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Alesund. Costa atlantica norvegese. 1995.
Che cosa c’era sotto? Se lo chiedeva con insistenza da diversi giorni. E in quel momento, ponendosi per l’ennesima volta la domanda, Laura Joanson stava cercando di vincere il senso di disagio che le provocava sempre il volo. Certo, il recupero di un sommergibile dell’ultima guerra avrebbe comunque fatto scalpore. Ma perché proprio l’U115? Perché, tra le migliaia di relitti che sarebbe stato molto meno impegnativo strappare agli abissi, erano andati a cercare un U-Boot malandato e nemmeno coperto di particolare gloria?
L’avversione naturale che provava per il volo era quasi paradossale, se raffrontata alle sensazioni di spazio infinito che sapeva infondere in lei un’immersione a centinaia di metri di profondità con un batiscafo.
Le ruote del McDonnell-Douglas delle linee internazionali norvegesi toccarono terra con un leggero scossone. Sebbene fosse nata e cresciuta negli Stati Uniti, Laura Joanson conservava gli originari caratteri fisici scandinavi. Era sicuramente una bella donna. Il viaggio transcontinentale, per quanto poco gradito, non sembrava averla stancata più di tanto. Non appena varcò il portellone del velivolo, si sentì avvolgere dal vento freddo del Nord; avvertì, sopra il sentore acre del kerosene, il profumo delle conifere e l’odore intenso dei muschi. Una certa aria di famiglia, una sensazione epidermica di benessere paragonabile al senso di protezione che sanno infondere le mura della propria casa dopo una giornata faticosa.
Appena messo il piede al suolo si diresse con passo spedito verso il bus che l’avrebbe portata al terminal. Gli sguardi incuriositi di diversi suoi compagni di viaggio la seguirono con ammirazione: non era difficile riconoscerla, visto che le sue foto comparivano con regolarità sulle copertine dei più popolari settimanali del mondo. Ogni romanzo di Laura Joanson costituiva un fenomeno letterario senza precedenti. Ma nel contempo lei portava avanti con il medesimo entusiasmo di sempre la sua professione originale di esperta di ricerche sottomarine e fondatrice-direttrice del Museo dei Reperti Sommersi a Key Biscayne. La storia, avrebbe cominciato ad apprendere di lì a poco, partiva da lontano e rimandava molto, molto indietro nel tempo.
Berlino. 13 aprile 1945.
Il dottor Leonard Speitz, direttore dell’osservatorio astronomico della capitale del Reich, era chino sui suoi calcoli, circondato da strumenti capaci di scrutare i più remoti angoli del cielo. Sembrava non curarsi del rombo sempre più vicino delle artiglierie russe: si aggirava indaffarato a passo veloce, orientandosi alla perfezione nel disordine della stanza. Scuoteva spesso la testa, meditabondo, con il solo effetto di far traballare gli occhiali. Sembrava che gli mancasse qualcosa: una tessera di un mosaico importante. Prese nuovamente posto sullo sgabello rotante, regolato in modo da avere l’asse ottico nelle immediate vicinanze del mirino del telescopio.
Osservò la Luna: era incredibile il fascino che provava ancora nello scrutare quei crateri silenziosi, quei reticoli arcani di segni, la loro infinita quiete. Era uno dei tanti modi di cui aveva imparato a servirsi per rilassarsi e pensare, riordinare la mente e trovare eventuali errori nei suoi calcoli. Si scostò di scatto dal telescopio e tornò a dedicarvisi, con un’espressione soddisfatta sempre più evidente sul viso.
Quando il tenente e gli uomini delle SS entrarono nella stanza, si stava accingendo a riformulare matematicamente una sua scoperta che riteneva — temeva — d’importanza cosmica.
«Doktor Speitz», si sentì chiamare. Si voltò: gli parve che, nell’atteggiamento del giovane ufficiale che aveva davanti, ogni asperità marziale si fosse smussata per lasciare il posto a una gran fretta. «Gli ordini del Führer sono di requisire ogni documento che possa risultare utile per la nostra offensiva e, comunque, di non lasciar cadere niente nelle mani del nemico», continuò il militare, estraendo un foglio da una cartella e mostrandolo rapidamente allo scienziato.
Speitz assunse un’aria infastidita e al tempo stesso ironica: «Che cosa credete? Che il mio lavoro possa interessare alle armate bolsceviche, quando arriveranno in questa stanza?»
«I russi non prenderanno mai Berlino», ribatté quasi istericamente l’ufficiale. «Stiamo soltanto adottando alcune misure di sicurezza, nel caso si dovesse ricorrere a una ritirata strategica.» Il suo tono crebbe d’intensità a ogni parola pronunciata.
Avrebbe potuto essere suo figlio, forse persino suo nipote, pensò l’astronomo, e di quante fandonie gli era stata riempita la testa. Ormai i tempi tra lo sparo della bocca da fuoco e il rombo della deflagrazione si erano fatti molto ravvicinati.
Speitz contò i secondi e replicò in tono sarcastico: «Tenente, i russi si trovano a meno di dieci chilometri dalla periferia. Se continuano ad avanzare con questo ritmo, tra poche ore saranno padroni del Reichstag. E lei viene qui a dirmi che non prenderanno Berlino?» Ma si accorse immediatamente di essere stato troppo crudo, sicché tentò di mitigare il tono. «Comunque non si preoccupi, tra pochi minuti sarò a sua completa disposizione.»
Lo sguardo glaciale del tenente fece calare nel locale una cappa di paura. «Lei sta forse cercando di ritardare l’ordine del Führer? Devo pensare che sia animato da spirito disfattista nei confronti del Reich?»
«Un momento, soltanto un momento…» cercò di prendere tempo Speitz, questa volta in un tono fermo e sicuro, con la testa di nuovo china sui suoi calcoli. «Ancora una piccolissima modifica e…»
«Le ordino…» Ma lo sguardo di Speitz gelò le parole dell’ufficiale: due occhi scuri e penetranti, illuminati dalla forza di un’intelligenza vivace e profonda. Di fronte al suo carisma, il giovane nazista si rese conto della propria inferiorità, che lo spinse a portare la mano alla Lüger d’ordinanza. Gli occhi intimoriti dello scienziato non suscitarono in lui nessuna compassione; sembrava esaltato dall’idea di essere padrone incontestabile di una vita umana. Esplose tre colpi in rapida successione. I suoi uomini impiegarono poco più di venti minuti per chiudere ogni scritto trovato nello studio dentro due casse di abete di medie proporzioni, evitando però accuratamente di urtare il corpo esanime dello scienziato ogni volta che gli passavano accanto.
Amburgo. 29 aprile 1945.
Tra il ponte dell’U115 e il piano della banchina c’era un dislivello di circa un metro. Il sommergibile era ormeggiato con la sua curiosa sagoma di enorme pesce semisommerso nell’acqua lurida del porto di Finkenwerder. L’eccezionale dimensione delle fiancate, dovuta ai serbatoi supplementari, gli conferiva un profilo meno idrodinamico, ma l’U115 era capace di una velocità di ventitré nodi in emersione e sette in immersione; inoltre, quel che più contava, di un’autonomia di 15.800 miglia a dodici nodi in superficie. Il comandante Reisberg firmò la bolla di carico proprio mentre l’ultima cassa a tenuta stagna veniva scaricata dal camion militare. Salutati in modo rigidamente marziale i due uomini in borghese, si diresse verso la passerella. Non aveva particolari simpatie per i fanatici dei servizi segreti, ma, di fatto, dipendeva da loro. Le tre buste rosse con gli ordini di viaggio, appena ricevute, ne costituivano la prova.
Sapeva che Berlino stava per cadere, e che secondo diverse voci non controllate il Führer sarebbe già fuggito. Doveva fare in fretta: tra non molto l’aviazione alleata avrebbe potuto cominciare a bombardare il porto.
L’U115 era stato costruito soltanto pochi anni prima, e ben diverso era il fine a cui il comando della marina avrebbe voluto destinarlo. Era nato come mezzo da trasporto per una compagnia di incursori, apparteneva alle unità subacquee dell’ultima generazione. Molto più lungo di un normale sommergibile della classe U-Boot, era armato con due coppie di cannoni semiautomatici da 12,7 e due mitragliatrici antiaeree in coperta, quattro tubi lanciasiluri a prora e due a poppa.
Reisberg aveva seguito ogni dettaglio della sua costruzione, prefigurandosi sbarchi di guastatori in ogni angolo del territorio nemico, ma aveva finito con il rassegnarsi a quel compito sicuramente poco gradito al suo spirito di combattente. L’U115 era una delle poche unità capaci di raggiungere, senza bisogno di rifornimento, le coste orientali americane. E quella era diventata la sua principale missione: fare la spola tra la Germania e la Nuova Scozia, per affidare a mani sicure, oltreoceano, le ricchezze personali dei gerarchi nazisti, i soli che sapessero da tempo da quale parte spirasse ormai il vento della vittoria.
Reisberg era convinto che quello sarebbe stato con ogni probabilità l’ultimo viaggio effettuato per conto del Terzo Reich. Nella sua mente balenò una punta di soddisfazione, subito repressa dal suo carattere severo. Rimase rigidamente eretto sulla torretta, salutando la bandiera rossa con la svastica nera in campo bianco che sventolava sopra la casamatta sulla riva destra dell’estuario dell’Elba. L’U115 aveva ordine di immergersi tra quarantacinque minuti, non appena il comandante avesse aperto la prima delle tre buste con le istruzioni di viaggio.
Mare di Norvegia. Marzo 1995.
Laura Joanson girò leggermente la testa verso il finestrino dell’elicottero della North Pole Oil. Si stava chiedendo come avrebbe fatto il pilota a centrare quella minuscola serie di cerchi concentrici con al centro la lettera H: le sembravano lontanissimi e sicuramente troppo stretti per poter accogliere la mole di quel velivolo da trasporto. Un errore di un solo metro avrebbe potuto farli precipitare sulla piattaforma petrolifera sottostante. Invece arrivarono a destinazione con una precisione impeccabile. Laura era in viaggio ormai da dodici ore, ma continuava a non sentire nessuna stanchezza.
«Benvenuta a bordo della piattaforma Crude Brent, dottoressa Joanson», sentì gridare da una voce alle sue spalle, talmente acuta da sovrastare il rumore delle pale dell’elicottero che ancora volteggiavano sospese a poca distanza da lei. Si voltò, ma dovette abbassare di molto lo sguardo prima di riuscire a vedere il cordiale omino che le stava davanti.
L’uomo le tese una mano in miniatura, sollevandosi sulla punta dei piedi: «Sono Oswald Breil, il dottor Oswald Breil, esperto di prospezioni sottomarine e comandante supremo di questa isoletta», disse, indicando la piattaforma petrolifera e facendole cenno di seguirlo per una ripidissima scaletta in metallo.
«Laura Joanson», ebbe solamente il tempo di rispondere la bella donna, stringendogli la mano. Provò comunque un immediato senso di simpatia per quell’uomo. Forse, sorrise tra sé, ho sempre sognato di incontrare un elfo… fin da piccola.
Appena furono giunti nella sala comando, immediatamente sotto il piano di atterraggio, Breil si tolse la sgargiante giacca a vento arancione, parlando e fissando sulla donna due occhietti vivaci e intelligenti: «Quello che non ho ben capito, dottoressa, è se devo mettermi ai suoi ordini o se posso mantenere il comando della nave anche nel corso di questa operazione. Come lei certamente saprà, la North Pole Oil ha messo a disposizione della missione la sua struttura oceanica più sofisticata e i suoi uomini più in gamba. Ma vedrà che collaboreremo nel migliore dei modi. Una tazza di caffè, prima di farla accompagnare al suo alloggio?»
Laura lo ascoltò con attenzione, mentre percorrevano i corridoi di quel vero e proprio laboratorio galleggiante: aveva immediatamente avvertito il rispetto con cui ogni membro dell’equipaggio si rivolgeva a quell’uomo che arrivava sì e no alla cintola di una persona di media statura.
«La struttura della Crude Brent» continuava intanto l’omino, «è concepita in modo da permetterle spostamenti autonomi. A differenza di altre piattaforme, questa è ancorata con sistemi mobili al fondo marino, tali da renderla pronta a mettersi in movimento nel giro di poche ore. Grazie ai suoi piedi a forma di scafi, può raggiungere una velocità di crociera di otto nodi. Un sistema satellitare computerizzato le consente, tramite la sola tensione delle catene delle quattro ancore, di rimanere ferma sul punto di perforazione a cinquecento metri di profondità con una tolleranza di soli due metri. Il sistema di trivellazione è capace di perforare la crosta terrestre fino a cinquemila metri. Ogni attrezzatura di bordo è quanto di più avanzato si possa incontrare nel campo della ricerca sottomarina.» E intanto sgambettava velocissimo, indicando con rapidi cenni della testa o delle mani i particolari del sistema antincendio e altre sofisticate apparecchiature.
La stanza destinata a Laura Joanson era degna del più temprato guerriero di Sparta: dimensioni standard per ufficiali, mobilio standard, colori standard. La bella donna s’infilò nella doccia, in un bagno che, sebbene lillipuziano, le era apparso come un miraggio.
Mare del Nord. 29 aprile 1945.
Nonostante le sue quasi 4000 tonnellate di dislocamento in immersione, l’U115 navigava agile e veloce; gli otto MWM diesel da duemiladuecento cavalli spingevano con prepotenza i suoi centoquindici metri di lunghezza quasi a pelo d’acqua. Sembrava un predatore degli abissi sempre pronto per il balzo finale. Reisberg si girò verso poppa per valutare l’emissione dei gas di scarico: un sommergibile in emersione aveva il primo grande nemico delle proprie capacità mimetiche in quel fumo denso e nero. Tornò a girarsi verso prora, fissando lo sguardo nella notte che cominciava a scendere veloce. Nemmeno quelle acque potevano ormai considerarsi sicure.
Abbandonò la plancia, calandosi abilmente per la ripida scala in metallo accanto alla quale correva il tubo del periscopio. Accertatosi con un rapido sguardo che ciascuno degli uomini fosse al suo posto, entrò nella saletta nautica, immediatamente a ridosso del ponte di comando: in pratica, il suo ufficio a bordo. Dal peso delle casse aveva dedotto che dovevano contenere soprattutto incartamenti. Soltanto tre, a suo giudizio, dovevano avere un contenuto di effettivo valore, almeno pari ai forzieri, che sapeva pieni di lingotti d’oro, affidatigli per i viaggi precedenti. In uno slancio di confidenza, uno degli ufficiali dei servizi segreti addetti a consegnargli il carico gli aveva rivelato che si trattava di effetti personali del Führer. «Praticamente i soprammobili della sua casa di Berlino», aveva detto.
Aprì senza alcuna emozione la prima delle buste. Era sicuro che la rotta indicata sarebbe stata la solita: verso nord, seguendo le coste della penisola scandinava fino al primo dei due rifornimenti volanti, dopo di che avrebbe dovuto aprire la seconda busta. Ma era convinto che la destinazione finale del suo viaggio sarebbe comunque stata la costa americana.
Mare di Norvegia. Marzo 1995.
«Una nostra nave per ricerche», stava dicendo Breil, «ha identificato circa un anno fa quello che sembra un relitto.» Laura indossava un paio di jeans e un maglione marinaro blu a collo alto che faceva risaltare l’azzurro intenso dei suoi occhi.
«Ecco le foto scattate dal nostro robot subacqueo», concluse Oswald.
Facendo scorrere quelle carte patinate, a Laura sembrò di violare un segreto, di abbattere le porte di un tempio. Le sue riflessioni vennero interrotte dalla voce di Breil che chiedeva: «Perché ha fatto morire Patricia? Mi piaceva tanto».
Le ci volle un attimo per emergere dalla concentrazione che l’esame delle foto richiedeva e capire a che cosa alludesse il suo nuovo amico. Oswald stava parlando della protagonista femminile del suo ultimo romanzo. Sebbene uscito da poco tempo, Il colore del sole era già stato tradotto in trentasei lingue ed era in testa alle classifiche di vendita in quasi tutti i paesi. Sorrise compiaciuta e provò un moto di ancor più intensa simpatia per la spontanea sincerità del suo ospite.
Nata come l’hobby di una giovane esperta di ricerche sottomarine, la sua attività di scrittrice era ormai diventata un’apparentemente inesauribile fonte di reddito. Laura non si era comunque lasciata guastare dal successo e aveva continuato a praticare con il medesimo impegno una professione cui dedicava una passione e una fantasia perlomeno pari a quelle che metteva nello scrivere i suoi fortunati romanzi di avventura. Una sola cosa era cambiata, grazie alla pioggia di diritti d’autore in tutto il mondo: i mezzi tecnici con cui la sua compagnia affrontava il lavoro. Il laboratorio di ricerche da lei creato e di sua proprietà si era conquistato sul campo una vasta fama grazie anche alle larghe disponibilità economiche di cui aveva potuto dotarlo. L’unico lusso — così le piaceva definirlo — che Laura si concedeva era il Museo di Key Biscayne che aveva intitolato alla memoria dei suoi genitori.
Mare del Nord. 30 aprile 1945.
L’acuto avviso acustico del sonar riempiva gli angusti spazi della sala comando. Navigavano pochi metri sotto il pelo dell’acqua, lasciando emergere soltanto la torretta e le prese d’aria. Reisberg era di fianco al timoniere, quando la monotonia del suono che scandiva distanze e profondità fu rotta da una voce concitata: «Nave in avvicinamento ore sei, comandante».
«Immersione rapida, periscopio pronto, profondità dodici metri, stop ai diesel, silenzio assoluto.» I comandi uscirono di bocca a Reisberg in maniera meccanica, quasi istintiva.
L’U115 scese docilmente fino a dodici metri, poi si arrestò immobile a mezz’acqua. Le ultime parole che risuonarono nello scafo metallico furono i nuovi ordini del comandante: «Chiudere porte stagne, casse di compensazione aperte, sonar in cuffia, periscopio fuori». Da quel momento, gli unici rumori che si sentirono a bordo furono i rapidi cigolii delle maniglie e il ronzio del motore elettrico che estraeva il tubo a cannocchiale.
«Nave in avvicinamento a ore sei, distanza duemila metri», annunciò Reisberg agli uomini impegnati alle strumentazioni nella sala comando. «Tocca a lei, fonico.»
Era la prima volta che il comandante lo chiamava con il nomignolo che lo accompagnava da quando si era imbarcato. Il sergente maggiore posò gli spessi occhiali sul tavolo che aveva davanti, premendo entrambe le mani sulle parti metalliche delle cuffie.
«Motori diesel, da come cantano sembrerebbero due ventiquattro cilindri Rolls-Royce. Dirige verso di noi. Credo si tratti di un caccia inglese e penso che ci abbia intercettato», comunicò dopo qualche istante. Sapevano tutti che difficilmente sbagliava.
«Settanta metri, subito. Giù il periscopio. Comincia la caccia», ordinò Reisberg, chiudendo le due manopole sui fianchi del mirino ottico. I centodieci uomini dell’equipaggio si aggrapparono istintivamente a quanto di più saldo avessero nei pressi.
«Ci stanno passando sopra, comandante… Tuffo!» Un’espressione capace di suscitare terribile angoscia: significava che il caccia stava seminando un carico di morte nella sua scia. La deflagrazione della prima bomba di profondità echeggiò ancora abbastanza lontana, amplificandosi in un potente spostamento d’acqua che fece tremare gli oggetti a bordo. Il nemico, là sopra, non conosceva di sicuro la loro esatta posizione, né tanto meno la profondità a cui erano immersi. Sembrava lanciare a caso, nella speranza di un colpo fortunato. O forse stava soltanto aspettando rinforzi.
«Sonar, mi dica com’è il fondale nei dintorni: non credo che quel caccia sia solo», chiese Reisberg all’altro sottufficiale.
Quasi simultaneamente la voce del fonico riprese a trasformare in informazioni i rumori della superficie: «Ci sono altri tre bersagli, forse quattro, comandante».
«Il fondale, sonar, voglio il fondale!» esclamò di nuovo Reisberg, con un tono che non ammetteva ritardi.
«Il fondo è a circa 2400 metri sotto di noi, neanche pensarci. Però a venti gradi sulla dritta, a circa mezzo miglio da noi, sembra che si alzi un picco. È a centottanta metri di profondità.»
C’era forse una via di scampo, anche se il sommergibile avrebbe dovuto immergersi molto oltre i limiti di sicurezza.
Le deflagrazioni delle bombe di profondità si stavano facendo sempre più vicine e gli spostamenti d’acqua sempre più violenti. Il comandante si rivolse a tutti gli uomini: «Quegli avvoltoi stanno girando sopra le nostre teste in cerchi concentrici. Avviare i motori elettrici a mezza forza, profondità 90 metri. Mettere nel tubo numero quattro un ‘pacco per bambini poveri’». L’espressione indicava uno stratagemma con il quale si erano salvati diversi equipaggi di sommergibili in situazioni disperate. E quella in cui era incappato l’U115 era senza dubbio un’avventura dalla quale sarebbe stato molto difficile uscire.
«Tuffo, qui sopra!» informò il fonico. La sua voce, oltre a quella del comandante, era l’unico suono autorizzato a rompere il silenzio mortale. Tutti gli uomini presero mentalmente a scandire i secondi. L’U115 ebbe un sussulto violento. Pochi riuscirono a mantenersi in piedi. Reisberg prese immediatamente la cornetta dell’interfono per chiedere notizie sullo stato dell’equipaggio e le condizioni dei vari compartimenti stagni.
«Pare non ci siano danni allo scafo, e soltanto un ferito lieve», spiegò poi rivolto ai suoi. L’unica possibilità di salvezza era offerta dalla vetta sommersa, pensò il comandante. «Rotta due-sette-cinque», scandì chiaramente la sua voce. Un secondo boato, forse un po’ più lontano, ruppe immediatamente l’istante di tranquillità. Di nuovo il sommergibile ondeggiò, mentre le luci all’interno lampeggiavano per qualche attimo, spegnendosi poi del tutto come ogni altra attività elettrica. «Emergenza», ordinò Reisberg. «Inserite l’impianto d’emergenza. Fuori il pacco dei poveri.»
Pochi istanti più tardi uno scossone avvertì gli occupanti del locale di comando che il tubo lanciasiluri aveva espulso litri di olio e carburante, salvagenti e qualsiasi rifiuto in grado di galleggiare. Da quel momento in poi potevano soltanto sperare nell’ingenuità del nemico, convinto del loro affondamento dall’emergere dei relitti.
«Avanti al minimo, per due-sette-cinque», ordinò di nuovo il comandante.
Il ronzio dei due motori elettrici da millecento cavalli era impercettibile. Ma una spinta formidabile quanto improvvisa da poppa fece loro capire che gli inglesi non avevano creduto alla messa in scena. Compresse dalle titaniche forze della profondità, le strutture cominciarono a emettere suoni simili a lamenti.
Il profilo della vetta del monte sottomarino era simile alle corna di un bue, un avvallamento abbastanza ampio da poter accogliere lo scafo dell’U115. La corrente non era forte, ma la manovra si presentava ugualmente difficile, avendo là sopra cinque cacciatorpediniere inglesi che li stavano cercando. Guidato lentamente, con estrema cautela, il sommergibile nel riparo sommerso, Reisberg diede ordine di osservare il più assoluto silenzio e rimase in attesa che il loro destino si compisse.
Improvvisamente, senza alcun nesso logico, il suo pensiero tornò al carico che trasportava: sapeva che poteva trattarsi dei documenti privati e degli oggetti personali del Führer. Stranamente, questo rimase il suo pensiero fisso fino a quando lo scafo non venne squarciato sul lato di dritta. Con tutti i suoi uomini, non avrebbe mai più rivisto la luce del sole.
Roma odierna. Laboratorio di Sara Terracini.
Sara non poteva sapere che, poco più di un anno prima, Oswald Breil era occupato in una ricostruzione storica molto simile alla sua, e come la sua basata su vecchi documenti difficili da decifrare e interpretare, anche se molto meno antichi dei volumi del frate. Una ricerca, peraltro, molto più della sua fondata su congetture e infiorettature.
Né poteva sapere quale sottile ma tenacissimo filo collegasse la ricostruzione del suo piccolo amico a quella che stava effettuando lei nel suo laboratorio romano, dove Toni Marradesi le aveva appena portato i primi fogli restaurati del terzo volume.
Le prime righe del nuovo fragile foglio letto dallo scanner cambiavano completamente lo scenario, portandolo avanti di oltre millecinquecento anni. Evidentemente, nel corso dei secoli, passando di erede in erede, attraverso chissà quali vicissitudini, i quattro volumi originari non soltanto si erano sfasciati, ma anche scompaginati. A meno che, da un certo punto in avanti, il bravo compilatore della cronaca, oltre a costellarla di colorite espressioni castigliane, non vi avesse interpolato brani della propria vicenda personale. 1622, c’era chiaramente scritto nella seconda riga del foglio. Più o meno l’epoca a cui le analisi facevano risalire il materiale.
Bisognava che avvertisse al più presto Oswald, dovunque potesse essere. Intanto, però, avanti. Come aveva ordinato lui nei suoi frettolosi messaggi elettronici: anzitutto far *capire*. Poi, *riassumere*. E, caso mai, *integrare con giudizio*.
Portò le mani alla tastiera e ricominciò a digitare, riassumere o integrare *con giudizio*.
Cartagena. Colombia. Colonie spagnole dell’America del Sud.
28 luglio 1622.
La Santa Esmeralda era all’ancora esattamente al centro della rada; nonostante le oltre seicento tonnellate di stazza e il giardinetto molto elevato, tipico dei galeoni, aveva una linea snella. Era uno scafo moderno, costruito soltanto un anno prima dai più abili maestri d’ascia cubani. A poche centinaia di metri, le torce e i lampioni del molo illuminavano altre due navi, circondate da uomini e macchine da carico.
Juan Perez de la Molina aveva compiuto quarantadue anni, e ne aveva trascorsi almeno trenta a solcare mari e oceani. Era uno dei più valenti e giovani comandanti della Flota de Tierra Firme. Vestiva con abiti eleganti; il suo modo di portare la spada era spavaldo, quasi fosse sempre pronto alla reazione armata.
Camminava lungo la banchina con il primo ufficiale al suo fianco, arrestandosi di frequente per lasciare il passo agli uomini che conducevano i muli da soma. Osservando la lunga processione di schiavi e marinai scomparire nel ventre insaziabile della Nuestra Señora de Atocha, cercava di fare paragoni tra quel galeone e il suo gemello — la Santa Esmeralda - di cui era al comando dal momento del varo, anzi da ancora prima, da quando ne aveva seguito la costruzione nel porto di La Habana. Aveva visto nascere la sua nave, aveva studiato le soluzioni più ardite, con gli alberi e la zavorra più appruati, le vele più tese. Sportosi oltre la prora dell’Atocha, osservò in mezzo al golfo la sagoma della sua nave, le lanterne che segnalavano la fonda e le luci che filtravano dalle vetrate del castello di poppa.
Si voltò soddisfatto: al suo sguardo, pur alla luce fioca della luna, la Santa Esmeralda appariva senza dubbio più bella e slanciata della gemella, anche se gli occhi di un profano non avrebbero notato alcuna differenza tra quei due colossi del mare, alti più di due case e armati con quaranta cannoni. Per la sua nave ne aveva voluti due di meno, aumentando invece di sei unità le colubrine, più utili nel tiro ravvicinato e collocate nei due castelli, alle estremità del galeone.
«Señor Vasted», disse in tono autoritario, «non appena saranno iniziate le operazioni di carico, fate zavorrare a cinquecentosettanta tonnellate.»
Vasted, primo ufficiale da quasi un anno e responsabile del carico, sembrò perplesso: significava scaricare dal più profondo della stiva circa trenta tonnellate di pietre di fiume che costituivano il fulcro della stabilità del veliero. Fece rapidamente i calcoli: «Sono oltre mille pietre», obiettò, «ci vorrà una giornata di lavoro, a scapito o quasi di ogni altra operazione di carico, signore».
«Señor Vasted, avrete a disposizione tre ore», tagliò corto il comandante in un tono che non ammetteva repliche, «e non ho nessuna intenzione di consentire che si rallenti il caricamento. Siamo già in ritardo di una settimana. Avete idea di che cosa significa? Se il convoglio fosse arrivato con puntualità, avremmo dovuto essere già in mare. Stiamo entrando nel pieno della stagione degli uragani, e la prospettiva mi preoccupa molto.»
Vasted lo osservò di sottecchi: sapeva che mai una tempesta avrebbe potuto impensierire Perez de la Molina. Ben altro doveva essere il problema che lo rendeva cupo e nervoso. Ma che cosa? Non riusciva a capirlo. Pensieri che durarono pochi attimi, dopo di che i due ufficiali vennero risucchiati da un capannello di folla intenta a festeggiare, come ogni volta, la partenza della Flota.
Dalle miniere della Colombia, dal Perù e da ogni altro angolo delle colonie, oro, smeraldi, argento, legni pregiati e altre merci venivano cabotati lungo le coste occidentali dell’America del Sud. Giunti a Panama, venivano sbarcati e trasportati da interminabili carovane dirette a Portobello, appena al di là dell’istmo, o a Cartagena, sulla costa settentrionale della Colombia. Da lì, i galeoni della Flota de Tierra Firme facevano la spola tra il vecchio e il nuovo continente quasi senza soluzione di continuità. L’unico periodo in cui i traffici della flotta venivano sospesi era nella stagione delle tempeste.
