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PARTE TERZAFUOCOLa paura

10.

Hierosolyma. Governatorato romano di Giudea.

Anno 837 dalla Fondazione di Roma.

[84 d.C. (N.D.T.)]

La carovana giunse nella città a notte fonda. Clelia si era appisolata all’interno della portantina, cullata dall’andatura degli schiavi. Fu destata dal rimbombare dei passi tra le vie strette, aprì i drappi azzurri e sporse il capo per guardare. La luce di poche lanterne si perdeva nelle vie deserte, ma, nonostante l’oscurità, gli effetti della distruzione ordinata quattordici anni prima da Tito erano ancora evidenti in tutta la loro drammaticità. Dalla generale malinconia dello spettacolo emergeva tuttavia la residenza del governatore di Giudea, che le grandi torce sorrette da bracci di ferro e disposte su tutta la facciata facevano sembrare un angolo baciato dal sole.

Sestilio accolse la sacra vestale con una certa freddezza: «Do il benvenuto nella mia modesta dimora alla nobile portatrice del sacro fuoco perenne», disse. «Un legato imperiale mi ha informato della tua missione in queste terre desertiche.»

Terre che, al contrario, alla giovane apparivano dense di civiltà e storia, mentre la «modesta dimora» avrebbe potuto tenere testa a una residenza imperiale, soprattutto se confrontata con le rovine che la circondavano.

«Mi auguro», continuò il governatore di Giudea, «che la tua missione si possa svolgere in maniera proficua e al riparo dalle mille sgradevoli sorprese che sa riservare questo paese.»

Clelia trovò la frase strana e fuori luogo; le fece pensare che il governatore volesse in qualche modo mettere le mani avanti. Fu soltanto un’impressione momentanea, un brivido rapido e sinistro, ma la giovane replicò: «La tua accoglienza, governatore Sestilio, è degna della munificenza di questa casa. La Sacra Vesta abbia cura di te e del focolare domestico. Insidie e pericoli», volle tuttavia sottolineare, «si possono celare dietro ogni angolo. Ma penso che una sacerdotessa ne debba essere al riparo, e del resto so che sotto il tuo governo questi territori sono diventati sicuri. Adesso, se vuoi scusarci, il lungo viaggio che abbiamo sostenuto comincia a far sentire i suoi effetti.»

L’etichetta avrebbe previsto un cenno di profondo rispetto di fronte all’emanazione in terra di una dea. Ma Sestilio preferì trincerarsi dietro il suo solito atteggiamento marziale, evidentemente inconsapevole di quanto male si sposasse con il suo fisico non certo aitante. A Clelia era capitato più volte di trovarsi in imbarazzo di fronte all’eccesso di certi gesti di sottomissione, ma l’atteggiamento arrogante del governatore la riempì di disagio.

Non poteva sapere che la coppia di sacrileghi amanti da lei scoperti a copulare come animali nei giardini dell’imperatore aveva deciso di non correre altri rischi e di toglierla definitivamente di mezzo. E che, ancora una volta, il potentissimo senatore aveva fatto pervenire un ordine segreto al più fido dei suoi sicari, divenuto governatore di Giudea.

Roma imperiale.

Non ci volle molto perché Giunio si rendesse conto che tra le sabbie mobili della vita politica non avrebbe mai saputo destreggiarsi con la stessa abilità con cui era stato capace di affrontare il campo di battaglia o le lotte del Circo.

L’amministrazione della cosa pubblica presentava molte somiglianze con la gestione degli affari privati, ma con regole del tutto diverse; per esempio, mancare alla parola data o all’impegno preso non sembrava costituire un’onta ma piuttosto un segno di abilità. Chiunque si occupasse di politica era protetto da una sorta di immunità che lo autorizzava a compiere atti che mai sarebbero stati perdonati a un comune cittadino di Roma. In breve comprese che chi si scagliava contro la corruttela con applaudite perorazioni era spesso il più corrotto dei senatori, e chi deplorava lo stato dei costumi era solito abbandonarsi in privato alle orge più sfrenate. Sotto questo teatrale velo di ipocrisia si muovevano interessi enormi, giochi di potere, tradimenti, cospirazioni.

Un mondo che non gli sarebbe mai potuto piacere. Affrontò tuttavia l’avventura di Marzio al senato del popolo romano con la stessa costanza e serietà che metteva in ogni suo impegno, benché per la sua indole schietta non fosse certo facile calarsi in quel dedalo di mezze frasi, messaggi velati, scopi ignobili celati sotto abili giochi di parole.

Quel mattino la seduta convocata per emanare una legge era presieduta da Menenio, che si era appena assiso dopo avere brevemente introdotto l’argomento all’ordine del giorno. Sul senato era sceso un velo di silenzio. La maestosità dell’aula rendeva ancora più greve l’atmosfera solenne.

«Quid censes?» chiese il potente senatore a Marzio, quando fu chiamato a esprimere il suo voto. Qual è il tuo parere?

Atletico e slanciato nonostante gli anni anche sotto le larghe pieghe del laticlavio, il glorioso soldato parlò con voce ferma, affrontando senza alcuna emozione il suo primo intervento davanti all’assemblea.

«Io ho conosciuto nella carne il freddo dei ghiacciai», esordì. Ma, siccome i brusii non accennavano a placarsi, lasciò cadere una breve pausa, dardeggiando lo sguardo sicuro sui colleghi che, come soggiogati, finalmente tacquero. «L’ho conosciuto nella carne e nello spirito, eminenti padri. Ho visto corpi e armi dei nostri soldati riemergere integri allo sciogliersi delle nevi. Conosco lo schianto della battaglia e il valore delle genti di Roma. So come quel valore sia stato la vera forza che ha costruito, pietra dopo pietra, la potenza dell’impero più grande di ogni tempo.»

In una nuova pausa greve di significato, il suo sguardo si volse al presidente dell’assemblea. Erano due occhi fieri e implacabili, gli occhi di un uomo abituato a sfidare il nemico. «Ho combattuto per la conquista e la difesa di pochi passi di territorio, Menenio, ho visto tanti romani morire per garantire la sicurezza dei confini, per conquistare un brandello di spazio, per preservare le loro case e le loro famiglie dalla minaccia delle invasioni.»

E di nuovo si interruppe, facendo scorrere lo sguardo d’acciaio sui colleghi senatori, a uno a uno.

«Ma oggi», riprese, «una legge intenderebbe affidare le difese dell’impero alle armi degli abitanti delle province di Roma. Non ne metto in discussione il valore militare, anche se potrei farlo, e a ragion veduta. A lasciarmi perplesso sono le vere motivazioni che spingono quei soldati a combattere. Gli eminenti senatori possono certamente immaginare quanto sia diverso l’impeto di un genitore che difende i suoi figli. E i legionari romani sono appunto padri che difendono i loro figli, le loro case, le loro terre. Credono in quello che fanno perché lo fanno a difesa di quanto hanno di più caro.

«Ma potete immaginare un abitante della Giudea o dell’Egitto arroccato su una vetta alpina, pronto a esporre il petto al nemico per fare grande Roma? O per salvaguardarla? Io non posso. Chiedo pertanto che il senato del popolo romano discuta più a fondo la materia, prima di emanare il senatus consultum.»

Marzio si sedette, mentre il brusio riprendeva più forte di prima e i commenti al suo breve e incisivo discorso riempivano l’aria. I senatori sapevano che quel provvedimento era fortemente voluto dall’imperatore, preoccupato del progressivo abbandono delle colture da parte dei romani. E il senato doveva rispondere del proprio operato anzitutto al divino Domiziano. Marzio lo sapeva perfettamente, ma con quel suo intervento aveva voluto far capire subito quale sarebbe stata la sua linea di condotta in quell’assemblea.

Menenio annuì con un’espressione imperscrutabile. Aveva l’autorità di far proseguire la votazione, considerando semplicemente un voto negativo l’opinione espressa da Marzio, ma l’opportunità di metterlo subito in duro contrasto con il volere dell’imperatore gli appariva troppo preziosa per lasciarla cadere.

Dopo un attimo di silenzio trascorso in profonda riflessione, si alzò spegnendo ogni brusio con un brusco gesto del braccio. «In tutta franchezza», disse nel consueto tono ispirato, «nutro profondi dubbi circa l’opportunità di prolungare il dibattito su un senatus consultum praticamente già deciso. Comunque, visto che un autorevole senatore, un profondo conoscitore della realtà militare, sente questa nobile esigenza, dichiaro che da oggi a trenta giorni la discussione verrà riaperta.»

E sciolse la seduta con la tradizionale formula: «Nihil vos moramur, patres conscripti», «non vi tratteniamo oltre, padri coscritti».

In quel primo mese vissuto nella capitale nel suo nuovo ruolo, Giunio seguiva quotidianamente Marzio nei suoi impegni politici. Conosceva ormai a memoria il breve tratto di strada che portava dalla casa romana del suo generale al senato. Cammin facendo, erano molti i comuni cittadini che si avvicinavano al senatore; c’era chi chiedeva intercessioni, chi regalie, chi, ed erano la maggioranza, voleva semplicemente avvicinarsi e parlare a una persona di così alto rango. Marzio ascoltava con pazienza e genuino interesse: Giunio non lo vide mai trattare con sufficienza o fastidio chi gli si accostava.

Giudea.

L’attacco avvenne di notte, nel campo montato a poca distanza dalla sponda occidentale del mar Morto. Le guardie che accompagnavano la sacra vestale vennero sopraffatte quasi subito. I portatori indigeni superstiti, una quindicina in tutto, furono radunati al centro dell’accampamento. Gli assalitori ne lasciarono in vita soltanto sei, ai quali permisero di fuggire alle prime ore del mattino perché diffondessero la notizia di un attacco dei predoni del deserto.

Clelia si sentì perduta, non tanto per paura della morte, che da troppo tempo considerava alla stregua di una liberazione, ma per quanto i suoi occhi erano stati costretti a vedere. Era circondata da una quarantina di uomini, assassini capaci di massacrare a sangue freddo poveri esseri inermi.

Vide avvicinarsi quello che sembrava il capo dei predoni. Stranamente, lo sentì parlare la lingua del popolo di Roma. «Mi spiace, sacerdotessa, ma è arrivata la tua ora», le annunciò. Quindi si rivolse a un gruppo di brutti ceffi poco distanti, che vagavano tra i corpi esanimi in cerca di bottino. Stranamente, di nuovo in latino. «Uccidetela», ordinò.

Ma gli uomini dovevano avere già discusso la questione tra loro, e una catena di sguardi indicò il delegato a parlare, che si accostò al suo capo a testa china.

