regole.

«Che ciò che ti porto in dono appartiene unicamente a Roma, signore. L’ho recuperato io stesso dalle mani traditrici che lo avevano sottratto.» E, a un gesto della sua mano — aveva imparato combattendo nell’arena quanto il pubblico potesse essere infiammato da un gesto plateale fatto al momento giusto -, uno degli schiavi sollevò la copertura del carro più vicino alla scalinata.

Gli ori e le gemme lanciarono lampi di luce sotto i raggi di sole, suscitando nella piazza un mormorio di meraviglia. Rinfrancato, ormai sicuro dell’esito del suo azzardo, Giunio alzò la voce a sovrastarlo e continuò: «Ecco, imperatore di Roma: il tribuno Giunio, poiché tale io sono, riconsegna al popolo di Roma il tesoro dei germani».

Menenio, ancora mortalmente pallido, si fece strada fino a mettersi di fianco a Tito e intervenne in tono concitato: «E come mai, Giunio di Luna, quel tesoro torna soltanto adesso al suo legittimo proprietario? Se non sbaglio eri stato condannato a morte per il suo furto. Negalo, se puoi! Il mio legittimo sospetto è che tu voglia salvare in ogni modo la vita al tuo complice, il tuo scaltro comandante, anche a costo di rinunciare all’enorme ricchezza che insieme avete sottratto ai romani».

Giunio gli fissò negli occhi uno sguardo privo di timori. Aveva affrontato uomini ben più letali, sebbene meno infidi. Decise di giocare il tutto per tutto, nella speranza che Menenio capisse la velata minaccia delle sue parole.

«Non sono venuto qui», riprese, continuando a fissare uno sguardo di fuoco negli occhi sfuggenti del malvagio senatore, «per cercare facile gloria raccontando le mille insidie che ho dovuto superare per condurre a Roma questi carri dal fronte del Reno, né per parlare dei traditori che ho dovuto fronteggiare per restituire al nostro popolo quanto costoro, e non già Marzio e io, gli avevano sottratto. Senza contare, senatore Menenio, che, se il ladro fossi davvero io, avrei potuto approfittare della libertà per impadronirmi del bottino di guerra e non per riconsegnarlo al divino Cesare e al popolo. Chiedo soltanto che venga resa giustizia a un innocente.»

Lo sguardo truce dell’imperatore dissuase Menenio dal riprendere la parola. E fu personalmente Tito a replicare, alzando la destra: «Siamo stupiti dalle tue gesta, tribuno Giunio. L’intera città ti sia grata per quello che hai fatto. Ordino che il generale Marzio sia rimesso immediatamente in libertà e che gli vengano resi tutti gli onori che gli sono stati negati per un’accusa palesemente ingiusta. Così ha deciso l’imperatore di Roma».

Avvistato il drappello che si avvicinava provenendo da Ostia, Giunio saltò agilmente dal muro di cinta da dove scrutava l’orizzonte. Anche da quella distanza aveva riconosciuto la figura di Marzio e il suo modo di cavalcare. Quando il drappello varcò il portale della villa, era già nel parco, pronto a dare il benvenuto al suo generale.

Il sorriso illuminava un volto pallido e sciupato, ma Marzio abbandonò la cavalcatura con l’agilità di sempre. Tenendo a freno l’entusiasmo, Giunio si mantenne a rispettosa distanza in posizione marziale, alzando la destra in cenno di saluto. Marzio gli si accostò rapidamente e lo strinse al petto con grande trasporto, non facendo niente per nascondere la commozione. Poi, scostatosi ma continuando a tenergli le mani sulle spalle, scrutò a lungo il fedele amico.

«Sei più vecchio e più segnato, legionario», disse con il suo ben noto sorriso, indicando le cicatrici del volto di Giunio.

Era vero: i cento giorni di combattimenti avevano marchiato la sua pelle più degli anni trascorsi al servizio delle legioni e persino degli interminabili mesi trascorsi tra gli stenti del lavoro coatto.

«Ho avuto un po’ di traversie, signore», rispose in tono scherzoso, mentre il generale lo prendeva sottobraccio.

«Avrai tempo e modo di raccontarmi tutto, Giunio», concluse Marzio, avviandosi verso l’interno della villa.

Menenio era adagiato sul triclinio alla destra dell’imperatore e sembrava prestare scarsa attenzione all’aspetto delle portate che si susseguivano, una più fastosa e ricercata dell’altra. Ma le sue dita, grondanti grasso, dimostravano chiaramente quanto, pur nel totale disinteresse per le scenografie del servizio, lo assorbissero i piaceri della gola. Trangugiava ogni cosa con avidità, senza ritegno. Spentosi il clamore suscitato tra i commensali da una portata di particolare teatralità, valutò giunto il momento opportuno per dare il via a un’ennesima trama.

«Pensi davvero, nobile Augusto», chiese in tono falsamente distratto, facendo intanto cenno di avvicinarsi a un giovanissimo coppiere, un fanciullo di Bitinia celebre per la sua pelle di velluto, «pensi davvero che Marzio meriti il trionfo che gli hai promesso?»

Tito conosceva troppo bene la doppiezza degli uomini che avrebbero dovuto essere i pubblici servitori di Roma, per farsi incantare. Lanciò un’occhiata in tralice a Menenio, chiedendosi dove volesse andare a parare. «Ritengo», rispose poi, «che la carcerazione di un eroe del popolo come Marzio abbia avuto soltanto risvolti negativi, rendendo ancora più tesi i rapporti con i vertici militari. Penso quindi di aver fatto bene riabilitandolo, tanto più che quel gladiatore lo aveva scagionato di fronte a tutti.»

Ma sapeva che la cosa non sarebbe finita lì. Fin troppo note gli erano la scaltrezza e la tenacia del senatore anziano.

«Su questo hai sicuramente ragione, signore», replicò Menenio reggendo con una mano unta una coscia di cigno e accarezzando con l’altra il tenero collo del coppiere accorso al suo comando. «Ma rimane ancora tutta da verificare la veridicità dei racconti di quello schiavo. Un uomo dal passato perlomeno oscuro, che non gode certo di una buona reputazione.»

«Buona o non buona», tagliò corto Tito, «quell’uomo è il vincitore del torneo e ha sul popolo la stessa presa di una divinità.» Si stava annoiando. La conversazione rischiava di rovinargli la splendida cena. Con un movimento del ciglio destro chiamò a sé una delle giovanissime danzatrici fatte appositamente venire dalla remota Corinto per allietare quella serata.

«Hai l’impagabile fortuna di essere giovane, divino Tito, e non ricordi il male che hanno provocato Aulo Vitellio e i suoi sodali alla tua famiglia», riprese in tono accorato il senatore, facendo una pausa sapiente affinché le sue parole arrivassero a segno. Quindi riprese: «Ma rimane vero che uno di questi sodali, uno dei più convinti sostenitori di Aulo, uno zio di Marzio, ha partecipato alla congiura per uccidere il fratello di tuo padre, mio signore… Eppure, nonostante questo esecrabile ricordo, hai ordinato di conferire a Marzio un trionfo. Che cosa potranno dedurne i nemici della tua imperiale carica, gli dei li sprofondino nell’Averno?»

«Non ricordo affatto male, Menenio, ma sono storie vecchie e superate», rispose l’imperatore, troppo soddisfatto dei piaceri offerti dalla serata per aver voglia di perdersi in discussioni sgradevoli. «Nel caos seguito alla morte di Nerone, qualcuno doveva pur prendere il potere. Aulo Vitellio fu uno dei tre reggenti che si susseguirono nello stretto giro di quell’anno tenebroso. L’importante, oggi, è che la pace civile sia rafforzata e che il comando sia saldamente in mano all’unica gens di sangue imperiale: i Flavii, la mia famiglia.»

«Ed è giusto che sia così», convenne il senatore con voce ridotta a un sussurro, «ma ti prego di non scordare il contributo che ho personalmente dato perché questo avvenisse, scaraventando Aulo nel precipizio…»

«Vedo», tagliò corto Tito, «che la prospettiva di un’eventuale carriera politica di Marzio ti preoccupa. Va bene, tienilo sotto controllo, visto che la questione ti sta tanto a cuore, ma senza eccessi. E in ogni caso ti ordino di riferirmi minuziosamente le tue eventuali scoperte.»

E, così detto, Tito lasciò chiaramente intendere che la questione era chiusa. Il suo sguardo, dimentico della giovane danzatrice, prudentemente ritrattasi tra le compagne, era già perso su un’altra giovane di suprema bellezza, introdotta in quel momento nella sala dal responsabile delle stanze imperiali. Non ebbe bisogno di fare cenni.

«Le donne ti porteranno alla tomba», pensò malignamente Menenio, memore della passione dell’imperatore per la bella principessa giudea Berenice e della ridda di voci malevole che essa aveva suscitato. Quindi infilò la mano lurida nell’ampia tunica dell’adolescente coppiere e lo attirò contro il proprio corpo, mentre la stupenda fanciulla si accomodava languidamente sulla sponda del triclinio di Tito.

Con accurate ricerche, Giunio era riuscito a rintracciare quasi duecento soldati appartenenti alla sua vecchia legione. Li guardava marciare fieri al suo fianco, preceduti dal loro amato generale. Aveva già avuto occasione di vedere la città parata a festa, ma adesso tutto gli sembrava diverso. Il suo spirito era sicuramente più sereno di quanto non fosse dopo la vittoria nel torneo circense, quando la sua mente era oppressa dal rimorso di essere l’unico superstite.

La gente si assiepava sui lati della via che conduceva al Foro, inneggiando a Marzio. Ovunque ondeggiavano stendardi con i simboli del più grande impero mai esistito sotto la luce del sole. Giunio era fiero di Roma, dell’immensità del suo territorio, di quella città densa di storia e di memorie. Ammirava i monumenti, che il suo stato d’animo gli faceva apparire persino più belli e imponenti della prima volta che li aveva visti in compagnia di Marzio. Lo vedeva, da dietro, inchinarsi per rispondere ai saluti della folla, immaginava il suo sorriso. Voleva bene a quell’uomo forse quanto a suo padre, non lo avrebbe abbandonato per niente al mondo. Gioiva nel vedere coronata la più alta aspirazione di un militare.

Pensava alle pene che aveva dovuto soffrire una persona della sua rettitudine infangata da false accuse. Sentiva di essergli debitore: se non fosse stato per lui, per il modo in cui lo aveva notato tra la calca dei combattenti, forse adesso ci sarebbe stato un umile soldato in più con il petto trapassato da una lancia e sepolto per sempre sotto i ghiacci delle Alpi.

Giunio vestiva gli abiti di tribuno militare, grado nel quale era stato reintegrato in seguito all’ordine dell’imperatore. Gli sembrava che il tempo si fosse fermato e che quegli anni infami fossero volati via senza lasciare ricordi. E fu forse quell’andare a ritroso nel tempo che lo spinse a pensare a Sestilio. Aveva saputo che il suo pari grado di un tempo stava raccogliendo onori in Giudea, dove, dopo la distruzione di Hierosolyma da parte delle legioni di Vespasiano guidate da Tito, permanevano preoccupanti focolai di ribellione tra la popolazione locale. Era del tutto probabile che l’importante incarico rientrasse nel prezzo pagato da Menenio per i suoi servigi.

Immerso in questi pensieri, raggiunse la piazza del Foro addobbata a festa. Richiamato al presente ammirò le insegne della legione che aprivano la parata; come per ogni contingente, sotto l’aquila di bronzo, simbolo degli eserciti imperiali, era posto lo stemma della loro armata, raffigurante un simbolo zodiacale. Al seguito dei veterani, l’imperatore aveva disposto che sfilasse un contingente di quasi mille militari: un trionfo con soltanto duecento uomini sarebbe stato una rappresentazione scialba, con il rischio anzitutto di sminuire la munifica figura di Tito, sempre attento a distrarre la plebe dalle cure quotidiane con pubblici svaghi di grande splendore.