Perez de la Molina sapeva bene che diverse pericolose perturbazioni avevano già cominciato a formarsi, flagellando l’arcipelago caraibico. Ma i veri problemi, quelli che lo angustiavano di più, erano la segretezza della missione e il carico che la sua nave avrebbe dovuto trasportare.
Le assi dei carri sprofondavano nella fanghiglia cui era ridotto il fondo stradale. Le difficoltà aumentavano a mano a mano che gli zoccoli dei buoi e le ruote degli oltre cinquanta mezzi affondavano sempre più nella melma o rimanevano incastrati nei profondi crepacci scavati dalle piogge tropicali. Il drappello di soldati con il classico elmo ricurvo seguiva il convoglio in un ordine molto approssimativo, tra mille difficoltà. Quella che stavano percorrendo era l’unica via di comunicazione, ma sembrava un torrentaccio scavato tra due argini di foresta impenetrabile.
Le tre pariglie di cavalli che trainavano la carrozza procedevano sicuramente al di sotto delle loro possibilità: non potevano lasciare indietro i due carri da trasporto e la scorta composta da venti guardie papali a cavallo. Ma improvvisamente, anche quel passo relativamente veloce, rotto dai continui scossoni e dalle sbandate delle ruote nella fanghiglia, si interruppe. Il segretario del cardinale de Blasi si affacciò al finestrino, imbrattandosi la toga con gli schizzi di fango che coprivano il vetro. «Vetturino», chiese, «che cosa succede?»
«Davanti a noi ci sono diversi soldati e un convoglio di carri in difficoltà che ci sbarrano il passo», rispose uno degli uomini a cassetta.
«Andate a dire che si tolgano di mezzo, siamo già in ritardo di una giornata, e Sua Eminenza non può certo perdere la partenza della Nuestra Señora de Atocha.»
Il cocchiere scosse la testa e si diresse verso l’ufficiale che comandava la scorta. Scambiarono soltanto poche battute, dirigendosi poi insieme verso la carrozza adorna degli stemmi papali.
«Capitano Silva al servizio del viceré di Spagna, agli ordini, Eminenza. Che il Signore sia con voi.» E il militare si chinò con una certa goffaggine a baciare il grosso rubino che de Blasi portava al dito.
Il cardinale emerse dalla carrozza fino a mezzo busto: «Siamo in grave ritardo, capitano, e per niente al mondo posso tollerare ulteriori intoppi. Fate sgombrare la strada e lasciateci passare».
«Sono desolato, Eminenza, ma la prossima radura dove possiamo cedervi il passo si trova a circa sette miglia da qui. Per di più abbiamo ben tre carri impantanati fino agli assi e ci vorranno alcune ore per liberarli.»
Il naso del messo papale sembrò farsi ancor più adunco e gli occhi più gelidi: «Capitano, io rappresento il Papa e la parola di Dio in queste terre di selvaggi, e trasporto beni di proprietà del Santo Padre. La nave sulla quale devo imbarcarmi salperà da Cartagena nelle prime ore del mattino. Credo vi rendiate conto di quello che significa.»
«Capisco, Eminenza», rispose l’ufficiale, «e cercheremo di fare del nostro meglio, anche se ci vorrebbe davvero un miracolo per farvi giungere in tempo per la partenza dell’Atocha.»
La mano del cardinale disegnò meccanicamente una croce nell’aria, mentre la sua figura tornava a scomparire, adagiandosi sui sedili della vettura.
Fratello Pietro di Marzio costituiva un raro, quasi indescrivibile connubio tra un frate di campagna e un lupo di mare. I suoi modi erano quelli di un sant’uomo, ma si capiva che aveva vissuto, e una vita non certamente facile. Era imbarcato come cappellano di bordo sulla Santa Esmeralda. L’altissima considerazione che de la Molina aveva di lui era nata diversi anni prima, quando lo aveva visto impugnare la spada per dare senza esitazioni il suo contributo a respingere un arrembaggio di corsari olandesi.
Il fisico robusto del religioso sarebbe sicuramente stato più adatto per la divisa del guerriero che non per il saio francescano. Eppure la sua presenza a bordo era quasi indispensabile, soprattutto nelle ore di bonaccia negli oceani sterminati, in cui anche il peggiore degli uomini dell’equipaggio sentiva improvvisamente il bisogno di chiedere qualcosa allo spirito. Per loro era pronto fratello Pietro, con le sue parole semplici e intense, con i suoi racconti, con l’alone di mistero che circondava la sua vita, con la sua capacità di mostrarsi aperto e comprensivo.
Officiava la messa ogni mattino, anche quando la nave era alla fonda, sebbene in porto vi assistesse molta meno gente che nel corso delle traversate oceaniche, quando ogni membro dell’equipaggio non impegnato in un’attività marinara e ogni passeggero cercavano un senso di sicurezza nel rito quotidiano.
Frate Pietro ripose ostensorio e calice e si rivolse a Eduardo Ramos, comandante in seconda. Era l’esatto opposto di de la Molina: aveva appena passato i sessanta, preferiva il ragionamento all’irruenza del suo superiore, era dotato di uno spirito metodico che lo faceva contento del suo ruolo di subalterno.
«Mi emoziona pensare che la stessa maestà di quelle navi la esprime la nostra Santa Esmeralda», disse il frate, indicando la Nuestra Señora de Atocha e la Santa Margarita che doppiavano il molo nel lasciare il porto.
Appena in acque libere, i galeoni avevano spiegato le vele quadre, e il refolo sembrava far vibrare ciascuno dei tre alberi. Il vento di mascone aveva gonfiato le tele, e gli scafi si erano inclinati leggermente, assumendo un’andatura maestosa.
Ramos sorrise al frate, poi si girò verso la batteria del primo ponte, abbassando la spada. Il silenzio fu rotto dal fragore dei diciannove cannoni della murata di dritta. Come rispondendo a un segnale, salve di saluto esplosero un po’ ovunque. Ogni volta che la Flota partiva, era un avvenimento e una festa per tutti.
Ramos si volse di nuovo verso frate Pietro e chiese: «Vedete quelli?» indicando un gruppo di persone sulla banchina che salutavano i partenti e si abbandonavano a manifestazioni di smodata allegria. «Nessuno riesce a togliermi dalla testa che siano così contenti, ogni volta che la flotta parte, perché sanno di non dover pagare gabelle per più di un anno.»
«Per non parlare», rincarò il frate, «di tutto l’oro di contrabbando che stanno mandando in patria.» E il suo sguardo assunse un tono severo. Pietro sapeva benissimo che, con il consenso degli ufficiali, ogni nave trasportava quantità di preziosi non assoggettati al Quinto, la tassa reale del venti per cento, né all’Avería, un contributo per la protezione del convoglio che poteva arrivare fino al quaranta per cento.
«Capisco che non sia piacevole», continuò, «vedere ogni proprietà personale assoggettata ai bisogni delle avide casse della Corona, ma è anche vero che molti si stanno costruendo una fortuna contrabbandando ori e pietre preziose ottenuti con lo sfruttamento e la violenza sulle popolazioni indigene.»
Ramos si girò verso quattro schiavi che stavano ammucchiando le pietre della zavorra sul ponte. Non appena attraccata la nave, le avrebbero scaricate a terra. L’occhiata con cui rispose al religioso espresse a fondo quale fosse il suo pensiero in materia di razze.
«Sono stato vent’anni con uomini come quelli», disse il frate, ricordando la sua missione tra gli indios, «e vi assicuro che l’unica differenza tra loro e i cosiddetti civilizzatori sta nel minore attaccamento che hanno per l’oro e per i beni terreni.»
Pronunciando l’espressione «civilizzatori», la voce di Pietro di Marzio si era venata di un accento italiano che egli stesso riteneva di avere perso ormai da tempo.
«Fratello», replicò Ramos tagliando corto, «perdonatemi ma debbo disporre le cose per l’ormeggio di domani mattina.»
Il francescano si diresse verso la sua cabina. Un angusto loculo ricavato in un angolo degli alloggi ufficiali, dotato di un letto, uno scrittoio e una libreria a parete ricolma di volumi. Rovistato rapidamente nella sua cassettiera, ne estrasse il saio di ricambio e un cofanetto di legno privo di serratura. Nessuno a bordo avrebbe mai osato mettere le mani su qualsiasi cosa appartenesse a un uomo di Dio.
Aperto il coperchio del semplice scrigno, guardò per l’ennesima volta con un profondo senso di affetto le tre statue d’oro che aveva davanti agli occhi. Le uniche cose che non aveva consegnato all’ordine monastico quando si era spogliato di ogni suo bene terreno. Appartenevano ai padri dei suoi padri fin dalla notte dei tempi. Aveva chiesto perdono a Dio, ma se ne sarebbe separato unicamente per consegnarle al nipote designato, nel momento in cui fosse stato sicuro di sentire vicino il passo della morte.
Ma questa volta le Pietre della Luna gli comunicarono un senso di inquietudine. Era forse semplicemente il timore nei confronti dell’ignoto che provava chiunque si accingesse a varcare l’oceano, ma lo avvertì in un modo mai sperimentato.
«Partiremo tardi», pensò ad alta voce. «Tutta la Flota è partita tardi. E i mari sono pericolosi, pieni di tempeste. Assisti questi uomini, mio Dio.» E dicendolo giunse le mani, consolandosi tuttavia con il pensiero che a quel viaggio sarebbe seguito un periodo di riposo.
Si sedette allo scrittoio. Aveva mani lunghe e forti, che tuttavia mosse con grazia ed estrema cautela. L’ultima delle venti pergamene che aveva appena finito di tradurre in quello che riteneva un buon italiano venne ordinatamente riposta con le altre. In quelle antiche scritture ingiallite e indurite dai secoli erano raccontate le origini della sua famiglia, del suo stesso essere. Quando tornò a chiudere il bauletto che le conteneva, provò un senso di vuoto.
Poi i suoi occhi corsero ai quattro volumi posati sul tavolo. Aveva impiegato diversi anni per trascrivere quanto il romano Giunio aveva scritto perché rimanesse nella memoria dei suoi discendenti. Non avrebbe mai potuto dire di avere capito tutto alla perfezione. La pergamena era in più parti illeggibile, e la sua conoscenza del latino non si poteva di sicuro considerare pari a quella di un erudito prelato. Ma aveva onestamente cercato di fare del suo meglio, di interpretare le parole con certosina pazienza. Se la sua limitata erudizione non gli aveva consentito di cogliere qualche sfumatura, era sicuro che il buon Dio lo aveva già perdonato, così come lo aveva sicuramente perdonato per aver voluto conservare le tre Pietre della Luna.
I suoi occhi rimasero fissi per qualche istante sui quattro volumi manoscritti come se non li vedesse, quasi che il confuso presagio da cui era stato turbato stesse assumendo contorni più nitidi. Poi li accarezzò, con un sospiro: sapeva con assoluta precisione che cosa avrebbe dovuto fare il mattino dopo, non appena la Santa Esmeralda si fosse accostata al molo di carico.
Corte di Spagna. 1622.
A corte, all’interno della ristretta cerchia di nobili prodiga di inchini e adulazioni, Filippo IV era considerato da due punti di vista. Tutti sostenevano pubblicamente che l’educazione da lui ricevuta era tale da abilitarlo a governare nonostante la giovane età: era stato incoronato re di Spagna a soli sedici anni. Alcuni, però, seppure una minoranza, non riuscivano a non provare fastidio nel doversi sottomettere a un giovinetto.
Di certo Filippo non aveva ereditato una situazione facile: territori sconfinati su cui mantenere se non addirittura estendere il proprio dominio, guerre che duravano da decenni contro inglesi e olandesi, forzieri reali in gravi difficoltà. Il giovane aveva però dimostrato di sapersi destreggiare abilmente, anche seguendo i suggerimenti di preziosi consiglieri, ma soprattutto in forza delle enormi ricchezze delle colonie a cui il regno di Spagna poteva attingere. Tra gli eminenti personaggi che lo avevano guidato in ogni sua scelta spiccava il duca di Figueres, ammiraglio di tutte le Armate, cui era legato anzitutto da un rapporto di profondo affetto. Quel giorno, infatti, era a consulto con lui.
«Sire», disse l’ammiraglio, «la Flota de Tierra Firme dovrebbe prendere il mare in questi giorni. Tra due mesi al più tardi dovremmo pertanto essere in grado di sedare le preoccupazioni dei grandi banchieri privati. Senza contare il beneficio che ne verrà al tesoro della famiglia reale.»
«Non temete, ammiraglio, che mettere per mare ventotto navi cariche di preziosi costituisca un rischio molto grave in questa stagione?» chiese la voce ancora adolescenziale, seppure artefatta per renderla più grave e solenne, del re di Spagna.
«Certo, Maestà. Nel periodo delle tempeste sarebbe meglio tenerle al riparo in qualche porto, ma l’urgenza non ci dà altra scelta. Gli inglesi stanno costruendo nuove navi e cercano con ogni mezzo di contenderci il primato sui mari. I loro corsari ci razziano milioni di pesos ogni giorno. Dobbiamo dare una risposta esemplare al nostro nemico di sempre. E poi, non c’è motivo di preoccuparsi: galeoni come l’Atocha o la Santa Margarita hanno dimostrato di essere in grado di tenere qualsiasi mare e vento.»
«Non posso che convenirne con voi, ammiraglio. Ma che dire della Santa Esmeralda? Dovrà viaggiare da sola e senza scorta per un lungo tratto di mare.»
«Quella nave, Sire, trasporta una quantità di oro e pietre preziose pari a quella dell’intera Flota de Tierra Firme, e il suo carico andrà ad arricchire il vostro tesoro personale. Ho dunque pensato che fosse opportuno coprire il suo viaggio con il massimo di segretezza, anche per non far confluire i beni personalmente destinati a Voi nella voragine dei debiti del regno. Soltanto il comandante della Santa Esmeralda, un passeggero e alcuni ufficiali superiori conoscono la natura del carico. Vedrete, tra pochi giorni la nave si congiungerà alle altre del convoglio, e tutte insieme raggiungeranno sane e salve le coste spagnole.»
Cartagena. Colombia. 28 luglio 1622.
L’uomo era in abiti raffinati e costosi, al collo aveva una pesante catena d’oro a maglie molto grandi. Ogni maglia era cesellata a mano e pesava esattamente quanto un escudo: in pratica si trattava di un accessorio utilizzato come borsa dalla quale attingere per regolarizzare i pagamenti delle normali transazioni commerciali.
La carrozza su cui viaggiava occupava il terzo posto nella lunga carovana di veicoli che, superato il tratturo paludoso, sostava in una vasta radura. Sul sedile di fronte a lui, una giovane sembrò emergere dall’oscurità. Affacciatasi al finestrino e intravisti gli stemmi papali sul primo dei tre carri che stavano oltrepassando il loro convoglio, disse: «Padre, credete che si tratti del messo del Papa a cui abbiamo tributato una così calorosa accoglienza a Lima?»
Francisco Llobet, indubbiamente uno degli uomini più ricchi del Nuovo — e forse anche del Vecchio — Mondo, sembrava assorto in tutt’altri pensieri. «E se anche fosse, Antonia?» rispose distrattamente.
«Consentitemi, padre», continuò lei, «ma non trovo assolutamente niente di santo nel cardinale di Blasi, o de Blasi, o come si chiama. Anzi, il suo sguardo mi fa paura.» Così detto, fece una breve pausa ma, non appena si accorse di avere richiamato l’attenzione del padre, riprese: «Dopo il suo passaggio, si mormora che nessuno dei tesori delle nostre chiese sia rimasto intatto».
«Sono cose che non ti riguardano», tagliò corto il padre, che la sola parola «tesoro» era stata sufficiente a far ripiombare in cupi pensieri.
«L’importante è che non me lo trovi come compagno di viaggio… Un’intera traversata atlantica… Il duca di Figueres non vi ha assicurato che le mie ancelle e io saremo i soli passeggeri a bordo?» Ma lo sguardo severo del padre ebbe l’effetto di farle morire la frase in gola.
«Mi hanno assicurato che non ce ne saranno altri», ribatté Llobet in tono irritato. «Ti pregherei anzi di parlare il meno possibile degli alti personaggi di corte con cui ho concluso questo importante accordo. Dovessero chiederti qualcosa, dovrai dire che ti stai imbarcando per la Spagna, dove raggiungerai tua zia Margarita a Siviglia. Nient’altro. Per combinazione, sulla tua stessa nave viaggia un carico di legname pregiato proveniente dalle mie terre. Ricordatelo bene e una volta per tutte!» concluse Francisco Llobet, visibilmente irritato.
Antonia sapeva come farsi perdonare. Lasciò passare alcuni istanti in silenzio e poi riprese: «È veramente necessario che io parta, padre?»
L’irritazione era ormai scomparsa dal volto dell’uomo, lasciando il posto a un velo di malinconia. «Ciò che mi preme, in questo momento, anche se non sarà facile saperti così lontana, è la tua educazione, sono i tuoi studi. Da quando è mancata la tua sfortunata madre ho dovuto constatare quanto sia difficile educare una figlia che sta diventando donna. Quanto potrai apprendere sarà certamente di qualità molto più elevata rispetto a ciò che possono offrirti questi paesi selvaggi.» E Llobet si perse con lo sguardo su ciò che lo circondava: in ciascuno di quei carri, insieme alle cataste di travi scure e squadrate, saldamente legate, viaggiava un valore pari alla produzione annua della più attiva delle sue miniere.
Tutto era cominciato un anno prima, quando il duca di Figueres, ammiraglio della marina spagnola, si era recato in visita nelle colonie d’oltreoceano come inviato del re. Llobet era stato il suo cortese anfitrione nel corso del viaggio in Perù: la loro intesa, nata in maniera casuale, si era andata via via sviluppando nel corso dei giorni. L’ammiraglio si era a poco a poco lasciato andare a confidenze su argomenti di grande riservatezza, di cui sembrava strano sentir parlare con tanta disinvoltura dall’uomo più vicino a Filippo IV. Ma Llobet era troppo uomo di mondo per non capire come certe osservazioni non fossero gettate lì a caso, ma perché si volevano da lui pareri e consigli. Se da un lato le casse del regno erano continuamente svuotate dalla politica di egemonia militare, dall’altro il tesoro personale del sovrano non versava in condizioni migliori. Il proprietario di due terzi di tutte le miniere delle colonie dell’America del Sud sarebbe dunque potuto risultare molto prezioso.
Con quali averi il sovrano di Spagna poteva pagare gli ori e le pietre preziose che Llobet era in grado di fornirgli? Il consigliere di Filippo IV e il mercante avevano elaborato rapidamente uno scaltro piano, organizzando nei dettagli un traffico fittizio di materiali verso le Filippine. Secondo i documenti, i trasporti si sarebbero susseguiti con cadenza mensile per un anno intero. Ma la merce non sarebbe mai partita, e i manifesti di carico falsi avrebbero fatto maturare il credito di Francisco Llobet nei confronti del regno di Spagna. Il pagamento dell’intera operazione, secondo la lettera di credito garantita da sei istituti bancari europei, sarebbe avvenuto contestualmente all’arrivo del presunto ultimo carico, da consegnare non nell’arcipelago asiatico ma nel porto di Cadice. Quest’ultimo carico viaggiava sulla Santa Esmeralda, l’unica nave effettivamente destinata alla fittizia serie di spedizioni. Anche in questo caso i documenti erano contraffatti: le cataste di legno semilavorato erano tali soltanto in apparenza, ma nascondevano nel loro ventre un preziosissimo segreto.
La voce di Antonia lo distolse dai suoi pensieri. «Che cosa avete, padre? Mi sembrate preoccupato.»
Lo era, infatti. Correva voce che la flotta appena partita, forte di ventotto navi protette da tre galeoni, trasportasse tre milioni di escudos in oro e gioielli, senza contare il carico clandestino, spesso superiore in valore a quello ufficiale. Tra il bruno legno pregiato che viaggiava sui suoi carri, poi, era ermeticamente nascosto un favoloso tesoro in barre d’oro, smeraldi e preziosi per oltre quattro milioni di pesos. Inoltre, una squadra di centotrenta schiavi, da poco inviata a Cartagena, stava per caricare cinquanta tonnellate di lingotti d’argento da venticinque chilogrammi ciascuno, anche questo in totale spregio delle leggi doganali ma in forza di un accordo privato tra Llobet e il comandante de la Molina.
Il rischio era grande. Un galeone destinato a viaggiare isolato e lontano dal convoglio fino a La Habana non poteva non rappresentare una preda estremamente appetibile per i corsari olandesi e inglesi che infestavano i Caraibi. Ma, una volta raggiunta la flotta a Cuba, la Santa Esmeralda avrebbe affrontato l’Atlantico con l’intera formazione. Questi erano gli accordi che il comandante de la Molina aveva preso personalmente con il Capitan General des Galeones, comandante della flotta. Così avevano riferito a Llobet le staffette inviate in avanscoperta e rientrate da Cartagena. Certo, aveva considerato il mercante, la Flota de Tierra Firme non può perdere giorni preziosi a causa del nostro ritardo.
Il mercante sorrise alla giovane. Le sue preoccupazioni riguardavano anche la figlia, prossima ad affrontare i rischi della traversata. Ma un galeone — si disse — era quanto di più sicuro ci fosse per varcare l’oceano. E Antonia aveva senza dubbio bisogno di un’educazione diversa da quella che le sarebbe stata impartita in una colonia.
Il sentiero era ormai molto più agevole, tale da consentire lunghi tratti al trotto. Cartagena era in vista a qualche lega di distanza, sulla costa colombiana quasi pianeggiante e costellata di larghe anse. Scrutando con attenzione si potevano intravedere due dei tre alberi di un galeone sporgere di diversi metri sopra i tetti delle case del porto.
«Ne ero sicuro. Mio Dio, ti ringrazio!» E le mani affusolate del cardinale de Blasi si congiunsero, con un fruscio dei guanti di seta. «La Nuestra Señora de Atocha non ha ancora preso il largo.» Ma il cardinale si sbagliava: quegli alberi appartenevano alla Santa Esmeralda.
La Nuestra Señora de Atocha, invece, non era affatto in porto ma immobile, paralizzata dalla bonaccia circa sessanta miglia a nord di Cartagena. A partire dall’uscita del porto aveva incontrato un vento fresco che l’aveva accompagnata per tutta la notte, ma che all’improvviso era calato. Il compito del galeone era quello di guardare le spalle del convoglio veleggiando a mezzo miglio dall’ultima delle navi, ma l’assenza di vento aveva confuso distanze e formazioni, sicché adesso l’Atocha dondolava pigramente in mezzo alle altre imbarcazioni, con le vele flosce.
Il mattino, quando i primi raggi del sole torrido cominciavano ad arroventarla, dall’acqua si sprigionava una leggera nebbia che faceva assumere al convoglio un aspetto spettrale. A bordo della Nuestra Señora de Candeleira, il marchese di Cadereita, comandante di quella flotta di fantasmi, scrutò a lungo il breve tratto di mare che la nebbia gli consentiva di vedere: anche quel giorno niente lasciava presagire che il vento ricomparisse.
Rimase dunque dov’era ad ammirare le strutture della Nuestra Señora de Atocha, immobile a poche centinaia di metri dalla sua nave. Guardò il castello di poppa, alto più di dieci metri, le vele quadre che pendevano inerti, le bocche dei venti cannoni di dritta e, a poppa, la bandiera reale di Spagna che svettava sulle ampie vetrate degli alloggi ufficiali. Erano ormai intrappolati da cinque giorni, sicché, nella migliore delle ipotesi, non sarebbero mai potuti arrivare a La Habana prima del 20 agosto.
Già erano partiti con enorme ritardo. Tutto era cominciato con ritardo fin dal marzo precedente, in patria, quando gli era stato comunicato sui due piedi di prepararsi a ripartire per il Nuovo Mondo. Con i suoi uomini e la sua nave, era appena arrivato in Spagna. Erano stanchi di mare e vento, stremati dal sole e dalle onde. Si aspettavano soltanto di poter godere di un meritato riposo.
L’ordine si era abbattuto sulla Flota de Tierra Firme come un fulmine a ciel sereno, sebbene lo si sostenesse emanato in nome di validissimi motivi d’interesse nazionale: l’oro e le gemme trasportati nel corso dell’ultimo viaggio non erano stati sufficienti nemmeno per cominciare a soddisfare la interminabile lista dei creditori della Corona. Altre ricchezze erano in attesa nelle Americhe, pronte per essere trasportate in Europa e contribuire al finanziamento di una delle tante interminabili guerre contro i nemici inglesi e olandesi.
Il marchese di Cadereita si sporse oltre la murata di dritta a osservare il mare, con quel suo singolare colore scuro e la totale assenza di vento; quindi mosse la testa quasi volesse annusare l’aria. Anche in quella calma piatta, il vecchio uomo di mare sapeva riconoscere il presagio, rispettare e temere il sempre possibile scatenarsi delle forze incontrollabili della natura.
L’arrivo ad andatura sostenuta delle tre pariglie e della carrozza papale gettò un certo scompiglio nella fila degli schiavi intenti a scaricare le pietre di zavorra con un lungo passamano. Il segretario del cardinale scese precipitosamente dalla carrozza, rischiando di inciampare nello scalino, e puntò risoluto su Vasted, il primo ufficiale della Santa Esmeralda, intento a controllare le operazioni di scarico della zavorra.
«Ufficiale, ufficiale!» urlò, curiosamente impacciato negli abiti della Compagnia di Gesù. «Grazie a Dio, non avete ancora levato le ancore. Vi prego di riferire i nostri ringraziamenti al vostro comandante per avere aspettato l’arrivo di Sua Eccellenza e del suo carico.»
Lo sguardo interrogativo di Vasted rese superflua ogni sua parola.
«Sì», continuò il gesuita, «non credo che la Nuestra Señora de Atocha sia rimasta in porto, mentre la flotta è evidentemente già partita, se non per aspettare il messo papale cardinale de Blasi.» Ma il tono incerto della sua frase tradiva il nascere di un dubbio.
«L’Atocha, padre», rispose il giovane ufficiale indicando con la testa un punto lontano sull’orizzonte, «sarà ormai quasi in vista di Cuba, se questo vento ha tenuto.»
Il segretario di de Blasi si sentì gelare il sangue nelle vene. Non sembrò comunque perdere il controllo di se stesso e incalzò immediatamente: «Dove siete diretti, signore, e come si chiama la vostra… la vostra nave… Si tratta di un galeone, vero?»
«La Santa Esmeralda è la gemella della Nuestra Señora de Atocha, costruita nello stesso cantiere a un solo anno di distanza. La nostra rotta è Cuba e poi l’Atlantico e la Spagna, padre. La rigorosa consegna, se state pensando a questo, è di non accogliere nessun passeggero a bordo.»
«Capisco», annuì il prete. Ma conosceva ogni segreto del personaggio più potente al servizio del Papa, e molti dei modi in cui si può far cambiare idea agli uomini. «Credo tuttavia che, se il cardinale de Blasi potesse avere un colloquio con il vostro comandante, molti aspetti della faccenda sarebbero appianati.»
Quando, poco più tardi, Vasted vide i carri del cardinale accodarsi agli altri, pronti per essere scaricati, si rivolse al sottufficiale che gli stava di fianco. «Vedete, sergente, noi ci diamo un gran daffare per conquistare metà, un quinto, due dodicesimi di tutte le terre emerse», disse, indicando con il mento la figura di de Blasi che si sporgeva dalla murata. «Combattiamo, moriamo per pochi palmi di terra, mentre c’è chi detiene davvero il potere e non deve fare grandi sforzi per mantenerlo.»
Gli schiavi avevano appena finito di scaricare; pochi minuti di pausa e avrebbero ripreso a riempire la chiglia con le nuove zavorre, più compatte e pesanti, costituite da barre di piombo di forma trapezoidale.
Vasted salì a bordo e, passando vicino al cardinale, fece un profondo inchino di cui soltanto lui conosceva il senso ironico.
Il comandante de la Molina lo stava aspettando nel quadrato, seduto alla scrivania in noce intarsiata. Era capitato spesso che dovessero caricare o scaricare zavorra, ma in nessuna occasione — pensò Vasted — il comandante aveva preteso di essere informato così puntualmente sullo stato dell’operazione. Si convinse che il motivo della premura doveva risiedere nella serie di ritardi che avevano accumulato nel corso del viaggio.
«Abbiamo appena terminato di scaricare le pietre, signore», annunciò. «Tra pochi istanti cominceremo a caricare i lingotti di piombo.»
Il volto di de la Molina si aprì in uno dei suoi rari sorrisi. «Mi sembra che si stia rispettando la tabella di marcia, señor Vasted.» Ma riassunse immediatamente un tono grave. «Però non li chiamate così: non si tratta di lingotti ma di semplici pesi di piombo per zavorra. Non vorrei che la parola lingotto potesse scatenare le fantasie di qualche spia dei corsari o ispettore delle dogane.» E di nuovo sorrise.