«Signore», disse, «per tutti noi tu sei un ottimo ufficiale, sicché non penseremmo mai di discutere un tuo ordine. L’unica cosa che ti chiediamo è che tu non voglia da noi il più grave dei sacrilegi: spargere il sangue di una sacra vestale.»

Il comandante della guardia personale del governatore di Giudea, travestito da predone del deserto, ebbe un attimo di esitazione. Prima che potesse dare sfogo alla sua rabbia, il più anziano degli uomini continuò, quasi in tono di scusa: «Non possiamo macchiarci di una colpa così grave. Anche a Roma le vestali condannate a morte vengono seppellite vive, proprio perché nessuno abbia l’ingrato compito di vibrare il colpo mortale».

Nelle sue parole c’era molto di giusto, rifletté l’ufficiale: insieme a quegli uomini aveva compiuto scorrerie nefande, portato a termine molte turpi e sanguinose congiure ordite da Sestilio. Mai nessuno di loro aveva avuto la minima esitazione. E adesso non poteva certo biasimarli se si rifiutavano di compiere uno dei delitti considerati più sacrileghi dalla romanità.

«Sepolta viva», considerò a voce alta. «Già. Ottima idea. Legatele mani e piedi. Morirà nel modo in cui gli abitanti del deserto uccidono le adultere: sepolta nella sabbia fino al collo.» Le sue labbra si torsero in un ghigno sadico, mentre spiegava a Clelia: «Proprio così, donna. In modo che i tuoi occhi possano vedere l’aggressione degli scorpioni e dei serpenti sotto il sole rovente di queste terre».

Roma imperiale.

Quella sera Marzio sembrava più pensoso del solito, anche se Giunio lo vedeva scuro in volto fin dal giorno del suo primo intervento al senato. L’effetto che quelle sue parole avevano sortito su molti senatori era stato incredibile. Gli incontri con gli altri togati si erano susseguiti senza interruzione nei venti giorni successivi al suo discorso. Non era quindi la paura di aver urtato interessi troppo grandi a crucciarlo, quanto piuttosto il dissenso che sentiva serpeggiare nel senato, un dissenso che evidentemente aveva soltanto bisogno di una guida per emergere allo scoperto.

A rendere Marzio così cupo era precisamente la consapevolezza di essere di nuovo alla guida di una battaglia. La differenza con quelle che aveva combattuto in armi nel passato era la posta in gioco: i senatori che si proponevano di stroncare lo strapotere di Menenio miravano a loro volta a governare l’impero di Roma.

Il vino mielato stava cominciando a fare effetto su Giunio, che non era mai stato un forte bevitore. Ma molti degli eminenti personaggi convenuti nella casa sembravano avere il suo stesso problema. Fu a quel punto che Marzio si alzò dal triclinio, prendendo a parlare con voce calma.

«Il fatto che ci troviamo qui questa sera deve indurci a riflettere. Personalmente ritengo che stiamo agendo nel pieno rispetto dello spirito delle leggi di Roma, lungi da cospirazioni e trame di potere. Il nostro fine è che il senato di Roma sia il senato del popolo, e non il mercato dove prosperano ristrette sfere di interessi più o meno leciti. A conti fatti, non riusciremo a raggiungere la maggioranza dei seggi; anzi ne siamo ben lontani. Ma la nostra voce si alzerà sempre alta, pronta a denunciare, a chiedere conto, a riportare l’assemblea a quei crismi di onestà morale che da troppo tempo sembra avere perso di vista.»

Nella grande sala della casa di Marzio erano riuniti almeno settanta uomini, per la maggior parte senatori o alti magistrati. Il grido che si levò unanime dai loro petti, agli orecchi di Giunio suonò simile a quello della folla nel Circo.

Giudea.

L’uomo aveva la pelle molto scura, bruciata dal sole del deserto. Teneva nella destra l’imbrigliatura del cammello, nella sinistra stringeva un bastone che gli sarebbe stato d’aiuto quando avessero incontrato le sabbie, oltre che per tenere lontani i serpenti. Sua moglie viaggiava sul cammello, quasi nascosta dalle provviste e dall’altro carico legato alle gobbe. Li seguiva un secondo animale, anch’esso carico all’inverosimile.

La donna lasciava vagare uno sguardo felice sul territorio oltre la distesa brulla che costeggia il mar Morto. Non erano certo una coppia giovane, ma le soddisfazioni tratte dalla loro unione compensavano di molto il lento declino fisico portato dal tempo. I figli, anzitutto, ma anche l’amore, il rispetto, la solidarietà di fronte a tutto e a tutti. E poi il Dio unico, il calore della fede e la certezza della vita eterna predicata da Cristo.

Aretas, così si chiamava lo scultore, abitante nella città di Petra, strattonò le briglie del primo animale. Quindi tirò una seconda volta, accertandosi che il morso facesse forza tra i denti del cammello. Il grosso ruminante, però, sembrò non voler sentire ragioni e tirò diritto su un percorso che si discostava sempre più dalla pista battuta. Aretas rinunciò a cercare di portarlo sulla via maestra e, con un sospiro, accondiscese alle sue bizze e alla sua scelta di quel percorso parallelo. Era un vecchio cammello, con alle spalle una lunga, saggia esperienza delle insidie del deserto.

Ma di lì a qualche istante capì che a spingerlo in quella direzione, più che l’esperienza, era stato l’istinto. Aveva infatti notato anche lui qualcosa che non armonizzava con la natura scabra e piatta che lo circondava: una forma tondeggiante che spuntava dalla sabbia a diversi passi da lui. Non ci volle molto perché capisse che si trattava di una testa umana. Poco più in là vide i resti di un accampamento e le tracce evidenti di una battaglia.

Clelia aveva le labbra incise da profonde piaghe, il suo viso sanguinava in più punti per effetto della lunga, straziante esposizione ai raggi cocenti del sole. Era ormai lì da qualche ora. Formiche grosse come un’unghia avevano cominciato a scavarle le carni procurandole un dolore intollerabile, finché non aveva perso i sensi.

Aretas abbandonò le briglie a poca distanza da quello che era convinto fosse un cadavere. Corse là, chinandosi su quel volto martoriato. «Moglie», ordinò trepidante, «dammi l’acqua e gli attrezzi, presto: questa infelice è ancora viva.»

Ricevutili, e accostato un panno umido alle labbra ferite, si mise subito a scavare attorno al corpo della sacerdotessa, stando attento a non colpirne le carni con la punta del badile. Quando fu certo di poterla estrarre dalla sabbia, lasciò l’attrezzo e scavò febbrilmente con le mani. La moglie, intanto, cercava di portare aiuto come poteva.

«Prendi il panno, intingilo di nuovo nell’acqua e bagnale le labbra», disse Aretas, che sapeva quali effetti devastanti avrebbe potuto avere su un corpo disidratato un improvviso eccesso di liquidi. «Poi tienile sollevata la testa», continuò. «Dio, ti ringrazio per avere guidato il mio bravo cammello in soccorso di questa sventurata. Non credo sia molto più grande di nostra figlia», concluse, nuovamente rivolto alla moglie.

Roma imperiale.

Menenio ascoltava senza prestarvi attenzione, com’era sua abitudine, i discorsi melliflui della consueta cerchia di clientes. Quando uno dei servi gli si avvicinò, parlandogli all’orecchio, non ebbe un attimo di esitazione e congedò con modi spicci la corte di questuanti o semplici adulatori che gli faceva sempre da contorno nei momenti di tranquillità.

«Che cosa aspetti?» chiese allo schiavo in tono brusco e imperativo. «Conduci qui il senatore Gracco. Spicciati.»

Arrivato al suo cospetto, Gracco si batté la mano destra sul petto e poi la tese alta nel gesto di saluto. Dal suo stato di agitazione era facile capire che era portatore di notizie importanti.

«Nessuno sospetta di me, i senatori fedeli a Marzio sono convinti che anch’io abbia sposato la loro causa…»

«Che cosa stanno tramando?» tagliò corto Menenio. «Lascia perdere i preamboli.»

«Cospirano contro l’impero e contro il senato.»

«Hai prove di quello che dici?»

«No… prove certe no. Nessuno minaccia di morte l’imperatore, però i seguaci di Marzio hanno giurato che vigileranno sull’operato della Curia con tenacia e costanza, nell’interesse del popolo di Roma.»

«E secondo te io posso andare da Domiziano a raccontargli che uno sparuto gruppo di senatori sta tramando contro l’impero perché vuole tutelare gli interessi di Roma e del popolo romano?» Lo sguardo di Menenio aveva assunto la ben nota espressione glaciale, capace di intimorire qualsiasi interlocutore.

«Sono molti», riprese Gracco. «Alla riunione in casa di Marzio eravamo più di settanta, ma pare che almeno centocinquanta tra senatori e magistrati siano pronti a schierarsi con lui… Devi fare qualcosa, prima che il dissenso dilaghi tra il popolo.»

Lo sguardo di Menenio sembrò attraversare il corpo dell’interlocutore per posarsi su uno dei dipinti greci che adornavano la sala.

«Sì», convenne, come mormorando tra sé. «Devo fare qualcosa.»

Giudea.

Clelia aveva ripreso i sensi soltanto la sera dopo. L’anziana coppia di nabatei si era alternata al suo giaciglio, posato su un tappeto al centro della tenda eretta da Aretas. Quando la videro aprire gli occhi, i due anziani sposi provarono un’emozione simile a quella che avevano vissuto al primo vagito dei loro figli. Restituire la vita era qualcosa di molto simile al procreare.

Rimasero ancora due giorni nella macchia di verde dove si erano accampati, in modo che Clelia si riprendesse quanto bastava per affrontare il viaggio, e la seconda sera Aretas decise che la temperatura era abbastanza fresca per rimettersi in cammino. Con l’aiuto della moglie fece adagiare la giovane su una barella di fortuna, che legò al cammello. La luce arancione del tramonto tingeva tutto del suo colore. La piccola carovana risalì faticosamente il crinale di un’altura brulla e sassosa. Sotto di loro si allungava la distesa immobile del mar Morto, che avrebbe fatto loro compagnia per buona parte del viaggio.

Roma imperiale.

Giunio irruppe agitato nella stanza del neosenatore, forzando la porta. Vide subito il corpo di Marzio riverso a terra accanto al letto in una pozza di sangue che si stava allargando sul pavimento di mosaico. Lo girò con la più grande cautela. Ma capì subito che non c’era più niente da fare. Nel pallore del suo volto riconobbe i segni della morte.