L’imperatore aveva preso posto nella stessa tribuna dei rostrati che aveva visto Giunio condannato a morte soltanto poco tempo prima. Adesso, avvicinandosi in ben altro stato d’animo, poté notare lo sfavillio dei rostri bronzei delle antiche navi dei volsci, perpetua testimonianza di valore. Tito si alzò, cercando di assumere un’aria imponente: non era di alta statura, e un viso tondeggiante accentuava la pinguedine del corpo. Ma era il divino Augusto.

Un ampio gesto del suo braccio impose il silenzio: «Credo», esordì, «che siano note a ogni cittadino romano le ingiuste ragioni che hanno portato a rinviare la data del trionfo. Ma non puoi sapere, valoroso Marzio, quanta gioia alberghi nel nostro cuore nel vedere resa giustizia ai tuoi ineguagliabili e indubitabili meriti».

Quindi si rivolse alla folla, alzando ulteriormente i toni della voce e riprendendo: «È in ogni caso bene ricordare tutto ciò che questo impavido comandante e i suoi valorosi legionari hanno fatto per Roma, portando le insegne dell’impero al di là del fiume Reno, che sembrava l’insormontabile confine dell’impero fin dai tempi di Augusto. Preferisco, invece, non tornare sulle infondate accuse che hanno rischiato di macchiare la sua nobile figura, preferisco dimenticarle, addirittura cancellarle dalla memoria, ma ritengo sia da accreditare alla giustizia di Roma il merito di saper riconoscere gli errori compiuti e porvi rimedio. Questo accade perché l’errore è insito nella natura degli uomini, ma ciò che conta, non appena lo si sia individuato, è avere il coraggio di ammetterlo e riabilitare la dignità di chi è rimasto ingiustamente offeso. Così ho dunque agito, poiché l’equità delle nostre leggi è il perno di ogni civiltà».

Giunio non poté fare a meno di sorridere amaro alla disinvolta sicurezza dell’imperatore, convinto, con quella sua abile allocuzione, di avere cancellato ogni ingiustizia, di avere posto rimedio a quasi due anni di carcere scontati da un innocente. Per non parlare di tutto ciò che aveva dovuto subire lui. Così, rifletté, sono i potenti.

«Ho personalmente preso visione dei tesori che i tuoi valorosi hanno recuperato ben due volte», stava intanto dicendo Tito, «sottraendoli con gravi rischi alle mani criminali che li avevano trafugati. L’Erario dei romani non può che felicitarsi per questo tuo ulteriore servigio, Marzio. Ho stabilito che ti venga donata la somma di un milione di sesterzi, affinché mai lo spettro della necessità possa gravare sulla tua nobile persona. Delibero inoltre che siano distribuiti gratuitamente cinquecentomila assi di grano al popolo, e che tale regalia sia fatta a tuo nome. Per concludere», e Tito abbandonò i modi imperiali, rivolgendosi a Marzio come se parlasse con persona di pari rango, «mi sia consentito esprimere il desiderio di stringerti al petto, eroe di Roma.»

Mentre Marzio si avviava verso le scale della tribuna, Giunio rifletté sull’entità della somma con cui si cercava di cancellare ogni possibile, pericoloso risentimento da parte di un grande condottiero. Era enorme, certo, ma, tutto considerato, rispetto al bottino di guerra conquistato dalla loro legione e inviato a Roma nel corso dei lunghi anni passati al fronte, rappresentava poco più di un’inezia.

Il generale aveva ormai raggiunto Tito. Giunio li osservò scambiarsi il gesto di affetto voluto dall’imperatore, mentre la folla inneggiava al condottiero. Toccò quindi a Marzio prendere la parola.

«Divino Augusto, popolo di Roma. Non voglio ricordare in questa sede il dolore che ha gravato sul mio animo di fedele servitore dell’impero mentre languivo in carcere coperto d’infamia. Desidero anch’io, più di ogni altra cosa, dimenticare. Voglio però sia noto a tutti che, se un tempo ero giustamente convinto di dover attribuire una parte dei miei successi al più fedele e valoroso dei miei uomini, oggi il debito che ho nei suoi confronti è ingigantito dal fondamentale contributo che egli ha dato alla realizzazione del mio sogno di essere un giorno gratificato del trionfo militare al cospetto dell’imperatore e del popolo di Roma. Tutti voi conoscete sicuramente le gesta di Giunio della città di Luna, la fama del suo coraggio travalica ormai i confini della città. In questa giornata di felicità, chiedo pertanto che l’uomo che considero alla stregua di un figlio condivida con me un onore che pertiene di diritto anche a lui.»

Giunio fu colto di sorpresa. I presenti cominciarono a indicarlo e a invocare il suo nome. Quando Tito gli fece cenno di salire sul palco, ebbe una reazione poco degna di un soldato rotto a mille battaglie: troppe cose si stavano sommando, l’emozione ebbe di nuovo il sopravvento, rischiò di inciampare nella scala che portava alla tribuna.

L’imperatore gli fece cenno di accostarsi e lo abbracciò. Arrivava a stento alla spalla dell’erculeo guerriero e gladiatore, ebbe qualche difficoltà a cingere il suo torace con le braccia tozze. Finalmente, liberato dalla frettolosa e impacciata stretta, e sempre più commosso, Giunio poté voltarsi verso Marzio, ma le parole lo tradirono. Avrebbe voluto esprimere con eleganza la propria devozione, ma tutto quel che riuscì a dire fu: «Sia gloria a te, di nuovo tra gli uomini liberi, generale».

Passato il momento di intensa commozione, Giunio girò il suo sguardo sugli astanti, osservandoli con attenzione a uno a uno: le massime autorità di Roma, gli uomini più vicini all’imperatore.

Era un soldato, un gladiatore, era abituato a misurare la pericolosità degli avversari con un solo sguardo, negli istanti che precedono lo scontro. Davanti a sé vedeva espressioni abituate al potere, volti da cui si potevano dedurre stati d’animo e sentimenti meglio che da qualsiasi curriculum vitae. Tra gli uomini ordinatamente schierati alle spalle dell’Augusto e del suo generale c’erano persone capaci di mandare al massacro intere legioni, di condannare a morte con infamia famiglie, di distruggere con un solo gesto un’intera vita onesta e devota.

Contro simili persone aveva combattuto una battaglia che ora sembrava vinta. L’idea lo riempì di un’improvvisa incertezza. Poteva essere vero?

Vedeva volti paffuti, guance rosee, fisici un tempo da combattente ora logorati dagli anni, toghe orlate di porpora, vesti confezionate con preziose stoffe d’Oriente. L’unico tratto comune che scorgeva in quei volti allineati era la cieca fame di potere, la bramosia che si era impadronita di quegli uomini e che mai li avrebbe abbandonati, un bisogno insaziabile, il cui traguardo era rappresentato dal raggiungimento del massimo gradino possibile nella lunga scala di onori che portava su su fino al divino Augusto, imperatore di Roma.

Quegli sguardi sapevano riflettere come una superficie d’acqua immobile gli umori di Tito, emulare il suo stato di compiacimento o irritazione, fare da specchio al gradimento o al fastidio che questo o quel notabile suscitava in quel momento nell’imperatore.

Giunio continuò a osservarli rapidamente ancora per qualche istante. La sua attenzione fu inesorabilmente attratta da qualcosa di indefinibile, eppure di inequivocabilmente estraneo a quella massa omogenea di espressioni, una nota che stonava in tutta quella compatta e cieca bramosia. Fu catturato da uno sguardo azzurro cobalto. Lo guardò a lungo, a sua volta guardato.

Era un uomo di guerra, abituato a muoversi con accostamenti furtivi, senza farsi notare. Fece dunque in modo di arrivare come per caso vicino alla vestale. Non consentì che l’imbarazzo e le rigide regole dell’etichetta prevalessero, le rivolse immediatamente la parola: «Le nostre strade sembrano incontrarsi di frequente, sacerdotessa. Spero di avere modo un giorno di sdebitarmi».

Le labbra della giovane si aprirono in un sorriso, sentì la sua voce rispondergli: «Credo tu non abbia nessun debito nei miei confronti, tribuno. Ad appagarmi e rendermi felice basta il fatto che sei vivo».

Giunio si sentì percorrere da un brivido: gli parve che in quelle parole risonassero tonalità più che umane. Non poté tuttavia non notare con apprensione che la Vestale Massima li stava osservando severamente.

La festa seguita al trionfo durò fino a tarda notte, tra banchetti, danze, spettacoli e libagioni. Invano Giunio cercò più volte la giovane che lo aveva ferito al cuore, ma dovette arrendersi alla possibilità che l’etichetta vietasse alle vestali di intervenire a simili festeggiamenti.

Cornelia aveva comandato bruscamente alle sacerdotesse di rientrare alla dimora, vietando loro di intervenire persino ai preliminari del banchetto, cui erano normalmente ammesse. Era evidentemente in preda a un’ira incontenibile. Non appena furono rientrate tra le mura della dimora, convocò in tono imperativo Clelia.

«Ho dovuto ancora una volta notare un tuo atteggiamento sconveniente», attaccò senza preamboli appena furono sole.

«Ti sbagli, sacra Vestale Massima; non credo di avere fatto niente che non dovessi», provò a giustificarsi timidamente la giovane.

«Ah, no, vero? Credi non abbia notato il tuo sguardo mentre rivolgevi la parola a quell’uomo… a quel… a quel gladiatore. Un gladiatore! Un ex schiavo! Non mentire. So fin troppo bene che cosa significano certe occhiate.» E il tono si fece minaccioso. «Non credo sia il caso di ricordarti il giuramento solenne e la sacralità della veste che porti. O devo farlo?»

Ormai certa di una punizione terribile, Clelia si limitò ad annuire in atteggiamento remissivo. Invece Cornelia si limitò a concludere: «Se dovesse succedere di nuovo, non esiterò a punirti in un modo che tu stessa troverai esemplare. Adesso ritirati nella tua stanza».

Clelia obbedì senza fiatare. Tornata nella sua cella, si coricò e spense immediatamente la lanterna, non sicura che la severa custode della sua vita non avesse un ripensamento. Non riusciva tuttavia a prendere sonno. La voce virile che aveva osato rivolgerle la parola, gli occhi verdi e fieri di Giunio della città di Luna le arrivavano all’anima, scatenando un sentimento che sapeva perfettamente esserle vietato.

Soltanto dopo lunghe ore inquiete si abbandonò esausta ai sogni che, ormai da tempo, avevano un protagonista.

Molte cose versavano in stato di abbandono, anche se il degrado non era sicuramente imputabile a negligenza da parte dei famigli di Marzio. Nonostante le somme che gli erano state messe a disposizione, Giunio era consapevole che restituire la proprietà alla sua primitiva floridezza avrebbe richiesto molto tempo e grandi sacrifici. Si gettò con passione nell’impresa, godendo via via dei risultati sempre più evidenti.

Faceva la spola tra Roma e la residenza di Ostia, dove, memore delle lunghe giornate trascorse nella primissima giovinezza nei campi del padre, aveva riorganizzato i piani del lavoro nei campi, le semine e i raccolti. In quei lunghi mesi di abbandono, gli animali avevano costituito la sola forma di nutrimento disponibile per gli occupanti della fattoria, di fatto estromessi da ogni commercio durante la prigionia di Marzio. Il loro numero si era pertanto ridotto di troppo. Fu dunque suo immediato impegno recarsi personalmente alle aste e ai mercati, dove, con una spesa rilevante ma non eccessiva, riuscì a ricostituire il nutrito patrimonio di bovini e cavalli.