Il giovane Vasted, incoraggiato forse dall’atteggiamento aperto del comandante, provò a indagare sulla presenza a bordo di de Blasi. «Signore, permettete… Non avevate detto che non ci sarebbe stato nessun passeggero a bordo, oltre alla figlia di un mercante con le sue ancelle?»
«Il cardinale è il messo del Papa, e il Papa rappresenta Dio in terra. Non avrei in alcun modo potuto negare a una così eminente e santa figura la possibilità di raggiungere la flotta a Cuba. Anzi, seiior Vasted, ricordatevi di far caricare il bagaglio del cardinale in maniera che possa essere scaricato agevolmente, una volta a La Habana.» E così dicendo accarezzò una piccola tasca segreta cucita nella pettorina della divisa. La sagoma dello smeraldo grezzo di almeno venti carati sotto le dita provocò in lui un fremito di eccitazione; senza contare le barre d’oro che il cardinale gli aveva promesso una volta arrivati a Cuba.
«Due carri carichi fino all’inverosimile, e lui lo chiama bagaglio…» pensò Vasted, annuendo tuttavia meccanicamente e chiedendosi allo stesso tempo con preoccupazione dove avrebbe potuto sistemare il carico di quei carri in una stiva già zeppa di parallelepipedi di legno.
Nella sua mente si conservava vivido ogni ricordo della sua terra, ogni pianta delle alte montagne, ogni corso d’acqua, ogni lembo di cielo, ogni schiena di guanaco piegata sotto il peso delle sacche. Nei suoi occhi si leggevano l’orgoglio e la tragedia del suo popolo. Mai vi si sarebbe potuta vedere rassegnazione o paura. Come tutti gli altri, faceva parte della misera catena umana intenta a caricare i pesanti blocchi di piombo. Ma per la sua gente rimaneva e sarebbe sempre rimasto il Figlio del Dio Avvoltoio, il principe della dinastia. Per tutti gli altri, invece, era semplicemente Juan, anche perché nessuno degli spagnoli sarebbe riuscito a pronunciare il suo vero nome.
Tazpletacuz, re designato degli aztechi, si muoveva con grande agilità anche nel buio della chiglia. A lui era affidato il più gravoso dei compiti: doveva adagiare ogni peso di piombo in maniera precisa, uno accanto all’altro, forte solo delle sue braccia e dei muscoli lombari. Dopo quasi dieci anni di prigionia, capiva ormai perfettamente lo spagnolo, ma fingeva di non avere alcuna conoscenza della lingua e rivolgeva ai carcerieri unicamente il suo sguardo fiero e imperscrutabile.
Fu forse per un moto intimo di ribellione che la sua destra mancò la presa, lasciando cadere pesantemente la zavorra sugli altri blocchi di metallo scuro. Prima che il dolore del colpo di frusta gli raggiungesse il cervello, notò che l’involucro di piombo si era spezzato di netto. Vide il lingotto d’argento. Il principe azteco avrebbe saputo riconoscere alla perfezione qualsiasi metallo prezioso anche se non avesse dovuto vivere tre anni da schiavo nelle miniere peruviane. Il suo guardiano gli fu immediatamente addosso e lo scansò con violenza per verificare eventuali danni. Raggiunta la catasta, si fece luce con la lampada a olio.
«Sergente Funches, venite qui, presto!» chiamò in tono carico di eccitazione.
Funches, il capo del plotone di sorveglianza, aveva due caratteristiche fondamentali: crudeltà gratuita e totale mancanza di scrupoli. Il suo accento portoghese era inconfondibile, come i suoi modi violenti e la sua testardaggine. Tutti sulla Santa Esmeralda, forse persino gli ufficiali e il comandante, avevano paura di lui.
«Rimetti a posto quel peso, cretino», urlò al sottoposto, affrettandosi ad aggiungere a voce più bassa, non appena le due parti dell’involucro di piombo furono ricongiunte in modo quasi perfetto: «Non farne parola con nessuno. Capito?»
L’uomo annuì, impaurito, mentre il sibilo della frusta brandita dal superiore fendeva il silenzio. La schiena dello schiavo Juan si tinse del rosso della carne viva, ma nessun lamento uscì dalla bocca del principe azteco.
«Anche tu non hai visto niente, Juan», ingiunse la voce gracchiante del portoghese, che tornò a far vibrare la frusta. Ma la sola risposta che ebbe fu il solito sguardo fiero e indomito.
Non appena frate Pietro fu salito sul ponte, gli bastò uno sguardo per capire che lo schiavo Juan aveva bisogno di cure. La striscia di pelle, scarnificata dal colpo di frusta, risaltava sulla carnagione scura. Scese la scala attraverso cui si accedeva al castello di poppa. «Sergente Funches», disse con voce ferma, «ho bisogno di uno schiavo che mi aiuti a trasportare questi quattro volumi fino al convento francescano.»
«Stiamo zavorrando, frate», ribatté Funches. Quindi sputò fuori bordo, con un sorriso sempre più irriverente. «Nessuno degli schiavi può essere distolto dal suo lavoro.»
Pietro gli si avvicinò con passo deciso. «Sergente, preferite affidarmi un aiutante per pochi minuti di vostra spontanea volontà, o volete un ordine del comandante?»
Funches borbottò qualcosa, poi abbassò gli occhi e, con un gesto teatrale, indicò la fila di schiavi: «Avete preferenze, uomo di Dio?»
«Vorrei Juan. E ricordate che tutti gli uomini sono figli di Dio.»
Appena furono lontani dal porto, Pietro si chinò e aprì i ferri alle caviglie dello schiavo, lo guardò negli occhi e, pur pensando che Juan non potesse capire, gli disse comunque, parlando lentamente: «So che non fuggiresti mai, se non altro per il rispetto che hai per me».
Quindi deterse le piaghe provocate dai ferri, mise un unguento sulla ferita inferta dalle scudisciate e, finita la pietosa incombenza, sollevò lui stesso due dei quattro volumi: «Divideremo il peso fino al convento. Frate Tomaso avrà cura dei miei scritti fino al nostro ritorno».
La carrozza di Llobet giunse al porto alla testa della carovana dei cinquantadue preziosi carri. La presenza delle guardie papali di sentinella richiamò la sua attenzione nonostante l’oscurità rotta soltanto dai fuochi e dalle torce. Sulla Santa Esmeralda stavano ancora caricando derrate e merci minori. Stimò che non avrebbero potuto iniziare le operazioni prima dell’alba. «Credo che non sarai la sola passeggera», mormorò perplesso, rivolto alla figlia, indicando la carrozza del cardinale a poca distanza da loro.
«Quell’uomo non mi piace, padre», provò a dire Antonia, ma venne immediatamente zittita da un gesto imperioso della mano del mercante. Llobet aveva finalmente gettato la maschera anche con se stesso, ammettendo quali erano le sue reali paure. Ricordò le parole del consigliere del re, quando aveva sottoscritto l’accordo.
«La vostra cautela non mi stupisce, signor Llobet», aveva detto il duca di Figueres. «E mi rendo conto che richiedere un avallo bancario rientri nei vostri diritti. Ma quale garanzia potete offrire voi? Sarò più chiaro: le banche pagheranno non appena la Santa Esmeralda attraccherà a Cadice con un carico di legname. Ma chi può garantire al re che non si tratti veramente di solo legname pregiato, senza ulteriori pregi al suo interno?»
«Avete riscontrato voi stesso non poche difficoltà per ottenere una garanzia così cospicua, signor ammiraglio», aveva risposto Llobet. «Per fornirla… e al regno di Spagna, badate bene, non a un semplice commerciante come me, si sono dovute consorziare addirittura sei banche.»
«Non potranno certamente essere le banche a garantire il rispetto dei patti da parte vostra, signore, ma un pegno per voi molto più prezioso e caro. Su quella nave viaggerà la vostra unica figlia, Maria Antonia. In questo modo saremo sicuri che quanto concordato verrà rispettato fino all’ultima oncia di… materiale da voi spedito.»
Llobet sapeva dunque che stava rischiando tutto quello che aveva, sia nell’ambito finanziario che nella sfera degli affetti più cari. Rabbrividì al pensiero che un naufragio avrebbe potuto avvelenargli ogni giorno che gli rimaneva da vivere.
Cercò di trovare sollievo nel pensiero del tesoro ordinatamente allineato dietro di loro. Ogni carro aveva un contenuto pressoché identico: un parallelepipedo di tronchi bruni e squadrati, tanto serrati tra loro da costituire un corpo unico. Ciascun fascio misurava circa quindici piedi in lunghezza per sette di larghezza e altezza, misure accuratamente studiate per conciliare le esigenze del trasporto con quelle della cantieristica navale. Era all’interno che le cose cambiavano: in ciascuna delle cataste era stato realizzato un doppiofondo in cui erano sistemati i forzieri pieni di barre d’oro, pezzi da otto e pietre preziose che rappresentavano una ricchezza inestimabile.
Nessuno si sarebbe potuto comunque accorgere di niente, a meno che una delle cataste non si fosse sfasciata a causa di un fortissimo urto. Anche il tesoro era stato accuratamente suddiviso in modo che ogni blocco di travi non superasse di molto il peso di una comune catasta di legno.
Mare di Norvegia. Marzo 1995.
Laura Joanson stava osservando con profonda concentrazione i tracciati del sonar e le fotografie del relitto. «Non sarà facile», disse rivolta a Oswald Breil. «Il sommergibile sembra incastrato nella concavità della roccia. Se si aggiunge la profondità, l’operazione di recupero appare al limite del possibile. Lei pensa che ci possa ancora essere aria all’interno del sommergibile?»
«Non so», rispose prontamente Oswald, «ma credo che dopo cinquant’anni le porte stagne dovrebbero aver ceduto comunque, anche se non sono state direttamente colpite dallo spostamento d’acqua o dallo scoppio.»
«È quello che dobbiamo appurare», riprese Laura, «prima di poter dire se riusciremo a portarlo a galla. Se l’interno del sommergibile non è completamente allagato, significa che lo scafo è ancora integro nelle zone non danneggiate dall’esplosione. E vogliamo recuperarlo appunto integro, anche se dovremo agire con la massima cautela. Non vorrei che una risalita veloce e mal coordinata provocasse torsioni nella struttura alle quali il vecchio U115, così malconcio, non può resistere.»
Quel mattino si erano incontrati molto presto. La prima cosa che avevano visionato era stata il Gorgonia, il batiscafo «tascabile» capace di raggiungere trecento metri di profondità. Il giorno seguente Laura vi si sarebbe immersa insieme al pilota e a un tecnico.
Il sole stava per calare in uno dei rari tramonti sereni del Nord. Erano circa le due del pomeriggio. Laura pensò con nostalgia alla luce della sua Florida, alla benedetta decisione dei genitori di trasferirsi a Miami, alcuni anni prima che lei nascesse.
Tra i bagliori rosso fuoco vide posarsi sulla piattaforma un elicottero, che però non era lo stesso che l’aveva condotta lì. Poco dopo venne convocata in sala riunioni.
Al tavolo centrale vide seduto il presidente della North Pole Oil, con accanto Oswald che, in piedi, sembrava una riproduzione in scala ridotta di un essere umano. Al di là degli abiti eleganti e dei modi ostentatamente distaccati, l’aspetto di Robert Rustom era piuttosto rozzo.
La sua corporatura era massiccia e imponente, a tratti abbondante. I capelli rossicci si stavano striando di grigio. La carnagione chiara costituiva una cartina di tornasole dei suoi stati d’animo: la collera e l’eccitazione facevano tendere al cremisi il colorito del viso.
«Buonasera, dottoressa Joanson», disse. «Ho deciso di essere presente a questo suo tentativo di recupero.»
«Lieta di conoscerla, signor Rustom», rispose lei, mentre la grossa mano dell’inglese si serrava sulla sua. «Non sarà sicuramente un recupero facile. Anzi, si presenta ai limiti del possibile. Domani mattina scenderò con il Gorgonia e spero di riuscire a farmi un quadro più preciso della situazione.»
Parole che ebbero un effetto strano sull’uomo d’affari: invece di spronarla in qualche modo al compimento dell’operazione, sembrava quasi compiaciuto delle difficoltà che gli erano state prospettate. Forse, pensò Laura, in previsione dei diversi milioni di dollari che il recupero sarebbe costato alla sua compagnia, quale che potesse essere il risultato. Anche se…
«Bene», tagliò corto Rustom. «Se incontrasse troppe difficoltà, la prego di non mettere a repentaglio uomini o attrezzature per recuperare un vecchio relitto bellico tutto sommato di scarso interesse.»
«Egregio signore», ribatté Laura in tono risentito, «non sono un’avventuriera ma una studiosa del mare e di ciò che esso cela. Non capisco questa sua esortazione, visto che, se ha deciso di provare a effettuare il recupero e se ha scelto me, la vostra compagnia la giudicava un’operazione interessante e non pensava evidentemente di mettersi nelle mani di una spregiudicata incosciente.»
Il volto di Rustom espresse un misto di sfiducia e irritazione: «La decisione in merito alla sua presenza è stata presa senza interpellarmi, dato che ero impegnato in questioni di ben maggiore rilevanza che uno stupido recupero. Se fosse dipeso da me», aggiunse brutalmente, «penso che per questa operazione non avrei mai scelto una donna.»
«Allora non capisco quale interesse possa avere motivato la North Pole Oil a cercare di effettuare quello che secondo lei sarebbe semplicemente uno ‘stupido recupero’. Come mai volete tirare su quel sommergibile? O lo volevate tirare su senza di me? E le voci secondo cui il governo britannico avrebbe addirittura emanato un decreto per la fiscalizzazione degli oneri derivanti da questa operazione? Un bel risparmio, visto che a pagarla saranno i contribuenti del Regno Unito. Un grande prestigio a costo zero. E pare anche che la North Pole Oil sia stata la prima a farsi avanti, sentita l’offerta governativa.
«Comunque», continuò la giovane con un tono di gelida ironia, «sia chiaro che questo recupero è di estrema complessità e non potrebbe mai apparire facile a nessuno, nemmeno a una donna dissennata, giovane e inesperta come me.»
Aveva toccato nel vivo. Rustom si schiarì la voce e rimase qualche istante in silenzio, forse per cercare di conferire un tono più conciliante a quanto stava per dire. Come molti uomini potenti, anche il presidente di una tra le più ricche compagnie petrolifere britanniche diveniva incerto di fronte a chi era capace di mostrare i denti.
«L’interesse è e rimane l’U115, dottoressa Joanson. Le auguro buona fortuna», riuscì comunque soltanto a ribattere, uscendo di slancio dalla sala riunioni.
«Carino!» fu il commento ironico della giovane, non appena la porta si fu chiusa di schianto.
«Il calo del prezzo del greggio», cercò prontamente di giustificarlo Oswald, che nel corso della breve conversazione era rimasto zitto, «e i contemporanei aumenti sul mercato dei noli stanno evidentemente creando grosse preoccupazioni al nostro presidente. Rustom è un uomo rude, ma non ricordo di averlo mai visto comportarsi in questa maniera.»
«Okay, dottor Breil», replicò Laura, «vediamo di non lasciarci prendere dallo sconforto per le simpatiche parole del suo capo. Abbiamo ancora oltre settanta tra foto e diagrammi sonar da visionare attentamente. Domani mattina, subito dopo l’immersione, credo che riuscirò a essere più precisa circa la possibilità o meno di recuperare l’U115. Diamoci da fare, Oswald.»
Il Gorgonia si immerse esattamente alle sei e quarantacinque di un mattino buio e gelido. I fari sulla prora illuminavano il microcosmo marino, facendo brillare filamenti di plancton e occhi di pesci curiosi. A mano a mano che scendevano verso gli abissi, la fauna si andava facendo sempre più rara. La visibilità, comunque ottima, consentì loro di avvistare il picco con i due corni di roccia quando erano ancora a diverse decine di metri di distanza.
L’U115 sembrava uno strano animale impaurito che si fosse rifugiato nella tana adattando la sagoma del corpo alle asperità della pietra. Anche con il batiscafo fecero una notevole fatica per raggiungere la gola di roccia dove si trovava il relitto.
«E pensare che noi navighiamo a vista e siamo parecchio più piccoli e maneggevoli del sommergibile», commentò il pilota.
Lo scafo dell’U115 aveva una falla sul lato destro, quello aperto al mare, talmente ampia da far passare un’auto di media cilindrata. La pressione subita dall’acciaio contro la roccia appariva evidente lungo tutte le giunture dei tre tronconi principali della chiglia. La linea, un tempo filante e armonica, assomigliava ormai a quella di una banana, saldamente incastrata nella sua prigione.
Laura scosse la testa, preoccupata, ma volle ugualmente ispezionare punto per punto le grandi saldature dei tronconi dello scafo.
Poche ore più tardi si trovava nell’ufficio di Oswald con quasi novanta fotografie ancora umide di stampa.
«Allora», disse risoluta, dopo un primo esame sommario, «quel relitto è una molla pronta a scattare e, nella migliore delle ipotesi, a rompersi in mille pezzi. Senza contare che non so quanti mesi di lavoro potranno essere necessari per liberare l’U115 dalla sua trappola di roccia. Mi preoccupa anche il fatto che le saldature circolari, in corrispondenza dei tronconi, non sembrano aver risentito in alcun modo della compressione: lo scafo pare essersi adattato alla sua nuova forma a banana senza venire spezzato o danneggiato, fatta eccezione per la falla di dritta. Credo di poter affermare, anche se mi riservo ulteriori approfondimenti, che l’U115 non appare recuperabile, se si vuole cercare di mantenerne integra la struttura.»
Le parole di Oswald servirono a sollevarla un po’ da quello che considerava un fallimento. «Disponiamo di attrezzature di assoluta avanguardia: robot capaci di tagliare l’acciaio e di saldarlo a quattrocento metri di profondità, campane pressurizzate che consentono la discesa fino agli abissi più profondi. Credo sia bene che lei ci ripensi con attenzione, prima di rinunciare all’impresa… e al compenso della NPO.»
«Se fossi davvero fatta come pensa il suo presidente, ci metterei davvero poco a rimanere qui un mesetto sulla Crude Brent per riportare a galla soltanto qualche tonnellata di lamiera contorta. Ma ne va della mia serietà professionale, che non mi sento proprio di mettere a repentaglio. Comunque domani mattina scenderò di nuovo con il Gorgonia per effettuare una serie di prove sismologiche sullo scafo e sul corno di roccia che lo tiene imprigionato. Se tutto quello che penso sarà confermato, già domani sera Sua Eccellenza Sir Robert Rustom avrà sulla scrivania un rapporto negativo, insieme alla mia rinuncia.»
«Mi dispiacerà, Laura. Davvero.» E, non appena incontrarono quelli azzurri della giovane scienziata, gli occhi del simpatico omino assunsero un’espressione triste. Fatta scomparire da un sorriso di entrambi che esprimeva una profonda simpatia reciproca.
Il giorno dopo, il viaggio negli abissi a bordo del Gorgonia sembrò a Laura più veloce, sicuramente in conseguenza del fatto che aveva preso confidenza con il piccolo mezzo sottomarino e con il suo esperto equipaggio.
I due bracci meccanici sistemati sulla prora del batiscafo, appena sotto la grande semisfera di materiale plastico, si muovevano per leggeri scatti, depositando i sensori sismici con grande precisione. Ne furono piazzati diciotto nel giro di pochi minuti, alcuni sulla roccia, altri sullo scafo dell’U115. Fu poi la volta delle cinque piccole cariche al C4, anch’esse collocate in posizioni precise e meticolosamente studiate in precedenza.
Il batiscafo si allontanò di alcuni metri, e un unico tonfo sordo segnalò che la missione sottomarina aveva avuto successo. Adesso dovevano soltanto risalire in superficie, dove Laura avrebbe letto con attenzione i diagrammi, ricavandone importanti informazioni circa lo stato del relitto e delle rocce che lo circondavano. Le onde sonore le avrebbero detto tutto o quasi: dalla presenza di locali stagni allo stato di conservazione e solidità delle strutture in acciaio, alla consistenza dell’enorme cunicolo nella roccia.
Quando cominciò a stilare il verbale, erano ormai le prime ore del mattino. Si sentiva pervasa da un senso di vuoto, dovuto certamente in parte alla notte insonne, ma soprattutto alla prospettiva di dover abbandonare l’U115 alle profondità del mare. Non le era mai piaciuto rinunciare. Contrastava con i suoi principi più saldi ed elementari.
Alle nove chiese al dottor Breil di annunciarla al presidente Rustom. Non le toccò naturalmente insistere perché all’incontro partecipasse anche Oswald.
Espose con pazienza e dovizia di particolari tecnici le sue convinzioni, illustrandole con esempi puntuali e obiettivi, fino a concludere: «Signor presidente, non credo sia possibile procedere al recupero dell’U115 in tempi stretti, con il rischio di riportarne a galla soltanto pochi resti. Fatta salva un’ulteriore verifica, che effettuerò a mie spese una volta tornata nella mia sede, non posso accettare l’incarico».
Era la prima volta che le succedeva, e il fatto non la faceva certamente sentir bene.
Ma, stranamente, a darle sollievo furono proprio le parole di Rustom. «Debbo onestamente ricredermi sul suo modo di operare, dottoressa Joanson, e scusarmi con lei per i miei modi bruschi di ieri sera. Provvederò a farle bonificare sul conto bancario di Miami che ci ha indicato il compenso per la sua splendida consulenza. Consideri il mio elicottero a sua disposizione per condurla all’aeroporto oggi stesso.» E Rustom le tese la mano oltre il tavolo della sala riunioni, concludendo: «La ringrazio davvero per la sua professionalità. E… se dovesse ripensarci, per alcuni giorni la Crude Brent non si muoverà da qui».
Ma sapevano entrambi benissimo che i margini per un ripensamento erano estremamente ridotti.
Mentre salivano le scalette che portavano al punto di atterraggio, i pensieri che attraversavano la mente di Laura e Oswald erano sicuramente diversi, ma entrambi centrati sull’U115.
Fu Oswald a rompere il silenzio opprimente. «Non l’avevo mai visto così remissivo», mormorò, mentre cominciava a farsi sentire il rumore del rotore. «Ho girato tutti i mari del mondo con il terrore che Sir Rustom piombasse a bordo e ci costringesse, testardo come un mulo, a perforare chilometri di rocce che sembravano inattaccabili. Adesso, invece, si ferma alle prime titubanze di fronte alla possibilità di un recupero, e per di più del tutto esente da costi.»
Laura si chinò un po’ per sentire meglio quello che diceva. «Ha ragione, Oswald», disse. «Non capisco davvero perché il suo capo non voglia fare qualche altro tentativo, magari interpellando altri esperti o provando a smuovere l’U115 con i vostri mezzi.»
Erano ormai sulla pista circolare, dove il vento gelido veniva ulteriormente rinforzato dai vortici provocati dalle pale dell’elicottero.
«Guardi però che non mi sono arresa del tutto, Oswald», sbottò improvvisamente Laura, cercando di non accentuare troppo il fatto di essersi dovuta quasi mettere in ginocchio per salutarlo.
«Si ricordi, però, che tra dieci giorni dovremo comunque spostare la piattaforma da qui», rispose Breil, con un ammicco. «Mi auguro proprio di rivederla prima, Laura.»
Dopo qualche istante l’elicottero si alzò in volo, mentre l’elfo rimaneva sulla pista tenendosi stretto alla testa il cappuccio del giaccone imbottito. Oswald Breil sapeva già che avrebbe rivisto Laura Joanson molto presto.
La Habana. Cuba. 22 agosto 1622.
La prima a entrare in porto fu la Candeleira, l’ammiraglia del Capitan General des Galeones, ossia il comandante in capo della flotta, il marchese di Cadereita. Quindi, uno dopo l’altro, seguirono i vascelli che dovevano effettuare operazioni nel porto di La Habana. Avevano impiegato diciannove giorni per compiere un viaggio che, con vento favorevole, avrebbe richiesto poco più di una settimana. Erano sempre più in ritardo, e la bonaccia che avevano incontrato non rappresentava di sicuro un buon presagio.
La Santa Esmeralda aveva lasciato Cartagena esattamente quattro giorni dopo l’Atocha e la Santa Margarita, sicché a quel punto era in mare da quindici giorni. Tra i marinai serpeggiava un malcontento che si manifestava per frasi pronunciate a mezza voce e sguardi sempre più impertinenti. L’enorme ricchezza nascosta nella stiva era argomento di continui conciliaboli segreti tra Funches e la sua cerchia di compari. La tensione a bordo era quasi palpabile.
Persino Antonia, che abbandonava di rado il suo alloggio, per lo più in occasione della messa mattutina, si era accorta che qualcosa non andava per il verso giusto.
Il segretario del cardinale de Blasi si era presentato a frate Pietro senza curarsi di rimuovere l’inevitabile diffidenza che un francescano poteva nutrire nei confronti di un gesuita.
«Sono lieto che a bordo di questo galeone ci sia un uomo di Dio, e per di più di origine italiana, come Sua Eccellenza e il sottoscritto», aveva esordito, quando ancora non avevano lasciato la Colombia. «Credo sia giusto, frate Pietro, che le messe vengano celebrate alternandoci. Qualche volta potremmo persino avere l’onore di ascoltare una predica di Sua Eminenza.»
Pietro di Marzio aveva trascorso anni e anni a scacciare le mosche dai corpi malati degli indios, era arrivato a coprirsi di sterco per poter cacciare senza che gli animali si accorgessero del suo sentore di uomo, aveva fronteggiato attacchi di tribù nemiche. E tutto questo lo aveva fatto anzitutto nello spirito della sua missione, ma anche perché mal tollerava le gerarchie, in base a un’incrollabile convinzione circa l’uguaglianza di tutti gli uomini e in particolare di quelli che componevano la Chiesa.
E adesso questo pretino smunto, che continuava a ripulirsi con sdegno la tonaca dal fango, gli stava dicendo che avrebbero avuto «l’onore» di sentire una predica del cardinale. Come se fosse un invito a palazzo. Che cosa ne potevano sapere, quei due altezzosi emissari di Roma, della sua nave e, soprattutto, dei marinai che vi navigavano? Vero uomo tra gli uomini, perfettamente consapevole delle impellenti pulsioni della carne e della straziante fatica che costa mortificarla, Pietro sapeva bene quali fossero i costi che pagavano. La maggior parte di loro non toccava una donna da mesi. Pur conoscendo l’entità delle ricchezze che trasportavano attraverso gli oceani, vivevano di un soldo che era un pietoso eufemismo definire misero. Quel gesuita si comportava come un ufficiale di prima nomina che, non appena arrivato al fronte, mette da parte il migliore dei suoi veterani e pretende di fare di testa sua.
La Santa Esmeralda era partita con destinazione Cadice, carica — ufficialmente — di legno pregiato. Aveva a bordo quaranta fanti armati. Ogni galeone della Flota imbarcava parte dei militari del reggimento di fanteria che costituiva la scorta armata del convoglio. Un manipolo di uomini che rappresentava l’ultimo baluardo contro un assalto dei corsari o del nemico. Ogni galeone era una fortezza viaggiante, e cingerla d’assedio era operazione molto difficile e rischiosa.
La Flota formava dunque una sorta di città in viaggio sugli oceani, dotata di una precisa struttura gerarchica i cui vertici viaggiavano solitamente a bordo della nave ammiraglia. Ma un ordine insolito, impartito fin dal momento della partenza dalla Spagna, aveva richiesto che questa volta sia il veedor general sia il maestre de plata, di fatto gli emissari reali responsabili del tesoro, rientrassero in patria a bordo della Santa Esmeralda.
Evenienza non poco singolare, visto il limitato valore di un carico di legname rispetto a quello del tesoro trasportato dalla Flota. Pochissime persone conoscevano il vero contenuto delle stive e quindi sapevano che i messi reali erano stati volutamente indirizzati su quella nave per salvaguardare gli interessi della Corona. Nemmeno i fanti e il loro comandante, il gobernador de tercio, potevano immaginare di essere lì a difesa di un’immensa ricchezza. Né lo sapevano le otto guardie papali imbarcate al seguito del cardinale. Sulla nave navigavano poi centoventi uomini d’equipaggio, ventuno schiavi, sette ufficiali e cinque passeggeri: Antonia con le due ancelle, il cardinale de Blasi e il suo segretario.
Prima di mettere gli altri al corrente della sua scoperta, il sergente Funches aveva riflettuto a lungo. Tutto considerato, sgraffignando soltanto una decina di quei lingotti d’argento ricoperti di piombo avrebbe potuto sistemarsi per molti anni, con il corredo di molti litri di Porto. Se tutto fosse andato per il verso giusto, nessuno avrebbe mai potuto incolparlo di niente.
Ma l’ingordigia aveva avuto il sopravvento, e l’arrivo a bordo dei due carri carichi dei forzieri blindati del cardinale lo aveva convinto a rompere ogni indugio. Con l’oro del Papa e i lingotti d’argento contrabbandati, ciascuno dei componenti di un manipolo di uomini risoluti avrebbe potuto vivere il resto della vita in ozio in uno qualsiasi dei paesi del Nuovo Mondo, tra piaceri nemmeno immaginabili. Certo, Funches non era al corrente di che cosa nascondessero le cataste di legna, altrimenti la sua decisione sarebbe stata molto più rapida.