«Addio figlio mio, abbi cura di te…» riuscì a dire il morente con un filo di voce, poi abbandonò la testa sul braccio che lo sorreggeva e se ne andò per sempre.

Giunio l’adagiò delicatamente sul pavimento. Non riusciva ancora a capacitarsi dell’accaduto. Finché la realtà non si fece luce all’improvviso, cancellando i contorni foschi di quello che sembrava un incubo. L’uomo che amava come un padre era appena spirato tra le sue braccia. La piccola ferita che aveva sul fianco sinistro continuava a gettare sangue. Lo stiletto con cui l’assassino aveva colpito doveva essere penetrato fino al cuore.

Si sentì invadere da un furore incontenibile, da un irrefrenabile bisogno di vendetta. Un gruppo di servitori si stava raccogliendo davanti alla porta della camera di Marzio. Giunio si allontanò con le mani che grondavano sangue. Tra la nebbia che gli velava gli occhi apparve confusamente il viso di Dario, il legionario che aveva sottratto alla schiavitù nelle miniere e che, di fatto, aveva preso il suo posto nella gestione degli affari di Marzio.

«Che cosa fai, Giunio? Che cosa è successo?» chiese. Giunio, in uno stato d’animo prossimo alla follia, non lo sentì. Si precipitò nella sua stanza e diede di piglio alla spada.

La notte della città era tutt’altro che deserta. Giunio non si accorse nemmeno che la gente si tirava da parte al suo passaggio. Raggiunse il muro di cinta dell’abitazione di Menenio e lo scavalcò agevolmente.

Petra.

Aretas non le aveva permesso di abbandonare la barella, sebbene Clelia avesse ormai riguadagnato quasi completamente le forze. Sdraiata sul suo giaciglio, la giovane osservava le pareti di roccia calcarea ai lati dello stretto sentiero per il quale stavano avvicinandosi alla città.

Petra apparve improvvisa in tutto il suo splendore. I templi si ergevano maestosi nelle loro tonalità rosate, le striature della roccia in cui erano scavati creavano disegni e ombre suggestivi. Al centro della valle, come apparsa dal nulla dopo il lungo sentiero tra le pareti di roccia, si stendeva la città di case basse, botteghe, strade brulicanti di persone, carri e animali.

«Questa è la nostra città, Clelia», spiegò Aretas in un latino stentato, mentre lei si alzava sui gomiti per vedere meglio lo spettacolo. Indossava gli abiti che le aveva prestato la moglie dello scultore. «Le grandi facciate degli edifici pubblici che vedi sono state pazientemente scolpite nella roccia, così come il loro interno. In ciascuno dei templi e mausolei che ci circondano sono racchiusi secoli di lavoro dell’uomo.»

In breve raggiunsero l’abitazione della famiglia, a pochi passi da un grandioso tempio funebre, un edificio alto più di centotrenta piedi e scolpito in una montagna di pietra rosa.

I sette figli, cui in assenza del padre era stata affidata la sua bottega di artigiano scultore, fecero alla nuova venuta un’accoglienza calorosa.

«Padre», annunciò poi subito il più adulto dei ragazzi, «c’è un mucchio di lavoro arretrato da portare avanti. Grazie a Dio, sei tornato.»

Aretas sorrise indulgente al rimprovero sottinteso nella frase: «Dovrei essere io a sollecitare te ad applicarti al lavoro, figliolo, e non il contrario», replicò con affetto. «Venti giorni di assenza dei vostri genitori non credo siano un’eternità, tanto più che lo scopo del nostro viaggio a Hierosolyma era appunto rifornirci di attrezzi per lavorare.» L’anziano artigiano batté una mano sulla spalla del figlio. «Ma adesso permetti che ci rifocilliamo», concluse. «Dopo tanti giorni passati nel deserto, nutrendoci quasi soltanto di datteri, vostra madre e io non vediamo l’ora di sederci a un tavolo ben imbandito. E anche la nostra ospite, credo.»

Quando tutta la famiglia si fu riunita, i due anziani nabatei narrarono brevemente come avevano trovato e soccorso Clelia. Pur non comprendendo le loro parole, la giovane si rese conto che probabilmente gli abiti che indossava quando l’avevano estratta dalla sabbia erano talmente laceri e sudici da non permettere di identificare il suo rango. I suoi salvatori non avevano capito la sua condizione di sacerdotessa romana, e del resto, in quelle remote terre, forse nessuno avrebbe potuto riconoscere le vesti del suo sacro ufficio. Né, per il momento, le sembrava opportuno rivelarlo.

Aretas sedette a tavola, prese una forma di pane azzimo e levò alta e solenne la voce nel rendere grazie a Dio.

Roma imperiale.

La casa di Menenio era buia e molta vasta. Le quattro lucerne, sistemate agli angoli dell’impluvio, riuscivano soltanto a evocare sinistre ombre. Al piano superiore, almeno otto stanze si affacciavano sul cortile interno. Il suono cristallino dell’acqua delle fontane era l’unico rumore che si sentisse. Non gli era concesso margine di errore. Doveva individuare con assoluta certezza la stanza di Menenio. Giunio salì le scale senza fare il minimo rumore. A salvaguardia dell’incolumità degli inquilini erano stati posti due schiavi armati. I quali, però, immersi com’erano in un sonno profondo e scomposto, non potevano certo adempiere al loro incarico.

La voce del senatore gli giunse chiara. Lo sentì declamare, con stentorei toni di compiacimento, l’orazione che evidentemente intendeva pronunciare il giorno dopo davanti alla Curia. Ne distingueva perfettamente le parole: «È morto un uomo integerrimo, valoroso, sincero e giusto. Giuro davanti a voi che la mano assassina che ha colpito Marzio pagherà in modo esemplare».

La rabbia di Giunio divampò più feroce che mai. Era trascorso pochissimo tempo dall’omicidio, e già Menenio aveva pronta l’orazione funebre. Chi lo aveva informato?

L’uscio era socchiuso, lo superò silenziosamente. La luce adesso era più viva. Girato di spalle, Menenio parlava e gestiva solennemente come se fosse davvero in piedi davanti al suo seggio presidenziale. Si accorse di Giunio soltanto quando questi gli fu quasi addosso.

Il volto gli si torse in un’orribile smorfia di paura, dalla bocca gli uscì un urlo strozzato. Ma a Giunio non importò niente che avesse dato l’allarme. Voleva quella sua odiosa vita, a qualsiasi costo. Sentì le grida delle guardie, ma non se ne curò. Levò alta la destra. La spada sembrava avere perso il suo peso. Vibrò il fendente dall’alto in basso con tutta la forza della disperazione da cui era pervaso. Il colpo che lo gettò a terra arrivò nello stesso istante in cui la sua spada si abbatteva sulla testa del senatore. Prima di cadere, vide che la parte destra del volto di Menenio era stata orribilmente sfigurata e in parte asportata dal fendente. Benché l’intervento delle guardie avesse deviato la sua lama, l’indegno senatore non sarebbe probabilmente riuscito a sopravvivere. Se lo augurò di tutto cuore. Così doveva essere.

In un residuo lampo di lucidità capì che gli uomini della guardia stavano per sopraffarlo. Menando fendenti alla cieca, riuscì con un guizzo a liberarsi dal groviglio di corpi e si preparò a vendere cara la sua pelle di combattente del Circo e di soldato.

Petra.

Clelia trascorreva gran parte del tempo a osservare il lavoro nell’officina, quelle mani abili e quegli attrezzi capaci di trarre forme dalle pietre. Ogni membro della famiglia aveva un compito preciso: Aretas e i tre figli maggiori erano i veri scultori, gli altri tre ragazzi si occupavano dei lavori più semplici, mentre la cura dell’amministrazione, come quella della casa, era affidata alle donne. Ogni sera si riunivano attorno alla tavola, intrattenendosi in affettuose conversazioni, scambiandosi opinioni e consigli.

Erano passati pochi giorni dal suo arrivo a Petra, quando si sentì in dovere di dare alcune spiegazioni a quelle persone tanto buone, anche se sapeva che non sarebbe stato facile. Parlavano un latino povero, elementare, e della loro lingua aveva imparato soltanto poche parole. Cercò comunque di farsi capire quanto meglio poteva.

«Credo di dovervi dire qualcosa», esordì, rivolta alla famiglia riunita. «Di dover spiegare…»

Aretas la interruppe subito: «Non devi sentirti in debito verso di noi, Clelia. Sei figlia di Dio come noi tutti. E tanto basta perché la nostra casa ti sia aperta. Dalla scorta e dal seguito di servi che ti accompagnavano, era facile capire che sei una persona di alto lignaggio, forse appartenente all’aristocrazia di Roma. E credo anche di avere capito che forse ritieni sia meglio che a Roma ti credano morta, visto che non hai mai chiesto di essere portata dalle autorità locali del tuo imperatore».

«Gli uomini, quelli che ci hanno assalito», spiegò Clelia, «non erano veri predoni ma soldati romani travestiti.» Quindi, dopo una pausa di incertezza, riprese: «Sono una sacerdotessa, buoni amici, una vestale, se questo significa qualcosa per voi. Basti comunque dire che, nonostante la giovane età, rivesto una delle più alte cariche religiose dell’impero.

«Ma per mia sfortuna», continuò, «sono venuta a conoscenza di segreti così orribili da firmare la mia condanna a morte. Soltanto il vostro intervento e le vostre pietose cure hanno impedito che il disegno venisse portato a compimento.»

Aretas rimase in silenzio alcuni istanti, assorto, poi replicò: «Sappiamo che cos’è una vestale, anche se la nostra religione è un’altra. Sappi in ogni caso che questa nostra modesta casa è il tuo rifugio e che questi», concluse, indicando i figli, «saranno i tuoi fratelli… se vorrai».

Roma imperiale.

Non aveva idea di quanti uomini lo avessero assalito né di quanti avesse dovuto colpire, forse cinque, forse sei, prima di riuscire a riguadagnare il muro di cinta e darsi alla fuga.

La casa di Marzio era ormai vicina. Riconobbe nell’oscurità una figura familiare: uno schiavo che gli stava correndo incontro. «I pretoriani…» lo informò, cercando di riprendere fiato. «I pretoriani ti stanno cercando. Sei accusato dell’omicidio del nostro signore!»

Lui? Accusavano lui?! Aveva forse ucciso Menenio, ed era una colpa di cui sarebbe stato felice di dover rispondere, ma non era certamente responsabile della morte di Marzio.

«Che cosa dici? Calmati!» gridò, prendendo per un braccio lo schiavo e scuotendolo rabbiosamente.