La parsimonia e l’attenzione che usava nel maneggiare danaro non suo divennero in breve tempo proverbiali, tanto che i mercanti con cui trattava avevano cominciato a trattarlo con un rispetto non scevro di un certo astio. A lui, invece, sembrava del tutto naturale comportarsi in quel modo, quasi fosse ancora sul campo di battaglia: come allora aveva cercato di difendere la vita del suo comandante, così adesso ne curava gli interessi. Puntualmente, ogni fine settimana, stilava un rendiconto meticoloso per Marzio, esponendogli le sue opinioni e valutando i preventivi delle nuove spese.

Un ricordo non avrebbe mai potuto uscirgli dalla mente: quello delle Pietre della Luna. Vi pensava di continuo, elaborando avventurosi piani per rientrarne in possesso. Adesso che aveva riconquistato la libertà, avrebbe potuto cercare, con l’appoggio di Marzio, una via legale per rientrare in possesso di ciò che gli apparteneva per diritto famigliare.

Non poteva avere occasione migliore per mettere il generale al corrente delle sue idee, e infatti ricevette la promessa che si sarebbe tentata ogni strada perché le sacre statue gli venissero restituite.

Marzio era uomo abituato a tenere fede alla parola data. Già il giorno seguente, infatti, lui e il suo fido collaboratore si recarono a Roma, da Cocceio Nerva, un parente di Marzio che rivestiva un alto incarico nella magistratura. Il togato si dimostrò di profonda affabilità e disponibilità; in sua compagnia si inoltrarono nel Tabularium, il grande edificio ove si trovavano gli archivi dello stato. Cocceio si fece consegnare gli atti del processo cui era stato sottoposto Giunio e li esaminò con attenzione, quasi avvertendo la febbrile eccitazione dei due ospiti, i quali dovettero tuttavia attendere diversi interminabili minuti per avere il suo responso.

«Voi sapete», disse finalmente Cocceio Nerva, alzando lo sguardo dal rotolo, «che la sacralità del tesoro del popolo di Roma è seconda soltanto a quella del divino Giove. Per niente al mondo un bene di proprietà dell’Erario può essere alienato, a meno che non si tratti di grave causa di pubblica necessità. Dai documenti processuali rilevo altresì che le prove e le testimonianze tese a suffragare la proprietà delle statue da parte dello stato sono inconfutabili, visto che in ogni inventario annuale compare la loro puntuale descrizione e che diverse persone hanno deposto concordemente. Temo che il tribuno Giunio debba mettersi l’animo in pace e considerare perso per sempre ciò che sostiene appartenergli. Non vedo quali possano essere gli estremi per chiedere una riapertura del processo, e credo che nemmeno l’imperatore in persona si assumerebbe la responsabilità di commettere una grave violazione della legge, riconsegnando le Pietre della Luna.»

Malgrado il responso non gli lasciasse speranze, Giunio non si perse d’animo: a dargli forza rimaneva la leggenda secondo cui quelle statue erano comunque destinate a rientrare in possesso dei loro legittimi proprietari. Sapeva che in tutto il mondo conosciuto non potevano esistere migliori custodi delle grandi mura del tempio di Saturno, vegliate giorno e notte da sentinelle armate.

Bastava aspettare: era fermamente, incrollabilmente convinto che il tempo avrebbe dato ragione all’antica credenza.

5.

Roma imperiale. Anno 834 dalla Fondazione.

[81 d.C. (N.D.T.)]

In passato la figura di Tito era stata fatta oggetto di commenti malevoli: particolarmente discussa, per esempio, era stata la sua relazione con la bellissima principessa Berenice, al punto da costringerlo a rinunciarvi con grande dolore. Ma le responsabilità connesse con il suo alto ufficio sembravano averlo trasformato rapidamente. Da imperatore era diventato un vero padre del popolo romano. Nessuno avrebbe potuto dimenticare l’affettuosa sollecitudine e l’energia con cui aveva affrontato la grande calamità dell’eruzione del Vesuvio, la gravissima epidemia che aveva colpito Roma e l’incendio che aveva devastato la città per tre giorni e tre notti: ad adornare i templi e i monumenti che più avevano sofferto aveva addirittura destinato tutti gli ornamenti delle sue ville di campagna. Celebre era diventata la sua frase: «Preferisco morire che essere causa di morte».

Fu quindi con sentimenti di profonda malinconia che la romanità apprese la notizia della sua morte, provocata da febbri nella stessa villa di suo padre, in Sabina. Gli era succeduto da soli due anni, due mesi e venti giorni. Messa da parte ogni malevola speculazione, fu pianto come valente generale e buon governante.

Nell’apprendere la notizia, Giunio provò un dispiacere sincero: fino a quel momento, tra Marzio e quell’imperatore era intercorso un rapporto di mutuo rispetto, esente da ogni ostilità. Tito non poteva sicuramente provare particolari trasporti per i discendenti degli amici dei Vitellii, ma in questo come in molti altri casi sembrava non essersi mai lasciato turbare da un cieco sentimento di rancore. «Il principato», lo si sapeva aver ammonito i sospetti di una congiura, perdonandoli, «è un dono del destino.»

L’avvento al trono di Roma di suo fratello Domiziano, invece, rischiava di rimettere in discussione ogni cosa, soprattutto vista la sua amicizia di antica data con Menenio.

Il completo assorbimento nei suoi nuovi impegni distoglieva comunque Giunio da simili rovelli. Nel corso dei tredici mesi appena trascorsi, oltre ad avere riassestato la situazione finanziaria di Marzio, aveva cominciato a notare interessanti incrementi nelle produzioni e, come conseguenza, negli introiti. Il tutto senza attingere mai niente, se non agli inizi, dal milione di sesterzi donati da Tito. Era sicuro che un corretto reinvestimento dei guadagni fosse la via giusta per l’ampliamento di ogni attività. Così, accanto alle produzioni originarie di carattere prevalentemente agricolo, aveva convinto il suo signore a intraprendere una serie di attività collaterali, cercando di completare ogni ciclo produttivo.

Per esempio, il vino della fattoria veniva invasato in anfore costruite nelle loro fornaci, il trasporto verso Roma era effettuato da barche fluviali di loro proprietà, trainate da loro animali. Era poi arrivato l’acquisto della prima oneraria, da destinare al trasporto dei prodotti verso la Gallia e la Spagna, seguita da altre due e, finalmente, addirittura dall’acquisto di un cantiere di costruzioni navali poco distante dalla foce del Tevere.

Queste iniziative diedero ai loro traffici un formidabile impulso, anche in conseguenza della necessità di non far mai viaggiare a vuoto le navi. Così, dalla Gallia importavano ceramiche, mentre i vascelli che rientravano da Cadice, dopo un viaggio di nove o dieci giorni, avevano le stive piene di metalli, preziosi o no, cavalli e tessuti. Due collegamenti mensili venivano effettuati con la città natale di Giunio: assieme ai grandi blocchi del marmo di Luna, il comandante gli portava regolarmente notizie dei suoi genitori. La famiglia di Marzio era inoltre proprietaria di grandi magazzini in disuso proprio sul fronte del porto, che furono rapidamente riadattati a depositi per grano, di cui a Ostia venivano sbarcati annualmente dieci milioni di sacchi.

A Giunio piaceva arrivare di mattino presto nella piazza delle scholae o corporazioni, dove avevano sede le agenzie dei mercanti e degli armatori di ogni parte dell’impero: Narbona, Cagliari, Alessandria, Sabratha, Cartagine. Era il fulcro della vita commerciale, il luogo dove si concludevano affari e trattative, si concordavano carichi, noli e pagamenti. Marzio, pur non risparmiando i consigli, lo lasciava fare, consapevole e più che soddisfatto dei risultati raggiunti.

La vita tranquilla aveva assorbito Giunio con i suoi ritmi regolari. La giornata lavorativa si concludeva nel primo pomeriggio. Il luogo di ritrovo nelle ore di svago erano le terme, dove continuavano comunque le relazioni di affari e di politica nel piacere delle piscine riscaldate e dei massaggi. Lui, che era stato soldato e gladiatore, amava mantenere il fisico allenato, sicché, dopo una sana ginnastica, si attardava tra i vapori del sudatorio, lasciando poi che le abili mani degli schiavi gli detergessero e massaggiassero la pelle.

«Mi fa piacere notare», gli disse un giorno Marzio durante uno dei suoi resoconti settimanali, «che non mi sono sbagliato quando ho detto che la tua abilità non poteva limitarsi alle battaglie. Vedo con piacere che le vesti dell’uomo d’affari ti calzano a meraviglia, e questo mi incoraggia a perseguire una mia antica aspirazione.»

Giunio aveva capito a che cosa mirasse, ma volle ugualmente averne conferma. «Che cosa intendi dire, Marzio?»

«Il Consiglio dei decurioni vedrebbe bene una mia investitura a duovir della città di Ostia. Qualora accettassi, considererei questa prima esperienza una verifica delle mie reali possibilità in politica, per poi puntare al senato di Roma. Come sai, una delle condizioni per entrare a fare parte della Curia è quella di non esercitare un’attività mercantile. Quindi, visto che ti occupi di tutto in maniera egregia, non vedo ostacoli all’idea di intraprendere la carriera politica, mettendo completamente nelle tue mani la gestione delle mie proprietà.»

La prospettiva di essere lasciato solo nella gestione di quelle ormai molteplici attività suscitò in Giunio una certa apprensione. Certo, ormai operava di sua iniziativa, ma la ratifica delle sue scelte da parte del proprietario costituiva una sorta di autorizzazione a decidere circa l’utilizzo di risorse non sue, mentre d’altro canto era convinto che gli indirizzi e interventi di Marzio fossero indispensabili. Ma a inquietarlo era soprattutto un dubbio, il più grave di tutti. Decise di parlare chiaro.

«Fino a oggi, Marzio, nessuno ha cercato di ostacolarci, e abbiamo goduto della tranquillità necessaria per dedicarci al nostro lavoro. Ma non temi che un tuo nuovo interessamento alla politica possa riaccendere la sfida con il terribile Menenio e attirarci di nuovo in una trappola fatale?»

«Vedi, Giunio», rispose pronto il patrizio, «io ho passato la vita a combattere perché il confine dell’impero avanzasse di qualche lega, o a presidiare il territorio affinché popoli ostili non turbassero la sicurezza dei cittadini di Roma. Sapere che le mie ricchezze personali si stanno accrescendo grazie alla tua abilità mi riempie certo di gioia, ma non può bastarmi. Sono nato per essere un uomo pubblico. Se il prezzo che devo pagare sarà quello di scontrarmi di nuovo con gli intrighi di Menenio, saprò stare in guardia.»

Giunio non poté replicare. La decisione era presa e irrevocabile. Marzio divenne duovir di Ostia il mese seguente, mentre i freddi dell’inverno cominciavano a calare portati da Aquilone.

Fin dalle prime avvisaglie della brutta stagione le loro attività subivano un forte rallentamento, sia per il ridursi dei lavori agricoli, sia per l’impossibilità del naviglio di avventurarsi in un mare divenuto insidioso. In quei mesi, per i commerci di materiali pregiati si preferiva ricorrere al trasporto terrestre, integrato dove possibile dal piccolo cabotaggio, sebbene questo facesse lievitare i costi di trenta o quaranta volte rispetto al trasporto marittimo. In ogni caso, Giunio approfittava di quei momenti di relativa calma per dedicarsi alla ricerca di nuove relazioni e attività commerciali. E, nei limiti del possibile, cercava di aiutare Marzio nelle incombenze del nuovo incarico.