Il comandante in seconda della Santa Esmeralda teneva l’astrolabio sospeso, con il pollice destro infilato nell’anello d’ottone. Spostò con cura la barra della scala graduata fino a che il sole non fu precisamente inquadrato nel mirino a essa collegato. Subito dopo lesse i gradi. L’altitudine dell’oggetto celeste avrebbe permesso di conoscere la latitudine a cui si trovavano. Eduardo Ramos aveva già calcolato la distanza percorsa, circa ottocento miglia, ed era in grado di comunicare al comandante la stima del punto nave.
Gli uomini sulla tolda rimasero in silenzio, in attesa del ripetersi del rito quotidiano. Ramos rimase chino sulle carte alcuni istanti, poi si raddrizzò e annunciò: «Ci troviamo al traverso delle Cayman, circa centocinquanta miglia alla nostra destra. Cabo San Antonio, nell’isola di Cuba, si trova a duecento miglia su questa rotta. La Santa Esmeralda dovrebbe incrociare ora i diciotto gradi e undici di latitudine nord, signor comandante». Il comandante de la Molina diede ordine di tenersi vicini alle coste, in modo da sfruttare i refoli di terra e non incappare in bonacce.
La notte seguente all’avvistamento dell’isola, nelle due camerate che ospitavano i soldati divampò un incendio. Prima di potersi rendere conto che si trattava di una trappola, fanti e guardie papali caddero sotto le lame degli uomini di Funches, appostati all’uscita delle camerate e nascosti dal fumo denso che loro stessi avevano provocato appiccando il fuoco a paglia fresca e sterpi. Oltre metà dei soldati venne trucidata nell’imboscata, mentre cercava di trovare scampo alle fiamme.
Dopo di che gli uomini di Funches si fecero strada tra il fumo, colpendo alla cieca ma con ferocia e determinazione. Prima che il comandante, alloggiato tre ponti più in alto, potesse rendersi conto di quello che stava succedendo, la scorta militare era già stata annientata dai marinai agli ordini di Funches. De la Molina formò immediatamente una linea difensiva a protezione del quadrato con la minoranza degli uomini rimasti fedeli. La fila di moschetti venne piazzata in quella posizione, allineata ai piedi del castello di poppa, ad aspettare che l’orda dei ribelli completasse il massacro nelle camerate sottostanti.
Pochi tra i marinai avevano dimestichezza con quel tipo d’arma, e la loro inesperienza apparve evidente non appena l’onda sanguinaria, capitanata da Funches, si riversò sul ponte. In pochi istanti la fila dei moschettieri venne travolta dall’impeto degli ammutinati, che si impadronirono anche delle colubrine di poppa senza che nessuno dei cannoni sparasse un solo colpo. Infine i ribelli scardinarono la porta degli alloggi ufficiali.
Il comandante de la Molina e il suo secondo furono trucidati a sangue freddo e i loro corpi scaraventati in mare. Soltanto i passeggeri e il primo ufficiale vennero portati nella prigione di bordo e chiusi dietro una robusta porta di legno massiccio.
Vasted sapeva che era tutto interesse degli ammutinati tenerlo in vita, in modo da poter affrontare l’eventuale visita di un ispettore della Corona o uno sbarco a terra con la presenza di un vero ufficiale, tenuto segretamente sotto la minaccia delle armi. Una volta al sicuro, però, Funches e i suoi non gli avrebbero certamente riservato una sorte migliore di quella inflitta agli altri.
Il giovane non si sarebbe mai venduto ai rivoltosi, nemmeno se gli avessero salvato la vita. Lo scempio che avevano compiuto pesava sulla sua mente come un macigno, e il fatto di essere l’unico ancora in vita gravava sulla sua coscienza come una terribile colpa. Erano in sette, tra uomini e donne, chiusi in uno stambugio di pochi passi, buio e senza aria. Il caldo caraibico, il rollio del mare e la paura contribuivano ad aggravare la situazione.
Sulla coperta della Santa Esmeralda, invece, sembrava essere in corso una sfrenata festa di vittoria: le urla dei marinai ubriachi giungevano fin nel profondo delle segrete, più sotto di ben quattro ponti rispetto al castello di prora. La notte seguente a quella dell’ammutinamento, la serratura fu aperta e i cardini ruotarono cigolando. Sulla soglia si affacciò malfermo sulle gambe, seguito da tre uomini armati, il braccio destro di Funches, un marocchino di pelle bianca chiamato Hasar. «Siamo qui per invitare le signore a partecipare alla festa», disse con una voce impastata dal rum, mentre i suoi uomini sghignazzavano.
Antonia e le sue accompagnatrici vennero prese per i polsi e trascinate via. Frate Pietro fu il primo ad avere una reazione: il suo corpo muscoloso volò quasi nello spazio ristretto. Quando toccò il pavimento aveva travolto due dei ribelli. Vasted non perse tempo e si scagliò verso gli altri due rimasti in piedi, approfittando del loro momentaneo disorientamento. In un attimo fu alla gola di Hasar: finirono entrambi a terra. Ma proprio nel momento in cui il volto del marocchino cominciava a diventare paonazzo, la punta dello stivale di Funches colpì con violenza i denti serrati nello sforzo di Vasted, che si sentì riempire la bocca delle schegge dei molari, mentre la saliva si mischiava al sangue. Il dolore non fu immediato, ma il giovane rimase ad attenderlo qualche istante sgomento, fino a che non gli annebbiò la mente.
Il capo dei rivoltosi era arrivato all’improvviso, e la sua comparsa era stata determinante per sopraffare i prigionieri. Il collo di frate Pietro mandava un bagliore chiaro alla luce fioca di una lampada a olio, la lama del portoghese balenava a poca distanza dalla carotide. L’altra mano del ribelle era serrata sulla barba del religioso e spingeva la testa verso l’alto.
La voce ubriaca di Funches gracchiò nello spazio angusto: «Voi mi servite, signori, e per questo non siete stati ancora eliminati. Ma», e la voce salì a un picco isterico, «cercate di evitare nuovi atti di eroismo, altrimenti sarò costretto a fare a meno di voi».
E così detto abbandonò la presa con uno strattone, facendo sbattere pesantemente al suolo la testa del frate. «Se volete seguirci, signore, presto si apriranno le danze», concluse con un sorriso sordido, abbozzando goffamente un inchino derisorio.
Le donne ripresero a urlare e a torcersi, mentre la minaccia delle spade teneva calmi i quattro uomini prigionieri, finché non fu ancora Funches a parlare: «No, quella lì ci potrà essere molto più utile sana», disse, indicando Antonia. «La signorina Llobet è la figlia di uno degli uomini più ricchi del regno di Spagna. Don Francisco sarà sicuramente disposto a pagare un grosso riscatto per la sua unica creatura.»
Le parole sembrarono riscuotere di botto il cardinale de Blasi, fino a quel momento impietrito dal terrore in un angolo della cella: «Signore», esclamò facendosi avanti con imprevedibile agilità. «Anche Sua Santità sarà di sicuro disposto a riconoscervi un generoso compenso, a patto che io giunga in patria sano e salvo.» Quindi, infilata la destra nella veste purpurea, estrasse un oggetto piuttosto voluminoso. «Questo è un primo, significativo gesto di gratitudine per la vostra comprensione.»
La croce d’oro era lunga poco meno di una spanna. Sulle sue assi erano incastonati cinque smeraldi rettangolari, sottesi da uno ottagonale e da un diamante a goccia.
«Ecco i pensieri che mi fanno felice», ribatté il portoghese, rigirando il prezioso manufatto.
«Desidererei però ricordarvi», provò ad azzardare de Blasi, «che il carico che conduco in patria è di esclusiva proprietà della Chiesa e quindi del Nostro Signore Iddio.»
La risata del quintetto fu più che eloquente, ma, qualora non fosse stata sufficiente a chiarire le idee, Hasar fu pronto a commentare: «Abbiamo appena finito di dividere il bottino, e Sua Eminenza ci viene a dire che tutto quell’oro e quelle pietre sarebbero di proprietà del Signore».
Il tono di volgare commiserazione del marocchino suscitò una nuova crisi di riso sgangherato da parte dei suoi compari. Le due donne vennero letteralmente trascinate via, nonostante cercassero di opporre una resistenza disperata. Quando la porta si fu richiusa, Antonia ruppe in un pianto disperato.
I cadaveri e i feriti erano stati gettati subito in mare, attirando branchi di squali nel giro di pochi minuti. Stessa sorte era toccata ai soldati superstiti o ai membri dell’equipaggio rimasti apertamente fedeli al comandante. Delle quasi duecento persone imbarcate, ormai rimanevano a bordo soltanto una cinquantina di ammutinati, molti degli schiavi e i sette prigionieri.
Per i fuggiaschi, il primo ostacolo verso una libertà dorata era rappresentato dall’isola di Cuba. Avevano moltissime probabilità di imbattersi in qualche pattuglia marina in caccia dei corsari inglesi e olandesi che infestavano i Caraibi. Una volta in mare aperto, invece, sarebbe stato più difficile incappare in qualche controllo.
Le sagome di quattro Cromster olandesi si stagliarono all’orizzonte quando il sole era già alto. Funches conosceva benissimo le qualità di quelle navi, molto più piccole di un galeone ma non per questo meno pericolose. I Cromster erano capaci di manovre agili e di velocità elevate; inoltre, grazie alla velatura, per la maggior parte latina, sapevano stringere il vento come poche altre imbarcazioni. Con essi, gli olandesi seguivano i convogli a distanza, pronti a gettarsi come predatori su qualsiasi imbarcazione attardata o in difficoltà. Funches sapeva che, anche con tutto l’equipaggio in piena efficienza, un solo galeone non poteva reggere contro le quattro imbarcazioni corsare, addestrate a combattere in formazione.
Funches stava notando con preoccupazione che le imbarcazioni nemiche guadagnavano sempre più terreno. Tra poche ore le avrebbero avute addosso. Bisognava in ogni modo alleggerire il galeone per fargli acquistare velocità. Diede quindi l’ordine di imbragare a una a una le cataste di legname per gettarle fuori bordo con l’argano della stiva. Avevano appena sollevato il primo degli oltre quaranta parallelepipedi di tronchi, quando notò una strana manovra degli olandesi. Quasi nello stesso istante sentì la vedetta strillare: «Navi a sei miglia. Sembra la Flota».
Per il momento erano salvi: gli olandesi avevano invertito la rotta. Adesso però si trattava di riuscire a trarre in inganno la marina del re di Spagna e non finire sulla forca.
Funches diede ordine di puntare a est e di accostare alla Flota de Tierra Firme.
Miami. Florida. Aprile 1995.
Il caldo aveva un effetto rilassante sulla mente di Laura Joanson; il sole della Florida riusciva sempre a ricaricarla in poche ore. Era appena tornata dal suo viaggio infruttuoso nel mare del Nord, che già Pete Dayle l’aveva cercata. Era un suo vecchio compagno di college, tra loro c’era anche stato qualcosa di tenero, ma adesso erano solo amici. Dayle dirigeva un delicato settore della Central Intelligence Agency, anche se lei non aveva mai capito bene di che cosa si occupasse veramente. Sapeva soltanto che era dell’agenzia, e lo stesso Dayle l’aveva chiamata più volte a fornire una consulenza o tenere un seminario sulle materie di cui era notoriamente un’esperta. Erano ormai diversi anni che Laura Joanson si adattava di buon grado a quella collaborazione segreta, nella convinzione che fosse un modo per rendersi utile al paese in cui era nata. Non aveva certamente mai avuto avventure alla Mata Hari e non le cercava nemmeno: il suo lavoro e il suo redditizio hobby erano più che sufficienti per riempirle la giornata.
«Questa volta», fu tuttavia costretta a pensare, «Pete ha fatto le cose in grande.»
Il Falcon 20 era ad attenderla sulla pista di un piccolo aeroporto a sud di Miami. Sul portellone spiccava ben visibile lo stemma dell’agenzia. Laura pensò ai molti viaggi precedenti — rigorosamente in classe turistica -, per recarsi a tenere lezioni a questo o quel gruppo di dipendenti dell’agenzia sui misteri del mondo sommerso. Visto lo spiegamento di mezzi e la premura con cui Pete le aveva chiesto — ma era quasi un ordine — di partire, decise che doveva trattarsi di una questione molto importante. Si adagiò nella comoda poltrona, rimase in attesa che le ruote si staccassero da terra, poi si tolse le scarpe e distese le lunghe gambe slanciate: dal momento del ritorno dall’Europa era riuscita a riposare soltanto poche ore.
Si svegliò quando l’aereo diminuì la velocità: stavano per toccare terra sulla pista privata, situata a poche centinaia di metri dalla sede centrale dell’Agenzia. Pete la accolse nel suo ufficio, nell’edificio centrale, dove si diceva fossero conservati tutti i segreti del mondo.
«Guarda un po’ se devo venire a sapere le notizie dalla stampa e non direttamente da te», disse in tono scherzoso, non appena l’ebbe fatta accomodare.
Laura indossava un tailleur italiano di un giallo pastello che metteva ancora più in risalto l’abbronzatura e la sua prepotente bellezza. Sorrise, adeguandosi al gioco del suo ex compagno di studi: «Che cosa avresti saputo dai giornali, Pete?»
«Che Laura Joanson dirige le operazioni di recupero di un vecchio sommergibile nazista, affondato nel mare del Nord proprio mentre gli alleati prendevano Berlino.»
Laura sapeva benissimo che nessun giornale aveva pubblicato la notizia: «Che cosa ti serve, Pete?» tagliò corto.
«L’U115 deve essere recuperato», rispose Pete con altrettanta fermezza. «È importante.»
«Scordatelo, Pete. Quel sommergibile può tornare a galla soltanto in pezzi non più grossi di un metro quadrato.» E, chinatasi sulla scrivania, la giovane fece per abbozzare un disegno su un foglio bianco, ma Dayle la fermò prima ancora che avesse cominciato.
«Sono o non sono al cospetto di quella che Time ha definito l’esperta di fondali marini seconda soltanto a Jacques Cousteau, e al tempo stesso l’autrice di best seller di ambiente subacqueo seconda soltanto a Clive Cussler?» chiese scherzosamente.
Laura fece spallucce, ma l’altro insistette: «Se le cose stanno così, datti da fare per riportare a galla il carico di quel sommergibile, e poi scrivimi un bel rapporto dettagliato».
«Sei sempre più carino, Pete. Invecchiando, devo riconoscere che migliori. Dev’essere per questo che sto qui ad ascoltarti e non me ne vado sbattendo la porta.»
«Lo fai perché sei dei nostri, Laura Joanson. La CIA ti è entrata nel sangue, così come è entrata in ogni nostro globulo rosso. Dimmi che posso contare su di te.»
«Quando dimentichi i gradi e ti togli il mantello di Superman, viene quasi voglia di volerti bene, Pete.» Ormai si frequentavano poco, ma l’affinità creatasi nel corso di una gioventù trascorsa assieme non è cosa che si possa cancellare facilmente.
«Sta’ a sentire», ribatté lui, «nonostante quella coppia di accostamenti banali — Cousteau, Cussler, bah -, Time ha trascurato quella che è di sicuro la tua qualità più interessante e inesplicabile: diventi sempre più bella, Laura Joanson!»
«Le tue melliflue adulazioni non serviranno certo a convincermi, Pete. Dispiace anche a me rinunciare al progetto, e prima di tutto per una questione di prestigio. Ma sento il dovere di metterti in guardia: recuperare l’U115 è quasi impossibile. Recuperarlo integro, intendo.»
«Vuoi dire che accetti?» esclamò lui, con un atteggiamento trepidante che non era del tutto scherzoso come cercava di far credere. E, senza nemmeno aspettare la risposta, azionò una parete elettrica scorrevole.
Dopo pochi istanti, non appena il locale fu oscurato, sullo schermo cominciarono a sfarfallare le immagini di una vecchissima pellicola in bianco e nero.
«Questo», spiegò la voce di Pete, che aveva ripreso il solito tono professionale e compassato, «è il salotto della casa di Adolf Hitler, così come l’hanno trovato i soldati dell’Armata Rossa. E questa è la camera da letto.»
Le immagini continuarono a scorrere, finché il dirigente della CIA non riaccese la luce e chiese a bruciapelo: «Che cos’hai notato?»
«C’è un grande ordine», rispose pronta Laura, «però mancano diversi quadri e tutti i soprammobili.»
Dayle la guardò di sottecchi con un’espressione compiaciuta: in fondo la considerava una sua creatura: «Esatto», riprese, «brava. Quando sono entrati nella casa del Führer, gli alleati non hanno trovato alcun oggetto veramente personale di Adolf Hitler, tranne libri e vestiti. Sono scomparsi persino diversi quadri di grande valore, descritti da molti testimoni e bottino delle razzie del Reich. Erano stati sostituiti con banali stampe. E noi siamo convinti che quella casa abbia subito un vero e proprio trasloco pochi giorni prima che venissero girate queste scene.»
Pete tornò ad azionare il telecomando e, mentre le luci si affievolivano di nuovo, le immagini ripresero a scorrere sullo schermo. Sulle labbra di Laura si dipinse un sorriso divertito ma indulgente. Pete era sempre andato pazzo per la coreografia elettronica, ma nelle sue spiegazioni riusciva a essere incisivo ed essenziale.
«Questo signore è un giornalista tedesco», riprese, «autore o vittima di una tra le più colossali bufale giornalistiche degli anni ’80. Ha dato una notizia che ha suscitato sensazione in tutto il mondo: sosteneva di avere trovato i diari personali del Führer.»
«Me lo ricordo benissimo», lo interruppe lei. «Il tedesco Stern, ovvero uno dei settimanali più autorevoli del mondo, ha quasi perso la faccia.»
«Già. Comunque, quella che successivamente si è rivelata una formidabile beffa si è tradotta nella mobilitazione generale di tutti i servizi segreti del mondo.» E, così detto, Pete fece una pausa studiata, riprendendo tuttavia quasi subito, in risposta allo sguardo incuriosito di Laura: «Hai presente? Ogni volta che Los Angeles trema, si dice che la gente faccia le prove per la Grande Botta. Bene, quella truffa ai danni di Stern per noi è diventata la prova generale. Hitler era puntuale, metodico, pignolo, amava riportare ogni avvenimento della sua vita nei suoi famosi quaderni neri. A cinquant’anni di distanza, se i segreti più intimi del Fiihrer venissero alla luce, il mondo potrebbe ancora tremare».
E di nuovo Pete si concesse una breve pausa. Poi riprese: «Noi siamo convinti, e ce lo confermano diverse coincidenze, che sull’U115 abbiano trovato riparo le cose più private e care di Hitler, compresi i suoi amati diari, i suoi appunti e altri documenti della massima riservatezza».
Nella mente di Laura balenarono istantaneamente le immagini di un ritorno sulla piattaforma petrolifera, ed ebbe un moto di repulsione nel ripensare al viso e ai modi scostanti del presidente della NPO. Non le piaceva tornare sulle decisioni prese, e tanto meno le andava di ripresentarsi a Rustom con il capo cosparso di cenere. Per che cosa, poi, visto che lo stesso Rustom sembrava avere cambiato improvvisamente idea, di fronte alle grosse difficoltà connesse con il recupero?
Quasi le avesse letto nei pensieri, Pete riprese a parlare. «Quel relitto interessa al governo degli Stati Uniti come a quello britannico, Laura. Non badare alle apparenze. Noi non possiamo rimanere fuori dell’operazione. Vedrai che a bordo della Crude Brent ti stanno sicuramente aspettando a braccia aperte», disse. «E puoi sempre giustificare il tuo ripensamento raccontando che ti sei documentata su un nuovo metodo di recupero e vuoi sperimentarlo.»
Be’, era effettivamente una buona scusa per evitare una brutta figura… Ma quante cose sapeva Pete di lei e di quell’operazione? Prima l’inesistente articolo di giornale e adesso il nome della piattaforma. E gli accenni all’interesse del governo britannico. E alle «apparenze». Sapeva anche dello strano atteggiamento di Rustom? Quindi, ancora una volta, che cosa c’era veramente sotto? Decise di chiarirselo: «Inoltre, quel Sir Rustom mi è tutt’altro che simpatico», replicò.
Quando Pete si accorse di essere caduto in trappola, era ormai andato troppo in là. «Certo», tergiversò, «Rustom non è un uomo facile. Si dice che sia molto vicino all’MI5, il servizio di informazioni britannico. E di sicuro conduce gli affari della sua ditta con pochi scrupoli.»
Le sue labbra si aprirono in uno dei sorrisi assassini che lo avevano reso celebre all’università, mentre Laura sapeva perfettamente che l’essere costretto a uscire dalla tana lo rendeva nervoso e vulnerabile.
«Ti diverte molto scoprire quasi in tempo reale quello che faccio nella mia vita?» chiese in tono fintamente seccato.
«Solamente quando c’è di mezzo una questione che mi interessa», rispose prontamente lui. «O, meglio, che interessa al nostro paese. E in questo momento abbiamo un discreto interesse proprio per il relitto dell’ultimo sommergibile che ha lasciato le coste naziste.»
«Ah! Mi permetto dunque di prevedere che a bordo della piattaforma troverò diversi ‘amici’.»
«Be’, non posso di sicuro rivelarti i loro nomi, si tratta di agenti a copertura profonda. Ma ti assicuro che non sarai sola», rispose Pete.
«Ricordi quando avevi poco meno di vent’anni e facevi anche tu l’agente a copertura profonda negli insidiosi campus dell’università di Harvard?» chiese Laura con una punta di rimpianto.
«Certo. Perfettamente. Come ricordo che sei stata tu, con una serie di subdole trappole femminine, a smascherarmi e coprirmi di ludibrio nei panni dell’infiltrato della CIA alle prime armi.»
«Già», ammise Laura con aria sognante. «Forse la nostra storia è finita proprio per questo, perché ero riuscita a penetrare nei tuoi segreti più nascosti. Mentre tu…»
«Bah», replicò lui con uno scrollone delle ampie spalle. «Chi potrà mai dirlo, tranne noi due? Stasera, però, potresti fermarti a cena. In città hanno aperto uno squisito ristorante italiano, tutto mandolini, Chianti e lume di candela. L’aereo della ditta è a tua disposizione fino a domattina.»
Lei non poté non notare che la voce di Pete aveva assunto un tono completamente diverso.
«No», replicò. «Credo proprio che mi reimbarcherò subito su quell’ammasso di leghe metalliche assortite che hai mandato a prendermi e rientrerò a Miami questa sera stessa. Prima di tornare nel mare del Nord reclamo il diritto ad almeno due giorni di riposo. Ti voglio bene, comandante.»
Gli accarezzò con affetto la testa e lo salutò con un bacio sulla guancia.
Coste settentrionali di Cuba. 4 settembre 1622.
Il marchese di Cadereita scrutava l’orizzonte. La sua espressione tradiva una grande inquietudine: nonostante tutti gli sforzi avevano ormai un ritardo di sei settimane sulla data di partenza prevista. E aveva un ulteriore motivo di preoccupazione: la Santa Esmeralda non aveva ancora raggiunto il convoglio. Certo, era classificata come «nave di registro», un’imbarcazione considerata talmente sicura da poter derogare alla legge spagnola che prescriveva il numero minimo di dieci navi in formazione per affrontare una traversata atlantica. Comunque, gli accordi presi con de la Molina erano chiari: una volta terminate le operazioni a La Habana, la flotta avrebbe ripreso il largo, magari ad andatura ridotta per aspettare l’ultimo galeone del convoglio.
La brutta stagione era cominciata, e quel vento teso e mutevole non lasciava presagire niente di buono. L’ammiraglio considerò con apprensione il colpo d’occhio offerto dalle ventotto navi che procedevano in formazione. Le strutture possenti dei tre galeoni di scorta svettavano sulle altre: la Santa Margarita navigava in testa al convoglio, la Nuestra Señora de Atocha lo chiudeva, mentre il galeone sede del comando, la Nuestra Señora de Candeleira, si trovava esattamente al centro della formazione.
«Vele di poppa! La prima a circa sei miglia!» Il grido della vedetta richiamò al parapetto una piccola folla.
Cadereita allungò il cannocchiale: «Sembrerebbe un galeone inseguito da quattro Cromster», sentenziò con assoluta sicurezza. «Sventate le vele e lasciamoci raggiungere.»
A mano a mano che la distanza si riduceva, i fatti diedero ragione all’ammiraglio: la Santa Esmeralda continuò a navigare verso di loro, mentre le quattro navi corsare scomparivano all’orizzonte.
«Gli uomini dell’Esmeralda stanno ammainando una lancia, comandante», disse uno degli ufficiali, mentre sul galeone ammutinato le manovre del ponte venivano compiute con la solita precisione e calma apparente.
«Señor Vasted», disse Funches con un tono di finta innocenza, «se doveste tentare un qualsiasi scherzo, vi ricordo che la signorina Llobet sarebbe la prima a morire. In un modo atroce.» E allargò di scatto le mani, nel gesto di squartare un animaletto vivo.
«Hanno issato la bandiera gialla, signor ammiraglio. Hanno un’epidemia a bordo. Calano una lancia», stava intanto annunciando sulla Candeleira il solito ufficiale, che non aveva mai staccato l’occhio dal cannocchiale.
Dopo pochi minuti la lancia messa in mare dalla Santa Esmeralda arrivò sotto bordo all’ammiraglia. Vasted era in piedi al centro dello scafo. L’uomo che lo accompagnava teneva un coltello nascosto nella manica. Anche i rematori erano armati sino ai denti.
«Siamo colpiti da un morbo sconosciuto, signore», gridò il primo ufficiale della Esmeralda, appena arrivato sotto bordo. «Chiediamo il permesso di accodarci al convoglio.»
«Avete avuto morti?» chiese l’ammiraglio de Cadereita, sporgendosi oltre la murata.
«Soltanto due, signore. Il morbo è di tremenda violenza e causa febbri altissime, ma non sembra essere letale per i fisici sani», rispose Vasted come era stato istruito a fare.
«Com’è il morale degli uomini?» chiese ancora il comandante della Flota.
Ci fu un attimo d’esitazione, poi Vasted rispose: «Buono. Per quelli non costretti sotto coperta in branda, naturalmente».
«Porgete i miei saluti al comandante de La Molina, señor Vasted. Il permesso di unirvi al convoglio è accordato. Vi posizionerete in coda, al fianco della Nuestra Señora de Atocha.»
Ancora un momento d’esitazione da parte del giovane ufficiale, che poi rispose: «Provvederò senz’altro, signore, non appena il comandante sarà in grado di abbandonare gli alloggi».
Il marchese di Cadereita rimase a osservare la lancia che si allontanava, chiedendosi se fosse la solita diffidenza generata in lui dall’esperienza o se c’era davvero qualche cosa di anormale nella presenza della Santa Esmeralda.
Le stranezze connesse con il viaggio di quella nave non gli erano piaciute fin dall’inizio, da quando si era soffermato a parlare a lungo con de la Molina in una casa ospitale di Cartagena. Che senso poteva avere far partire un galeone dalla Spagna soltanto per caricarlo di legno da costruzione e mandarlo in viaggio per un lungo tratto isolato nel pieno della stagione degli uragani? Che fretta c’era? Cadereita capiva l’urgenza di trasportare oro e preziosi dal Nuovo Mondo, ma non le attenzioni che circondavano quel carico di legname. Anche l’ordine di far viaggiare il veedor general e il maestre de plata sulla Santa Esmeralda lo aveva infuriato. Come si permetteva il duca di Figueres di privarlo del suo stato maggiore nel corso di un viaggio così rischioso?
E, adesso, questa strana storia dell’epidemia. Mah! Era pur vero che aveva visto ciascun membro dell’equipaggio al suo posto di manovra, ma un normale incontro in mare aperto rappresentava sempre un avvenimento tale da far accorrere ai parapetti l’intero equipaggio, tanto più se la nave amica aveva contribuito a scongiurare un attacco da parte dei corsari olandesi.
«Sì, certo, c’è l’epidemia», rifletté l’ammiraglio. Ma se il resto dei marinai era costretto sotto coperta, Vasted avrebbe dovuto informarlo che avevano problemi con il turno degli uomini alle manovre. Inoltre non gli erano sfuggiti i modi imbarazzati dell’ufficiale, il colorito cereo del suo viso e il suo stato quasi di confusione, mentre aveva avuto modo di conoscerlo come un giovane brillante, spavaldo e pieno di vita. Certo, l’epidemia poteva spiegare anche quei comportamenti, ma qualcosa non quadrava. No.
Mare del Nord. Aprile 1995.
Il copione si ripeté in modo pressoché identico: l’elicottero che si posava sulla piazzola alla sommità della piattaforma, Oswald che si stringeva il cappuccio sulla testa, in attesa che Laura scendesse. Nemmeno un’ora più tardi erano già al lavoro. Come sempre, due soli giorni a Miami erano stati sufficienti per far riposare la mente della giovane scienziata e renderla fervida di nuove idee in merito al recupero dell’U115. Sul tavolo da riunioni era sparsa la documentazione riguardante il relitto.