«Dicono che lo hai ucciso per appropriarti del suo patrimonio. Dario ha testimoniato di averti visto nella stanza armato e con le mani grondanti sangue. Scappa, Giunio, scappa. Devi metterti in salvo!»

Accecato com’era dall’ira, non aveva riflettuto sulle conseguenze dei suoi gesti, su che cosa fare una volta compiuta la vendetta.

Comunque non perse tempo. Alle prime luci dell’alba aveva già percorso diverse miglia sulla via Julia Augustea, la strada che conduceva alla città di Luna. Era quello probabilmente l’unico luogo sicuro che gli rimaneva per nascondersi e organizzare una difesa.

Non poteva sapere quali ulteriori sventure avrebbe provocato la sua decisione.

11.

Key Biscayne. Miami. Florida. Ottobre 1995.

Gli oggetti, quasi tutti di grande valore o rarità, erano custoditi in teche di cristallo antisfondamento. Un’illuminazione sapiente li metteva nel giusto risalto.

Il Museo dei Reperti Sommersi creato con tanta passione da Laura Joanson non occupava grandi spazi, ma questo non ne limitava il pregio. La giovane esperta di ricerche sottomarine aveva cercato di dare un’esatta collocazione a quanto le mani dell’uomo avevano prima costruito e poi strappato dai fondali degli oceani, e i visitatori seguivano incantati un preciso ordinamento storico che andava da diversi manufatti greci antichi (statue, gioielli, utensili) ad alcuni pezzi di un servizio d’argento per la prima classe del Titanic, recentemente recuperati da una spedizione sottomarina.

Laura aveva appena finito di sistemare al centro della sala una teca retta da un piedistallo in mogano lucido. Si soffermò anche lei incantata a osservare come il fascio di luce alogena si rifletteva sulle superfici di oro rosso, intatte pur dopo tanti millenni. Sotto le Pietre della Luna, accanto a una breve descrizione, spiccava la dicitura: DONO PERSONALE DI SUA MAESTÀ BRITANNICA.

Una voce alle sue spalle ruppe l’incanto, citando con scherzosa solennità: «Arte preromana. Secondo millennio avanti Cristo. Probabile origine: Liguria, Italia settentrionale». E, facendosi seria, la voce concluse: «Tre oggetti veramente eccezionali».

Laura si girò con un’espressione di fierezza. Sì, certo, era fiera di quel dono regale. E come si permetteva questo… Sul petto della divisa dell’ufficiale dell’aeronautica che vide sulla soglia spiccava il logo dell’Agenzia Federale per la Ricerca Spaziale.

Pete Dayle, a cui l’operazione di recupero dell’U115 aveva evidentemente portato ulteriori benefici di carriera, entrò nella sala facendosi precedere dall’ufficiale sconosciuto.

«Laura», disse, «ho il piacere di presentarti il colonnello Kevin Dimarzio della NASA. Ho chiesto e ottenuto che si avvalga della tua preziosa collaborazione per…»

Laura sentì un inconfondibile odore di guai in arrivo.

«Per che cosa, Pete?» chiese con aria di scherzosa diffidenza, tendendo la mano al nuovo venuto e scrutandolo di sottecchi. Kevin Dimarzio aveva un bel viso maschio, che ben si accordava con un fisico atletico. Poteva avere tra i quaranta e i quarantacinque anni, molto ben portati. Gli occhi verde mare rivelavano un carattere forte e un’intelligenza viva. Certamente un bell’uomo, fu la conclusione di Laura alla fine del suo rapido ma attento esame.

«Per procedere all’analisi delle carte che hai riportato a galla», rispose prontamente Dayle, che evidentemente si aspettava la domanda.

«Pete, vorrei ricordarti che, a parte un paio di scarni mandati di pagamento emessi per qualche seminario che ho tenuto, e peraltro accreditati con discreto ritardo, io mi guadagno da vivere fuori della CIA», protestò Laura, pur rendendosi conto che il tono con cui lo diceva non era convincente. «Ti pregherei quindi», concluse comunque, «di non disporre del mio tempo come di quello della tua segretaria o di uno dei tuoi agenti. Prima di prendere impegni per mio conto, gradirei almeno che me lo chiedessi.»

«Conoscendoti», obiettò Pete, «ho pensato che non ti sarebbe piaciuto lasciare un’operazione a metà. Soprattutto dopo che hai rischiato la vita.»

«Devo restituire all’editore l’ultima bozza del mio nuovo romanzo entro trenta giorni, e nel frattempo ho due sondaggi petroliferi da seguire in Alaska. Ti sembrano sufficienti, come impegni?» ribatté Laura, decisa a non lasciarsi coinvolgere in una nuova avventura.

«Il tuo editore è un mio ottimo amico», replicò tranquillo Pete. «E le compagnie petrolifere sono talmente vicine alla Agency che possono senz’altro aspettare qualche giorno per le loro trivellazioni sottomarine. Se accetti, posso provvedere io a tutto. Inoltre, anche Oswald Breil caldeggia la tua partecipazione. Lo hai colpito profondamente. Sostiene che senza la tua presenza non sarebbe stata recuperata neanche una briciola dell’U115. Quindi, ti prego anche a suo nome…»

«Pete…» cercò di ribellarsi Laura, ma sapeva benissimo che Dayle aveva già risolto tutti quei problemi, prima ancora di chiedere il suo consenso. E, soprattutto, avvertiva, preoccupata, l’eccitazione che sempre la prendeva alla prospettiva di una nuova ricerca.

«Pete Dayle!» riprese. «Già da ragazzo ti chiamavano ‘Lenza’. Che cosa avresti potuto fare della tua vita, se non ci fosse stata la CIA? Vedo comunque che sto invecchiando: in passato sono stata capace di risponderti picche su questioni molto più interessanti. Adesso invece non riesco più a toglierti dai piedi.»

«C’è una stanza dove possiamo parlare con calma?» tagliò corto Pete.

Gerusalemme.

Oswald Breil scese dalla sedia con un leggero colpo di reni e un piccolo salto. Era poco più alto del tavolo da riunioni, ma la cosa non sembrava imbarazzarlo minimamente. Come ogni volta che presentava una relazione, fu preciso e puntuale, anche se gli avvenimenti si erano susseguiti con un ritmo da lasciare senza fiato. Il primo ministro lo ascoltò con attenzione, senza mai interromperlo.

«Così, dopo mezzo secolo di ricerche», esordì Oswald, «nemmeno questa volta siamo riusciti a trovare prove concrete sulla fine del maggiore responsabile del genocidio. E non era forse mai capitato che arrivassimo così vicini alla verità. Quel sommergibile trasportava davvero gli effetti personali del Führer verso un rifugio inaccessibile. E insieme a essi si trovavano di sicuro i documenti privati del dittatore nazista.

«Purtroppo, però, nelle casse recuperate è stato trovato soltanto qualche prezioso pezzo di arredamento. Dal canto mio, preferirei senz’altro avere un Raffaello in meno e una prova in più a conferma del fatto che il corpo scoperto nel bunker di Berlino era quello di Hitler. Mentre, se devo essere sincero, signor primo ministro, in questi anni ho accumulato una serie di indizi tali da convincermi che il capo della Germania nazista abbia continuato a vivere un’esistenza agiata e tranquilla in qualche angolo del mondo, anche senza il mirabile Raffaello finito in fondo al mare.

«Come ciascuno di noi sa fin troppo bene, dopo la fine della guerra molti caporioni nazisti, condannati come criminali di guerra, si sono rifugiati nell’America del Sud o in Africa, vivendo tranquillamente e nell’agiatezza. Figuriamoci dunque che cosa può avere fatto e di quali protezioni ha potuto godere il capo del Reich. L’idea che Hitler possa essere morto tranquillamente nel suo letto, assistito dai suoi fedeli, a me fa semplicemente orrore. Non è stato certo usato questo trattamento nei confronti di milioni di nostri fratelli.»

Oswald tacque un momento, per tornare padrone delle sue emozioni, prima di riprendere:

«Ma torniamo alla recente operazione. Non sono ancora chiari i rapporti intercorsi tra la Lobby di Trafalgar, o comunque i Rustom, e il dittatore nazista. Sulla questione sta indagando la CIA, di concerto con i nostri uomini. Francis Rustom e poi suo figlio Robert sono diventati proprietari di un impero economico di enormi dimensioni. Non credo che la sete di denaro basti per arrivare a tanto. Dev’esserci dietro qualcosa di molto più importante».

«Lobby di Trafalgar?» lo interruppe il primo ministro, spingendo gli occhiali verso la radice del naso.

«Troverete tutto nel mio rapporto, signore», rispose Oswald, limitandosi poi a spiegare per sommi capi ciò che aveva diffusamente trattato in una relazione corredata da una serie di documenti fotografici e testi di ricerche computerizzate o intercettazioni.

«La Lobby di Trafalgar nasce subito dopo la seconda guerra mondiale, o perlomeno è da allora che ne abbiamo notizia. È un’associazione segreta, composta rigorosamente da trentatré membri eletti a vita e da un capo coadiuvato da un direttivo di sei membri. Le notizie trapelate su di essa dalla sua costituzione a oggi sono pochissime. Si sa soltanto che è composta da uomini potenti, legati da un vincolo di fratellanza indissolubile. La consegna del segreto è inviolabile. C’è chi sospetta che vi siano affiliati diversi capi di stato, o almeno importanti ministri. Forse sono forzature, ma se è vero che la Lobby è stata fondata dal padre di Sir Robert Rustom quando era consigliere militare del premier britannico, vedete bene che simili supposizioni avrebbero una forte conferma.»

A quel punto Oswald aprì il suo dossier e richiamò l’attenzione del primo ministro su alcune pagine, tanto per mettersi al sicuro dall’abitudine dei politici di accumulare senza leggerlo qualsiasi tipo di documento fosse loro sottoposto. Quindi riprese: «Purtroppo, eccellenza, nemmeno in questa occasione siamo però riusciti a dare una risposta alle grida che reclamano giustizia dai lager. Ci sono ancora alcuni documenti che altre persone stanno finendo di analizzare, ma sembrano riguardare questioni di tutt’altro genere».

«Altre persone? Credevo che l’interesse per questa operazione si limitasse a noi, di concerto con la CIA», interloquì il primo ministro.

«Si tratta di documenti che sembrerebbero riguardare calcoli spaziali, o roba del genere. Sono stati affidati a un laboratorio della NASA.»