L’importanza della città di Ostia era chiarissima nella mente di ogni cittadino dell’Urbe: assediare Ostia significava porre sotto assedio Roma. Se le cose non funzionavano alla perfezione nella più importante base logistica, in grado di soddisfare i bisogni quotidiani di ben oltre un milione di abitanti, gravi e immediate erano le ripercussioni nella capitale. E dipendeva probabilmente da questo motivo se spesso era l’imperatore in persona ad assumere la reggenza del Consiglio della città portuale; in particolare quando, ogni cinque anni, i duoviri ricevevano la qualifica di censori e con essa poteri eccezionali. La nomina di Marzio era venuta proprio in uno di questi anni censorii, ma Domiziano, appena salito al potere, aveva ben altre preoccupazioni e impegni che sobbarcarsi anche il governo di un piccolo centro: fu sicuramente per questo motivo se ratificò senza battere ciglio la decisione dei decurioni.

La città vera e propria si estendeva a sud della foce del Tevere, poco lontano da un’ansa molto ampia del fiume, e sorgeva sull’antico scheletro di un accampamento militare stabile, tanto da presentarne ancora la struttura viaria, fatta di strade tra loro perpendicolari. L’attività portuale si svolgeva invece quasi due miglia più a nord, fin da quando l’imperatore Claudio aveva costruito bacini e canali capaci di ricevere oltre duecento navi. Nel porto permanevano comunque diversi seri problemi, dovuti all’insabbiamento e alla pericolosa esposizione dei moli alle bizze del clima. Pochi anni prima, infatti, oltre centocinquanta navi da carico erano andate perdute a causa di un fortunale.

Un canale artificiale collegava il porto al Tevere, e da lì le merci prendevano la via d’acqua fino a Roma e oltre. In breve tempo, quella che tutti definivano la città di Porto si era andata arricchendo di magazzini, taverne e abitazioni. Il territorio circostante, invece, dove lo consentivano le zone paludose, era costellato di campi coltivati.

Il terreno su cui era stata fondata la città originaria era alquanto instabile, costituito da sabbie e argille, e un’opera di consolidamento si era resa necessaria già da diverso tempo, visti i continui smottamenti avvenuti nel centro urbano. Marzio si presentò al popolo proponendo proprio un ciclopico lavoro di riempimento. I lavori, subito cominciati, innalzarono di diversi piedi il livello originario del suolo. Una seconda opera di pubblico interesse e di vaste dimensioni ordinata da Marzio non appena arrivato al potere fu la ristrutturazione integrale delle terme.

Il consenso nei confronti di Marzio cresceva di giorno in giorno. Nessuno, in precedenza, sebbene rimasto in carica diversi mandati, era mai riuscito a fare quello che aveva messo in opera lui in quei pochi mesi. Per un uomo abituato come lui all’azione non era certamente facile destreggiarsi tra gli equilibri politici e le aspettative del popolo, ma riusciva comunque ad assolvere il suo compito con grande dignità, non venendo mai meno alle sue note doti di sincerità e schiettezza.

Roma imperiale. Anno 836 dalla Fondazione.

[83 d.C. (N.D.T.)]

Nella residenza imperiale era ormai in corso da diverse ore la cerimonia conclusiva del duplice trionfo indetto per le vittorie sui catti e sui daci e l’allargamento dei confini di Roma agli Agri decumates. All’evento presenziavano anche le sacerdotesse custodi del fuoco sacro, austeramente mescolate alla folla delle più alte cariche religiose, militari e civili dell’impero.

Nonostante passasse instancabilmente da un gruppo di persone all’altro per scambiarsi melliflue frasi di cortesia o per discutere con questa o quella personalità, lo scaltro Menenio non perdeva mai di vista l’imperatore, in attesa del momento favorevole per rivolgergli la parola. «Divino Domiziano», gli disse finalmente, quando si presentò un momento propizio, «negli ultimi mesi ho notato un notevole incremento di attività nella città e nel porto di Ostia.»

«Sì, certo», rispose l’imperatore, «sembra che le autorità locali si stiano dando molto da fare per il bene di Roma.»

«Per il bene?» replicò Menenio, mentre un lampo sinistro gli balenava negli occhi. «Mah! Io sarei di un altro parere.» Quindi, espressamente richiesto di un chiarimento, continuò: «Ho la sensazione che la solerzia di queste autorità, soprattutto da parte di un valente militare come Marzio, possa far nascere velleità di autonomia dal potere dell’impero. Ripeto: è una semplice sensazione, gli dei ne scampino, ma tu sai bene, signore, che cosa vorrebbe dire se i granai che ci riforniscono venissero a mancare, o se mani traditrici si impossessassero del sacro Tevere. Per Roma e i suoi abitanti significherebbe la fine nel giro di pochi giorni».

Il volto di Domiziano si fece pensoso, un reticolo di rughe gli segnò la fronte.

«Hai fatto bene a manifestarmi i tuoi sospetti. Sarà opportuno rimuovere il duovir Marzio alla prima occasione possibile; ma con cautela, senza creare un martire e suscitare conseguenze pericolose. Direi anzi che alla sua opera è il caso di tributare un riconoscimento. Un alto riconoscimento.» E sul viso gli si dipinse un sorriso non meno sinistro di quello del senatore.

Menenio si congedò soddisfatto: il messaggio era arrivato a segno.

In un angolo dell’immensa sala, Clelia osservava sgomenta e nauseata quella moltitudine di persone impegnate a mettersi in mostra in ogni modo possibile soltanto per strappare un cenno di approvazione o di riconoscimento da parte dell’imperatore. Sentì impellente il bisogno di una boccata d’aria e uscì nell’ampio parco che circondava la residenza imperiale. Si aggirò a lungo tra le siepi di lauro perfettamente potate e per i sentieri delimitati da sempreverdi.

Fu proprio mentre si soffermava ad annusare una bacca esotica di particolare fragranza, così strana in quella stagione, che li scorse. Il corpo di Menenio, in piedi, si agitava ritmicamente. Il suo viso era contorto in una torva smorfia di piacere. Cornelia, china di spalle davanti a lui, aveva le vesti rivoltate fino ai fianchi; il suo grosso deretano biancastro strusciava nudo contro il nudo bacino dell’uomo. Le anche si torcevano nei movimenti della passione erotica, dalla bocca uscivano mugolii e rantoli, inframmezzati da una sequela di espressioni irripetibili, sacrileghe.

Clelia rimase impietrita, non riuscendo a credere di essere veramente testimone di quel sacrilego atto di piacere carnale. L’esitazione le fu fatale, impedendole di cercare subito un riparo dalla vista dei due. Quando vide gli occhi gonfi di malsana libidine della Vestale Massima aprirsi, si precipitò a nascondersi dietro una siepe, fuggendo poi in direzione della residenza imperiale.

I due amanti non potevano non averla vista, le rimaneva soltanto da sperare che non l’avessero riconosciuta. Angosciata e senza fiato, tornò a mescolarsi agli invitati, cercando di nascondere dietro un atteggiamento annoiato l’affanno e l’angoscia provocati in lei dal suo segreto. Cornelia raggiunse la grande sala affrescata pochi minuti dopo di lei. Sul volto non aveva dipinti i segni del sacrilegio, ma una smorfia di perfidia. Fece girare uno sguardo carico d’odio e, non appena i suoi occhi si posarono su di lei, Clelia capì che da quel momento la sua esistenza si sarebbe fatta ancora più difficile.

«Ma no», aveva detto Menenio, affettando un sorriso di circostanza, «devi esserti sbagliata.» Però era profondamente infastidito. Chiunque fosse stato a scoprirli, non sarebbe certamente andato in giro a raccontare che la Vestale Massima e il senatore si dilettavano a spregiare il nome degli dei compiendo affannati commerci carnali in piedi, nel parco dell’imperatore, come due cani infoiati. Ma da quel momento sarebbero stati costretti ad agire con molta più circospezione, e questo lo riempiva di bile. Per tutta la vita era sempre andato in cerca di sensazioni vietate dal comune senso naturale.

Gli piaceva, per così dire, praticare sentieri impervi, corrompere, stuprare, violare, quali che fossero il sesso, l’età o il ruolo della controparte. E non intendeva certamente negarsi il piacere di profanare una donna sacra a Vesta e vincolata alla castità. Che, oltre a tutto, sapeva abbandonarsi a oscene empietà capaci di quintuplicare il suo piacere.

«Non preoccupiamoci troppo», aveva concluso. «Cercheremo di stare più attenti. E, caso mai, non faticheremo ad agire.»

Con atteggiamento parimenti distaccato, Cornelia aveva risposto: «Sì, probabilmente hai ragione, ma terrò comunque d’occhio la giovane e la punirò con la massima severità per la minima mancanza, in modo che, se ha notato qualcosa, implori gli dei di stendere sulla sua mente un velo di oblio. Donnicciola di ghiaccio… Una vergine bellissima… oh, certo, com’è bella! Ma per sua sventura il destino l’ha voluta frigida».

«Be’… dal canto mio lo considererei un aspetto di grande interesse», ridacchiò Menenio, avviandosi a tornare tra gli invitati. «Saprei bene io che cosa insegnarle.»

L’espressione di Cornelia si fece impenetrabile. Lo seguì in silenzio, immersa nei suoi pensieri.

Alle prime avvisaglie della bella stagione, durante il periodo consacrato alle celebrazioni in memoria di Cesare, Giunio decise di recarsi nelle sue terre per alcuni giorni. Erano ormai diversi anni che non si concedeva un po’ di riposo ed era convinto che un breve periodo di svago non avrebbe potuto che fargli bene. I cantieri navali avevano appena varato una oneraria di dimensioni inusitate, da lui fatta costruire proprio per il trasporto dei grandi blocchi di marmo. Cogliendo l’occasione del viaggio inaugurale, prese il largo in una fredda mattina di marzo.

La brezza sostenuta e costante di Aquilone proveniva dalla loro stessa direzione di marcia, rendendo difficile risalire il vento. Il viaggio durò sei giorni, contro gli usuali tre o quattro con vento favorevole. Durante il giorno, allungato a prora, Giunio godeva il tiepido sole, di notte rimaneva sveglio fino a tardi ad ascoltare lo sciacquio delle onde lungo la fiancata, adagiato sulla branda in una cabina della tuga. In quel vascello, le misure classiche delle navi da carico erano state stravolte: la stiva poteva contenere diecimila anfore, contro la normale capacità di trequattromila. Anche le dimensioni erano circa il doppio di quelle di una nave da carico: invece di misurare trenta o trentacinque passi, era lunga da poppa a prora ben sessantadue. Giunio contava, nel corso della successiva brutta stagione, di poter effettuare viaggi anche di medio raggio, convinto che le dimensioni della nave avrebbero consentito di affrontare ogni tipo di mare.

In lontananza si cominciava a scorgere la terra che conosceva tanto bene, e l’ansia di arrivare a destinazione si era impadronita di lui, facendogli sembrare interminabili le distanze e i tempi necessari per superarle. Prima si delinearono le colline di contorno al corso del fiume, poi scorse da lontano il profilo delle due isole e infine apparvero perfettamente distinte le mura della città di Luna. Ancora una volta si presentò a casa senza preavviso, pregustando la gioia dei suoi genitori.

La madre, tuttavia, gli sembrò molto provata, notò con preoccupazione sul suo viso i segni della fatica e del tempo. Il padre, invece, esibì secondo il suo solito i modi rudi del militare, conditi da una dolcezza che forse soltanto il figlio riusciva a cogliere fino in fondo.