Laura Joanson prese una penna e cominciò a indicare le parti di una sezione della roccia tracciate dall’ecoscandaglio.
«Vede, Oswald», spiegò, «in realtà i due spuntoni di roccia si sovrappongono, precludendo ogni via di uscita verso la superficie. Per questo ho sempre considerato che l’U115 si trovasse praticamente in una grotta passante e che di conseguenza fosse necessario recuperarlo da uno dei due lati aperti. Ma, viste le condizioni della struttura del sommergibile, continuo a non credere che questo sia possibile. Se invece riuscissimo in qualche modo a proteggere il ponte dell’U115, potremmo eliminare il dente di roccia che lo sovrasta, rendendo possibile un recupero dall’alto.»
Oswald era rimasto ad ascoltarla con attenzione, scuotendo perplesso la testa: «E come pensa di eliminare migliaia di tonnellate di roccia? Con martelli pneumatici e cavatori a quasi duecento metri di profondità?»
Laura sorrise. «Non è certamente questo a preoccuparmi. Sedici cariche ben collocate possono polverizzare un grattacielo in cemento armato. Ho già fatto alcuni calcoli precisi sulla scorta degli esami sismografici: penso che per eliminare quel dente bastino una trentina di cariche. Secondo me il vero problema sarà trovare una struttura capace di proteggere lo scafo del sommergibile dalla frana della roccia frantumata.»
«Realizzare una protezione artificiale in ferro o acciaio, sul tipo di quelle — per intenderci — delle gallerie stradali, a quelle profondità richiederebbe qualche anno di lavoro», commentò Oswald che, sebbene facesse la parte dell’avvocato del diavolo, si stava appassionando alla ricerca della soluzione.
Laura lo fissò con uno sguardo enigmatico. «E chi ha detto che si debba costruire la gabbia a quelle profondità?»
Quindi inserì un dischetto nel computer e digitò alcuni rapidi comandi sulla tastiera. Sul video comparve quasi immediatamente un grafico tridimensionale del fondo, con i contorni della roccia composti da linee rosse, mentre la sagoma dell’U115 era colorata in giallo.
«È la lettura computerizzata dei dati trasmessi dall’ecoscandaglio», spiegò. «Ferma restando una più accurata verifica diretta dei diagrammi con un’immersione, ecco che cosa intenderei fare.»
Ancora una rapida manovra sui tasti, e la struttura bianca assunse forma e dimensioni nuove e ruotò sullo schermo, mostrando le sezioni e persino le dimensioni di ciascuna putrella, rete metallica e lamiera.
«La struttura la costruiremo a terra in tre elementi», riprese. «Dopo di che la caleremo sul fondo e la monteremo in modo che sovrasti il relitto.»
Oswald la interruppe, con un sorriso da cui si capiva come il piano incontrasse la sua totale approvazione. «Mi faccia vedere se ho capito bene. Praticamente, Laura, lei intenderebbe inserire un’armatura tra lo scafo e la roccia sovrastante, fare saltare quest’ultima con trenta cariche di esplosivo e far scorrere i detriti sull’armatura metallica, senza toccare il sommergibile. Dopo di che, eliminato il corno di roccia, farebbe rimuovere la gabbia metallica, rendendo accessibile il relitto dall’alto.»
Così detto, l’omino fece una breve pausa, immerso nelle sue riflessioni, poi scosse la testa. «Ma anche procedendo in questo modo ci metteremo almeno quattro o cinque mesi. Le ricordo alcuni fattori importanti. Primo: il suo contratto con la North Pole Oil prevede per il recupero un tempo massimo di quarantacinque giorni. Secondo: un uomo riesce a lavorare là sotto per pochi minuti, dopo di che necessita di alcuni giorni in camera di decompressione. Terzo: un batiscafo, anche di massima avanguardia, a quella profondità non supera i diciotto minuti d’autonomia.»
«Anche in questo caso mi consenta una correzione fondamentale, Oswald», ribatté Laura. «Tutto quello che dice è esatto soltanto partendo dal presupposto che si debba cominciare dalla superficie.»
Lo sguardo interrogativo di Oswald la indusse a prolungare la pausa di silenzio per accrescere la sua curiosità.
«Ma si dà il caso che io abbia avuto assicurazione che la NASA potrebbe far arrivare qui il suo laboratorio subacqueo e i suoi tecnici in meno di cinque giorni. Entro quindici, poi, garantiscono di poterci consegnare le chiavi del nostro appartamento a centottanta metri di profondità.»
Naturalmente Laura evitò di menzionare quanto avesse pesato l’intervento di Pete per ottenere la completa disponibilità dell’ente spaziale americano.
Il mattino seguente la giovane scese fin sullo scafo anteriore sinistro della piattaforma, dove si trovava l’imbarcadero e venivano ormeggiati il Gorgonia e i mezzi di servizio. Non appena salita a bordo si accorse che ai comandi non c’era il solito pilota, ma Oswald Breil con stampato in faccia un largo sorriso di benvenuto.
«Si tranquillizzi, Laura», disse l’omino dal sedile anatomico in cui affondava in un modo quasi ridicolo. «Ho progettato e collaudato personalmente il Gorgonia. Conosco questo batiscafo meglio della mia camera da letto.»
Dopo poco tempo il raggio laser stava già rilevando il profilo della roccia con tolleranze di pochi millimetri. Laura dovette convenire che Oswald era veramente molto esperto nel pilotare il batiscafo. Ancora pochi minuti e sarebbe stato possibile tracciare una fedele mappa tridimensionale della zona dov’era imprigionato il sommergibile nazista.
Quando risalirono in superficie, Laura emerse dalla botola stringendo nelle mani diversi fogli di carta sensibile e un dischetto per computer. La vista dell’elicottero presidenziale della NPO, non appena fu salita ai ponti alti della piattaforma, la avvertì che non le si prospettava una buona mattinata.
Il telefono della sua cabina cominciò infatti a trillare non appena ebbe varcato la soglia. Sir Rustom voleva vederla immediatamente in sala riunioni. Decise che non c’era fretta, anche perché quelle discese in profondità provocavano sempre in lei un forte senso di spossatezza. Si cambiò gli abiti e si sdraiò per un paio di minuti, poi si avviò con passo deciso per l’appuntamento con il lupo cattivo.
Già dal colorito sanguigno si capiva che il presidente della NPO era una specie di pentola a pressione in funzione da ore. Le tese comunque la mano e la invitò ad accomodarsi. Facendolo, Laura ebbe l’impressione che Oswald, presente anche in questa occasione, faticasse a non scoppiare a ridere.
Le parole di Rustom ruppero un silenzio pesante. «Vedo che anche una donna coraggiosa, preparata e intelligente come lei è capace di tornare sulle sue decisioni con la stessa facilità con cui decide di battere in ritirata.»
Niente male, come esordio, ma Laura aveva fermamente deciso di non raccogliere provocazioni. Rimase zitta, mentre Rustom riprendeva: «Il dottor Breil mi ha illustrato per sommi capi il suo piano. Mi sembra un’idea semplicemente pazzesca e senza senso. Se lei crede di poter buttare i soldi della mia compagnia e mettere a repentaglio le vite dei nostri tecnici migliori, si sbaglia di grosso».
Laura non riuscì a trattenersi. «Le ricordo che ho sottoscritto questa mattina un contratto con la sua ditta, in presenza dei funzionari del fisco britannico, dove mi viene assegnata la direzione dei lavori, affidato un budget di un milione e trecentomila dollari e concesso un periodo di quarantacinque giorni per recuperare l’U115. Bene, io ho intenzione di cercare di riportarlo a galla non soltanto nel tempo messo a mia disposizione, ma anche con un notevole risparmio sui costi previsti.»
«Continuo a dire che trovo tutta questa situazione una farsa che non posso in nessun modo approvare. La invito pertanto a lasciare la piattaforma domattina e a considerare il contratto nullo», ribatté Rustom in tono sprezzante. «E mi faccia sapere che cosa le devo per il disturbo.»
«Vede, Sir Rustom», replicò la giovane con calma studiata, «i vostri valentissimi e costosissimi avvocati di Londra — senza dubbio nell’interesse della ditta che rappresentano, nonché del governo britannico — hanno ritenuto giusto inserire nel contratto una clausola di recesso unilaterale, fissando una penale astronomica per la parte che decidesse di rompere il contratto senza un motivo oggettivamente valido e controllabile. Quella parte, nelle loro intenzioni, sarei io. Che ragione potevano infatti avere i suoi legali di prevedere che la NPO potesse rimangiarsi quanto sottoscritto con una giovane testa matta?»
Sempre più paonazzo, Rustom accostò una mano tremante alla bottiglia di Vichy e, versatosene un bicchiere, ingollò l’acqua quasi in un sorso solo, mentre Laura si apprestava all’affondo finale.
«È mia ferma intenzione tentare il recupero di quel sommergibile, e nessuno s’illuda di poter considerare nullo un contratto valido e sottoscritto. Quindi, a parte quello che le costerebbe in danni, la invito a riflettere sulla bella figura che farebbe una gigantesca multinazionale petrolifera agli occhi del mondo intero. Messa in un angolo da una donnicciola esaltata da un’idea… Come ha detto, Sir Rustom? Ah, sì: ‘un’idea semplicemente pazzesca e senza senso’, se non ricordo male.»
Oswald ritenne opportuno inserirsi immediatamente nella conversazione, cercando di mostrare al suo presidente gli aspetti economicamente positivi dell’operazione.
«Abbiamo ottenuto dal governo britannico una fiscalizzazione forfettaria di settecentomila sterline, qualora avessimo accettato di procedere al recupero. Inoltre, i costi, anche in forza dell’intervento della NASA, si riducono notevolmente, soprattutto nella fase iniziale dell’operazione. Dovremmo praticamente arrivare al momento della decisione definitiva circa il recupero del relitto senza avere speso più di duecentomila sterline. Comunque dovessero poi andare le cose, la società ne avrebbe un ritorno di immagine molto superiore a quello di due anni di spot pubblicitari a ciclo continuo su tutte le reti televisive del mondo.»
Di norma, il miraggio di un notevole vantaggio economico aveva su Rustom lo stesso effetto di un osso per un cane affamato. Questa volta invece non fu così. Borbottò qualcosa di scarsamente comprensibile — ma sicuramente irripetibile — e abbandonò la stanza, furente.
Oswald scoccò a Laura una strizzata d’occhio, ricevendo in cambio un sorriso luminoso.
Mar dei Caraibi. 4 settembre 1622.
Nelle prime ore della sera il vento si era rinforzato, la tempesta si stava avvicinando veloce. Ma, sebbene preoccupato per le condizioni del tempo, l’ammiraglio de Cadereita non riusciva a togliersi dalla mente il ricordo degli uomini della Santa Esmeralda.
Di punto in bianco ebbe un’illuminazione. «La spada! Vasted non portava la spada! Nessun ufficiale abbandonerebbe mai le sue armi, a meno che non vi sia costretto.»
L’anziano ammiraglio lasciò precipitosamente il suo alloggio e salì in coperta. Il vento trasportava violenti spruzzi d’acqua fin sul castello di poppa. «Nostromo», fu l’ordine che impartì. «Riduciamo le vele e lasciamo che l’Atocha e la Santa Esmeralda ci raggiungano. Passeremo qualche ora a controllare le retrovie.»
Il sottufficiale non pensò nemmeno lontanamente a mettere in discussione quello che doveva sembrargli un ordine quanto meno bizzarro, ma si limitò a emettere alcuni fischi precisi. E forse proprio quella manovra imprevista consentì alla nave ammiraglia di non venire investita dal repentino peggioramento del tempo.
Nel giro di pochi minuti il vento raddoppiò di velocità e, di conseguenza, il mare prese a montare sempre di più. Tra il fragore delle onde si distinguevano le grida dei marinai delle altre navi, impegnati nel difficile compito di ridurre la velatura.
Per puro caso, le decisioni prese a seguito dei dubbi sorti nella mente dell’ammiraglio avevano coinciso con la scatenarsi della buriana. Ma ciò nonostante ne guadagnò la fama di grande marinaio che circondava la figura del comandante della Flota de Tierra Firme. Effettivamente, grazie alle vele ridotte, la Nuestra Señora de Candeleira era la sola nave in grado di reggere i colpi di mare e le raffiche con sufficiente stabilità. Gli altri velieri, invece, piegati dalla forza del vento e delle onde erano costretti a pericolose sbandate senza controllo.
Cadereita osservò la Flota sfilargli davanti e si mise a pregare per la salvezza di tutti quegli uomini. Ogni volta che si trovava sulla cresta dell’onda, scrutava il mare verso poppa. Identificò con facilità l’Atocha, che aveva scarrocciato molto più a nord rispetto alla rotta che avrebbe dovuto seguire, ma non riuscì più a vedere la Santa Esmeralda.
Funches aveva deciso di abbandonare il convoglio non appena si fosse fatto buio. Aveva intenzione di dirigere verso il golfo del Messico, risalire la costa, abbandonare la nave in un punto riparato e andare a godersi il bottino in qualche parte del Nuovo Mondo.
Ma la tempesta si era scatenata improvvisa per lui come per tutti gli altri. Il vento spingeva il galeone da tre quarti di poppa, mettendone a dura prova strutture e stabilità. Il capo degli ammutinati si era consigliato rapidamente con i suoi accoliti. Avevano convenuto che sarebbe bastato proseguire su quella rotta per lasciare le coste della Florida diverse decine di miglia sulla dritta e guadagnare le acque tranquille del golfo del Messico.
Da basso, il primo ad accorgersi che il tempo stava peggiorando fu il frate. I colpi di mare si susseguivano sempre più violenti e, nello spazio angusto della cella, il rollio si avvertiva con maggiore disagio che altrove. Vasted, che non aveva praticamente più aperto bocca dal momento in cui era stato ricondotto in cella, alzò il capo e guardò nella direzione del frate.
«Avete ragione, frate Pietro», disse. «Siamo incappati in una tempesta tropicale. Speriamo che quella banda di assassini riesca a governare la Santa Esmeralda anche con questo tempo. Soprattutto in considerazione del fatto che, da quanto ho visto, là sopra non devono essere rimasti in tanti.»
«Certo, ma questo che cosa cambia?» chiese la voce di Antonia da un angolo della stanza, dove la giovane stava prestando le sue cure all’unica delle due ancelle sopravvissuta alle sevizie. «Non so se sia peggio morire tra la furia dei marosi o durante un’orgia di quegli aguzzini.»
Il cardinale de Blasi era seduto sul pavimento al lato opposto della cella, in preda a continui conati di vomito per il mal di mare. Il suo segretario aveva confusamente cercato di prodigarsi in cure, ma nel giro di poco tempo era stato sopraffatto anche lui dal malessere.
La furia degli elementi stava esercitando il suo effetto anche sul carattere ottuso e malvagio di Funches. Il capo dei rivoltosi sembrava perduto, l’equipaggio era privo di ordini. Le onde spazzavano il ponte, trascinando via parte delle attrezzature e del carico esterno.
A tarda notte la tempesta diventò un uragano e il vento si mise a soffiare a settantacinque nodi. La forza del mare si era fatta incontenibile. Due dei tre alberi della Santa Esmeralda erano ridotti a spezzoni. La precaria governabilità del galeone era assicurata soltanto dalla presenza di due tormentine sull’albero di maestra. Ogni manovra era preclusa, i pochi tra gli ammutinati ancora in grado di lavorare cercavano riparo dalle onde dietro il rifugio offerto dal castello di prora. Quando si accorsero della barriera corallina, era troppo tardi.
«Giù le ancore!» urlò Funches, nella speranza di riuscire ad arrestare l’inesorabile deriva, ma la sua voce venne sopraffatta dal fragore dell’uragano. Il portoghese si precipitò verso prora, alcuni uomini lo scorsero tra gli spruzzi d’acqua e le lame di pioggia e accorsero in suo aiuto. L’ancora di circa due tonnellate venne liberata con grande difficoltà dai fermi. Mancavano soltanto poche centinaia di piedi all’impatto con l’impenetrabile striscia di corallo che difendeva l’atollo. Lo scafo della Santa Esmeralda sembrò sprofondare nell’avvallamento di un’onda maestosa proprio mentre l’ancora veniva abbandonata fuori bordo. Poi la nave risalì, lasciando brandeggiare le due tonnellate di ferro fuori bordo. La spinta dell’onda rinforzò il moto oscillatorio e l’àncora, schiantandosi contro la paratia, aprì uno squarcio di qualche metro.
Il rumore delle assi che si sfasciavano ebbe l’effetto di riscuotere anche il cardinale dal suo stato di torpore. Il getto d’acqua entrò con prepotenza nella prigione, provocando ulteriori danni nella fiancata, finché la nave non tornò a impennarsi. Prima che lo scafo ricadesse nel mare in tempesta, l’acqua che aveva invaso la cella tornò a uscire dalla falla, trascinandosi dietro tutti i prigionieri.
Mare di Norvegia. Aprile 1995.
Laura Joanson guardò la nave militare americana che aveva dato fondo a poche centinaia di metri dalla piattaforma. La puntualità con cui la NASA era riuscita a far arrivare nel mare del Nord le sue preziose apparecchiature era veramente impeccabile. A giudicare dai risultati, rifletté, il suo compagno di scuola Pete doveva aver fatto una bella carriera nella Central Intelligence Agency. E la questione U115 interessava evidentemente davvero.
La Deep-House, o «Casa-Profonda» — così avevano soprannominato quella specie di sigaro in lega di titanio i tecnici della NASA, parafrasando il celebre film hardcore Gola Profonda - era lunga quasi quindici metri e alta quasi due e mezzo. Se non fosse stato per i quattro oblò e per il complesso di antenne, apparecchiature e fari che si vedevano sul tetto, si sarebbe potuta scambiare per un container dalle forme arrotondate.
L’interno era diviso in tre comparti distinti: una camera stagna ad allagamento rapido, dove poteva trovare posto un turno di quattro subacquei, un alloggio con dieci brande e un locale igienico dotato di doccia e, per finire, una stanza di decompressione dotata di tutta la strumentazione più avanzata.
I lavori di allestimento furono rapidissimi. Dodici giorni più tardi la Deep-House si trovava già a circa quaranta metri dal relitto, adagiata su un rilievo a poca distanza dalle rocce che imprigionavano il sommergibile.
La stazione sottomarina consentiva a una squadra di ottodieci uomini di lavorare a quella profondità per una settimana di seguito. Ognuno degli occupanti poteva effettuare tre escursioni giornaliere di circa quaranta minuti ciascuna, respirando una miscela a base di elio e utilizzando mute e caschi simili a quelli degli astronauti.
La chiatta che trasportava la struttura metallica giunse invece sul posto soltanto tre giorni dopo che i vertici della NASA avevano dato il via libera per l’utilizzo della base sottomarina.
Laura chiese di far parte del primo turno di immersione e si imbarcò sul Gorgonia, che avrebbe fatto la spola tra la base e la superficie. La parte superiore del batiscafo era stata anch’essa modificata, onde consentire un aggancio perfetto con il portellone stagno della base sottomarina. Quando furono vicini alla Deep-House, il pilota fece ruotare il minisommergibile su un fianco, in modo che i due portelli combaciassero. Avvenuto l’aggancio, entrarono istantaneamente in funzione i martinetti idraulici che avrebbero compresso le guarnizioni fino a far combaciare perfettamente le strutture. Il sibilo dell’aria compressa segnalò agli occupanti del Gorgonia che le operazioni stavano per concludersi.
Sia Oswald sia il pilota si tenevano in costante contatto radio con la base sottomarina. Prima di mettere mano al volante in acciaio che serviva ad aprire l’unica via d’uscita del batiscafo, attesero il segnale di via libera.
Ma qualcosa non doveva essere andato per il verso giusto. Con una punta di panico, Laura si accorse che uno zampillo d’acqua stava filtrando nel sommergibile. Per fortuna Oswald aveva usato tutte le cautele possibili, altrimenti non sarebbero sopravvissuti.
«Risalita rapida!» ordinò il direttore della piattaforma, mentre con le minuscole mani cercava di stringere nuovamente con forza il volantino. Ma era già troppo tardi: le guarnizioni stavano cedendo alla pressione, rendendo impossibile arrestare l’acqua. Quando, quattro minuti più tardi, il batiscafo raggiunse la superficie, il suo interno ne era invaso fino all’altezza di dieci centimetri, e molte attrezzature erano state danneggiate.
Laura tirò comunque un sospiro di sollievo, ben consapevole del rischio che avevano corso. Oswald, invece, imperturbabile, aveva già aperto il portello e si era messo a esaminare attentamente le apparecchiature del raccordo, in cerca delle cause dell’incidente. Avrebbe sicuramente dovuto passare diverse ore a smontare martinetti idraulici e guarnizioni.
Mar dei Caraibi. 4 settembre 1622.
Vasted fu il primo a riemergere. Impotente, vide lo scafo del galeone ripiombare sul frate, che stava cercando di tenere a galla l’ancella di Antonia. Voltatosi, si rese conto che la giovane Llobet se la stava cavando abbastanza bene, e in ogni caso meglio del segretario del cardinale, costretto a trascinarsi dietro il pesante corpo privo di sensi del prelato. Il giovane ufficiale li raggiunse con poche potenti bracciate, prese per la testa de Blasi in modo che il naso e la bocca rimanessero fuori dell’acqua e, cercando di superare la furia degli elementi, urlò: «Via, via, presto, per l’amor di Dio, prima che le onde ci buttino sulla barriera corallina».
Quindi cominciò a nuotare con la nuca rivolta al vento, trascinandosi dietro il cardinale. Antonia e il prete lo seguirono, cercando di vincere le poderose muraglie di acqua che li sollevavano di diversi metri, scagliandoli in abissi apparentemente senza fondo. Privi di un galleggiante a cui aggrapparsi, non avrebbero certamente potuto resistere per più di qualche decina di minuti.
La Santa Esmeralda sbandò sulla dritta, ingavonandosi nella montagna d’acqua che aveva davanti. Quella entrata dalla falla di prora doveva averne compromesso in maniera irreparabile la stabilità. Lo scafo si imbarcò, mettendosi in una posizione quasi verticale. Vasted rimase impietrito a guardare la sua nave che si capovolgeva e spariva tra i flutti nel giro di pochi istanti.
La pioggia battente e il fitto pulviscolo che il vento sollevava dalle onde offuscavano i contorni di ogni cosa, conferendo tratti sempre più irreali alla scena, che nella mente annebbiata dell’ufficiale stava assumendo i contorni di un orribile sogno. Le energie lo stavano abbandonando, ma con un sovrumano sforzo di volontà decise di non lasciare al suo destino il fardello che si trascinava dietro; tese anzi addirittura una mano ad Antonia, attirando a sé anche lei. A poca distanza da loro, il segretario del porporato era scosso da violenti colpi di tosse e annaspava stremato.
Vasted si mise ad agitare vorticosamente le gambe, sforzandosi di vincere anche il dolore dei crampi, mentre con la destra continuava a tenere il capo di de Blasi fuori dell’acqua e con la sinistra aiutava la ragazza a rimanere a galla.
«Stiamo morendo», gridò Antonia, disperata.
Ma proprio in quel momento la massa solida di un remo batté con forza sulla schiena dell’ufficiale, che si voltò istintivamente. Tazpletacuz, il Figlio del Dio Avvoltoio, faticava a reggervisi, ma il relitto su cui aveva trovato scampo sembrava abbastanza robusto. Messosi cautamente bocconi, si protese in avanti, porgendo il remo ai naufraghi.
Il repentino balzo del gesuita disorientò Vasted, che stava cercando di trascinare Antonia verso l’appiglio. La giovane venne letteralmente scavalcata dal segretario del cardinale, reso folle dal miraggio della salvezza. Ma il frangersi dell’onda lo colpì in pieno proprio mentre stava per issarsi a bordo della zattera, trascinandolo a diversi metri di distanza. La sua testa bruna scomparve per sempre sott’acqua.
Issatasi faticosamente, Antonia si sporse e, aiutata dall’indio, riuscì a tirare anche il cardinale sul relitto, che il giovane ufficiale riuscì invece a guadagnare con le sue forze. Vasted riprese immediatamente fiato, provvedendo subito a girare su un fianco il prelato, che, squassato da tremendi colpi di tosse, cominciò a vomitare. Si rese conto che il relitto era un pezzo del paiolato della tuga e che sarebbe stato molto arduo governarlo, e per di più con un solo remo.
«Dio ti benedica, Juan», furono le sole parole che, ansimando, riuscì a sputare, rivolto all’indio. Poi, preso il remo dalle sue mani, cercò di dirigere la zattera. La barriera corallina era a poche centinaia di passi da loro; già aveva notato un varco tra le rocce taglienti, poco più largo dello stesso mezzo di fortuna.
La forza delle onde e la risacca stavano sballottando impietosamente il relitto: portarlo a imboccare lo stretto passaggio pareva impossibile.
La massa di rocce taglientissime, ricoperta dalla schiuma dei frangenti, si parò minacciosa davanti a loro. Erano ormai a pochi metri tanto dallo sfracellamento e dalla morte quanto dalla salvezza. Vasted sapeva che la loro vita era ormai legata a un filo, affidata al puro caso. Chiuse gli occhi, arsi dal sale e dal vento. Sentì la zattera impennarsi come impazzita, temette che andasse a schiantarsi sulla massa corallina ma, finalmente, riaperti con un estremo sforzo di volontà gli occhi, vide compiersi quello che non poté non considerare un miracolo. Lo sgangherato fascio di legname planò, rasentando di poco la barriera mortale, e con un ultimo squassante scossone, andò a sistemarsi al traverso nel ricciolo della gigantesca massa di acqua franta.
Sopravvenne improvvisa una calma ancor più irreale del precedente incubo. Soltanto l’ululato del vento turbava l’incredibile quiete del mare. Ce l’avevano fatta! Avevano superato la barriera e adesso si trovavano al sicuro nello specchio d’acqua protetto.
Sentire la sabbia sotto i piedi gli sembrò davvero un sogno. Il più bello, il più insperato dei sogni. Vide, Juan che si prendeva cura di Antonia. Ancora una volta sostenne il cardinale e, malfermo sulle gambe, si avviò verso le mangrovie sferzate dal vento.
Piattaforma petrolifera Crude Brent. Mare di Norvegia. 1995.
Laura si alzò a sedere sul letto. Chi era? Qualcuno doveva avere qualcosa di veramente importante da dirle, per svegliarla nel cuore della notte, soprattutto dopo la spaventosa esperienza che aveva vissuto. Le nocche battevano sullo stipite facendo un rumore appena percettibile. Con un sorriso di sollievo, Laura pensò istintivamente alle manine di un elfo. «Avanti», disse, stringendosi con entrambe le mani la vestaglia sul petto.
Infatti era lui. Oswald Breil prese posto sulla poltroncina, mentre lei si tirava a sedere sul letto.
«La valvola dell’aria compressa è stata manomessa», disse d’un fiato.
«Ne è sicuro?» chiese lei, completamente svegliata da un incontenibile accesso di panico.
«Altroché, purtroppo. Qualcuno ha cercato di ucciderci. Lei sa benissimo, Laura, che un solo quarto di giro in più del volantino d’apertura avrebbe significato una colonna d’acqua a venti atmosfere, che ci avrebbe travolto.»
Laura annuì in silenzio.
E in silenzio rimasero entrambi per diversi secondi, prima che Oswald continuasse: «I martinetti idraulici erano in grado di percorrere soltanto metà della loro corsa, con il risultato che la compressione della guarnizione interna non era sufficiente a controbilanciare la pressione esterna». Ci fu ancora un attimo di silenzio, poi i due scienziati ripresero a parlare quasi contemporaneamente: «A questo punto non possiamo abbandonare», esclamarono.
«Prendiamo atto che qualcuno è contrario al recupero», continuò Breil, «e di conseguenza procediamo con maggiore cautela.»
«Sì, dobbiamo verificare scrupolosamente le attrezzature prima di ogni immersione», gli fece eco Laura. «Ne deriverà un allungamento dei tempi, ma certo non un impedimento.»
«Tenga comunque conto che siamo in anticipo sulla tabella di marcia», precisò Oswald.
«Sì, si va avanti, dottor Breil», concluse con fermezza la donna.
L’ultima delle grosse putrelle in ferro venne cementata nella roccia cinque giorni più tardi. Lo scafo del sommergibile nazista era ormai protetto da una solida armatura, in grado di reggere il peso dei massi che le sarebbero precipitati e scivolati sopra.
Laura aveva terminato il suo turno in profondità. Nelle lunghe giornate trascorse sott’acqua non si era mai tirata indietro davanti a nessun lavoro, per quanto duro, per quanto massacrante, quasi volesse non far pesare sugli altri occupanti della Deep-House le limitazioni connesse con il suo sesso o le obbligazioni derivanti dal suo ruolo.
Oswald Breil non aveva mai varcato il portello stagno, ma era rimasto incollato per tutti e sei i giorni di immersione agli strumenti e agli impianti di comunicazione con la superficie: le strane tute protettive che infagottavano il corpo degli altri non venivano fabbricate con taglie da bambini, sicché non ce n’era una sola che potesse indossare. Ma per fortuna la loro permanenza sottomarina non era stata più turbata da alcun incidente, a parte qualche inconveniente di secondaria gravità, come la scoperta che due robot erano inutilizzabili e una serie di intoppi burocratici responsabili del blocco dei lavori per un giorno intero. Eventi, comunque, di ordinaria amministrazione, niente a che vedere con il sabotaggio di alcuni giorni prima.