«A chi, precisamente, alla NASA?» Il primo ministro conosceva fin troppo bene i trucchi e i depistaggi che si possono mettere in atto per sottrarsi a un alleato scomodo e alla sua curiosità. Ma Breil era pronto a rispondere anche a questa domanda. Riprese a sfogliare il dossier e si fermò a una foto: «Il colonnello Kevin Dimarzio», rispose, «è un uomo NASA al cento per cento. Laurea a pieni voti in ingegneria aeronautica. Master in astrofisica al Massachusetts Institute of Technology. Uno tra i migliori allievi del suo corso di pilota, comandante del 187° stormo NATO, di stanza alla base di Southend-on-Sea, vicino a Londra. Trasferito alla NASA all’età di ventisei anni. Pilota e collaudatore di diversi progetti, ha al suo attivo diciannove voli extra orbitali a bordo della navicella Columbia. Insomma, è una specie di guru dello spazio».

«Ma nelle stanze della NASA noi non siamo ammessi, vero?» incalzò il primo ministro.

«Non soltanto noi, ma pare che da quelle parti non sia particolarmente ben accetta neanche la CIA. Hanno esplicitamente chiesto che rimanessimo tutti fuori dai piedi, ad aspettare i risultati delle analisi.»

«E lei ha lasciato due casse di documenti nazisti nelle mani dell’ente spaziale americano?»

«Pete Dayle e io siamo riusciti a imporre un nostro esperto, che seguirà i lavori punto per punto e riferirà congiuntamente alla CIA e a noi.»

«E chi sarebbe questo infiltrato nei sacri penetrali dello spazio?»

«Questa», lo corresse Oswald. «È una donna, signore. Si chiama Laura Joanson.»

«Ah, certo», prese atto il ministro con un vago sorriso. «La scrittrice che ha rischiato la vita nella recente missione di recupero.»

«Consentitemi di dire che è qualcosa di più di una scrittrice o di un’esperta di ricerche sottomarine. Se mi è concesso, signore, mi permetterei di affermare che è… una donna con le palle!» esclamò Oswald, raggiante come ogni volta che parlava di Laura.

«Bene, maggiore», lo congedò il premier, «raccomandi alla sua infiltrata dagli attributi maschili di fornire un’informazione perfetta ed esauriente anche a noi e non soltanto agli americani.»

«Certo, signore. Sarà mia premura comunicarlo a Laura Joanson non appena riuscirò a informarla che sta lavorando anche per noi oltre che per la CIA», fu lì lì per rispondere Oswald, ma si trattenne in tempo.

Key Biscayne. Miami. Florida.

Laura fece accomodare Pete e il colonnello nel suo ufficio.

«Ha esperienza di arte antica, colonnello?» chiese. «Ho notato che si interessava molto alle Pietre della Luna.»

«No, però la mia famiglia è originaria dei luoghi da cui ho visto che provengono quelle statue. I terreni attorno all’antica città di Luna sembra siano disseminati di stele simili a quelle in suo possesso. In pietra, però. È per questo che le ho riconosciute. I miei antenati si sono tramandati un’antica leggenda, legata appunto a un complesso di statue come quelle. Pare addirittura che riguardasse un mio avo illustre.»

Laura si accorse che gli occhi dell’uomo erano fissi su di lei, ma in quello sguardo non leggeva stima, nemmeno interesse, soltanto la cortese freddezza imposta dal grado militare.

Non appena ebbero preso posto attorno alla scrivania di Laura, Dimarzio attaccò: «Da un primissimo esame delle carte, sembra che si tratti di documenti e appunti dell’osservatorio astronomico di Berlino». Aprì la borsa di pelle che aveva con sé ed estrasse una cartellina contrassegnata dalla scritta MASSIMA RISERVATEZZA. Conteneva diversi numeri ingialliti di vecchi giornali e alcune foto di un elegante signore in abiti anni ’20.

«Questo è il professor Leonard Speitz, già direttore dell’osservatorio astronomico di Berlino», spiegò. «Un vero pioniere dell’astronomia e precursore dell’astrofisica. Le sue relazioni a una quantità di congressi sono ancora citate con rilievo dai libri di testo. Si ritiene sia morto durante l’assedio di Berlino. Speitz era un infaticabile osservatore dello spazio, ha scoperto molti corpi sconosciuti e stelle lontane. Negli ambienti universitari, la sua modestia era proverbiale. Amava dichiarare che entrava nei segreti del cosmo in punta di piedi, perché l’infinito non si svegliasse all’improvviso…

«Credo proprio che altrettanta modestia dovrebbero mostrare certi scienziati del nostro tempo, convinti di sapere tutto. Ma questo non c’entra, scusatemi. Comunque», proseguì rivolto a Laura, «le ho detto quanto sembra emergere da un primo esame delle carte. Penso però che ci vorranno almeno cinque settimane per esaminare e analizzare tutta la documentazione.»

«Cinque settimane?» scattò Dayle, incredulo.

«Signore, mi permetto di ricordarle che questa faccenda, sebbene mi sia stata affidata d’autorità e senza un mio preventivo accordo, è sotto la tutela della NASA e il mio personale comando.»

E, così detto, il colonnello rivolse di nuovo lo sguardo verso Laura, aggiungendo in tono di monito: «Non permetterò pertanto intromissioni o critiche ai miei metodi di lavoro».

Affermazione che non valse certamente a facilitare il proseguimento del dibattito. Quando furono usciti dall’ufficio, Laura approfittò di un momento in cui Dimarzio si era allontanato per chiedere a Pete: «E questa nuova perla dove l’avresti pescata?»

«È responsabile di un progetto NASA che studia la stessa materia di Speitz», riuscì soltanto a rispondere Pete sottovoce, prima che il colonnello li raggiungesse di nuovo. «Me lo son trovato sulla testa anch’io, non sono andato a cercarlo.»

Cocoa Beach. Florida.

Oswald aveva già capito che, per lui, il materiale recuperato era di scarsissima importanza. Le tele di enorme valore o le preziose cornici con le foto private del Führer non potevano essere di nessun aiuto per la sua ricerca.

Più di una ragione lo induceva comunque a non abbandonare del tutto le speranze e a non trascurare l’esame del materiale recuperato. Avendo lasciato per evidenti motivi il suo incarico a copertura profonda presso la North Pole Oil, era praticamente disoccupato e libero da impegni ufficiali. Inoltre, la sua celebre testardaggine gli vietava di gettare la spugna.

Diversi uomini erano morti nel tentativo di riportare in superficie il carico dell’U115, e gli sembrava che questo gli creasse quasi un obbligo di cercare, tra le poche carte in mano ai tecnici NASA, qualcosa che ne giustificasse il sacrificio. Infine, il pensiero di Laura non cessava di farlo sognare. Non che si facesse illusioni. Aveva piena coscienza del suo aspetto fisico. Ma che cosa importava? Sapeva che tra lui e la bella scienziata americana era scattata la scintilla di una profonda simpatia umana, e tanto bastava a farlo contento di averla vicina.

La villetta che voleva prendere in affitto a Cocoa Beach, poco distante da Cape Canaveral, in Florida, si stava rivelando dotata di tutti i comfort. Il grande patio dava direttamente sulla spiaggia. Sbrigate le formalità con l’addetto dell’agenzia immobiliare, posò i bagagli sul letto e si infilò sotto il getto tonificante della doccia.

Cape Canaveral. Florida. Kennedy Space Center.

«Colonnello», esclamò Laura furibonda, «vuole smetterla di trattarmi come un suo subalterno o la sua assistente di laboratorio? Le ricordo invece che sono una ricercatrice di una certa notorietà, e merito ed esigo rispetto e considerazione.»

La prima settimana di convivenza con Kevin Dimarzio aveva messo a dura prova la sua pazienza. Indossava il camice d’ordinanza, con il cartellino di identificazione sul petto. Sotto, portava un paio di pantaloni leggeri e una t-shirt bianca. L’animosità la rendeva ancora più bella. Fu forse una delle prime volte che il colonnello Kevin Dimarzio le sorrise. E, suo malgrado, Laura dovette riconoscere la perfezione quasi scultorea dei suoi lineamenti, illuminati dagli occhi chiari in cui si rifletteva la luce del sole filtrata dalle finestre del Centro Ricerche.

Stavano forse per dirsi qualcosa che non aveva niente a che fare con il loro lavoro, quando il telefono interno si mise a squillare.

«Dottoressa Joanson?» chiese la centralinista. «Mi dicono di avvertirla che in portineria c’è una visita per lei.»

«Una visita?» domandò Laura incredula. «E chi può essere venuto a trovarmi in questo posto?»

«Il dottor Oswald Breil, signora.»

«Oswald!» esclamò Laura, felice, riappendendo la cornetta. Lo sguardo glaciale — ma così singolarmente illuminato dal sole — del colonnello non si era staccato un solo istante da lei.

La saletta visite del Centro Ricerche presentava un’inquietante rassomiglianza con il salotto di attesa di un dentista: qualche vecchia rivista buttata su un tavolino, un posacenere pubblicitario della birra Budweiser sistemato immediatamente sotto la scritta VIETATO FUMARE. Il malinconico scenario era completato da alcune poltrone primi anni 70. Ma, certo, in quell’ala superprotetta della base spaziale di Cape Canaveral, le visite non dovevano essere frequenti.

Quando Laura entrò, Oswald era girato verso la finestra. Represse a stento l’impulso di prenderlo sotto le ascelle e sollevarlo, come avrebbe fatto per stringere tra le braccia un bambino. Si abbracciarono con profondo affetto.

«Come diavolo hai fatto ad arrivare fino a qui?» gli chiese, sapendo dei ben sei sbarramenti di sicurezza che dovevano essere superati per arrivare al Centro Ricerche.

«Per il figlio di un popolo abituato a far aprire le acque del mar Rosso, oltrepassare quei posti di blocco è stato un gioco da ragazzi», rispose lui, strizzando l’occhio.

«Come vanno le cose da queste parti?» chiese poi.

«Documenti, documenti e documenti… Scritti in tedesco, oltre tutto. Posizioni delle stelle a ogni ora del giorno e della notte, per trent’anni. E un diluvio di appunti. Il professor Speitz aveva la buona abitudine di scrivere minuziosamente tutto, ma purtroppo non aveva il dono dell’ordine. Mi sembrano comunque notizie di scarso interesse. Spero proprio che questa storia finisca presto. Inoltre, il mio caporal maggiore non fa assolutamente niente per rendere piacevole il soggiorno. Anzi.»

«Alludi al bel colonnello di stirpe italica?»

«Credo che Kevin Dimarzio sia il più grosso stronzo che io abbia mai incontrato!»