«Sento che qualcosa ti turba, figlio mio», si sentì tuttavia dire a bruciapelo, appena cessata la commozione dell’incontro. Suo padre aveva avvertito immediatamente il segreto che lo angustiava, probabilmente per effetto dell’affinamento di sensibilità generato dal buio della cecità.

«Mi sono state sottratte le Pietre della Luna, padre», rispose di getto Giunio, trovando un profondo sollievo nell’opportunità di rivelare l’accaduto.

L’espressione del padre, tuttavia, lo meravigliò: non un cenno di disappunto, non un moto di stizza. «Come è successo, Giunio?» gli chiese il vecchio, mostrando una calma inaspettata.

Giunio raccontò in breve i particolari della congiura, la sua schiavitù e la prigionia del suo signore, le battaglie nel Circo e la riconquistata libertà. «Purtroppo», concluse, «sembra che non ci siano strumenti legali per rientrare in possesso delle sacre statue.»

«Non devi darti pena, figlio mio», replicò suo padre, con un tono di voce sereno che fu come miele per il suo spirito. Le parole sembrarono avere il potere di assolverlo da una colpa. «Le Pietre sono nostre, e nessun altro può appropriarsene a lungo», continuò il vecchio. «Si dice che siano state trafugate ben tre volte ai nostri avi, ma sono sempre tornate al loro altare. Non angustiarti, non temere. Vedrai che un giorno ti si presenterà l’occasione di rientrarne in possesso.»

Fu allora la madre a prendere la parola, senza distogliere lo sguardo dal lavoro di tessitura in cui era impegnata. «Pensavo che fossi venuto a comunicarci qualche novità, Giunio… Il matrimonio… L’arrivo di un nipote…» E alzò finalmente con aria interrogativa lo sguardo al figlio, che sembrò rendersi conto soltanto in quel momento del fatto che prima le vicissitudini della vita e adesso gli impegni di lavoro lo avevano completamente sottratto a quel genere di vincoli.

Le schiave della villa erano sufficienti per appagare l’appetito di qualsiasi uomo, e lui non aveva mai pensato a un legame che andasse oltre il congiungimento carnale. Evocato da quei pensieri, affiorò prepotente il ricordo della giovane vestale, mentre cercava con fatica le parole per rispondere.

«Sai, madre», riuscì finalmente a balbettare. «Prima ci sono state le armi, poi tutto quello che vi ho raccontato; e oggi il lavoro non mi lascia molto tempo per…» Non finì la frase. A toglierlo dall’imbarazzo venne un provvidenziale intervento del padre. «Lasciamo perdere questi discorsi da donnicciole, figlio. Devi assaggiare il vino della scorsa vendemmia, è dolce e profumato come non era mai successo.»

Bevvero in allegria, ringraziando gli dei per avere loro concesso di stare insieme ancora una volta. La sera seguente, non appena completate le operazioni di carico, Giunio sarebbe ripartito alla volta di Ostia, e chissà quando avrebbero avuto l’occasione di rivedersi.

Quando Giunio varcò la porta nord delle mura, cavalcando uno splendido baio donatogli dal padre, era mattino presto. Desiderava rimanere solo per un po’ e ripercorrere i sentieri della sua infanzia, immersi nel verde delle terre dei liguri. Cavalcò alcune ore in assoluta libertà, fermandosi spesso a osservare il panorama di quel mare amico. Rivide golfi e insenature il cui ricordo si perdeva nel tempo, oltrepassò villaggi fatti di poche case di pescatori. Infine, tornando verso la città di Luna, si soffermò a osservare dall’alto delle colline il tortuoso corso del fiume Magra. Arrivato a casa, trascorse qualche ora con i genitori, che vollero poi accompagnarlo fino al porto.

La nave era all’ancora: se ne potevano facilmente confrontare le inusitate dimensioni con quelle degli altri mercantili intenti a caricare o scaricare merci. Il comandante gli venne incontro raggiante: «Siamo riusciti a stivare quasi tre volte la quantità di un normale viaggio, tribuno Giunio», spiegò.

E finalmente, abbracciati con profonda commozione i genitori, mentre il sole stava per calare dietro le montagne, Giunio riprese la navigazione verso il porto di Ostia. Adesso Aquilone li spingeva da poppa, e le lanterne di bordo illuminavano il ponte con una luce fioca.

Il giorno seguente Giunio volle fare una breve sosta nell’isola Ilva, poco distante dalle coste dell’Etruria: era un viaggio che aveva programmato da tempo per esaminare nuove opportunità commerciali. Era convinto che i minerali ricchi di ferro di quelle terre potessero costituire una valida fonte di traffici. Fin dall’inverno precedente aveva infatti scritto al proprietario, preannunciandogli una visita.

Il comandante della nave conosceva alla perfezione insenature e porti. Ormeggiarono in una rada riparata. A terra si vedevano lunghe file di schiavi gravati di ceste di giunco: stavano caricando una nave affiancata al molo.

Sceso a riva con la scialuppa, Giunio si soffermò qualche tempo a osservare la fatica dipinta sul volto di quegli uomini. Nel suo spirito bruciava ancora il ricordo del lavoro forzato di minatore cui era stato condannato, degli infiniti scavi sotterranei per gli acquedotti, di quella polvere letale. Mentre guardava la scena, uno schiavo ruppe l’ordine monotono della fila, fermandosi davanti a lui. Aveva la disperazione dipinta negli occhi e la voce roca, scossa da pesanti colpi di tosse. «Tribuno Giunio», disse in tono accorato, «ho fatto parte con onore delle legioni, ho combattuto al tuo comando nella valle del Reno, e adesso sto per morire nelle viscere di questa maledetta terra.»

Non lo ricordava, ma sarebbe forse stato impossibile che lo riconoscesse. «Perché sei qui, legionario?» gli chiese.

«Ho rubato, signore», rispose con estrema franchezza lo schiavo. «Da quando sono stato congedato, ho dovuto patire fame e povertà. Ho rubato soltanto per non vedere i miei figli morire di stenti. Quindi credo che la punizione che ho ricevuto sia eccessiva».

In quel momento si sentì il sibilo della frusta nell’aria. La mano di Giunio si alzò istintivamente, intercettando la striscia di cuoio che stava per abbattersi sul suo sventurato interlocutore. Senza riflettere, diede uno strattone allo scudiscio, facendo perdere l’equilibrio alla guardia. Un altro uomo gli si avvicinò immediatamente, chiedendogli in tono autoritario: «Chi sei, straniero, per malmenare le mie guardie?»

«Il mio nome è Giunio, tribuno militare e membro della confederazione mercantile di Ostia. Sono sbarcato sull’isola per verificare l’opportunità di intraprendere un commercio del vostro minerale.»

L’uomo sembrò abbandonare i modi minacciosi e, con voce più calma, riprese: «Sono lieto della tua visita, Giunio. Ritienimi a tua disposizione per soddisfare ogni curiosità. Ti stavo aspettando da tempo. Sono Venanzio, proprietario di quelle miniere», continuò, indicando con la mano le montagne rossastre di minerali di scarto, «e dal canto mio sarò lieto di valutare ogni tua proposta». Infine, in tono di nuovo irritato, ordinò alla guardia: «Che cosa aspetti con quegli occhi sbarrati da bue? Porta via quello schiavo, che non importuni il nostro ospite».

«Quell’uomo non mi stava importunando, Venanzio. È un mio vecchio soldato, e ti prego di lasciarlo ancora in mia compagnia», intervenne prontamente Giunio.

«Ogni tua richiesta per me è un ordine, nobile tribuno», replicò il proprietario delle miniere, a cui premeva entrare in rapporti di affari con una delle confederazioni mercantili più potenti dell’impero.

Quando riprese il largo, alcune ore più tardi, Giunio aveva già concordato non soltanto il periodo in cui si sarebbe svolto il primo viaggio, ma anche il prezzo che avrebbe pagato per ogni libbra di quel carico di prova. Dopo alcune resistenze, dovute allo stato di affidamento dello schiavo, Venanzio aveva anche accettato di cederglielo per la somma di soli cinquanta sesterzi, a patto che gli cambiasse il nome e che sulla faccenda venisse mantenuto il segreto più assoluto. Qualche giorno dopo avrebbe denunciato la morte di un condannato, e tutto sarebbe finito lì.

Una volta a bordo, quando il legionario si fu ripulito e vestito con abiti decenti, Giunio quasi non lo riconobbe. Aveva un fisico tarchiato, braccia forti e sguardo intelligente, anche se sembrava far fatica a guardare l’interlocutore negli occhi. Giunio non poté non notare la cosa con un vago senso di inquietudine. A suo dire, aveva fatto parte della cavalleria imperiale, che da tempo veniva reclutata presso gli abitanti delle province, non essendo i romani abili cavalieri. Era originario di Cartagine e si era trasferito a Roma in giovanissima età. Dopo il congedo aveva tentato diverse strade, ma senza successo, riducendosi infine a rubare per fame.

Lo scafo fendeva veloce il mare azzurro, i rigori dell’inverno venivano spazzati via da una brezza tesa e sostenuta. Nonostante le sue iniziali incertezze, Giunio provava compassione per quel militare, squassato dai colpi di tosse e duramente provato nel fisico. Si convinse che i suoi occhi abbassati esprimevano un misto di timidezza e profonda riconoscenza; decise che poteva fidarsi di lui. Dietro sua richiesta, da quel giorno lo chiamarono Dario.

Dopo il loro ritorno, la primavera si annunciò repentina, accompagnata dalle piogge calde che segnalavano l’imminenza della bella stagione.

Come la natura, anche ogni attività sembrava uscire dal lungo torpore invernale, ovunque fervevano lavori e preparativi. La città di Porto sembrò rianimarsi, le vie e le piazze di Ostia si colorarono delle vesti variopinte dei mercanti. File di schiavi carichi di merci ripresero a percorrere le banchine. Quell’atmosfera aveva sul fisico ancora giovane di Giunio lo stesso effetto degli speroni sui fianchi di un cavallo. Si sentiva forte e instancabile.

Dal canto suo, il nuovo venuto, Dario, mostrava doti difficilmente riscontrabili nei suoi soliti collaboratori. Sapeva scrivere e fare di conto, aveva un fiuto innato per gli affari e non si stancava mai di imparare.

Roma imperiale.

Da quando aveva scoperto il suo sacrilego segreto, Clelia viveva nell’angosciosa attesa della vendetta di Cornelia. Allorché, dopo alcuni giorni di indecifrabile silenzio, una delle ancelle venne a chiamarla al cospetto della Vestale Massima, capì che il momento era arrivato. Si preparò ad affrontare la terribile donna con il massimo coraggio.

Ma non poca fu la sua meraviglia quando, superata al centro dell’atrium la statua di Numa, fondatore del culto della dea, invece che verso la stanza da studio di Cornelia si vide condurre verso il suo cubiculum e poi, attraverso quello, fu introdotta nel balineum, il bagno rigorosamente riservato alla Vestale Massima e, per quanto ne sapeva, inaccessibile alle altre vestali. Stupita, inquieta, immaginò che Cornelia fosse malata.

Appena entrata nel balineum, si sentì avvolgere dalla temperatura elevata e dall’umidità. L’ancella le chiuse la porta dietro le spalle. Attraverso il vapore, gli occhi di Clelia riuscirono finalmente a individuare la grande vasca in marmo bianco, molto più grande di quella del balineum comune riservato a loro. L’acqua calda continuava ad affluire, diffondendo vapore, da una bocca di leone azzurra sporgente poco sopra l’orlo. Le membra di Cornelia affioravano molli, biancastre. Sulle labbra della donna aleggiava un sorriso indecifrabile.