Appena risaliti a bordo della Crude Brent vennero sottoposti a una serie di esami medici direttamente nella camera di decompressione, dove sarebbero rimasti alcune ore, seppure soltanto per precauzione.
La seconda fase del recupero prevedeva l’entrata in azione degli artificieri, incaricati di sistemare le cariche nei fori disposti in base ai dati dell’analisi sismologica.
Laura giaceva abbandonata sulla sua branda, nella camera iperbarica. Malgrado il senso di costrizione, si stava godendo un raro momento di riposo. Anche Oswald aveva un aspetto molto provato. Nel silenzio quasi assoluto, il rumore assordante dell’allarme si propagò per tutta la piattaforma, penetrando nel cilindro metallico in cui erano chiusi. Dimentichi di ogni precauzione, si precipitarono fuori del portello della camera pressurizzata, correndo alla sala controllo, da dove venivano gestite tutte le operazioni sottomarine.
Il batiscafo della marina militare USA, calato in acqua poche ore prima dalla nave appoggio, con tre uomini a bordo e i primi dieci chilogrammi di esplosivo, era andato in frantumi. Nessuno sapeva che cosa potesse essere successo, visto che erano state adottate tutte le precauzioni necessarie per garantire la massima sicurezza. Le cariche erano del tipo a innescamento a infrarosso, e il comando d’innesco poteva essere impartito soltanto dalle apparecchiature della sala controllo, in seguito a un lungo e meticoloso complesso di operazioni preliminari. Comunque fossero andate le cose, quale che fosse stata la causa, là sotto tre uomini avevano trovato una morte orribile.
Laura partecipò a tutte le operazioni di recupero, e avrebbe fatto anche un’immersione se non le fosse stato proibito dal medico. Soltanto quando fu chiaro che non era possibile far niente, nemmeno recuperare i corpi dilaniati o quanto rimaneva del minisommergibile, si sentì pervadere il corpo e la mente da un’invincibile stanchezza fatta di dolore e disperazione. Spossata, si ritirò nella sua cabina. Aveva bisogno di ritrovare la lucidità e di riflettere.
Non erano ancora passati dieci minuti quando sentì bussare alla porta. Riconobbe il tocco leggero della mano. «Avanti, Oswald», disse con una voce affranta che probabilmente nessuno aveva mai sentito uscire dalle sue labbra.
Ugualmente affranto sembrava Oswald, che entrò a testa bassa. «Scusa se mi sono permesso di disturbarti a quest’ora e dopo una giornata come quella di oggi. Ma devo assolutamente parlarti.» E di punto in bianco sembrò rianimarsi, avere scoperto in qualche recesso della sua fragile struttura fisica un’insospettabile riserva segreta di energia. La sua voce aveva trovato nuova forza.
«Capisco quello che provi, Laura», continuò. «Capita anche a me di sentirmi scoraggiato, quando a bordo qualcosa va storto. Ma sei una donna forte, non devi cedere. Non puoi. Non… non possiamo.»
«Fai presto a dirlo», ribatté lei, con il medesimo tono di disperazione. «Tre ragazzi di neanche trent’anni sono stati fatti a pezzi dallo scoppio di dieci chili di C4. A pezzi, capisci? E per che cosa? Per recuperare un vecchio sommergibile incastrato tra le rocce!» E la voce si spezzò definitivamente in un tremito irrefrenabile.
«No», riprese Oswald, scuotendo la testa. «Così non va bene, Laura. Lo so, il momento è terribile, ma, ti scongiuro, fa’ uno sforzo. Cerca di ritrovare almeno la lucidità, se non la serenità. Sai perfettamente che quegli uomini avevano accettato di fare un lavoro molto pericoloso, e che un incidente del genere rientrava tra i prevedibili rischi del loro mestiere. Il vero problema, a mio modo di vedere, è un altro. E persino più spaventevole. Ovvero: è stato davvero un incidente?»
Laura scosse stancamente la testa, rimanendo in silenzio per qualche istante. Aveva già evidentemente pensato alla ripugnante possibilità. «Hai qualche sospetto?» chiese infine.
«Ho controllato tutti i sistemi di innesco a distanza», rispose Breil. «L’impulso non può essere partito da nessuno di essi. Il C4 è un esplosivo estremamente stabile, e questo significa che può deflagrare soltanto se viene stimolato con un detonatore o gettato in mezzo a un incendio. Sono assolutamente convinto che la morte dei tre artificieri non è stata accidentale, e che l’impulso è venuto da un’altra stazione in grado di usare i nostri codici.»
«Vuoi dire che c’è qualcuno tanto interessato al recupero di quella banana da uccidere?» chiese Laura.
«Ormai ne sono convinto, Laura. Al recupero, o piuttosto alla distruzione. E più che mai sono convinto che dobbiamo arrivare fino in fondo.»
«Secondo me, invece, siamo costretti a piantare in asso l’impresa, volenti o nolenti. Un nuovo batiscafo della marina, sempre ammesso che i militari vogliano continuare ad assisterci, non potrà essere qui prima di dieci giorni, e reso operativo prima di quindici. Non possiamo certo scendere in apnea a piazzare centotrenta chili di esplosivo ad alto potenziale.»
«In apnea sicuramente no, ma con il Gorgonia sì», ribatté prontamente Oswald, con un nuovo lampo di entusiasmo negli occhi.
«Il Gorgonia non è attrezzato per il trasporto di grandi quantità di esplosivi, Oswald. Lo sai meglio di me. E i suoi arti meccanici non hanno una sensibilità sufficiente per maneggiare una simile quantità di C4», obiettò Laura, scuotendo la testa.
«Entro due, tre giorni al massimo, saremo in grado di portare giù dai quindici ai venti chili per volta», replicò Breil, in un tono sempre più entusiasta.
«Così ci rimane soltanto il trascurabile problema di chi siano gli assassini. Oltre a quello della mia coscienza. Credo di essere più turbata dal pensiero di quei ragazzi che dalla paura. Ma ho paura, Oswald. Inutile giocare con le parole. Ho paura di questo carnefice invisibile che secondo te vorrebbe la distruzione dell’U115. Quindi penso che domani stesso scriverò una rinunzia all’incarico e mi preparerò a pagare la penale capestro escogitata dai legali di Londra.»
Laura era in crisi. Una crisi che Oswald Breil temette di non poterla aiutare a superare. Ma era lui a non voler rinunciare. Le vere motivazioni per il recupero di quel relitto erano sue. Doveva spiegarglielo.
Fece appello alla pazienza e alle doti dialettiche che tutti gli riconoscevano. Sapeva di trovarsi davanti a una donna che conosceva il fatto suo come poche altre persone, determinata, coraggiosa, equilibrata. Quindi, convincibile. Cercò con la massima cura le parole più adatte.
«Ascoltami, Laura. Adolf Hitler lasciò la sua residenza alle otto e trenta del 27 aprile 1945 per rifugiarsi nel bunker di Berlino. Non vi fu alcun movimento di carri o soldati, al di là della sua normale scorta. Nessuno osava nemmeno pensare che Berlino sarebbe caduta, e di sicuro nessuno osava dirlo. Due giorni più tardi, nei pressi della casa vennero notati diversi mezzi pesanti e alcuni uomini che trasportavano un certo numero di casse stagne del tipo in dotazione alla marina nazista. Inesplicabilmente, tuttavia, non se ne vede traccia in nessun rapporto dei russi. Siamo sicuri che non sono state ritrovate.»
«Potrebbero averle sotterrate», interloquì Laura con una nuova luce di interesse nello sguardo.
«Giusta osservazione. Si dà però il caso che il 29 aprile l’U115 sia partito da un molo di Amburgo dopo avere caricato diverse casse precisamente del tipo di quelle uscite dalla residenza del Führer. Prima di trivellare tutta Berlino — cosa che peraltro hanno già in larga parte fatto russi e americani -, sono convinto che sia più facile tentare il recupero dell’ultimo sommergibile da trasporto nazista. Non credi?»
«Sembri molto più informato di tutti noi sull’U115, ed è lampante che il suo recupero ti sta a cuore almeno quanto a qualche altra persona sta a cuore la sua distruzione. Carte in tavola, Oswald: perché vuoi quel sommergibile?»
«Per un motivo molto semplice, ma per me più che sufficiente. Perché sono convinto vi si possa trovare la verità, che vi siano nascosti i dati relativi a tutte le persone coinvolte nella tragica scelta di scatenare la seconda guerra mondiale, a tutte le responsabilità di vincitori e vinti, nessuna esclusa, nella pagina più oscura del nostro secolo.»
«Voglio sapere perché vuoi l’U115, Oswald!» incalzò Laura. Era ormai più che chiaro che non si trovava di fronte al semplice responsabile di una piattaforma petrolifera.
«D’accordo, carte in tavola. Ormai ho poco da perdere, e comunque conto sulla tua serietà e onestà. Ti sembrerà strano, soprattutto visto il tipo di romanzi che scrivi con tanto successo, ma certe cose succedono anche nella realtà. Nonostante questo mio fisico non certamente da… ehm, da superuomo, opero per un servizio segreto e sto cercando quel sommergibile da dodici anni.»
«Lavori per la CIA!» esclamò Laura, ormai sicura di trovarsi davanti a uno degli «amici» di cui le aveva parlato Pete.
Oswald scosse la testa. La parola gli uscì di bocca in un soffio quasi impercettibile.
«Mossad», disse. «Sono un maggiore del Mossad.»
Laura non rispose subito. Aveva bisogno di riflettere qualche istante, perché la situazione si stava facendo veramente complessa, al di là del fatto che sarebbe stata davvero perfetta per uno dei suoi romanzi.
Dunque: calma. Riorganizziamo le idee, si impose. Prima un rozzo e ricchissimo petroliere, presumibilmente legato ai servizi britannici. Poi Pete Dayle che la implorava di portare a termine la missione per conto della CIA americana, mettendole a disposizione nientemeno che le tecnologie della NASA e una nave militare. E adesso anche un agente del migliore ente di spionaggio del mondo, quello israeliano, impegnato già da una dozzina di anni nelle ricerche del sommergibile. Certo, concluse fulmineamente: che oca giuliva! A prescindere dalle tre vittime, già il sabotaggio di alcuni giorni prima avrebbe dovuto farla riflettere sulla singolare importanza che qualcuno dava alla missione.
«E allora si va avanti, Oswald! Quel benedetto sommergibile lo tireremo fuori, costi quello che costi», esclamò infine.
Anche se, le ribatté immediatamente nel cervello la dispettosa voce del buon senso che non riusciva mai a far stare zitta, c’era sempre il rischio che si trattasse soltanto di congetture del suo piccolo amico, rafforzate da una serie di coincidenze casuali.
I servizi segreti erano fin troppo capaci di inciampare nelle bufale e di coprirsi di ridicolo, persino più dei giornali. Ricordava perfettamente quando, alcuni anni prima, il ritrovamento in un lago italiano di tre casse di ferro aveva tenuto il mondo con il fiato sospeso, nella convinzione che contenessero i segreti di Mussolini, mentre non si trattava che di un po’ di munizioni fradice e nient’altro. Non c’era il rischio che la stessa cosa potesse ripetersi con quel sommergibile dal presunto carico misterioso?
Ma quel sabotaggio… I tre morti…
Alzò su Oswald Breil uno sguardo fermo e deciso.
Mar dei Caraibi. 1622.
Avevano risalito il lieve pendio sabbioso della spiaggia con la stessa difficoltà che se avessero affrontato una parete rocciosa. Camminavano curvi, stremati. Vasted si scrollò finalmente di dosso il cardinale e lo depose sulla sabbia spazzata dalla pioggia violenta. Sembrava morto. L’ufficiale lo rivolse con il capo verso il mare e cominciò a massaggiargli la gabbia toracica con movimenti energici. I colpi di tosse si levarono sopra il sibilo della tempesta come l’urlo di un bambino che nasce, mentre la bocca del religioso sputava fiotti d’acqua.
«Dammi una mano, Juan», ordinò il giovane, indicando una mangrovia bassa e molto ampia. «Mettiamolo sotto quell’albero e occupiamoci della signorina Llobet!» Vasted si era rivolto al principe indio parlando, senza pensarci, in spagnolo. Ma poi si meravigliò, avvertendo che Juan pareva aver capito.
Quando raggiunsero la giovane, la trovarono distesa sulla sabbia. Il petto si alzava e abbassava ritmicamente con affanno. La veste leggermente strappata lasciava intravedere la pelle chiara del seno. I due uomini la presero sotto le ascelle, aiutandola a raggiungere il riparo. La pioggia scendeva su di loro in grossi rivoli, filtrando attraverso le fitte foglie dell’albero furiosamente sferzate dal vento. Eppure, dopo tanto soffrire, per i quattro naufraghi quel ricovero di fortuna era pari a un palazzo. Tutt’intorno si vedevano palme divelte da un vento che sembrava non doversi placare mai.
Antonia riposò alcuni minuti, poi si accostò al cardinale, cercando di prestargli soccorso. Vasted e Juan, invece, precipitarono quasi simultaneamente in un sonno profondo. Ore dopo, la giovane, che non aveva saputo a sua volta resistere all’estenuante stanchezza, fu svegliata da un raggio accecante che le feriva gli occhi anche sotto le palpebre chiuse filtrando attraverso la vegetazione.
Il sole! pensò, tirandosi a sedere di scatto. L’uragano doveva essersi placato, anche se il vento rimaneva forte. Si girò di fianco: Vasted dormiva ancora a pochi passi da lei, dello schiavo indio cui erano debitori della vita non c’era traccia. Il cardinale, con quel colorito cereo e le labbra violacee, aveva un aspetto ancora più torvo, ma era del tutto cosciente e sembrava stesse riprendendo le forze.
Con un soprassalto di angoscia, la mente di Antonia tornò alla realtà, alle due ancelle morte in maniera così atroce, al coraggioso frate italiano scomparso tra i flutti. Venne presa da una crisi di terrore, e fu solo il suo autocontrollo a impedirle di scoppiare in lacrime.
Quando Vasted si svegliò, lo schiavo principe degli aztechi stava tornando verso di loro da nord. Inopinatamente, si mise a parlare in uno spagnolo tutt’altro che corretto ma perfettamente comprensibile: «Ci troviamo su di un’isola», disse, «e piuttosto grande. Ho camminato per diverse miglia verso nord, prima che la spiaggia curvasse a destra».
«Un’isola», rifletté Vasted a voce alta, «ma quale? Nella rotta che abbiamo seguito ci sono alcuni riferimenti precisi, almeno fino a quando siamo stati chiusi in cella. Poi abbiamo incrociato la flotta al traverso di Cuba, mentre veleggiava in direzione di Bermuda. L’uragano è arrivato da sud sud-ovest. Se solo sapessi che rotta abbiamo preso quando abbiamo abbandonato la flotta, riuscirei a valutare con una certa approssimazione dove ci troviamo. Così alla cieca, invece, potremmo essere ovunque, dai Cayos delia Florida alla costa orientale della penisola, ma anche su quella occidentale.»
Juan aveva capito. «Io ero sul ponte. Appena si è fatto buio abbiamo virato verso nord-ovest», disse.
Vasted era sempre più meravigliato per l’acutezza mostrata dallo schiavo e per la sua forza. In effetti, anche a bordo aveva sempre trattato Tazpletacuz con umanità, riconoscendo in lui doti non comuni tra gli altri schiavi.
«Questo non mi è di grande aiuto, Juan», commentò, «anche se restringe il campo del naufragio di alcune centinaia di miglia. Comunque, credo che ci troviamo lungo la costa occidentale della Florida, su qualche atollo del mare del Golfo.»
In effetti avevano proceduto verso nord. Ma la violenza del vento li aveva fatti scarrocciare molti gradi più a est, a circa cento miglia da dove Vasted pensava di trovarsi.
Mare di Norvegia. 1995.
L’elicottero atterrò sulla piattaforma della nave appoggio americana nelle prime ore del mattino. Pete Dayle scese rapidamente, stringendo nella destra una borsa da viaggio. Pochi minuti più tardi una lancia coperta lo conduceva alla piattaforma petrolifera. Più che un dirigente della CIA, chiunque lo avrebbe ritenuto un docente universitario. Salì con agilità lo scalandrone che portava dalle basi galleggianti ai ponti superiori della Crude Brent.
Laura se lo trovò davanti nella solita saletta delle riunioni, seduto a fianco del presidente della North Pole Oil.
«Pete Dayle! Che cosa diavolo ci fai qui?» esclamò d’impulso: era pur sempre un suo ex compagno di scuola, e sarebbe stato inutile cercare di nasconderlo.
«Bene, vedo che vi conoscete già», disse Rustom con la sua voce sgradevole. «Le presentazioni sono quindi superflue. Lascio a lei la parola, agente Boyle.»
Pete non era un agente — pensò Laura — ma un dirigente della CIA con diversi anni di anzianità. E, da quanto aveva potuto dedurre, sembrava lanciato verso il gradino più alto, che peraltro non doveva essere molto più in alto di quello che già occupava.
«Mi chiamo Dayle, Mr. Rustom. Pete Dayle, agente della Central Intelligence Agency, distaccato presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Stoccolma e inviato su questa piattaforma per indagare sulla morte di tre militari americani.»
«Ne ho già preso atto, giovanotto. Ma non dovrebbero essere i servizi militari a indagare sul caso?» chiese Rustom in tono irritato.
«I militari sono impegnati in questioni molto più importanti di una semplice indagine per un incidente sul lavoro. Comunque, dove si possono prendere simili decisioni, è stato deciso che un agente bastava per archiviare il caso per conto del Pentagono, signore», ribatté con prontezza Pete. «E adesso, con il suo permesso, dovrei visionare la sala comando e i sistemi di innesco.»
«Signorina Joanson, le spiace accompagnare l’agente Boystend in sala comando?» chiese gelidamente Rustom, tendendo la mano al funzionario americano.
Quando furono nel corridoio Laura sbottò: «Ripeto. Si può sapere che cosa diavolo ci fai qui?»
Pete le fece cenno di tacere, quasi temesse che le pareti potessero avere orecchi, e, parlando del più e del meno, si fece guidare nella sala comando.
Laura ebbe la netta sensazione che Oswald e Dayle si conoscessero già: manifestavano un evidente senso di stima reciproca. Pete si fece spiegare con calma le manovre di innesco, poi chiese agli altri due di seguirlo all’esterno.
Quando furono sulla pista, dove stazionava ancora l’elicottero della compagnia petrolifera, disse in un tono ormai scopertamente amichevole: «Questi incidenti mi hanno molto preoccupato, Oswald, se non vogliamo definirli attentati».
«Proprio così, Pete», replicò Breil in tono grave. «Sono convinto che non si tratti affatto di incidenti.»
Laura li scrutava con gli occhi sgranati, affascinata dalla loro condizione di uomini che dovevano conoscere i segreti di mezzo mondo.
«Nell’MI5», riprese l’americano, «c’è più di una sezione deviata. Persone che hanno molti motivi per temere che le confidenze di Hitler possano offuscare la memoria di qualche grande personaggio inglese, e naturalmente non hanno nessun piacere che vengano svelate verità fino a ora sconosciute e inimmaginabili.»
«Soltanto un esempio, Laura», interloquì Oswald, rivolto alla giovane scrittrice. «Tutti sapevano del genocidio, tutti sapevano che milioni di ebrei venivano ridotti allo stremo nei campi di lavoro e poi condotti a morte nei locali di sterminio. Ma c’è chi sostiene che Heidrich, il capo del famigerato Rsha, il servizio segreto nazista, abbia offerto per conto di Hitler l’espatrio a cinquecentomila ebrei tedeschi e polacchi, poco prima che iniziassero le persecuzioni. E sai che cosa sembra gli sia stato risposto dai vertici alleati? Di tenerseli pure, visto che nessuno avrebbe saputo dove metterli nell’Europa in guerra.»
«In quel sommergibile possono essere custoditi questo e molti altri segreti», confermò Pete. «E non credi, Laura, che ci possano essere diverse persone pronte a tutto perché l’U115 rimanga per sempre negli abissi del mare?»
La giovane annuì, intenta, mentre Oswald sembrava indicare con un cenno della testa un punto nell’acqua scura. «Fate finta di niente», disse. «Ma temo che ci stiano tenendo gli occhi puntati addosso. È meglio non parlare se non in luoghi aperti, quindi adesso fate finta anche voi di guardare il mare, là sotto.»
«Spero che la mia presenza possa mettere loro i bastoni fra le ruote», riprese Pete, quasi rispondendo allo sguardo interrogativo di Laura. «Ammesso che non conoscano già il mio ruolo nella ditta, lo sapranno di sicuro entro poche ore. Se un alto funzionario della CIA s’interessa a un’operazione, non ci sono molte persone che possano avere convenienza a intralciarlo. Se invece, in questo caso, ci sono, bisognerà scoprirle e impedire loro di nuocere più di quanto non abbiano già fatto.»
Londra. Aprile 1995.
Il capo del servizio segreto di Sua Maestà Britannica era in evidente imbarazzo. Lo sguardo del primo ministro non si staccava dal suo viso. Gli occhi, ingigantiti dalle spesse lenti, esprimevano incredulità mista a rabbia.
«Ha visto giusto, signore», ammise, avendo deciso di arrivare al dunque il più in fretta possibile. «Ma ricorda quello che è successo in Italia qualche anno fa? Una loggia massonica deviata è riuscita a fare proseliti tra le forze dello stato, ramificandosi all’interno di tutte le istituzioni e minandole alla base. E lei ha ragione: pare che qualcosa di analogo sia successo anche in Gran Bretagna. Gli esponenti più retrivi delle forze armate e di qualche servizio di informazioni sembrano avere tutti un unico punto di riferimento: un’associazione segreta denominata Lobby di Trafalgar.»
«Già. Proprio per questo abbiamo inventato lo specchietto per allodole della fiscalizzazione degli oneri per il recupero dell’U115. Qualcuno sembra esserci cascato. Ma il punto è: di quanto potere dispongono?» chiese il primo ministro.
Poteva sembrare una domanda difficile e al tempo stesso superficiale, ma il capo del servizio segreto sapeva ormai fin troppo bene dare un valore preciso alle richieste dei politici. «Controllano soltanto una formazione di paracadutisti e alcuni personaggi sparsi tra esercito, marina, aviazione e servizi. Ma sembrano disporre di mezzi economici praticamente illimitati.»
Quindi, fatta una breve pausa a effetto, riprese: «A capo della Lobby di Trafalgar c’è Sir Robert Rustom, presidente e maggior azionista singolo della North Pole Oil».
Il premier si lasciò sfuggire una colorita esclamazione di stupore. «Il figlio dell’ammiraglio Rustom?» E tacque per qualche istante, riprendendo in tono meditabondo: «Del resto, perché, altrimenti, proprio lui si sarebbe precipitato a rispondere per primo all’offerta?»
«Sì, precisamente il figlio di un eroe dell’ultima guerra, il consigliere militare del suo predecessore di allora», confermò il capo dell’MI5.
«Risolva la questione, Mr. Pratt. Ha carta bianca. Ma nella massima riservatezza, s’intende. Nessuno deve sapere niente. Dal canto mio, informerò la regina soltanto a operazione conclusa.»
Mar dei Caraibi. 5 settembre 1622.
Le sembrò una fortuna impagabile scoprire la polla d’acqua dolce a pochi metri dalla spiaggia. Antonia si voltò, scrutando attentamente tra le mangrovie. Quando fu certa che nessuno poteva vederla, si sfilò quanto rimaneva dei suoi laceri indumenti e si immerse. Aveva bisogno di lavarsi di dosso sudiciume e salsedine ma soprattutto la paura e la stanchezza. Soltanto quando stava per uscire dal laghetto si accorse della presenza del cardinale. La stava guardando con occhi da cui trasparivano sentimenti ben lontani dalla devozione ai sacri voti. Un attimo d’imbarazzo, poi de Blasi si affrettò ad abbassare lo sguardo, chiedendo in un tono che non riuscì ad apparire tranquillizzante: «Non avrete timore di un uomo di Chiesa, Antonia?»
«No di sicuro, Eminenza», rispose prontamente la giovane. «Però allontanatevi e voltatevi, per favore, finché non mi sarò rivestita.» Il cardinale si affrettò a obbedire, con un sorriso che pareva carico di comprensione, ma Antonia continuò per tutta la giornata a sentirsi addosso quello sguardo ambiguo.
Alle prime ore della sera il vento calò improvvisamente, così come si era levato, e i quattro naufraghi si accinsero a trascorrere una seconda notte all’aperto. Crollarono nuovamente in un sonno profondo, esausti.
Furono svegliati dal sole già caldissimo del primo mattino. Vasted si rivolse alla giovane con estrema gentilezza, dicendo: «Juan e io andremo in perlustrazione. Staremo probabilmente via fino a sera. Credo sia meglio che voi e il cardinale vi nascondiate tra la vegetazione ad aspettare il nostro ritorno. Non sappiamo ancora chi possa popolare queste coste, ed è meglio evitare spiacevoli sorprese».
Antonia si lasciò guidare verso una macchia di cespugli fitti, che formava una vera e propria caverna di verde, capace di ospitare diverse persone, oltre che, per grazia di Dio, di sfamarle abbondantemente con i suoi frutti. Ma tornò subito sulla spiaggia a seguire con lo sguardo i due uomini, fino a che non scomparvero alla vista.
«Sono andati?» chiese de Blasi, non appena lo ebbe raggiunto nell’anfratto verde. La giovane annuì, mentre l’altro continuava: «Desidero esprimervi la mia gratitudine, signorina Llobet. Senza le vostre cure non sarei probabilmente sopravvissuto. Ma purtroppo temo che questa gamba abbia subito gravi danni». E così dicendo rimboccò i brandelli della tonaca, mettendo in mostra la gamba destra scarna e pelosa.
E di nuovo ad Antonia non poté sfuggire lo sguardo lubrico del cardinale, fisso sulla sua scollatura.
«Vi prego, signorina: controllate che non vi sia niente di rotto.»
«Io posso certamente assistervi, Eminenza, ma non diagnosticare fratture o contusioni», replicò la giovane, cercando di prendere tempo e di stabilire le opportune distanze. Quegli occhi subdoli e penetranti non le erano mai piaciuti, fin dalla prima volta che li aveva visti, ma dal giorno precedente avevano addirittura cominciato a riempirla di angoscia.
Il movimento fu rapido, quasi come l’attacco di un serpente. Antonia si trovò addosso due mani che la frugavano sotto gli stracci. Provò a divincolarsi, ma senza successo. In un attimo si trovò stesa a terra, con il cardinale addosso. Nonostante l’età e il fisico macilento, sembrava dotato della forza di un uomo molto più giovane e prestante. Per quanto si sforzasse di allontanarlo da sé, la giovane non riusciva a liberarsi.
Ma finalmente, divincolata la gamba destra con la forza della disperazione, la frappose tra il suo corpo e quello del porporato. E con gli ultimissimi residui di energia riuscì ad allontanarlo finalmente da sé quanto bastava per sfuggirgli.
Il prelato sembrava pazzo di rabbia. Lo vide impugnare uno stiletto con due occhi da folle in un viso paonazzo. Fu soltanto il terrore ad aiutarla a muoversi con tanta rapidità. In un attimo fu in piedi, scartò di lato, evitando il cardinale che cercava di sbarrarle il passo, e si precipitò fuori dalla fitta vegetazione. Sapeva che l’avrebbe inseguita e che, se l’avesse raggiunta, per lei non ci sarebbe stato scampo.
Si mise a correre. Ma già dopo pochi passi si sentì penetrare nella carne la sottile lama, e subito de Blasi le fu di nuovo addosso. Stranamente, non sentiva nessun dolore, pur essendo sicura di essere stata ferita, e forse addirittura in maniera grave. Nonostante i sessant’anni, il cardinale l’aveva raggiunta in pochissimo tempo, e adesso, dopo averla nuovamente fatta rotolare sulla sabbia, le stava sopra con uno sguardo terribile, in cui la rabbia incontenibile si mescolava alla libidine.
Antonia vide alzarsi la lama, già resa scarlatta dal suo sangue. Chiuse gli occhi, rassegnata, e quasi contemporaneamente sentì un colpo violento. Si rese però conto subito che non si trattava della lama destinata a lei. Non si sentiva più addosso il peso schifoso dell’aggressore. Riaprì gli occhi.
Terrorizzata, rimase dov’era a guardare i due corpi che lottavano sollevando nuvole di sabbia bianca finissima. Finché quello che sembrava un selvaggio dal fisico possente non ebbe il sopravvento e si rialzò, abbandonando il cardinale esanime sulla spiaggia.
«Presto, Antonia, per carità», ansimò lo sconosciuto con voce affannata. «Due tagliagola di Funches stanno per arrivare qui. Dobbiamo nasconderci.»