Ma un improvviso rumore di passi nel corridoio li costrinse a sospendere una conversazione che rischiava di assumere sempre più le tonalità del pettegolezzo. Quasi guidato da un richiamo telepatico, Kevin Dimarzio entrò nella stanza con il suo passo elastico. Stretta distrattamente la mano a Oswald dopo la presentazione di Laura, tagliò immediatamente corto:

«Dottoressa Joanson, purtroppo devo assentarmi per qualche ora. La pregherei comunque di continuare la catalogazione degli appunti anche in mia assenza».

E, senza attendere risposta, ripeté un saluto distratto a Breil e scomparve.

«Capitano tutti a te i simpaticoni», scherzò Oswald. «Forse faceva meglio a mandare un carceriere per informarci che l’orario delle visite è finito.»

12.

Città di Luna. Anno 837 dalla Fondazione di Roma.

[84 d.C. (N.D.T.)]

La via costruita da Emilio Scauro divideva la città di Luna esattamente in due. La porta che dava a oriente sarebbe stata chiusa, come ogni sera, al calare delle tenebre. Giunio era in viaggio da sei giorni e aveva volutamente evitato di percorrere la strada maestra, preferendo le sabbie dei litorali al comodo dorso della via Aurelia. Sapeva che i mendicanti e i piccoli commercianti stazionavano appena fuori le mura in attesa di rifugiarsi all’interno della città per trascorrervi la notte. Sedette quindi a terra fra loro nell’ampio spiazzo davanti alla porta. Era stremato, le gambe sembravano non volerlo più reggere. Dopo quei sei giorni di cammino estenuante poteva benissimo essere scambiato per uno degli umili personaggi tra cui si era dissimulato.

Approfittando di un momento di forte traffico, confuso tra un gruppo di quei poveretti, superò indenne il corpo di guardia — che quella sera notò essere particolarmente munito — ed entrò in città. Ebbe subito la sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto. Le strade erano deserte, mentre di solito, nelle calde sere d’estate, erano piene di gente che usciva a cercar frescura e a passeggiare lungo il decumano massimo. Niente di tutto ciò. Soltanto il silenzio e un diffuso, quasi palpabile senso di timore. La città, per lui, non aveva segreti, e vi si mosse con la massima cautela, nascondendosi negli angoli bui e controllando di continuo che il percorso fosse libero. L’imperatore aveva sicuramente messo sulle sue peste i migliori segugi e i più feroci pretoriani. Doveva stare molto attento.

«Giunio!» si sentì chiamare in un mormorio da una volta buia sulla sua destra. Trasalì, ma si tranquillizzò subito. Illuminato dai primi raggi di luna gli era comparso davanti Abis, il mercante di fiere.

«Fermati, Giunio», disse. «Non andare a casa.»

La sua espressione era sincera e, nonostante la difficoltà a esprimersi correttamente in latino, sembrava veramente preoccupato per lui.

«Sono due giorni che ti aspetto», continuò l’uomo scampato al massacro soltanto grazie al suo intervento. Giunio si sentì trascinare nell’angolo buio da cui l’egizio era emerso.

«Che cosa dici, Abis? Dove sono mio padre e mia madre?»

«Sono arrivato in porto ieri mattina», spiegò Abis. «Quasi contemporaneamente alla mia nave sono arrivati i soldati: in città stazionano più di cinquanta pretoriani mandati qui con il preciso compito di catturarti. Non si parla d’altro, e nessuno sa dove abbiano portato tua madre e tuo padre. La mia nave terminerà le operazioni di carico questa notte. Vieni con noi, è l’unico modo che hai per salvarti.»

«Ti ringrazio, Abis, ma non posso abbandonare i miei genitori nelle mani di quegli assassini.»

«Non hai scampo, Giunio di Luna, sei braccato come le fiere che trasporto nelle mie gabbie. Niente potranno i tuoi artigli contro le sbarre di ferro che stanno per chiudertisi intorno. Vieni con me: tra poco meno di un mese saremo in Africa, dove potrai rifarti una vita o aspettare che le acque si plachino per rientrare a Roma. Restando qui non faresti che peggiorare la tua situazione e quella dei tuoi cari.»

Il mercante egizio aveva ragione.

Petra. Anno 838 dalla Fondazione di Roma.

[85 d.C. (N.D.T.)]

Aretas stava terminando di scolpire la base di un capitello nella roccia rossastra. Preferiva di gran lunga lavorare direttamente la roccia viva, intagliarvi in bassorilievo le diverse parti di quei monumenti maestosi. Tutto il contrario dei figli, che preferivano rimanere nell’officina e creare nella pietra statue o fregi da trasportare successivamente alla loro destinazione. Scese dall’impalcatura che gli permetteva di lavorare a diversi piedi d’altezza.

«Ave, scalpellino!» Un modo di definire la sua professione che aveva il potere di irritarlo profondamente. Si rivolse con uno sguardo fermo al suo interlocutore: «Dimmi, Vilco, hai bisogno di qualcosa?»

Il legato del governatore di Giudea indossava una divisa troppo stretta per le sue forme tondeggianti e portava l’elmo in un modo assai poco marziale.

«Pare che la tua famiglia sia cresciuta, eh?» Il pingue romano aveva un’autentica mania per i controlli e le delazioni, e sapeva sempre ogni minima cosa su tutti gli abitanti di Petra.

«Ho portato con me da Hierosolyma la cugina dei miei figli», tagliò corto Aretas, caricandosi gli attrezzi in spalla e facendo il gesto di andarsene.

«Ma la sorella di tua moglie non è morta due anni fa?» incalzò il romano.

«Appunto, ho portato tra noi la giovane orfana. Dovevo forse chiedere il tuo benestare?» ribatté il nabateo in un tono fattosi inquieto.

«No, nessun benestare. Grazie agli dei, il governo di Roma è civile e aperto, e lascia grande autonomia agli abitanti delle province. Ma guarda come veniamo ripagati. Lo sai che qualche giorno fa alcuni predoni del deserto hanno trucidato una sacra vestale con tutto il suo seguito? Proprio sulla strada di Hierosolyma.»

«Davvero?» finse di meravigliarsi Aretas, come se la notizia non lo riguardasse affatto, e si avviò definitivamente verso casa.

«Verrò a trovarti, scalpellino», gli gridò dietro il legato del governatore.

Mare di Alessandria d’Egitto.

L’acqua aveva cambiato colore, segnalando che la costa era ormai vicina. L’idea di essere fuggito di fronte alle sue responsabilità continuava ad angustiare Giunio, sommandosi all’angoscia per la morte di Marzio e all’ansia per la sorte dei suoi genitori. In quei trentasei giorni di viaggio si era fatto crescere la barba, per rendere più difficile un riconoscimento.

L’immagine del corpo di Marzio privo di vita non abbandonava mai i suoi pensieri. Si ritrovava di continuo a fare congetture e ipotesi, nel tentativo di capire a chi appartenesse la mano assassina che aveva agito per ordine di Menenio. Nessuno degli schiavi avrebbe mai osato colpire il suo signore; al contrario, molti di loro avrebbero dato la vita per lui. Ma non aveva visto segni di lotta o di scasso, quindi l’assassino doveva essere una persona nota al senatore, in grado di arrivargli vicino senza suscitare sospetti.

Ricordò improvvisamente che a terra erano sparsi alcuni rotoli scritti. Li conosceva bene: contenevano i rendiconti delle attività che aveva creato lui stesso insieme al grande patrizio romano. Probabilmente Marzio li stava esaminando quando…

Dario! Come mai era a Roma? Soltanto Marzio o lui avrebbero potuto convocarlo lì, e nessuno dei due lo aveva fatto. Perché ci era venuto? L’immagine si fece sempre più nitida. Si rivide comparire davanti il suo uomo di fiducia mentre si precipitava sconvolto fuori della stanza di Marzio. Lui!

Si impose la calma, il ragionamento. Le sensazioni non servivano a niente: occorrevano prove. Soltanto una volta sicuro del ruolo di ogni singola persona nell’omicidio avrebbe potuto procedere alla più spietata delle vendette. Ma come indagare, adesso che era in quelle terre remote?

Abis lo raggiunse a prora. Si era dimostrato molto abile. Prima aveva disposto con grande segretezza il piano per il suo imbarco. Poi, dal porto di Luna a quello di Pozzuoli, primo scalo del viaggio, aveva preteso che rimanesse nascosto nella stiva, tra le gabbie vuote delle fiere. Infine, mentre la nave faceva provviste nella cittadina, lo aveva fatto sbarcare alla chetichella, fingendo poi di incontrarlo sulla banchina e di ingaggiarlo, presentandolo al resto dell’equipaggio come un nuovo marinaio. Sulla sua testa era sicuramente stata messa una taglia cospicua, e molti di quei brutti ceffi non avrebbero esitato un solo istante a tradirlo anche per pochi assi. Ma il bestiario non aveva avuto motivo di pentirsi della commedia inscenata: avevano incontrato mare burrascoso e vissuto momenti non facili, in cui l’aiuto del fuggiasco si era rivelato prezioso.

«A che cosa pensi, Giunio?» chiese l’egizio.

«Ai miei genitori, Abis, e a Marzio ucciso in quel modo vigliacco.»

«Per il poco che conosco i romani, ne ho viste ben di peggio. Quanto ai tuoi genitori, te lo ripeto: nella città di Luna ho sentito dire che erano stati portati via dai pretoriani, ma nessuno sapeva dove.»

«Devo trovarli, Abis. A qualunque costo.»

«Bisogna avere pazienza, Giunio», replicò l’africano. «Devi aspettare che la situazione torni tranquilla. Non sappiamo ancora se Menenio è sopravvissuto al tuo assalto. A Pozzuoli non sono riuscito ad avere notizie. Nessuno sembrava sapere niente. Ed è strano. In ogni caso, non ho voluto fare troppe domande. Avrei potuto suscitare qualche sospetto. Però non so, tra i due mali, quale sia il peggiore: un’accusa di duplice omicidio o avere ancora una volta il senatore, vivo e vegeto, alle calcagna.»

L’imponente torre del faro di Alessandria era ormai in vista. Giunio si voltò a guardare negli occhi il suo salvatore: «Credo di doverti la vita, bestiario», disse in tono di sincera gratitudine.

«Consideralo il saldo di un vecchio debito. Noi che viviamo di commercio non possiamo permettere che circolino voci di una nostra insolvenza», rispose l’altro con un sorriso cordiale.

«Per salvarmi, hai sfidato le leggi di Roma. Conosci la sorte riservata ai traditori dell’impero? Una croce poco fuori le mura, o il pozzo in un carcere da dove è impossibile uscire. Ti sarò grato per tutta la vita, Abis.»

Petra.