«Ecco la migliore delle sacerdotesse!» si sentì accogliere con una strana voce roca, in un tono che non riuscì a capire se era cordiale o sarcastico. L’inquietudine persistente le impose di rimanere all’erta. Per una punizione, era un luogo ben strano.

Con profondo imbarazzo notò che il pelo pubico di Cornelia, nero e ispido, emergeva dall’acqua come una chiazza di vegetazione palustre. La Vestale Massima non faceva niente per nascondere i suoi segreti, sembrò anzi divaricare le gambe. «Questi vapori salutari rilassano lo spirito e la mente, e predispongono all’indulgenza. Non ho intenzione di punirti ancora per i tuoi comportamenti incauti, per certe curiosità che non si addicono di sicuro a una sacra sacerdotessa…»

Curiosità? pensò Clelia. Dunque, come temeva, era stata riconosciuta. Ma non era certamente stata la curiosità a portarla alla sconvolgente scoperta degli atti sacrileghi di Cornelia.

«Non nutro alcuna curiosità particolare, Sacra Vestale Massima, al di là del necessario per adempiere con coscienza alle mie mansioni quotidiane», replicò in tono sottomesso ma fermo.

«Sì, certo Clelia», la interruppe Cornelia, «so con quanta dedizione assolvi al tuo ufficio. Se finora mi sono comportata duramente con te, ciò era imposto dall’esigenza di fare di te una vera sacerdotessa di Vesta. E finalmente, osservandoti con attenzione, credo di esserci riuscita. Rimane qualche minimo dettaglio, ma supereremo anche quello. Con l’esperienza, la conoscenza e, finalmente, tra noi, una vera amicizia.

«Vieni, dunque, cara giovane, immergiti anche tu tra questi balsami. Ne trarrai sicuramente beneficio, le tue membra si rilasseranno. E potremo conversare in piena serenità, da buone amiche, tranquille, non disturbate.»

Così detto batté due volte le mani, e come dal nulla apparvero due schiave. Dopo pochi istanti Clelia si trovò nuda. La sua pelle d’avorio rifletteva la luce delle lanterne. Rimase un attimo dov’era, incerta. Ma anche sollevata: l’offerta di amicizia da parte di Cornelia la stupiva, ma finalmente aveva capito i motivi del malanimo mostratole fino a quel momento. Le era stato spiegato. Era finto, imposto dall’alto ufficio di Cornelia.

Era arrivata in quella stanza pronta a ricevere rimproveri e punizioni. Invece era attesa con amicizia in quell’acqua calda e profumata. Scese rapidamente i quattro scalini. Cornelia la seguì con lo sguardo in ogni mossa, gli occhi fissi sulla perfezione del suo corpo, riempiendola di ulteriore imbarazzo. Cercò di proteggersi alla meglio tenendo le mani sul ventre. Nessuna l’aveva mai vista nuda, nemmeno la sua compagna di camera, Gaia, che invece non si vergognava a spogliarsi e rivestirsi allegramente davanti a lei.

Le venne in aiuto uno sconosciuto tono di dolcezza della Vestale Massima: «Vieni, Clelia, non temere, non arrossire. Sono donna, come te e come le tue compagne. Il mio corpo è uguale al vostro. Sono stata giovanissima, come te e Gaia. So quanto sia difficile per una donna affrontare le privazioni della vita sacerdotale, e tanto più per una così bella… Come potrei non saperlo? Credi che anch’io non abbia sentito e non senta tuttora gli impulsi del corpo?»

Cornelia le si era fatta più vicina. «Credi che non conosca il fremito insopprimibile da cui siamo prese in certi momenti?» continuò, mentre, sotto la superficie dell’acqua, le sue mani cominciavano a carezzarle le cosce sode e tornite.

«Credi che non riconosca il profumo degli umori più segreti?» Le dita della donna raggiunsero il ventre di Clelia, lo accarezzarono dolcemente e poi scesero. Fecero una pressione leggera.

«No… no…» protestò Clelia sottovoce, ritraendosi. Ma improvvisamente Cornelia si erse, uscendo dall’acqua. I vapori che si disperdevano dalla sua pelle la facevano sembrare un personaggio salito dall’Averno. Con una mano ferma e forte afferrò la nuca della giovane seduta e la trasse a sé.

L’odore del sesso di Cornelia le entrò nelle narici. Clelia se ne sentì invadere, violare, rivoltare. Si divincolò. «No!» gridò disperata. «Mai! Meglio il supplizio. Meglio la morte!» Un grido di terrore e angoscia. Clelia aveva già riguadagnato il bordo della vasca. Senza ascoltare le frasi sconnesse che le rivolgeva la voce arrochita di Cornelia, ancora in piedi nell’acqua come una terribile creatura degli abissi terreni, avvolse alla meglio il corpo in un telo di lino e si precipitò verso l’uscita, sentendosi urlare alle spalle un’oscura minaccia: «La morte? Il supplizio? Proverai qualcosa di molto più sottilmente duro, Clelia: ti manderemo a conoscere il mondo!»

Città di Ostia.

La strada che portava al porto di Roma era invasa dal traffico commerciale. Il percorso del piccolo corteo veniva continuamente ostacolato dai lenti carri stracarichi. I littori precedevano la portantina dove, dietro fini tende di seta, si celava la sacra sacerdotessa. Seguiva quindi una scorta di dodici armati che non l’avrebbero mai abbandonata nel corso di tutto il viaggio.

«Ti manderemo a conoscere il mondo…» Che cosa poteva mai significare? Come poteva essere più dura della morte l’ebbrezza della libertà che le era stata inopinatamente concessa?

Senza alcun preavviso, mentre aspettava angosciata lo svolgersi degli eventi chiusa nel suo cubiculum, da cui non osava uscire, le era arrivato un ordine perentorio. Doveva partire. I territori della Giudea erano tuttora pervasi da fremiti di rivolta, rinfocolati dalle eresie nate in quelle terre. Era improcrastinabile che vi venisse ristabilito l’ordine della vera religione di Roma, e che, tra gli altri, il culto di Vesta tornasse a esservi rispettato in tutta la sua sacra importanza.

Così aveva decretato l’imperatore, e il Promagister, d’accordo con la Vestale Massima, aveva indicato lei per l’altissimo incarico. Lei, la più giovane e quindi la più forte delle vestali, e di conseguenza quella maggiormente in grado di affrontare le difficoltà e i pericoli del lungo viaggio, un evento inaudito nella tradizione dell’Aedes Vestae. Giunta in Giudea avrebbe operato in stretta collaborazione con il governatore della provincia, nei modi che quest’ultimo avrebbe giudicato più opportuni in base alla sua profonda conoscenza del territorio e delle popolazioni.

Proprio lei, inesplicabilmente, per una missione di estrema delicatezza e inaudito azzardo, pochissimi giorni dopo che la Vestale Massima le aveva gridato l’oscura minaccia: «Ti manderemo a conoscere il mondo…» Che cosa poteva significare? Quale prezzo non sarebbe stata disposta a pagare per quell’inattesa libertà?

Stordita dal precipitare degli eventi, Clelia guardava attraverso una fessura tra le tende l’animato spettacolo della strada ingombra, respirando l’aria salubre e fresca, godendo il rigoglio della natura che si risvegliava al caldo sole primaverile.

Oltrepassata Ostia lasciandola sulla sinistra, si diressero verso la città di Porto, dove li attendeva una nave militare. Fu nei pressi dei magazzini che, con un tuffo al cuore, quasi un mancamento, Clelia rivide Giunio.

La liburna era accostata a dritta della banchina principale. Giunio si soffermò a lungo a studiare ammirato la maestosità della macchina da guerra, i colori forti dello scafo lungo quasi settanta passi e i minacciosi disegni sulla prora, dove svettava il corvo. Dalla murata spuntavano le pale dei due ordini di remi, opportunamente ritirati nella manovra di accosto. Generalmente l’equipaggio di quelle regine del mare era composto da duecento uomini, di cui una settantina ai remi e i restanti divisi tra fanti di marina, ufficiali e sottufficiali.

Poco lontano dalla nave imperiale era ancorata un’oneraria al rientro dalle coste dell’Africa, che trasportava un carico di fiere destinate ai sanguinari spettacoli del Circo. Le gabbie dove erano rinchiusi gli animali venivano sollevate con grande cautela per mezzo di una gru e posate sui carri disposti lungo la banchina in attesa del carico. Le fiere sembravano impazzite, costrette in quegli spazi angusti si aggiravano agili e minacciose tra le robuste sbarre di ferro, emettendo ruggiti e digrignando i denti.

Una pantera si scagliava contro le sbarre, cercando invano la libertà. Giunio osservò per qualche tempo la linea scattante dell’animale, i muscoli possenti, la sua furia indomabile, ricordando i brividi del Circo, finché il suo sguardo non venne attratto dal piccolo corteo. La presenza dei littori denotava l’alto rango del personaggio che occupava la portantina dalle tende azzurre.

Con un trasalimento, vide il sublime volto della vestale affacciarsi tra le cortine, ne fissò gli occhi quasi volesse berne lo sguardo e, accortosi di un suo uguale sussulto al vederlo, sorrise. Si guardarono a lungo ancora una volta, e ancora una volta Giunio sentì che il trasalimento si trasformava in un inesplicabile tremito delle gambe.

Il momento magico fu bruscamente interrotto da un urlo: si voltò istintivamente proprio mentre la gabbia metallica si schiantava pesantemente a terra. La pantera si accucciò come un grosso gatto, pronta a compiere un balzo, finché non si accorse che le sbarre avevano ceduto. Fu libera in un istante.

Giunio vide la gente fuggire terrorizzata, il drappello di armati indietreggiare e scappare come davanti a un intero esercito. Gli otto schiavi che sorreggevano la portantina non ebbero quasi il tempo di allontanarsi. La belva impazzita si avventò su quello più vicino e gli recise la gola con una sola unghiata. Gli altri mollarono istintivamente la presa. La portantina cadde a terra rovesciandosi.

Giunio vide la sacerdotessa ruzzolare fuori dal veicolo. La pantera sembrò distratta per qualche istante dalle vesti che volteggiavano nell’aria, poi si rimise in posizione d’attacco.

Dalla portantina, Clelia aveva sentito le urla degli uomini, ma non aveva provato paura: si era, anzi, stranamente scoperta ad ammirare la leggerezza e la velocità con cui l’animale superava la distanza che la separava da lei. A riportarla alla realtà furono lo scossone della lettiga che si rovesciava e il sangue del portatore schizzato fin sui cuscini.

Si ritrovò distesa sul selciato, i suoi occhi incontrarono quelli impazziti della belva. Di nuovo, il suo sguardo non esprimeva paura, quanto piuttosto rassegnazione. Vedeva davanti a sé quella morte che aveva tante volte invocato nei più cupi momenti di disperazione, poiché nient’altro se non la morte poteva essere ciò che la stava osservando con quegli occhi gialli e penetranti. Tra poco la belva avrebbe spiccato il balzo ed estratto gli artigli letali. E le pene di Clelia sarebbero finite per sempre.

Giunio raccolse da terra la lancia abbandonata da un uomo della scorta. Caricò il braccio quasi d’istinto e scoccò l’asta. Seguì con gli occhi il percorso dell’asta, che sembrò durare istanti interminabili, e cercò di prevederne la traiettoria: con un profondo senso di angoscia si rese conto che avrebbe mancato il bersaglio. La punta di ferro toccò infatti terra con violenza, lambendo quasi il muso dell’animale ma senza ferirlo. Vide che la pantera aveva distolto il suo interesse dalla facile preda che aveva davanti e stava ruotando la testa in cerca della minaccia.