Le ci volle qualche istante per riconoscere frate Pietro in quel selvaggio coperto dal solo perizoma. Si sentì invadere da una felicità incontenibile, forse addirittura più per averlo scoperto vivo che per il fatto di essere stata salvata. Perduta ogni incertezza, si alzò, cercando istintivamente di scrollarsi la sabbia di dosso. Ma sentì le forze venirle meno, mentre una fitta alla schiena le toglieva il respiro. Senza una parola, il frate la raccolse come una bambola rotta e la riportò a braccia nel nascondiglio di fronde. Poi corse di nuovo fuori, per tornare lì trascinando sulla sabbia il corpo sempre esanime di de Blasi.
Hasar sembrava non aver subito conseguenze dal naufragio; camminava sulla battigia con un passo rapido ed elastico che rendeva difficile all’altro ammutinato stargli dietro.
«Sono sicurissimo, Hasar», stava dicendo l’altro. «L’ho visto nella catasta di legna che Funches voleva scaricare in mare, ti ripeto.
«Eravamo appena stati raggiunti dall’uragano, quando un colpo di mare ha mandato i legni a schiantarsi contro la base della maestra. Ho visto con questi occhi l’oro spuntare tra i tronchi che si sono riversati sul ponte, prima che l’albero venisse giù.»
«Il rum deve averti dato le traveggole, García», ribatté il marocchino. «La Santa Esmeralda trasportava un carico di legname. Che senso poteva avere che un tipo come Llobet cercasse di contrabbandare dell’oro, quando poteva benissimo tenerselo in Perù senza rischiare di venire scoperto e condannato, per non dire di perderlo, come è successo?»
«Ti dico che l’ho visto con i miei occhi», insistette il marinaio. «Diverse barre d’oro sparse su tutto il ponte.»
«Vabbè», tagliò corto Hasar. «Finita questa esplorazione, ne parleremo con Funches. Adesso però si tratta di capire dove diavolo siamo finiti, rientrare in terra spagnola da sfortunati naufraghi e organizzare il recupero del nostro tesoro. Quello vero, non quello che ti sei sognato tra i fumi dell’alcol.»
Antonia e Pietro rimasero nascosti, tenendo d’occhio attraverso la fitta vegetazione le due figure che avanzavano sulla spiaggia a non più di duecento passi dal loro nascondiglio.
Il cardinale accennò un lamento, e il frate si affrettò a tappargli la bocca, nel timore che potesse essere sentito dai due brutti ceffi. Ma per fortuna Hasar e il suo accolito erano abbastanza lontani, e il vento sibilava ancora con forza.
Come Dio volle, tirarono oltre, senza prestare attenzione alle tracce che l’altro gruppo di naufraghi aveva lasciato nei pressi della spiaggia.
Piattaforma petrolifera Crude Brent. Mare di Norvegia. 1995.
Per precauzione, la Deep-House era stata spostata di diverse decine di metri, e adesso sembrava sospesa nell’azzurro del mare del Nord. Dagli spessi vetri degli oblò si poteva comunque distinguere con chiarezza la curiosa sagoma della roccia che si levava prepotente dalle profondità degli abissi. Per niente al mondo Laura avrebbe rinunciato ad assistere all’esplosione. Alcuni attimi di silenzio accompagnarono il conto alla rovescia impartito dalla sala comando della piattaforma: «… tre… due… uno… zero». La voce metallica dell’altoparlante della stazione sommersa riempì l’ambiente un attimo prima che le cariche brillassero con bagliori arancioni alti non più di alcuni centimetri. Poi tutto sembrò velarsi di una foschia fittissima. L’onda d’urto diede un forte scossone alla Deep-House, quindi la fece ondeggiare sui cavi d’acciaio che la sostenevano. Poi calò di nuovo il silenzio dell’oceano.
«Come va là sotto?» chiese gradevole e quasi musicale la voce di Oswald, l’unico legame che avessero con la superficie.
«Tutto bene», rispose Laura china sul microfono. «Penso che possiate riportarci sul corno di roccia. Non appena la visibilità sarà migliorata, usciremo a verificare da vicino.»
«Buona fortuna», fu la risposta di Oswald. «Mi raccomando, Laura: cerca di essere prudente.»
«Puoi contarci», rispose la giovane scienziata, con un sorriso di soddisfazione.
Dopo qualche istante la stazione sottomarina cominciò a muoversi verso la prigione dell’U115, avvolta in un turbinio di sabbia e minuti frammenti di roccia.
Trascorsero comunque quasi due ore prima che la foschia si diradasse e che Laura e due sommozzatori potessero decidere di uscire. Indossarono la complicata attrezzatura da alta profondità, dotata di due bombole più una terza supplementare, caricate con una miscela di elio e ossigeno. Avevano a disposizione soltanto sei minuti di permanenza fuori della Deep-House.
Perlustrarono tutta la struttura in ferro: molte delle rocce si erano fermate su quella specie di tettoia, ma nella stragrande maggioranza erano scivolate via verso le profondità degli abissi. Sarebbero state sufficienti alcune giornate di lavoro dei robot subacquei, dopo di che il relitto dell’U115 avrebbe potuto essere recuperato. Laura era soddisfatta del suo operato: erano trascorsi soltanto ventiquattro giorni da quando aveva accettato l’incarico, e tra meno di una settimana il sommergibile avrebbe rivisto la luce del sole.
Dopo il rientro nella Deep-House, però, dovette rimanere quasi una giornata intera con i sommozzatori nella camera di decompressione, prima che il Gorgonia venisse a prelevarli per riportarli in superficie.
Sir Robert Rustom si aggirava per i ponti della piattaforma in uno stato di visibile agitazione. Aveva seguito l’immersione attimo per attimo, apprendendo le notizie positive circa gli effetti dell’esplosione guidata. Mentre si trovava nella sala controllo, Oswald non lo aveva perso d’occhio un solo istante.
Quando finalmente uscì dalla camera di decompressione, Laura era esausta. Per salire al suo alloggio dovette reggersi al corrimano della scaletta. Oswald la raggiunse lì.
«Adesso bisogna stare molto ma molto attenti nel sollevarlo», gli disse subito lei, riferendosi al relitto.
«Cercheremo di farlo molto lentamente», convenne Oswald.
«Cercherò», lo corresse lei, «visto che tu presidierai di nuovo le operazioni dalla stanza dei bottoni. O preferisci che mi capiti qualche incidente, proprio adesso che siamo arrivati alla fine?»
«Usciamo», la interruppe immediatamente Oswald. Laura capì che non poteva evitare di seguirlo, malgrado la terribile stanchezza.
Salirono fino alla piattaforma di atterraggio, dove, dopo essersi guardato più volte cautamente attorno, Breil riprese: «Sai chi era l’ammiraglio Francis Rustom?»
«Un parente del tuo odioso presidente, immagino», rispose lei di getto.
«Precisamente. Ma oltre a essere il padre di Robert Rustom, è stato il consigliere militare del primo ministro britannico per tutta la durata della guerra.» E, mentre lo diceva, si accorse con piacere che Laura lo stava ascoltando con attenzione raddoppiata.
«Come ben puoi immaginare, la sua vita era oggetto di continua attenzione da parte di tutti i servizi segreti. Mettendo insieme tutte le informazioni provenienti dalle più svariate fonti, sono riuscito a ottenere una biografia estremamente precisa. Nella vita del consigliere militare Rustom ci sono due momenti bui che le mie ricerche non riescono a chiarire. Due brevi periodi in cui sembra che Rustom sia scomparso dalla faccia della terra, entrambi di tre o quattro giorni ed entrambi mentre le operazioni belliche sembravano prossime a far capitolare una delle parti. Il primo dal 16 al 19 marzo 1941, a soli due giorni da una massiccia incursione della Luftwaffe su Londra; il secondo, pochi giorni prima che Berlino cadesse. E noi sospettiamo che in entrambe le occasioni Rustom si sia incontrato con le più alte gerarchie naziste. Nel primo caso per trattare la resa della Gran Bretagna, stremata dai bombardamenti. Resa che poi, però, non ci fu. Nella seconda occasione, invece, abbiamo motivo di ritenere che sia successo il contrario, e cioè che sia stato raggiunto un accordo segreto, in vista della caduta del Reich.»
«Fammi capire bene. Sei convinto che sia stato nientemeno che Robert Rustom a organizzare i sabotaggi, per proteggere la memoria di questo suo paparino che aveva il vizio di negoziare con il nemico?» chiese animatamente Laura.
«Precisamente. E credo anche che non stia agendo da solo, sebbene con ogni probabilità il suo interesse si fermi qui. Ma sono convinto che a questo punto subentri qualcosa di più grosso e misterioso. Molto grosso e molto misterioso. Che solleva il vero problema. Ovvero: che cosa è stato concesso ai nazisti? Qual è stato l’oggetto delle trattative, e perché si è ritenuto necessario negoziare proprio quando Berlino era stretta nella morsa dell’avanzata dei russi? Sono convinto che le risposte a queste domande, almeno in parte, verranno proprio da quello che troveremo nell’U115.»
Laura non fece nessun commento. A parlare per lei era la sua espressione, al tempo stesso ammirata e sbalordita.
Mar dei Caraibi. 1622.
Vasted e Juan tornarono al nascondiglio correndo. «Ci siamo imbattuti nei due tagliagole che si aggiravano qua attorno», spiegò il giovane ufficiale. «Hanno pagato per la vita dei nostri compagni», concluse seccamente. Ma soltanto in quel momento si accorse della presenza di Pietro e del cardinale, legato e imbavagliato.
«Dio sia lodato», esclamò con un’evidente espressione di piacere. «Bentornato tra i vivi, fratello! Ma volete spiegarmi che cos’è successo durante la nostra assenza?»
Fu Antonia, nonostante l’estrema debolezza provocatale dalla perdita di sangue, a rispondere. «Quell’uomo che ambirebbe al titolo di santo», disse, indicando il livido de Blasi, «ha cercato… Sì, prima ha cercato di usarmi violenza e poi, visto che non ci sarebbe riuscito, ha pensato che da viva sarei stata una testimone pericolosa.»
«Avrà anche lui quello che si merita, se mai riusciremo a ritornare nel mondo civile», disse Vasted guardando il cardinale con disprezzo. «Adesso però dobbiamo sbrigarci. Dubito che quei due fossero gli unici membri dell’equipaggio scampati, sicché, non vedendoli tornare, i loro compari li verranno di sicuro a cercare. Juan e io abbiamo scoperto che ci troviamo su un’isola. Dobbiamo andare via da qui, cercare di costruire una zattera con cui raggiungere la terraferma… Ma voi siete ferita, signorina Llobet!»
«Temo che la lama mi sia penetrata in profondità», annuì la giovane, che in quei pochi istanti si era fatta mortalmente pallida.
«Dobbiamo fare presto», interloquì il frate. «Purtroppo avete visto giusto, Vasted. Funches e altri dodici uomini, non contando i due che avete ucciso, sono riusciti a mettersi in salvo e hanno anche recuperato una delle lance della nave, alla deriva. E adesso sono accampati a circa sette miglia da qui.»
Il suolo era disseminato dei tronchi degli alberi abbattuti dall’uragano, utilissimi alla loro bisogna, ma erano comunque privi degli attrezzi e utensili necessari per costruire una zattera.
Il principe azteco cominciò subito a intrecciare foglie di palma, ricavandone legacci abbastanza solidi. Pietro e Vasted, invece, allinearono i fusti di una dozzina di alberi, che unirono l’uno all’altro con questi legacci vegetali. Infine, verificata alla meglio la solidità dell’insieme, issarono con un ramo una rudimentale vela, anch’essa fatta di foglie intrecciate. Quando gettarono la zattera in mare, era notte fonda.
Proprio in quel momento, alla luce di una grandissima luna, intravidero Funches e gli altri spuntare dalla curva della spiaggia, a circa mezzo miglio di distanza. Ne sentivano perfettamente le voci, portate dal vento che non aveva smesso un solo istante di soffiare. I brutti ceffi si accorsero della zattera soltanto quando stava per superare il varco nella barriera corallina. Per fortuna era troppo tardi perché potessero cercare di raggiungerli a nuoto. L’ultima cosa che Antonia vide furono gli ammutinati che, dopo una concitata consultazione, tornavano di corsa sui propri passi. Poi la vista le si annebbiò e perse i sensi.
«Sono sicuramente andati a recuperare la lancia della Santa Esmeralda», commentò cupamente Vasted. «Se ci avvistano una seconda volta prima che riusciamo a doppiare l’isola, ci saranno addosso entro poche miglia. Dio ci assista.»
Mare di Norvegia. 1995.
Ancora una volta Laura scomparve nell’angusto passaggio attraverso cui si accedeva all’interno del Gorgonia. Sbalordita, vide Oswald ai comandi. Prima che potesse protestare, tuttavia, Breil si affrettò a informarla: «Il pilota è stato colpito da un grave attacco di gastroenterite, per cui, se vogliamo recuperare quel sommergibile, devi rassegnarti al fatto che mi metta io ai comandi, altrimenti dovremo aspettare che si rimetta».
«Sta’ tranquilla», continuò subito dopo. «Nella sala dei bottoni c’è sempre Dayle. Non gli ho detto niente di Rustom, ma puoi star certa che lo terrà d’occhio. Il recupero dell’U115 sembra premere più alla CIA che al nostro bravo presidente».
Dopo nemmeno cinque minuti il batiscafo era già sotto il pelo dell’acqua.
Raggiunsero il luogo dove si trovava il relitto e, prima di trasferirsi sulla Deep-House, vi fecero sopra un ampio giro. Lo scafo adesso si vedeva bene in tutta la sua lunghezza, completamente liberato dal corno di roccia che lo imprigionava. I robot e gli uomini rimasti in profondità avevano provveduto a sgomberare i massi rimasti sulla struttura metallica, rimuovendo successivamente anche quella.
Al centro, sulla prora e sulla poppa del sommergibile erano stati saldati alcuni grossi anelli in acciaio, a cui sarebbero stati assicurati i cavi di recupero. Giunti all’interno della stazione sottomarina, Laura e Oswald scambiarono cordiali strette di mano con la squadra che, ultimato il suo lavoro, sarebbe tornata in superficie.
Dopo qualche minuto, infatti, all’interno della Deep-House erano rimasti solamente loro due, assistiti da tre tecnici che Laura non ricordava di avere mai avuto come compagni di immersione.
Restarono a lungo a seguire dagli oblò il lavoro degli uomini che assicuravano i robusti cavi di acciaio agli anelli saldati allo scafo. Un lavoro che sembrava interminabile. I minuti scorrevano con una lentezza esasperante. Ma finalmente venne il momento — non meno delicato — di impartire l’ordine di recupero.
Mentre guardavano con il fiato sospeso, letteralmente incollati agli oblò, il relitto cominciò a muoversi lentamente verso l’alto. Laura Joanson non seppe trattenere uno spontaneo grido di gioia, e con altrettanta spontaneità la giovane si chinò ad abbracciare il compagno di ventura.
La gioia fu però gelata sul nascere dalle pistole che videro improvvisamente apparire nelle mani dei tre uomini rimasti con loro a bordo della stazione sommersa.
«Un colpo di arma da fuoco contro le paratie», osservò Breil con straordinario sangue freddo, «farebbe disintegrare il nostro sigaro di metallo. A questa profondità, nessuno di noi avrebbe scampo.»
«Non abbiamo nessuna intenzione di spararvi, dottor Breil, ma di chiudervi nella camera iperbarica, in modo che non possiate crearci fastidi. E non credo che occorra fare uso delle armi. Conto sul vostro buon senso, dottoressa Joanson. Vi prego di accomodarvi senza fare storie.»
Laura dovette ammettere a denti stretti che colui che aveva parlato, evidentemente il capo del terzetto, aveva ragione. Una loro reazione non sarebbe servita a niente, tanto più che i tre sembravano sapere benissimo il fatto loro. Si lasciò quindi condurre docilmente con Oswald verso la camera di decompressione, senza accennare il minimo gesto di resistenza, nemmeno quando la porta stagna venne chiusa alle loro spalle.
In quel momento, uno dei tre carcerieri aveva preso il microfono e stava comunicando in superficie: «La dottoressa Joanson e il dottor Breil sono stati colpiti da embolia. Le loro condizioni sembrano gravi. Li abbiamo comunque introdotti nella camera iperbarica e tenteremo la terapia intensiva».
Oswald aveva capito che tipo di morte era stata loro riservata. Una morte terribile, intollerabile. In un impeto di furore si scagliò contro il volantino che azionava il meccanismo di apertura del portello, ma recuperò immediatamente la calma. Non c’era niente da fare. Contemporaneamente avvertì una pressione ai timpani e sentì il rumore delle apparecchiature della camera che si mettevano in azione.
La loro morte sarebbe sopravvenuta nel giro di pochi minuti per embolia gassosa, e nessuno sarebbe mai stato in grado di capire che era stata provocata artificialmente. Si voltò istintivamente verso Laura. Doveva cercare di distrarla da quello che anche lei sapeva benissimo essere il loro destino.
«C’è una cosa che non ti ho ancora detto», cominciò precipitosamente, togliendosi di tasca una scatoletta di metallo che conteneva un molare umano ingiallito. «Questo è un dente prelevato dal cadavere di Adolf Hitler nel bunker di Berlino.»
Laura lo interruppe immediatamente, mentre cominciava a sua volta ad avvertire il forte dolore alle orecchie. «Ti sembra il momento giusto?»
Oswald sembrò non averla nemmeno sentita e, rimossa agevolmente quella che sembrava un’otturazione in oro, continuò inesorabile: «Questo dente è sano, non presenta nessuna traccia di carie e non aveva alcun bisogno di essere curato. Sai che cosa significa?»
E sebbene Laura avesse annuito debolmente, andò avanti a spiegare: «Quando non sono leggibili le impronte digitali, il riconoscimento dei cadaveri avviene attraverso gli interventi effettuati sul loro corpo da dentisti, ortopedici, chirurghi e via dicendo».
Fu interrotto dalla voce di Robert Rustom, che li raggiunse forte e chiara attraverso l’altoparlante interno: «Molto bene, maggiore Breil», disse il presidente della NPO. «Un’esemplare lezione di medicina legale. Ma penso che ne avrete presto bisogno anche voi due. Della medicina legale, intendo».
Senza prestargli attenzione, Oswald riprese: «Il Führer aveva una serie di sosia, non soltanto simili a lui nell’aspetto, ma identici anche per quanto concerne qualsiasi intervento medico capace di lasciare il segno. Presentavano le stesse fratture, le medesime tracce di operazioni. Come hai visto tu stessa, persino le otturazioni dentarie corrispondevano alla perfezione… Cominci a capire il motivo di tutto questo pasticcio?» concluse, ma improvvisamente si zittì con una smorfia di dolore e fastidio. La pressione stava provocando a entrambi forti giramenti di testa.
I microfoni ad alta frequenza lo tenevano tuttavia in contatto con Rustom, là sopra, e il presidente della NPO volle dargli quella che evidentemente considerava l’ultimissima spiegazione.
«Le cose non stanno come pensa lei, Oswald. Io non sto cercando di salvaguardare soltanto il buon nome della mia famiglia, ma anche quello di tutti i vincitori della seconda guerra mondiale.»
«In che senso?» si precipitò a chiedere Breil. Rustom aveva evidentemente fretta di chiudere il collegamento e di sbarazzarsi definitivamente di loro. Era di vitale importanza cercare di guadagnare tempo in qualsiasi modo, a qualsiasi fine. Ma non nutriva speranze. Si aspettava soltanto il silenzio che avrebbe preannunciato la morte. Invece dall’altoparlante sentì uscire di nuovo la voce gelida del presidente della NPO.
«Nel bagno di follia e sangue della seconda guerra mondiale si sono verificati eventi che nessuna pace avrebbe mai potuto cancellare dalla memoria dell’umanità», rispose Rustom, probabilmente immedesimato, al cospetto della morte dei suoi nemici, nel delirante ruolo di arbitro della storia. «Tutti», continuò, «avrebbero potuto dimenticare tutto, ma un ricordo non avrebbe mai potuto essere cancellato. Quello del genocidio degli ebrei. Quindi mio padre si preoccupò di stendere un velo di silenzio sulle autentiche responsabilità per la morte di milioni di persone.»
«Corrisponde dunque a verità che l’Inghilterra si è rifiutata di dare asilo a cinquecentomila ebrei?» chiese ancora Oswald, aggrappato all’ultimissimo filo di speranza.
«Non furono soltanto cinquecentomila, e non fu solamente l’Inghilterra a lasciare ad altri il peso materiale del massacro. La penso anch’io come lei, Oswald, come immagino sia arrivato a sospettare. Temo che queste e altre verità si possano trovare documentate dentro quel sommergibile.
«Quindi adesso chiuderò la linea e rimarrò qui a godermi la fine dell’ultimo sommergibile nazista. Sarà uno spettacolo sublime. Lo pregusto già. Mi spiace perdere un così valido collaboratore e una così bella ricercatrice, ma il rispetto della storia dei vincitori ha i suoi diritti, non credete? Addio, miei cari!»
La stazione sottomarina aveva cominciato la risalita quasi contemporaneamente al relitto. Ma quando entrambe le strutture arrivarono attorno ai cinquanta metri di profondità, il lento cammino verso la superficie sembrò subire una battuta di arresto. Dopo un attimo di immobilità, tuttavia, i cavi tornarono a tendersi quasi con un lamento, riprendendo ad avvolgersi a velocità eccessiva.
«Stiamo salendo troppo veloci», disse Laura con una voce stranamente calma e professionale, cercando intanto di tergersi il naso che aveva cominciato a perdere sangue.
«Brava!» non poté fare a meno di riflettere Oswald in un impeto di ammirazione. I nervi d’acciaio di Laura non cedevano.
«Il relitto non resisterà», continuò la giovane scienziata, «e probabilmente neanche questa base sottomarina riuscirà ad arrivare in superficie sana e salva.»
La sagoma nera dell’U115 sembrò torcersi su se stessa, il rumore di ferraglia portato fino a loro dall’acqua parve l’ultimo lamento di un animale ferito a morte, poi, da poppa a poco oltre la torretta, il sommergibile andò letteralmente in pezzi, facendo sprofondare definitivamente i suoi segreti negli abissi inviolabili dell’oceano.
Oswald era ridotto a una maschera di sangue. Tese una mano verso quella di Laura e cercò di stringerla con tutta la forza che gli rimaneva: «Stiamo per morire, Laura Joanson. Non è come in uno dei tuoi romanzi: stiamo andandocene davvero».
L’ultima cosa che la giovane avvertì fu un formidabile scossone nella struttura della base sottomarina. Un pezzo del relitto, pesante diverse tonnellate, era andato a sbattere con violenza contro la parete della Deep-House, provocando una grossa falla. L’acqua penetrò all’interno con un sibilo furibondo, facendo letteralmente esplodere la stazione pressurizzata.
La Habana. Cuba. 6 settembre 1622.
Il marchese di Cadereita stava tenendo una riunione con i comandanti delle navi che erano riuscite a raggiungere il porto. All’appello mancavano ben otto delle ventotto imbarcazioni che componevano la Flota de Tierra Firme. Tra di esse spiccavano i nomi della Santa Margarita e della Nuestra Señora de Atocha, i due galeoni carichi di uomini e, soprattutto, di oro. Quello del 1622 sarebbe stato, per la marineria spagnola, uno dei più gravi disastri mai verificatisi in termini di vite e carico andati perduti.
Alcuni equipaggi avevano visto la Santa Margarita, spinta dalla furia dell’uragano, dirigere verso una delle isole che costellano il sud della Florida. L’ammiraglio ne dedusse che anche l’Atocha doveva avere seguito la stessa rotta, visto che navigava affiancata all’altro galeone.
Due giorni più tardi la nave ammiraglia, la Nuestra Señora de Candeleira, uscì nuovamente in mare aperto, con a bordo una valente schiera di pescatori di perle e tutte le attrezzature necessarie per il recupero. Facevano parte del piccolo convoglio altre sei navi, scelte tra quelle che avevano subito meno danni nel corso del tremendo uragano.
L’isola di Cuba stava scomparendo all’orizzonte, quando la vedetta sull’albero dell’ammiraglia lanciò l’allarme: «Due vele in vista da sud, battono bandiera spagnola». L’ammiraglio ordinò di disporre la prora al vento, in modo da consentire che le navi non identificate raggiungessero la flottiglia dei soccorritori.
Come si furono accostate, Cadereita riconobbe immediatamente Francisco Llobet nella figura in piedi sulla lancia che remava verso l’ammiraglia. Era l’ombra di se stesso: un uomo disperato, alla disperata ricerca dell’unica figlia, scomparsa in un mare sterminato.
«Abbiamo avvistato la Santa Esmeralda più o meno in questa stessa posizione», gli disse Cadereita, non appena il mercante fu salito a bordo. «Ho avuto la sensazione che sul galeone qualcosa non andasse per il verso giusto, ben al di là della leggera epidemia di cui mi parlò il señor Vasted. Successivamente, quando ho cercato di affiancarla per capire che cosa stesse succedendo, la Santa Esmeralda non era più nel convoglio. Poi è arrivato l’uragano, e capirete che non ho avuto tempo di occuparmene.»
«Qual era la sua posizione, ammiraglio, prima che la perdeste di vista?» chiese Llobet, affranto.
«Eravamo al traverso della Florida, in rotta verso Bermuda. Se si sono salvati, in questo momento devono essere dispersi in questi mari. Nessuno degli equipaggi della Flota ha più avvistato la Santa Esmeralda.»
«Ho solamente una figlia, ammiraglio», disse il mercante con una voce rotta dalla disperazione, «e non mi darò pace finché non l’avrò trovata. Fossi certo che lei non c’è più, non credo che avrei il coraggio di continuare vivere. Vedete, ho passato la vita ad accumulare ricchezze, trascurando le cose veramente importanti. E, improvvisamente, a soli tre giorni dalla partenza della Santa Esmeralda, mi sono reso conto che cosa fosse quel peso che gravava sul mio cuore. Ho deciso così di imbarcarmi su queste mie navi in partenza e di dirigere verso Cuba per continuare il viaggio al fianco della mia adorata figlia. La potenza dell’uragano ci ha soltanto sfiorato, ma ha colpito quanto mi è più caro. Oggi mi accorgo di quanto abbia sbagliato e prego Iddio che mi conceda di fare ammenda per la mia condotta.»
Commosso, il marchese lo abbracciò. Aveva visto l’uragano, e sapeva che sarebbe stato difficile trovare superstiti; tanto meno trattandosi di una giovinetta, troppo fragile — pensava — per sopravvivere alla violenza di quelle onde. I due uomini si avviarono su rotte differenti, proseguendo nella ricerca dei sopravvissuti, dopo essersi augurati vicendevolmente buona fortuna.
Il relitto della Santa Margarita fu avvistato il giorno dopo, inclinato su un fianco e adagiato sul fondo nei pressi della barriera corallina dei Cayos y Baxos del Marques. Sulla spiaggia furono trovati circa duecento naufraghi, stremati dalle fatiche e dalla fame, divorati dagli insetti. L’ammiraglio dispose il rientro dei superstiti a La Habana con una delle navi e organizzò l’immediato recupero di quanto possibile del carico del galeone.
I pescatori di perle, per la maggior parte originari dell’Isla Margarita, si immersero uno dopo l’altro, riportando alla luce preziosi manufatti, barre d’oro e d’argento. Quando non riuscivano a portare in superficie il carico, lo assicuravano con robuste funi, consentendone il recupero da parte delle barche d’appoggio.
Il marchese de Cadereita conosceva ormai a memoria il manifesto di carico del galeone. Ma era impossibile sapere quale percentuale ne fosse stata recuperata, a causa dell’incalcolabile quantità di oro e preziosi che si trovava a bordo clandestinamente. Nel corso delle operazioni, infatti, erano già venuti alla luce migliaia di lingotti privi delle stampigliature che garantivano l’avvenuto pagamento delle tasse reali.
Dopo quindici giorni i ritrovamenti andarono facendosi via via più sporadici e rari, sicché l’ammiraglio decise di concentrare gli sforzi nelle ricerche dell’Atocha, l’altro galeone che molti dei superstiti della Santa Margarita giuravano di aver visto naufragare a poche miglia di distanza.
E, in effetti, dopo due soli giorni di ricerche gli uomini di Cadereita avvistarono un moncone dell’albero di maestra dell’Atocha che spuntava dall’acqua. Il relitto appariva integro, ben visibile dalla superficie.
Le lance d’appoggio furono subito calate in mare e gli uomini cominciarono a scandagliare e a dragare il fondo. I pescatori si immersero subito dopo, sicuri del recupero di un ingente bottino. Invece non fu così: la porta blindata della stiva era chiusa ermeticamente e, sebbene i tentativi si susseguissero per l’intera giornata, non ci fu modo di accedere all’interno del grande forziere collocato al centro della nave. Nel corso della notte, poi, il vento prese a rinforzare, minacciando un nuovo uragano. Cadereita, memore di quanto era successo pochi giorni prima, preferì levare le ancore, rimandando il recupero dell’Atocha a una nuova spedizione. Effettivamente la tempesta si scatenò, ma, per fortuna, quando la flotta di salvataggio si trovava ormai al sicuro nel porto di La Habana. L’intensità fu probabilmente minore di quella della precedente perturbazione, ma le condizioni rimasero proibitive per quasi quattro giorni.