Aretas aveva riunito la famiglia. Il suo tono tradiva un’agitazione lontanissima dalla sua solita compostezza e calma. «Il legato del governatore mi ha fatto diverse domande in merito alla tua presenza, Clelia», disse in latino. «Sospetta qualcosa. Ha anche parlato dell’aggressione di cui sei rimasta vittima, ma credo sia un fatto del tutto casuale e che non immagini chi sei veramente. Ha comunque detto che ci verrà a trovare. Come possiamo fare? Tu non parli la nostra lingua, e i tuoi lineamenti e la tua carnagione sono molto diversi da quelli della nostra gente.»

«Volevo parlartene io stessa da tempo», rispose la giovane. «Ecco, vedi, avevo già deciso di lasciare la vostra casa. Credimi, questi giorni passati con voi sono stati meravigliosi. Ho capito di non avere mai vissuto veramente. Qui ho potuto conoscere le gioie di un’esistenza normale, tra le mura di una casa, tra gli affetti di una famiglia. Proprio per questo ho deciso che non posso rimanere. La mia presenza potrebbe rappresentare un grave pericolo per tutti voi.»

«Ci ho pensato a lungo anch’io, purtroppo», convenne l’anziano nabateo. «E sono giunto a questa conclusione. Ho un parente che possiede una bottega di panettiere ad Alessandria. Può sicuramente darti ospitalità. E tu puoi ricambiarlo con il lavoro. Ti ci accompagnerò io stesso.»

«È rischioso», obiettò Clelia. «E ormai credo di sapermela cavare da sola.»

Non finì nemmeno la frase che già Rabel, il maggiore dei figli, la interrompeva dall’angolo della stanza dov’era seduto in atteggiamento assorto. «Non ti lasceremo mai sola ad affrontare il deserto con le sue orde di predoni. Magari persino inseguita dai romani. Padre, con il tuo permesso, chiedo di poterti accompagnare.»

Lasciarono la città con le tenebre. Le torce illuminavano i templi di pietra, rendendoli ancor più affascinanti. Clelia montava il primo dei due cammelli; il velo le scendeva sul viso nascondendolo quasi completamente e lasciando in vista soltanto gli occhi color cobalto. Era vestita con gli abiti della moglie di Aretas. Speravano così di ingannare gli sguardi indiscreti della gente e, soprattutto, delle spie romane.

Alessandria. Porto del Bruchium.

Giunio prese dal ponte uno dei sacchi di cui era composto il carico. Quindi si avviò per la passerella che univa la nave al molo. Posato il sacco tra gli altri già scaricati, si dileguò tra la moltitudine che affollava le banchine. Non avrebbe mai scordato le parole che gli aveva detto Abis, salutandolo e mettendogli in mano una borsa piena di monete: «Queste sono per te. Non credo tu abbia danaro, e in queste terre che non conosci ti è indispensabile. Abile come sei, non dovresti comunque faticare a trovare un lavoro. Se un giorno dovessimo rivederci, e se potrai, me li restituirai».

Aveva accettato quello che riteneva un piccolo prestito, ma con stupore si era poi accorto che la borsa conteneva ben duecento sesterzi. Con una somma simile, un’intera famiglia benestante avrebbe potuto campare per oltre due mesi. Ormai però era troppo lontano dalla nave per restituire il danaro che riteneva in eccesso.

«Ehi, marinaio», lo chiamò alle spalle una voce chiara e imperiosa. Dal tono, capì immediatamente che si trattava di un militare. Non si girò.

«Dico a te», insistette l’altro, alzando ulteriormente la voce. «Sei sordo?»

Parole che gli diedero un’ispirazione improvvisa: continuò a camminare come se niente fosse.

Una mano energica lo afferrò alla spalla, costringendolo a voltarsi. Si vide davanti due soldati di Roma, uno attempato, l’altro un giovanetto imberbe di prima nomina. Valutò istintivamente i potenziali avversari: se fossero arrivati a uno scontro, avrebbe potuto agevolmente avere ragione di entrambi.

Il più anziano lo stava scrutando. «Chi sei, marinaio?»

Giunio emise un suono gutturale, indicandosi le orecchie. Il suo interlocutore prese a parlare a gesti e a scandire le parole: «Vuoi dire che sei sordomuto?»

Annuì con un largo sorriso ingenuo, facendo intendere che il problema era precisamente quello.

«Da dove vieni? Il tuo viso non mi è nuovo», continuò il legionario più anziano, perplesso.

Indicò a caso una delle tante navi affiancate alla banchina, sul cui ponte si vedevano gabbie simili a quelle in cui Abis trasportava le sue fiere.

«Ah, capisco. Sta’ sempre ben attento che quelle gabbie siano perfettamente chiuse.» E, così detto, il militare si esibì in una buffa mimica, scoppiando in una risata. Giunio rispose facendo il verso di un leone e, abbandonandosi a sua volta a una risata rauca, si allontanò.

Aveva fatto pochi passi quando sentì di nuovo, ancora più stentorea, la voce del legionario.

«Giunio di Luna», urlò.

Ancora una volta fece finta di niente e continuò per la sua strada.

«Come lo hai chiamato?» chiese il collega più giovane.

«Giunio di Luna, il più grande gladiatore di tutti i tempi, oltre che un esempio per tutti i nostri comandanti militari. Bah! Quel marinaio muto sembrava il suo sosia.»

Chissà che cosa avrebbe pensato, il brav’uomo, nell’apprendere che il suo eroe preferito era in fuga, ricercato per omicidio.

Una volta abbandonato il porto con questo stratagemma, Giunio si rese conto che la città pullulava di militari romani. Non era certamente un posto sicuro per lui.

Deserto nei pressi di Petra.

Le zampe dei cammelli compivano uno strano movimento nel distendersi al passo. Sembrava continuamente che gli sgraziati animali stessero per vacillare, privi di forze. Ma ogni volta gli zoccoli facevano saldamente presa nel pietrisco della strada, imprimendo a tutto il corpo e al carico un movimento ondulatorio singolarmente simile a quello di una nave in alto mare. Clelia aveva faticato ad abituarsi a tutti quegli sballottamenti, ma finalmente aveva trovato la posizione giusta. Dalla sua postazione elevata osservava i due uomini che tenevano in mano le briglie.

Non potevano sapere quanto tempestiva fosse stata la loro partenza. Il mattino dopo, la moglie e i figli di Aretas avevano ripreso da poco le normali occupazioni, quando sulla soglia videro comparire il legato del governatore.

«Dov’è tuo marito, donna?» chiese di malagrazia il romano, entrando senza chiedere permesso.

«È tornato a Hierosolyma per cambiare alcuni attrezzi che non andavano bene», mentì la donna, indicando la direzione esattamente opposta a quella in cui stavano viaggiando i suoi cari.

«E tu non sei andata con lui?» domandò l’uomo, sedutosi a gambe larghe, mentre tentava di farsi vento con alcune lamine di ferro che, sempre senza curarsi di chiedere permesso, aveva preso dal tavolo da lavoro. Ma nessun vento, nemmeno il più gelido e impetuoso, avrebbe mai potuto asciugare il sudore che gli colava dalla fronte sul viso.

«No, sono troppo vecchia e stanca per affrontare un altro viaggio a così breve distanza di tempo.»

«Strano, perché le sentinelle mi hanno riferito che ieri sera sei partita assieme ad Aretas e al tuo figlio maggiore.»

«Non ero io», ribatté prontamente la donna, sforzandosi di rimanere all’altezza della situazione, ma con la faccia invasa da un rossore che rischiava di tradirla. «Era la figlia di mia sorella, che ha chiesto di tornare a casa.»

«È un vero peccato che sia rimasta qui così poco tempo. Petra non è dunque stata di gradimento per la fanciulla dagli occhi turchini di cui si sente tanto parlare? E pensare che questa mattina ero venuto qui proprio per vederli finalmente anch’io, e conoscere la nostra nuova concittadina.»

Ma di punto in bianco i modi dell’uomo cambiarono, facendosi aspri. «Questa storia non mi piace, donna», riprese in tono minaccioso. «Ricordati che ho tanto cervello quanto grasso in corpo, e che so riconoscere a prima vista il marcio. Non vorrei che qualcuno stesse nascondendo qualcosa… chissà… Esigo spiegazioni, non appena tuo marito sarà rientrato. Anche se penso che lo raggiungerò quasi sicuramente sulla strada di Hierosolyma, dove sono stato convocato dal governatore Sestilio.» E, così detto, il legato del governatore si alzò di scatto, avviandosi verso la porta. Ma, prima di uscire, con uno sguardo ammonitore, si rivolse ai ragazzi che da quando era entrato avevano abbandonato le loro occupazioni: «State in guardia, nabatei, state bene in guardia. A Vilco non sfugge niente».

Un’oasi nel delta del Nilo.

«Ecco che cosa ci hanno portato i romani», disse Aretas rivolto a Clelia, riparandosi gli occhi dal sole con una mano. «Una strada e l’ultimo capitolo della nostra storia, temo.» E indicò la via che costeggiava tutta la fascia mediterranea.

Erano ormai in viaggio da otto giorni; avevano marciato a tappe forzate, quasi senza riposare, nel timore che qualcuno li stesse inseguendo. Rabel, il figlio di Aretas, colmava di continue attenzioni la giovane. Sull’orizzonte, una macchia scura di verde sembrava sfidare la perenne aridità di quella terra. Avrebbero trascorso la notte nell’oasi, e il mattino seguente avrebbero ripreso il viaggio di buon’ora. Ormai mancavano soltanto due giorni per raggiungere Alessandria.

Poche ore prima, dalla stessa città era partito il fuggiasco Giunio, convinto che non avrebbe mai potuto trovarvi un rifugio sicuro. Era temprato nei confronti di qualsiasi gelo, ma non abituato a quel caldo torrido. Per fortuna, invece, il cavallo che era riuscito a comperare in città sembrava non risentire della temperatura. Trottava anzi instancabile, facendogli almeno godere una brezza leggera.

Quando si era posto il problema di una nuova destinazione, era stato preso dalla più grande incertezza. Non poteva certamente restare ad Alessandria: le sue gesta di gladiatore lo avevano reso troppo famoso, qualche altro militare o cittadino romano avrebbe prima o poi finito con il riconoscerlo. Ma dove andare? Si sentiva perso in quelle remote terre in cui tutto gli era sconosciuto, lingua, usi, luoghi.

Così, non appena era arrivato a un bivio poco fuori la città, aveva allentato le briglie, affidando il suo destino all’istinto di sopravvivenza dello splendido animale. Il quale, senza la minima esitazione, si era avviato verso oriente, imboccando la strada desertica che conduceva a Petra e poi a Hierosolyma.