La belva puntò poi lentamente sul nuovo nemico, quasi volesse gustare il piacere della vendetta. Giunio vide le sue scapole alzarsi ritmicamente e indietreggiò cautamente fino a che non ebbe le spalle a ridosso del muro di uno dei magazzini del porto. La belva lo fronteggiava, agilmente piantata sulle zampe. Cercò invano con lo sguardo una qualsiasi arma con cui difendersi. Vide soltanto alcune ceste e reti di pescatori. Il corpo agile del potente felino si contrasse nello sforzo, lo vide librarsi altissimo in aria.

Richiamati affannosamente alla memoria i lunghi allenamenti nelle arti gladiatorie, Giunio scartò fulmineamente di lato e si gettò a terra, tirandosi dietro il lembo di una rete. La fiera ricadde tra le maglie di corda, tentando invano di divincolarsi con terribili ruggiti, ma riuscendo unicamente a impigliarsi sempre di più nella trappola. Giunio si alzò e rimase dov’era, fissando negli occhi l’animale ormai immobilizzato che continuava a cercare di liberarsi. In un lampo i bestiari gli furono addosso e lo legarono saldamente per le zampe.

Giunio girò lo sguardo in direzione della portantina rovesciata. Clelia era china sullo schiavo ferito a morte e stava cercando di portare un ultimo conforto al corpo squassato dai sussulti dell’agonia prima che l’ultima tenebra se ne impadronisse. Si avvicinò.

Quando la fanciulla rialzò lo sguardo, i suoi occhi erano pieni di lacrime.

«È… morto», disse, sconvolta.

«Tu come stai, nobile sacerdotessa?» ribatté lui, inquieto.

«Sto bene. Mi hai salvato la vita, Giunio, e non soltanto a me. Senza il tuo coraggioso intervento, chissà quante altre persone sarebbero state dilaniate dalla furia della belva.»

«Non dire niente, sacra vestale. Ricorda soltanto che ho un immenso debito nei tuoi confronti. E che non lo considero ancora saldato.»

Furono distratti da nuove urla alle loro spalle, questa volta non di terrore, ma di rabbia.

Incidenti di quel genere non erano rari durante gli sbarchi di animali feroci. La gente era ormai esasperata e sembrava voler far pagare ogni colpa all’armatore della nave dei bestiari. L’uomo, visibilmente impaurito, cercava di tenere testa con le parole a una turba di persone persino più inferocite della pantera fuggita. «Due mesi fa, un leone scappato ai tuoi uomini ha quasi ucciso mio figlio», urlò una donna brandendo un bastone.

In circostanze normali, Abis l’egizio doveva avere un colorito olivastro. Ma in quel momento il terrore di essere massacrato dalla folla lo faceva apparire di uno strano pallore tendente al verde. I suoi occhi continuavano a guizzare qua e là in cerca di aiuto, incontrando però soltanto volti pieni d’ira. «Che colpa ne ho io?» farfugliava con il suo strano accento africano. «Perché ve la prendete con me? Vi prego, ragionate!»

«Sei tu il responsabile di tutto questo! Senza l’intervento di Giunio, la tua pantera avrebbe seminato la morte in mezzo a noi!» esclamò un uomo di grossa corporatura, vibrandogli un colpo sulla testa. Abis si piegò in due, e la rabbia della gente sembrò esplodere.

Giunio vide mani e bastoni abbattersi rabbiosamente, si rese conto che il poveretto sarebbe sicuramente stato ucciso. Conosceva personalmente quei concittadini a uno a uno, ma non fu facile ricondurli alla ragione. Dovette intervenire con la massima decisione per salvare lo sventurato da una fine orribile quanto immotivata. Preso l’egizio per un braccio, lo spinse da parte, mentre, coperto di graffi e di lividi, quello continuava a protestare la sua innocenza.

«È stato un incidente», disse facendogli scudo con il corpo. «Quest’uomo non ha nessuna colpa.» A parlare era Giunio, il grande soldato e gladiatore la cui fama aveva largamente superato le mura di Roma, l’uomo di fiducia di Marzio, che dava pane e lavoro a tanti di loro. La folla inferocita si placò a poco a poco e finalmente si sciolse, non senza avere rivolto nuove minacce al commerciante di animali.

Abis si inginocchiò, prese le mani di Giunio e se le portò al volto. «Grazie, nobile tribuno, grazie.» Aveva la pelle di ghiaccio, la fronte imperlata di sudore.

Quando Giunio cercò di nuovo Clelia con lo sguardo, si accorse che il corteo aveva ormai abbandonato il molo. Guardatosi attorno senza successo, lo vide finalmente spuntare da dietro la murata della nave della marina imperiale. Sapeva che quello stesso mattino il vascello militare sarebbe partito alla volta della Giudea. Sentì nuovamente vacillare le gambe, ma per un ben diverso motivo. L’eventualità di non vedere mai più la creatura dei suoi sogni gli parve intollerabile.

Il comandante era sceso a terra, accompagnato da alcuni ufficiali. Nelle vicinanze del canale che si congiungeva al Tevere era stata elevata una piccola ara in marmo dedicata a Nettuno. I militari le si disposero attorno. Uno reggeva tra le mani un remo, il comandante portava una ciotola colma di vino. Giunio li vide chinare il capo chiedendo al dio del mare di voler concedere loro un viaggio tranquillo e privo di insidie. E di punto in bianco si accorse che stava pregando fervidamente con loro, che la bellissima vergine non dovesse conoscere la furia della tempesta e potesse un giorno tornare lì. A lui.

Clelia rimase a osservare gli argani che mettevano in forza le cime, e il molo che si allontanava lentamente dalla fiancata. Non appena furono a una distanza sufficiente, gli oltre ottanta remi ridiscesero in acqua quasi all’unisono. Gli ordini degli ufficiali addetti alla manovra giunsero fino a lei secchi e precisi, mentre il ritmo dei grossi tamburi cominciava a scandire la voga. Pensò semplicemente che nel corso dei trenta giorni di viaggio avrebbe avuto modo di abituarsi a quel suono monotono e cupo. Rimase affacciata al parapetto finché la figura solitaria che si stagliava sul molo esterno non scomparve alla sua vista. Sapeva di amarlo, ma sapeva anche che il giuramento solenne le imponeva di cancellare ogni pensiero rivolto a lui.

Giunio rimase sull’estremità del molo finché le tre navi di cui si componeva il convoglio non divennero dei vaghi puntolini sull’orizzonte. Sentiva sulla pelle l’intensità degli sguardi della giovane che aveva per la prima volta saputo suscitare nel suo spirito il più incandescente degli amori, un amore che ormai sapeva lo avrebbe accompagnato per tutta la vita; vedeva le sue vesti mosse dal vento. Non c’era stato nessun gesto di saluto, ma non era necessario.

La voce di Dario venne a distoglierlo dal sogno a occhi aperti. «Si sta facendo tardi, Giunio, e abbiamo ancora diversi carichi da controllare.» Lo seguì a malincuore. Sentiva che una parte di sé si stava allontanando con quella nave da guerra. Era in preda a un incomprensibile senso di vuoto.

Tornò verso i magazzini, si fece largo tra i sacchi di grano e le altre derrate. Non aveva nessuna voglia di lavorare. Dario sembrò capire e si offrì per sostituirlo.

Abbandonò la città di Porto cavalcando il suo baio fino alla villa di Marzio. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di dividere e confrontare le sensazioni che stava provando. Cercò il padrone di casa, ma inutilmente. Gli fu spiegato che era andato a Roma. Irresoluto, chiamò due schiave nella sua stanza. Le loro voci allegre sembrarono distoglierlo da quella strana forma di ansia, le loro mani sciogliere la tensione del suo fisico, ma, una volta finito, il desiderio e il vuoto che si sentiva nell’intimo si fecero ancor più grandi e prepotenti.

I remi si tuffavano nell’acqua azzurra con un ritmo incessante, gli uomini erano ben addestrati e sembravano non sentire la fatica. Dall’alto della tuga, a poca distanza dai grandi tamburi, Clelia osservava le schiene curve e muscolose piegarsi per compensare lo sforzo delle braccia. Le percussioni riempivano l’aria provocando un greve senso di fastidio alle orecchie. La giovane percorse tutto il ponte, fino a raggiungere la prora. Si sporse un poco dal parapetto e rimase affascinata a osservare la spuma che formava mulinelli attorno al rostro di bronzo. A ogni colpo di voga il vascello sembrava sollevarsi e volare sulle onde.

Era l’unica donna a bordo, ma mai nessuno le avrebbe mancato di rispetto o si sarebbe rivolto a lei con toni che non si confacessero a una sacra sacerdotessa di Vesta.

Ogni volta che raggiungevano un porto per fare provviste o cercare riparo dalle minacce del tempo, al momento della partenza venivano affiancati da altri vascelli che li accompagnavano per lunghi tratti. Quei mari erano pieni di insidie e di pirati, e le navi della marina imperiale rappresentavano un ottimo deterrente.

Oltrepassato lo stretto di Scilla a notte fonda, la giovane fu pervasa da uno strano senso di angoscia, di paura dell’ignoto che si celava al di là della distesa buia e interminabile. Un deserto infinito in cui l’unica loro guida erano le stelle.

Alcuni giorni più tardi avvistarono le coste della Cirenaica, basse e prive di vegetazione. Si spinsero ancora a oriente, senza però abbandonare la vista delle sconfinate distese di sabbia rossa. Quindi fecero una breve tappa ad Alessandria, per rifornirsi di acqua e viveri. Clelia non provò mai il desiderio di scendere a terra. Infine ripresero il viaggio verso la Giudea, sempre tenendo la costa molto vicina sulla dritta.

La giovane passava gran parte della giornata sotto la grande tenda di poppa a osservare il paesaggio. Ogni cosa le appariva nuova e diversa da ciò che aveva visto fino allora: i colori, la gente, le carovane di cammelli che a passo lento si avventuravano sulla spiaggia, il clima umido e caldo.

Le onde, il deserto, i silenzi la inducevano a cercare nel suo intimo le vere ragioni, il vero fine dell’esistenza degli uomini.

Il fatto che Dario si dimostrasse in grado di assolvere a ogni compito che gli veniva affidato provocava in Giunio sensazioni contrastanti: da un lato si sentiva sollevato da una mole di lavoro, potendo contare su un così valido collaboratore; dall’altro, però, il confronto gli era continuamente di sprone a fare meglio, quasi non volesse che l’allievo superasse il maestro. A poco a poco l’atteggiamento del fenicio era andato cambiando, mettendo in luce un’altezzosità di modi, per non dire addirittura vanagloria, che costituiva un serio motivo di preoccupazione. Dal canto suo, Marzio aveva accolto il nuovo venuto con cortesia, ma aveva mantenuto con lui un rapporto distaccato.

I viaggi a Roma del patrizio si erano fatti sempre più frequenti e, quasi con la stessa frequenza, richiedevano la presenza al suo fianco di Giunio. Quando però rimaneva a Ostia si fermava immancabilmente a scrutare a lungo il mare dalla stessa estremità del molo da dove aveva visto allontanarsi la nave da guerra, sognando a occhi aperti di vederla spuntare all’orizzonte, diretta verso il porto. Ma al desiderio subentravano spesso apprensioni, paure. Quasi un secolo prima, un grande e sfortunato poeta, Ovidio, aveva scritto: res est solliciti plena timoris amor: «l’amore è un sentimento permeato di paure angosciose».