La forza del vento e quella del mare spostarono il relitto dell’Atocha dal luogo del primo avvistamento. Quando Cadereita e i suoi si ripresentarono ai Cayos y Baxos del Marques, quasi a colpo sicuro, non trovarono più niente, così come sarebbe poi successo a tutti coloro che avrebbero cercato il tesoro della Nuestra Señora de Atocha nei secoli.
Mare di Norvegia. 9 maggio 1995.
Gli elicotteri dei marines colsero di sorpresa tutti, compreso l’equipaggio della nave militare americana. Gli uomini si calarono per mezzo di cavi sulla piattaforma, mentre i grossi uccelli di metallo restavano immobili nell’aria. Erano dotati di armi leggere e tute da combattimento, ma per prendere la piattaforma non fu necessario sparare un solo colpo. L’elicottero che trasportava Pete Dayle atterrò in un secondo momento, non appena la situazione fu giudicata sotto il controllo dei militari americani.
Robert Rustom era tenuto in custodia da due di essi nella sala riunioni. Quando lo vide, Pete avanzò nella stanza con passi studiati, quasi stesse recitando una parte imparata a memoria: «Io la accuso di omicidio plurimo aggravato, cospirazione internazionale e destabilizzazione, Rustom!»
«Non capisco, Dayle», ribatté il presidente della NPO. «Non…»
«Siamo bravi almeno quanto lei a collocare microspie, Rustom», lo zittì immediatamente Pete. «E disponiamo di una registrazione perfetta della macabra conversazione che ha avuto con gli sventurati occupanti della Deep-House. Purtroppo siamo arrivati troppo tardi per salvare due innocenti.»
In quello stesso istante, senza bussare, fece irruzione nel locale un ufficiale dei marines. «Chiedo scusa, ma ho notizie di straordinaria importanza. La camera iperbarica è emersa integra a circa mezzo miglio dalla nave appoggio. Laura Joanson e il dottor Breil sono vivi, anche se in pessime condizioni, ma secondo i nostri medici se la caveranno, anche se dovranno rimanere diversi giorni in camera di decompressione.»
Pete lasciò Rustom in custodia ai suoi uomini più fidati e si precipitò all’infermeria dove erano stati ricoverati i due subacquei. I medici, però, gli vietarono con fermezza l’accesso alla camera iperbarica, dove si stavano prestando loro le prime cure. Prima di poter parlare con loro anche solo per pochi minuti avrebbe dovuto aspettare almeno ventiquattr’ore.
La concitata conversazione con i medici venne improvvisamente interrotta da una raffica di mitraglietta che giunse fino a lì distinta, amplificata dalla struttura metallica della piattaforma.
Pete corse verso la sala riunioni, dove vide il corpo riverso a terra. Lo spettacolo era raccapricciante. Rustom era riuscito a impossessarsi dell’arma di uno degli agenti scelti e si era sparato in bocca.
Sulla nave appoggio, intanto, dopo avere ripristinato il funzionamento del sistema elettronico che comandava gli argani di recupero, si stava procedendo a issare a bordo quanto rimaneva dell’U115. L’anello di prora aveva retto alla perfezione, e circa quindici metri della parte anteriore del sommergibile stavano per essere deposti sul ponte.
Mar dei Caraibi. 8 settembre 1622.
Antonia Llobet perse conoscenza alle prime luci dell’alba, nonostante Vasted non avesse mai smesso di prestarle le poche cure possibili in quella situazione. La ferita provocata dalla lama di de Blasi era molto più grave di quanto apparisse superficialmente; c’era probabilmente qualche lesione interna, e di sicuro una emorragia.
Il cardinale era stato sistemato in un angolo della zattera, con i polsi stretti da due legacci. Non aveva mai chiuso occhio, saettava qua e là uno sguardo folle e carico di odio. Il vento spingeva la zattera verso nord con una lentezza esasperante. Gli sguardi dei naufraghi erano spasmodicamente fissi su un punto dell’orizzonte alle loro spalle, in attesa che comparisse l’imbarcazione di Funches.
Fu Pietro ad avvistarla, quando il sole era già alto. Antonia, ormai in preda al delirio, era stata adagiata all’ombra della vela del rudimentale mezzo di navigazione.
Stavano ancora costeggiando l’isola, in prossimità della punta settentrionale. Gli ammutinati guadagnavano cammino a vista d’occhio. Non c’era dubbio che in breve tempo li avrebbero raggiunti. Nella concitazione del momento, nessuno si accorse che il cardinale era riuscito a liberarsi le mani e stava armeggiando con le funi che tenevano uniti i tronchi. Paradossalmente, sapeva che avrebbe avuto maggiori possibilità di scampo in mano ai rivoltosi che non sulla zattera. Quei delinquenti non sarebbero stati insensibili all’oro che poteva offrire loro in cambio della libertà, mentre Vasted e il frate lo avrebbero sicuramente condotto davanti a un tribunale che, nonostante la sua potente carica, non lo avrebbe mai assolto.
Non appena fu riuscito a recidere la fune, i legni a poppa della zattera cedettero di schianto. Vasted riuscì a trattenere Antonia e a far sì di non cadere in mare con lei, mentre Juan e Pietro riguadagnavano agevolmente la parte di zattera che non aveva ancora ceduto, rimanendo lì impotenti a guardare il cardinale che nuotava in direzione della lancia degli ammutinati, e poi veniva issato a bordo ansante in un coro di urla e risate.
I fuggiaschi sapevano di non avere scampo. Funches e i suoi sarebbero stati loro addosso in pochi minuti. I tre uomini si apprestarono a vendere cara la pelle, sicuri di morire.
Le due navi che doppiarono improvvisamente la punta dell’isola sembrarono un miraggio, una fantasia delle loro povere menti sconvolte. Contemporaneamente, nella direzione opposta, videro la lancia degli inseguitori arrestare la sua corsa e accennare un goffo tentativo di fuga. Era la salvezza. La più insperata delle salvezze.
Lo spettacolo offerto dalle due imbarcazioni non poteva lasciare adito a dubbi. Da una, con a bordo una donna evidentemente malata o ferita, arrivavano disperati cenni di richiamo. L’altra invece tentava di scappare. La prima bordata costellò di spruzzi il mare a pochi metri dalla prua degli ammutinati, che tuttavia non si fermarono ma cercarono di raddoppiare la forza sui remi.
I già scarsi dubbi si trasformarono in certezza. La seconda bordata centrò in pieno l’imbarcazione, non lasciando superstiti. Dopo pochi minuti, i naufraghi della zattera vennero raccolti, e fu lo stesso Llobet ad aiutare a issare a bordo sua figlia. Antonia non aveva mai ripreso conoscenza e fu affidata alle cure del medico che per fortuna il mercante aveva provveduto a portare con sé.
Llobet si inginocchiò sul ponte per pregare Dio che sua figlia riuscisse a salvarsi. Nonostante fossero stremati, Vasted e frate Pietro si inginocchiarono al suo fianco. Dopo circa un’ora il medico li raggiunse. «Signor Llobet», disse, «vorrei parlare con voi in privato.»
Il mercante si lasciò condurre in disparte, e l’altro continuò: «Vostra figlia è stata gravemente ferita da una punta acuminata che temo abbia perforato un polmone. C’è un’emorragia, e la giovane ha già perso molto sangue. Dovete farvi coraggio, signor Llobet. Non credo che la poverina riuscirà a sopravvivere».
Francisco Llobet era un uomo forte, abituato al rischio, ma a una simile notizia si sentì venire meno. Stretta la testa tra le mani, mormorò quasi inaudibilmente con il viso rigato di lacrime: «Perché, allora, sarei riuscito a trovarla? Mio Dio, Nostro Signore, ti prego, fa’ che viva. Prendi la mia vita, piuttosto. Oppure, giuro che dedicherò solamente a lei tutto il tempo che vorrai lasciarmi da vivere».
Quindi si allontanò lentamente, solo e a capo chino.
«Dio», continuò tra sé, «sono sicuro che oro e ricchezze non possono interessare alla Tua immensa misericordia, ma sai che la mente dell’uomo può esserne accecata. Con la Santa Esmeralda è andata perduta la maggior parte del mio patrimonio. Ma Ti giuro solennemente che, se Antonia vivrà, non tenterò nessuna operazione di recupero. Abbandonerò il mondo degli affari e renderò la libertà a tutti i miei schiavi.»
Piattaforma petrolifera Crude Brent. Mare di Norvegia.
Maggio 1995.
Pete si chinò sul viso esangue di Laura, adagiata su uno dei due lettini della camera iperbarica. Sotto le narici e nelle orecchie si vedeva ancora qualche traccia di sangue rappreso.
La giovane aprì finalmente gli occhi, in uno stato di evidente confusione. «Dove sono?» chiese con un filo di voce.
«Sei al sicuro, Laura», rispose Pete. «Sta’ tranquilla. Te la caverai.»
«Oswald, dov’è Oswald?» chiese ancora lei, con una voce appena udibile ma gonfia di angoscia, puntandogli addosso due occhi sgomenti.
Pete si fece da parte, lasciandole libero il campo visivo. Nel secondo letto della camera di decompressione, l’ufficiale del Mossad girò a sua volta la testa verso di lei, con evidente difficoltà ma anche lui vivo.
«Ve la siete vista veramente brutta», riprese il dirigente della CIA. «Ed è colpa mia. Mi sono allontanato dalla piattaforma per cercare di attirare in trappola Rustom. Credevo di poterne seguire tutte le mosse da lontano, attraverso le microspie, ma ci siamo accorti troppo tardi di quello che stava combinando. Eravamo appostati su una portaelicotteri americana a sole venti miglia da qui. Non appena abbiamo intercettato le vostre conversazioni ci siamo precipitati. Ma avrei dovuto essere più prudente, non muovermi dalla sala comando. È solo grazie a un miracolo se adesso posso parlarti.»
Quindi, dopo una breve pausa, riprese: «La Deep-House si è disintegrata quando si trovava a circa cinquanta metri di profondità. Ma per fortuna la camera iperbarica interna, dove eravate stati chiusi, non ha subito danni nelle strutture. Quello che secondo Rustom e i suoi accoliti sarebbe dovuto essere il vostro sepolcro si è invece trasformato in una cellula di sopravvivenza a prova di alte pressioni ed è risalito verso la superficie, facendovi miracolosamente emergere proprio quando avevamo perso ogni speranza di riavervi tra noi vivi».
«Il sommergibile!» esclamò Laura, cercando inutilmente di sollevarsi su un gomito. «Che cosa ne è stato del sommergibile?»
«È stata recuperata solamente la parte prodiera. Gli esperti sono già al lavoro per analizzare il contenuto di quattro casse stagne rinvenute in una stiva, vicino alla camera di lancio. Si tratta comunque di roba di poco conto, almeno ai nostri fini. A parte alcune ingiallite foto di famiglia del Führer, che comunque provano il fatto che l’U115 era al suo personale servizio, due di esse contengono oggetti di grande valore: nientemeno che un Raffaello e diversi altri dipinti rinascimentali, soprammobili d’oro e d’argento, una collezione di tabacchiere in argento e pietre dure e altri oggetti preziosi, tra cui tre statuette d’oro antiche, di cui rimane però da stabilire l’autenticità.
«La terza e la quarta cassa, invece, sono piene di documenti, ma niente che riguardi i segreti di Hitler: sembrerebbero caso mai appunti di astronomia, o qualcosa del genere. Ci vorrà un bel po’ di tempo per capire che cosa c’è scritto. Temo che quello che non sappiamo ancora sui risvolti oscuri della seconda guerra mondiale non lo sapremo mai. È probabilmente finito sul fondo a oltre duemila metri di profondità, irrimediabilmente perduto.»
Key Largo. Florida. Dicembre 1927.
L’arcipelago delle Keys si estende per oltre centocinquanta miglia a sud della punta estrema della penisola della Florida. Il sole caldo e forte colora gli isolotti di tonalità intense. Il verde della vegetazione bassa degrada fino al bianco della sabbia corallina, per ricomporsi nei riflessi turchesi dell’acqua.
Il Siegfried I era all’ancora a poca distanza dalla costa occidentale dell’isola più grande dell’arcipelago. Era un veliero di quarantasei metri, voluto e progettato da uno dei più ricchi ereditieri dell’epoca. Siegfried Sachs, unico erede dell’impero industriale del maggior produttore tedesco di acciaio, si godeva gli ultimi giorni di sole caraibico.
Non era stato particolarmente colpito dalla notizia della malattia del padre. I febbrili impegni economici e politici del rigido capitano d’industria lo avevano completamente estraniato dalla famiglia. Il carattere del figlio, cresciuto quasi alla lettera tra quattro pareti d’oro, non poteva che esserne stato influenzato in maniera negativa. L’unico problema del viziato rampollo, nell’occasione, era infatti il rammarico di dover interrompere un periodo di vacanza dorata che si stava ormai concedendo da oltre un anno.
Il giovane Sachs non era sicuramente fatto per vestire i panni del capitano d’industria, ma, altrettanto sicuramente, il carattere autoritario e forse anche geloso del padre non lo aveva mai messo in condizione di intraprendere quella strada. Così, l’erede di uno dei più grossi patrimoni della vecchia Europa passava il tempo a spassarsela tra feste fiabesche, panfili da sogno e splendide donne. L’unica occupazione a cui Siegfried sembrava dedicarsi con passione era la ricerca accanita di qualsiasi manufatto umano sommerso, grazie al vitalizio paterno che sembrava gli fosse stato assegnato alla precisa condizione che rimanesse alla larga dalle fabbriche e da qualsiasi posto di comando nella complessa struttura aziendale creata dal vecchio Sachs.
In quel momento era dunque seduto a un tavolo sontuosamente imbandito sul ponte del panfilo, dove quattro camerieri si preoccupavano di fornire un servizio impeccabile a lui e ai suoi due ospiti.
Vista la recente serie di smacchi, Siegfried aveva deciso di sospendere le ricerche del galeone affondato e di godersi due giornate di mare, prima di rientrare in patria a soffrire i rigori dell’inverno. Come tutti i cercatori, era roso da un tarlo che non gli dava pace. La Nuestra Señora de Atocha dominava i suoi pensieri. Erano ormai quasi due anni che inseguiva il sogno di recuperare uno dei più grandi tesori di tutti i tempi. Sapeva di essere vicino a sciogliere il bandolo della matassa, ma, ogni volta che gli sembrava di aver individuato l’esatta posizione del relitto, emergeva qualche nuovo elemento a vanificare la sua ricerca. Era un’impresa a cui si dedicava anima e corpo, dallo studio di antichi volumi e cronache presso gli archivi di Siviglia alle lunghe, estenuanti immersioni senza esito.
«Maledizione, deve pur essere da qualche parte!» esclamò di punto in bianco, rivolto alla bella americana che ornava il suo tavolo. «Abbiamo perlustrato la maggior parte delle Keys, abbiamo sondato milioni di metri cubi di sabbia, abbiamo raccolto due volumi di foto aeree, ma il solo risultato sono state poche monete d’oro e qualche barra di argento ossidato.»
«Sieg, ti scongiuro», replicò la bella donna, gettando indietro i capelli. «Mi avevi promesso che almeno in questi due giorni non ne avremmo più parlato.»
«Sì, d’accordo, dannazione, ma da qualche parte deve pur essere nascosta. Magari ci siamo passati sopra decine di volte senza rendercene conto.»
«Effettivamente», interloquì l’altro commensale, «queste isole costituivano una barriera naturale insormontabile per i vascelli spagnoli che incappavano nei frequenti uragani di questa zona. Si dice addirittura che gran parte della popolazione campi di sporadici recuperi di preziosi restituiti dal mare.»
«Gli spagnoli», insistette Sachs, «ci hanno messo poche decine di anni per depredare imperi tanto ricchi da avere persino le strade lastricate in oro. E quelle ricchezze incommensurabili dovevano obbligatoriamente passare per questi mari. Spesso non sono mai arrivate a destinazione. Provate a immaginare il contenuto delle stive dell’Atocha: oro, argento e smeraldi per un valore di due milioni di pesos, equivalenti oggi a diverse decine di milioni di dollari. Senza contare che su ogni vascello viaggiava clandestinamente una quantità di preziosi il cui valore superava spesso quello del carico ufficiale.»
«Goditi questi ultimi raggi di sole, Sieg», sospirò ancora la donna. «Pensa che poi ti aspettano le nebbie, la neve e le ciminiere delle tue fabbriche.»
«Forse hai ragione, devo piantarla con questa frenesia del tesoro, che mi sta letteralmente ossessionando, e scordarmi dell’Atocha, almeno fino a quando non sarò di ritorno.»
Il mattino seguente, di buon’ora, Sachs si mise al timone del veliero e comandò di salpare l’àncora. Nonostante il suo nome e la sua potenza, il piroscafo di linea che doveva condurlo in Europa non lo avrebbe di sicuro aspettato, e aveva davanti almeno un giorno di navigazione per raggiungere Miami, da dove avrebbe proseguito in aereo per New York.
«Fermo, signore, non fate muovere la nave!» gridò improvvisamente il marinaio incaricato di seguire le operazioni a prora. Preoccupato, Siegfried arrestò immediatamente i due motori ausiliari. Quindi, lasciato il timone al comandante, corse verso la parte anteriore dell’imbarcazione. Vide subito quello che aveva provocato il grido del marinaio. Dalle marre dell’àncora pendeva una catena lunga diversi metri. Il sole traeva bagliori di un giallo intenso dall’oro di cui era composta, incredibilmente integro.
Nonostante il tremito febbrile da cui era stato preso, Siegfried non perse tempo. «Calate l’altra àncora, subito!» ordinò. «Presto, perdio, presto!»
La nave si dispose nuovamente al vento, quasi nello stesso punto dove si trovava poco prima. In un lampo vennero organizzate le operazioni di immersione.
Fu lo stesso Sachs a immergersi per primo. Indossato lo scafandro si fece calare nelle acque trasparenti e poco profonde, in preda a una curiosità senza limiti. Avvistò prima un gruppo di quattro cannoni, poi altri sei, poi altri ancora. Il relitto era sicuramente quello di un galeone, o di un’altra imbarcazione della stessa potenza di fuoco. Con il palmo aperto mosse l’acqua in corrispondenza del fusto di bronzo dell’arma. La data gli apparve chiara: 1621. Cercò ansiosamente di decifrare la scritta che si vedeva appena sopra, coperta dalla vegetazione e dai coralli.
Santa Esmeralda, riuscì a leggere. Nonostante tutto, provò un senso di delusione. Quindi si spostò cautamente tra le travi adagiate sulla sabbia, fatte probabilmente riaffiorare dal fondale da una recente tempesta. La sua attenzione venne attirata da quella che sembrava una catasta di tronchi lavorati. Il legno, corroso dal mare e dal tempo, aveva perso l’originaria solidità e compattezza.
Con un sentimento molto prossimo alla beatitudine di un orgasmo, all’interno della piramide di tronchi scorse il balenio dell’oro. Sembrò dimenticarsi di tutto, letteralmente abbagliato dalla scoperta. Dai suoi pensieri fu istantaneamente cancellato tutto ciò che non riguardava il recupero, dal viaggio di ritorno, alle condizioni di salute del padre, alle acciaierie Sachs.
Il Siegfried I rimase all’àncora ventidue giorni, nel corso dei quali il valore del tesoro recuperato andò via via accrescendosi a dismisura. Ogni sommozzatore riguadagnava la superficie portando con sé lingotti d’oro, barre d’argento, monete e manufatti di finissima realizzazione.
Sachs era in preda a un’euforia irrefrenabile. «È il giusto premio per tutti i miei sacrifici!» ripeteva senza tregua, totalmente dimentico del fatto che la sua dorata persona non sapeva nemmeno che cosa fossero sacrifici e privazioni.
Trascorsi i primi quindici giorni, i recuperi cominciarono a farsi sempre più sporadici, fino a cessare quasi del tutto nei giorni successivi. Di conseguenza Sachs decise di lasciare sul posto un segnale semisommerso, che gli consentisse di individuare con maggior facilità la collocazione del relitto della Santa Esmeralda. Sarebbe tornato non appena possibile, con nuove attrezzature ancora più sofisticate, in grado di fargli recuperare tutto ciò che non aveva ancora tirato a bordo.
Prima di abbandonare la spiaggia occidentale di Key Largo, tuttora roso dal suo tarlo implacabile, volle però immergersi un’ultima volta. Dopo diversi minuti di ricerche infruttuose notò qualcosa di verde emergere dalla sabbia. Vi affondò le mani protette dai guanti. Le ritirò dal fondo stringendo la croce di smeraldi appartenuta al messo del Papa nelle Nuove Terre. Galvanizzato dal ritrovamento, girò nuovamente attorno, con estrema lentezza, lo stretto campo visivo del casco da palombaro. Le vide a pochi passi di distanza, rovesciate e quasi completamente affondate nella sabbia, tenute vicine dai resti di quello che doveva essere stato un cofanetto di legno. Ma i visi erano scoperti. Le fattezze antropomorfe delle tre fasi lunari sembravano volerlo chiamare ma al tempo stesso irridere i suoi sforzi.
Tornato a bordo, fremente, Siegfried si sedette al tavolo sul ponte, vi dispose gli ultimi oggetti recuperati e si rivolse ai due ospiti.
«Credo che il valore del tesoro che abbiamo recuperato sia difficilmente valutabile. Ognuno di voi riceverà un milione di dollari, a patto che non si lasci sfuggire nessuna notizia del ritrovamento. Gli uomini dell’equipaggio riceveranno a loro volta una gratifica consistente, e il panfilo dirigerà senza scalo verso l’Europa, in modo da ridurre al minimo i contatti con l’esterno dei marinai, che peraltro sono gente fidata. Non credo convenga a nessuno che la notizia si diffonda.»
Così detto, Sachs si soffermò qualche istante ad ammirare la croce di smeraldi, poi prese nelle mani le Pietre della Luna e considerò ad alta voce. «Proprio quello che ci voleva. Questi tre oggetti mi serviranno per garantirmi un ottimo biglietto da visita nel mondo della nuova politica tedesca.»
«In che senso, Sieg?» chiese la bella donna.
«L’anno scorso ho avuto occasione di conoscere Adolf Hitler, un uomo che sta diventando sempre più importante e potente. Conoscendo la sua passione per tutto ciò che è antico, penso che accetterà volentieri questo mio piccolo regalo», rispose, senza distogliere lo sguardo dalle Pietre della Luna.
«Hitler non è un personaggio credibile», ribatté la donna. «I suoi sono una banda di mascalzoni che sostengono perniciose teorie politiche e razziste. E tu dovresti tenerne conto più di tutti, Sieg. La tua famiglia non è di origine ebraica?»
«È proprio per questo, e per il mio futuro nelle aziende di famiglia, che ho deciso di sposare le idee di Hitler. E quale modo migliore posso avere per dimostrargli la mia ammirazione, che fargli dono di queste tre antiche statuette d’oro?»
Il veliero si era ormai portato a est dell’arcipelago e veleggiava in direzione della terra ferma, e Siegfried, quasi delirante di gioia, ancora parlava.
«Quello che abbiamo scoperto non era il relitto dell’Atocha ma di un galeone gemello, costruito soltanto un anno più tardi negli stessi cantieri di La Habana. L’errore è stato limitare le ricerche alla costa orientale. La Flota, quando fu colpita dall’uragano, pareva avesse già oltrepassato le Dry Tortugas, a sud delle Keys, diretta verso Bermuda. Ma forse i rilevamenti dell’epoca non potevano essere del tutto fedeli. In effetti, bastava un po’ di foschia per avere un oscillazione di diversi gradi, e quindi di miglia, nella determinazione del punto nave. Anche le famose Matecumbe, che l’ammiraglio Cadereita cita più volte nel giornale di bordo, identificandole come il luogo del ritrovamento temporaneo del relitto, non sono probabilmente da mettere in relazione con quella che oggi chiamiamo Key Matecumbe, ma con una definizione riguardante l’intero arcipelago.»
La donna era ormai annoiata, ma preferiva fingere attenzione, vista la ricca ricompensa che Siegfried le aveva promesso in cambio del silenzio. Annuì dunque battendo le folte ciglia perfettamente truccate, quasi fosse incantata. L’interesse dell’altro ospite per le spiegazioni del tedesco era invece autentico.
Lo sguardo del contrammiraglio Francis Rustom, già lanciato verso i vertici della carriera politico-militare del regno britannico, si fece ancora più intento, mentre Sachs continuava: «Rimane comunque il fatto che la Nuestra Señora de Atocha si trova ancora inviolata su quei fondali. Non appena avrò sistemato le cose in Germania, tornerò a cercarla».
Purtroppo per lui e per il mondo intero, Siegfried Sachs non sarebbe mai più riuscito a mettere piede sul territorio della Florida, e tanto meno nelle sue acque.
Quando, pochi giorni più tardi, il piroscafo che lo conduceva in patria lasciò il porto di New York, salutato dal consueto coro di sirene delle imbarcazioni in navigazione nella foce dell’Hudson, il padre di Siegfried Sachs era morto da alcune ore.
Negli anni a venire, sarebbero poi avvenute molte cose terribili, che avrebbero sconvolto il mondo intero.
Buckingham Palace. Londra. 28 maggio 1995.
La cerimonia con cui venne loro consegnata l’alta onorificenza fu celebrata ai vertici dell’ufficialità, ma al tempo stesso difesa da un invalicabile muro di segretezza. La regina sedeva su una poltrona dorata, avendo alla sua destra il primo ministro e alla sinistra un eminente rappresentante della Camera dei Lord.
Oswald e Laura erano in piedi al centro della stanza. Stranamente, Laura non riusciva a sentirsi intimidita; l’aveva messa a suo agio un sorriso della sovrana, pieno di simpatia e umanità. «Brava», era parsa volerle dire.
«Ma sarà vero?» si sorprese a chiedersi. «Questa stupefacente cerimonia si sta veramente svolgendo, o me la sogno soltanto?»
Fu riscossa dalla voce del primo ministro che, giunto al termine del suo breve discorso, il capo chino in segno di rispetto, annunciava: «Ho dunque il privilegio e l’obbligo di lasciare la parola a Sua Maestà britannica».
Elisabetta II si alzò, e le sue parole risuonarono alte e sicure tra gli affreschi della sala al primo piano di Buckingham Palace.
«Dottoressa Joanson, dottor Breil, il vostro coraggio e la vostra abnegazione hanno reso al nostro paese un servigio impagabile. Grazie a voi siamo riusciti a sgominare una pericolosa trama che minacciava di minare alle basi le istituzioni del regno. Il male si era annidato in ogni luogo di potere, comando militare e ufficio, pronto ad azioni eversive tese a destabilizzare la nostra regale funzione.
«Tra i documenti riservati di Rustom è stata rinvenuta la lista degli uomini prezzolati dal capo della Lobby di Trafalgar. Non vi nascondiamo di avervi letto nomi che hanno suscitato in noi profonda meraviglia. Diremo di più: sgomento. Quindi, adesso che siamo riusciti a rimuovere dai centri istituzionali i cospiratori e a punirli, riteniamo di dover rendere grazie e merito a coloro che ci hanno concesso di salvaguardare il bene del Regno Unito.
«Siamo anche al corrente di altri fatti molto gravi, venuti alla luce nel corso della vostra operazione. Riteniamo non superfluo sottolineare che simili scoperte, peraltro non suffragate da prove inconfutabili, potrebbero avere un impatto devastante sugli equilibri del mondo civile. Chiediamo pertanto, sebbene dubitiamo sia necessario, a voi stessi e agli organismi e nazioni a cui appartenete, di mantenere l’assoluto segreto su ogni possibile sospetto circa i risvolti segreti del secondo conflitto mondiale.»
Dopo una breve pausa, Sua Maestà continuò: «Noi, regina del Regno Unito, conferiamo con profondo orgoglio la cittadinanza onoraria ai valorosi Laura Joanson e Oswald Breil e li insigniamo del titolo di Pari del Regno».
I due esperti di ricerche sottomarine chinarono la testa, mentre il viso simpatico della regina si apriva in un altro cordiale sorriso rivolto a Laura.
«Siamo a conoscenza del fatto che lei ha un’immensa passione professionale per i reperti subacquei, tanto grande da indurla a fondare e gestire a sue spese un museo in Florida. È vero?»
«È così, Maestà», rispose la giovane, compiaciuta e confusa, mentre un valletto entrava nella stanza reggendo una scatola di raso rosso.
«Questo è il nostro modo personale di ringraziarvi, Lady Laura Joanson», concluse la regina, indicando la scatola.
Le Pietre della Luna, ripulite e sfavillanti, erano perfettamente allineate sulla morbida stoffa, il cui colore ne accentuava le singolari forme.
La fredda etichetta si stava ormai sciogliendo in tonalità di pura simpatia personale. «Immagino», continuò la regina, sempre rivolta alla giovane ma rinunciando alle intonazioni solenni, e prima di tutto al regale plurale, «che lei abbia raccolto materiale sufficiente per un nuovo romanzo, Lady Laura. Devo confessarle che lo aspetto con ansia: la morte di Patricia, nel precedente, mi ha lasciato molto amaro in bocca. Mi raccomando.»