L’imperatore comandò ai presenti di abbandonare la sala. Il trono su cui era assiso si trovava proprio al centro di due grandi bracieri. Menenio era a capo chino in segno di sottomissione, ai piedi della breve scala di marmo che conduceva al seggio imperiale.

«Bene», disse Domiziano appena furono soli, «mio bravo Menenio, che novità mi porti dalla Curia?»

Il senatore era abbastanza scaltro da sapere che non era soltanto quello il motivo per cui l’imperatore lo aveva convocato, ma finse di stare al gioco, riferendo all’Augusto: «L’unanimità dell’assemblea ha approvato proprio oggi il provvedimento che tanto ti preme, divino Augusto. L’esercito sarà gradualmente abbandonato dai cittadini romani, che verranno via via rimpiazzati da abitanti delle province».

Menenio conosceva bene i motivi di quella scelta. Il primo, ufficiale, era costituito dal preoccupante spopolamento delle campagne da parte degli abitanti a favore della carriera militare, certo più rischiosa ma assai più remunerativa del lavoro agricolo. Ma il motivo vero, quello che aveva indotto Domiziano a volere la legge, era un altro: in quel modo, le alte gerarchie militari, notoriamente avverse all’imperatore, avrebbero a poco a poco perduto il favore di cui godevano presso la popolazione. D’altra parte, agendo in quel modo, pilotando la scelta ma lasciandone la responsabilità alla Curia, Domiziano non si sarebbe compromesso, né si sarebbe esposto personalmente alle pesanti e inevitabili critiche di chi, con l’esercito di fatto in mano straniera, non si sarebbe sentito sufficientemente protetto.

Anche Menenio era convinto che quella decisione avrebbe segnato l’inizio della decadenza e un preoccupante rilassamento dei costumi marziali che avevano portato Roma a essere la capitale del mondo conosciuto. Ma era troppo scaltro e uso alle navigazioni tortuose: mai avrebbe dato modo all’imperatore di dubitare delle sue opinioni, nella giusta convinzione che il suo peso nelle gerarchie del potere si sarebbe potuto accrescere soltanto manifestando una fedeltà assoluta.

«Ma torniamo a una vecchia questione, Menenio», riprese l’Augusto dopo una pausa di silenzio. «Secondo i miei informatori, il duovir di Ostia starebbe raccogliendo consensi sempre più numerosi presso la popolazione. Devo dire in tutta sincerità che, a prescindere dalle opere pubbliche che fervono nella cittadina, anche qui nell’Urbe abbiamo notato un netto miglioramento dei traffici commerciali, una maggiore celerità. Ma questo ha suscitato in me profonde riflessioni.» E, mentre così diceva, nei suoi occhi comparve una luce maligna. «Sono sempre più convinto che tu abbia visto giusto. Temo che Marzio sia un uomo pericoloso e che la sua ascesa politica non vorrà limitarsi al controllo di un porto, seppure importante. Ritengo pertanto che i suoi servigi all’impero meritino… ehm, una promozione. Non credi?»

Certo, pensò Menenio, in quel modo la persona del generale sarebbe stata profondamente gratificata, ma nello stesso tempo i suoi poteri di duovir sarebbero stati notevolmente ridotti, dovendo egli rispondere delle proprie decisioni non più soltanto all’altro duovir di Ostia ma all’intera Curia senatoriale, che sapeva fin troppo bene soffocare qualsiasi voce fastidiosa e isolata.

Come aveva detto Domiziano fin dalla prima volta che avevano affrontato la questione, l’idea di uccidere il suo acerrimo rivale di sempre doveva essere scartata, almeno per il momento. Marzio era una figura celebre e amata dal popolo, molto più, persino, di quando si era coperta di onori al comando delle truppe imperiali. Uccidendolo si sarebbe soltanto creata la memoria di un martire, che col trascorrere del tempo sarebbe potuta diventare pericolosa. Molto più facile tenerlo sotto controllo attirandolo nella tana del lupo.

«Hai ragione, mio imperatore», disse Menenio, con un identico lampo di malignità negli occhi. «Sono totalmente convinto anch’io che i meriti acquisiti dal nobile Marzio, prima come condottiero e poi come governatore del porto di Roma, rendano improcrastinabile un degno riconoscimento!»

Mancavano ormai pochi giorni alla scadenza del mandato di Marzio come reggente della piccola e florida città portuale. Forse anche perché confortato dal consenso dei cittadini, il grande patrizio aveva deciso di riproporre la propria candidatura al Consiglio dei decurioni. In quell’anno molte cose erano cambiate. Non che fosse unicamente merito dei governanti, ma era innegabile che ogni attività aveva avuto un impulso poderoso.

La nomina di Marzio a membro del senato di Roma arrivò inaspettata e improvvisa. Giunio non poteva non rallegrarsi della luce di soddisfazione e di orgoglio che vedeva brillare negli occhi del suo signore, ma, a suo modo di vedere, l’assegnazione della nuova carica apriva inquietanti spiragli su una serie di dubbi che solo il tempo avrebbe potuto chiarire. Nessuno, infatti, ignorava la naturale avversione dell’imperatore nei confronti dell’aristocrazia, ristretta cerchia di cui Marzio rappresentava una figura eminente. Tuttavia, quando cercò cautamente di esporre al novello senatore tutti i suoi dubbi, si accorse che Marzio era perfettamente consapevole di ciò che lo aspettava.

«Credi, Giunio», rispose, «che io non immagini chi possa essere stato a proporre questo riconoscimento inatteso? Credi che non sappia perché si tenta di mettermi da parte in questo modo, dando per converso l’impressione di volermi assegnare un alto riconoscimento? Pensi che non abbia capito che il governante di una piccola città ha di fatto un potere maggiore di uno solo degli oltre novecento senatori? Diamo tempo al tempo, amico mio. Non sarà di sicuro facile, ma mi rifiuto di pensare che il governo di Roma sia in mano unicamente a persone dello stampo di Menenio. A piccoli passi cercherò di conquistarmi credito e fiducia all’interno della Curia, e verrà il giorno in cui il serpente pagherà per le sue colpe.»

Ascoltata l’appassionata esposizione dei motivi del suo signore, Giunio sentì più tranquillo, ma un punto rimaneva tutt’altro che chiaro: quale sarebbe stato il suo ruolo in questo nuovo scenario?

«Ho bisogno di te al mio fianco in questa nuova e difficile avventura», continuò Marzio, quasi gli avesse letto nel pensiero. «Come ai vecchi tempi.» E gli batté paternamente la mano su una spalla.

Giunio rivide mentalmente le orde dei barbari, la pelle di lupo che portava sulla testa, le battaglie, il sangue. Ancora una volta sentì risalire per la spina dorsale la febbre della sfida. Era pronto ad affrontare queste nuove battaglie, aveva ormai capito quanto più subdole e difficili potessero essere, e quindi impegnative, un confronto durissimo in cui era spesso impossibile determinare da quale parte il nemico avrebbe sferrato l’attacco. Unico elemento in comune, il prezzo della sconfitta: la morte. Ma, come sempre, si sentiva pronto ad affrontare anche quella.

Roma odierna. Fine di maggio 1996.

Sara Terracini allontanò le mani dalla tastiera e le portò alla nuca, indolenzita dalle lunghe ore passate in quella posizione innaturale. Stirò con forza dita e collo. Sbuffò: «Uffa!»

Sarebbe diventata gobba? Chissà. Per adesso era profondamente soddisfatta del suo lavoro. Molto divertita, persino. Quel giorno era stata alla tastiera più di quindici ore, con brevi pause per rifornire con i fogli restaurati da Toni Marradesi le infernali apparecchiature collegate allo scanner. Ma i primi due volumi delle memorie del tribuno romano, trascritte dal frate italo-spagnolo, erano stati interpretati e riassunti.

Ma il diabolico nano di nome Oswald Breil, riemerso dal nulla in cui si era eclissato, sembrava saperlo già. Nel primo pomeriggio, senza il minimo preavviso, la bandierina colorata si era messa a sventolare rumorosamente nell’angolo in alto a destra dello schermo, mentre nella striscia scura che attraversava la base scorreva rapidamente la scritta: ALLORA, POSSO COMINCIARE A VEDERE QUALCOSA?

OH, YES! aveva risposto d’impulso, in preda alla profonda allegria che sapevano sempre infondere in lei i contatti, in qualsiasi forma, con l’inafferrabile omino a cui doveva tanta parte della sua brillante carriera.

QUANDO? era stata la laconica nuova domanda che aveva attraversato lo schermo.

QUESTA SERA, aveva risposto immediatamente, rimanendo tuttavia un attimo perplessa. Dove poteva essere Oswald in quel momento? Seduto su quale parallelo, a cavallo di quale meridiano? Che senso aveva, per lui, l’espressione «questa sera»?

INSOMMA, si era affrettata a digitare di seguito sulla tastiera, FRA UN PO’.

MAGNIFICO! BRAVA! era stata l’immediata replica. COMPRESS AND ENCRYPT, PLEASE. ASPETTO, CIAO. E nella striscia scura dello schermo non si era visto più niente.

«Compress and encrypt»? Oh, bella. Che il documento computerizzato in cui aveva salvato il riassunto dei due volumi del frate dovesse essere «compresso» e quindi reso meno ingombrante, per una più rapida spedizione in rete elettronica, era del tutto normale.

Ma: «encrypt»? Perché doveva spedirlo «criptato»? Era noto a tutti che le reti telematiche erano completamente sforacchiate, violabili da intere torme di crackers, diabolici geniacci del computer capaci di penetrare ovunque con i loro trucchi elettronici, dalle apparecchiature delle maggiori banche internazionali fino al cuore del Pentagono, provocando guasti capaci di suscitare uragani di ilarità nell’universo di utenti e «filosofi» delle autostrade dell’informazione. Ma quale stravagante cracker poteva mai essere in volpina attesa di mettere occhi e mani sulle romanzesche vicende di un ex gladiatore romano e dei luminosi destini affidatigli dagli dei? Che cosa poteva… sì, diciamo pure: fregargliene?

Che si divertissero a sgraffignare un po’ di milioncini di dollari da questo o quel forziere bancario computerizzato, o qualche segretissimo piano per una nuova spartizione del mondo tra le potenze, poteva capirlo chiunque, ma le memorie dell’adamantino ex gladiatore, della sua amata e ingenua vestale e delle enigmatiche Pietre della Luna, a chi diavolo potevano interessare?

Che cosa c’era sotto?

Mah.

Non erano problemi suoi. Oswald aveva comunicato: COMPRESS AND ENCRYPT, PLEASE, e lei si sarebbe comportata di conseguenza.

Riportò le mani sulla tastiera, aprì un programmino accuratamente nascosto nei meno accessibili visceri del suo computer e gli ordinò di occuparsi del file di testo intitolato PIETRE.

COMPRESSION LEVEL? le chiese immediatamente una finestra aperta al centro dello schermo dall’affidabilissimo programma.

MAX, rispose meccanicamente.

ENCRYPT? chiese di nuovo il programma, dopo pochi secondi di operazioni effettuate nel silenzio più assoluto. YES, rispose Sara, ridacchiando. Che domanda. Se Oswald voleva così…

Ancora un’attesa di pochi secondi.

SEND ENCRYPTED FILE?, chiese finalmente il programma. «Spedisco il documento criptato?»

«Ma sì», borbottò Sara, «spedisci, spedisci!» E picchiò una robusta ditata con il pollice sul tasto di ritorno.

Movimento tra i più sconsigliati dai filosofi dei nuovi malanni professionali.

Chissà come avrebbe preso, il sempre assente ma telepatico omino, le sue infiorettature. Oh, be’, le prendesse come voleva, soprattutto visto che le voleva criptate. Ancora una volta: che cosa c’era sotto?