Stava cavalcando ormai da diverse ore, quando uno spiazzo verdeggiante gli indicò la sicura presenza di una fonte o di un pozzo. Decise che vi avrebbe trascorso la notte.

Intanto Rabel stava dimostrando nel drizzare la tenda la stessa abilità che metteva nel lavoro di assistente scultore: sosteneva addirittura che in poche ore sarebbe stato capace di edificare un’intera città.

Oggetto di tante attenzioni, Clelia si sentiva sempre più piena di imbarazzata gratitudine nei confronti di Aretas e di suo figlio. Come ogni notte, si sarebbe riparata all’interno della tenda, mentre i due uomini si sarebbero stesi davanti all’apertura su due giacigli di fortuna.

Improvvisamente, a un centinaio di passi da loro vide un uomo solitario, con un cavallo. Lo osservò per alcuni istanti, poi si sentì calare addosso improvvisa e insostenibile la stanchezza del viaggio, che la convinse a ritirarsi nella tenda.

Il cavallo si stava abbeverando a poca distanza da Giunio, che lo osservava con attenzione: era un animale di taglia più piccola rispetto a quelli cui era abituato, ma non per questo meno forte o veloce. Al contrario. Probabilmente era un cavallo dell’Arabia Petrea, se non addirittura della remota e favolosa Arabia Felix, animali svelti e nervosi di cui aveva tante volte sentito parlare ma che non aveva mai visto. Aveva l’impressione che avesse imparato subito a conoscerlo e già gli si fosse affezionato. Volgendo lo sguardo sulla macchia di vegetazione che lo circondava, vide non lontana quella che gli parve una famigliola in viaggio. Avrebbero condiviso l’ospitalità dell’oasi per quella notte. Continuò a seguirli con lo sguardo.

I due uomini erano in piedi accanto al fuoco. La donna, invece, era scomparsa nella tenda e non ne era più uscita. Scambiò un cenno di saluto con i due da lontano, senza mai rivolgere loro la parola. Non avrebbe saputo in che lingua farlo — le popolazioni di quelle terre remote e aspre potevano conoscere il latino? -, e comunque non voleva correre il rischio di dover dare spiegazioni. Posò la testa sulla sacca in cui aveva chiuso le sue poche cose e, prima di cedere a un sonno profondo, la sua mente riprese a vagare tra le cose che gli erano care.

Ripensò alla giovane vestale che lo aveva incantato. Immagini confuse, lontane nel tempo e sconvolte dagli avvenimenti. Ma Clelia aveva ormai un posto fisso nei suoi ricordi felici, anche se non aveva più notizie di lei da quando l’aveva vista partire. Sapeva che la sua destinazione si trovava a non grande distanza dalle terre in cui si trovava lui in quel momento, ed era del tutto possibile che fosse ancora in Giudea. Ma non avrebbe mai potuto immaginare che la protagonista di tanti suoi pensieri fosse lì, a pochi passi da lui, tra i componenti della piccola carovana in compagnia dei quali avrebbe trascorso la notte nel deserto.

Quando si svegliò, il sole era già alto, e il suo calore gli bruciava la pelle. La famigliola doveva aver levato la tenda all’alba. Era rimasto completamente solo nell’oasi. Il cavallo, lasciatosi montare con la consueta docilità, riprese di buona lena il cammino verso la sconosciuta meta che si era scelto da solo.

Hierosolyma. Residenza del governatore di Giudea.

Con cadenza mensile, ogni delegato del governatore doveva rendergli conto dello stato dei territori contigui alla provincia. Erano incontri brevi, scambi di poche parole o informazioni. Sestilio seguiva le procedure con disattenzione e svogliatezza, mentre i suoi subalterni lo colmavano di ricchezze e di espressioni melliflue.

Vilco, il pingue responsabile della città di Petra, era uno dei suoi migliori emissari: attento, scrupoloso, astuto, tanto interessato a fare carriera nei ranghi militari quanto maligno e servile.

«Signore», esordì, «Petra aumenta di continuo la sua prosperità. Essendo passaggio obbligato di tanti traffici, vanta una ricchezza con cui poche altre terre possono competere. Ma mi spaventa il dilagare anche in quelle terre dell’empio pensiero cristiano. Credo di dover porre fine alla piaga con una lezione esemplare.»

«Che cos’hai in mente?» lo interruppe Sestilio.

«C’è la famiglia di uno scalpellino, molto nota e stimata in città, che sospetto dedita ai sacrileghi riti cristiani. Il loro comportamento non mi sembra chiaro. Qualche tempo fa, per esempio, il vecchio scalpellino e sua moglie sono rientrati da un viaggio qui a Hierosolyma portando con loro una giovane dagli occhi turchini e dalla carnagione chiara e affermando che si trattava della loro nipote. Io invece sono convinto che si tratti di una cristiana che ha cercato rifugio presso di loro fuggendo da questa provincia.»

Il comandante delle guardie personali del governatore smise di giocherellare con l’elsa della spada e cominciò a prestare un’attenzione inquieta a ciò che diceva il legato di Petra.

Il quale stava continuando: «Penso proprio che, se tu facessi dare una dura lezione a questo scultore di nome Aretas, l’evento potrebbe essere d’esempio per tutti i nabatei, dissuadendoli dal seguire i riti del cristianesimo».

«Come pensi che potremmo agire, Vilco? Petra non è una provincia romana. I nabatei sono un popolo libero e fiero.»

«Petra, certo, ma in questo momento so che lo scalpellino è in viaggio nelle nostre terre…»

Le sue parole e le riflessioni di Sestilio furono interrotte da Cassio, il comandante delle guardie, che chiese: «Parlaci di questa giovane, Vilco. Quanto tempo fa è arrivata a Petra?» Sentirlo chiedere un chiarimento stupì profondamente il governatore, mettendolo all’erta.

«Non ho avuto modo di incontrarla, ma chi l’ha vista dice che è molto bella, anche se ha il viso segnato da tracce di ferite e ustioni superficiali. Pare che non sembri affatto una nabatea o una giudea. Comunque è rimasta soltanto pochi giorni a Petra, poi è voluta tornare a Hierosolyma. Per questo lo scalpellino è in viaggio nei nostri territori. Il tutto è successo alcune settimane fa, pochi giorni dopo il tremendo eccidio perpetrato dai predoni ai danni della nostra sacra vestale e del suo seguito.»

Cassio trasalì visibilmente: un fastidioso dubbio si era insinuato nella sua mente.

«Chiedo di conferire con te da solo, Sestilio», disse con evidente imbarazzo.

Alture desertiche.

Giunio stava sempre all’erta, pronto a nascondersi al primo avvistamento di una pattuglia di soldati. Ma, per sua fortuna, nei primi due giorni di cammino incontrò solamente due lunghe carovane di mercanti che procedevano nel suo stesso senso di marcia e alcuni gruppetti di uomini che andavano invece verso l’Egitto. Fu soltanto il mattino del terzo giorno che li scorse dall’alto di un’altura. I cinque cavalli procedevano al galoppo, lasciandosi alle spalle una nuvola di polvere. Anche da quella distanza, riuscì a distinguere il colore purpureo delle divise e il luccichio delle armi.

Cancellò in gran fretta le tracce del suo bivacco notturno e trovò riparo con il cavallo in una grotta della montagna, in attesa che il drappello passasse oltre. Non fu tuttavia così: Giunio, allarmato, sentì che i soldati avevano ridotto il passo e il drappello si stava fermando a poca distanza dal suo nascondiglio. Ne udiva distintamente le voci. Pregò gli dei che il cavallo non tradisse con un nitrito la sua presenza, ma l’animale sembrava tranquillo e a suo agio nel fresco della grotta.

«Fermiamoci a riposare un po’», disse quello che sembrava il capo del drappello.

Scostando leggermente la vegetazione rinsecchita che copriva l’ingresso della grotta, Giunio era in grado di vedere perfettamente i cinque uomini, che per sgranchirsi le gambe si erano messi a camminare avanti e indietro nello spiazzo sottostante l’altura.

«Che cosa ha detto il governatore, quando gli hai confessato la nostra colpa, Cassio?» chiese il più anziano al comandante.

«Sapete che Sestilio» — il solo sentire quel nome ebbe il potere di acuire i sensi di Giunio, cancellando dal suo spirito ogni timore — «lascia difficilmente trapelare le sue emozioni. Credo comunque che abbia capito i motivi per cui non abbiamo portato a compimento la nostra missione. Ha promesso di dimenticare tutto, purché catturiamo Clelia e la mettiamo nelle sue mani», rispose Cassio.

«In venti anni che sono al servizio della famiglia del governatore, è la prima volta che non obbedisco a un ordine», interloquì un altro dei cinque, un uomo non più giovane, con il viso sfigurato dalle ferite. «Ho eseguito qualunque comando del padre del nostro signore Sestilio, e per Sestilio ho pedinato, torturato o ucciso diversi uomini. Sono arrivato ad aggredire compagni legionari tra i ghiacci eterni. Ma chiederci di trucidare una sacerdotessa è troppo anche per gente fedele come noi!»

«Proprio tu parli di fedeltà, Britannico, quando sappiamo tutti che sei fedele soltanto ai sesterzi?» lo schernì il comandante, facendo scoppiare il resto del drappello in una risataccia.

«Sono ormai sei giorni che pattugliamo questa strada, ma non abbiamo trovato tracce della vestale né dei suoi accompagnatori. Ma, ringraziando gli dei, la figlia dello scalpellino non ha resistito alle torture degli uomini pagati da Vilco e ha rivelato dove erano veramente diretti», replicò l’anziano legionario. «A Petra Vilco ha dovuto agire nell’ombra e con grave pericolo, ma qui governa Roma. Ci vorrà poco, ad Alessandria, per trovare il forno di Silleo, cugino dello scultore Aretas.»

«Infatti», tagliò corto Cassio. «Ormai conosciamo la loro destinazione, sicché, male che vada, cattureremo Clelia dal fornaio parente di Aretas, e così riusciremo a placare l’ira di Sestilio. Adesso però riposiamo qualche ora. Non appena la temperatura si sarà abbassata ci rimetteremo in movimento.» Mentre così diceva, già si era preparato un giaciglio di fortuna e vi si era allungato.

Giunio aveva il cuore in tumulto. Clelia! In fuga da una terribile minaccia, persino più terribile di quella che incombeva su di lui. E, ancora una volta, gli uomini di Menenio, ancora una volta Sestilio contro di lui e contro chi gli era più caro. Una sorta di maledizione a cui sembrava non riuscisse a sfuggire.

Doveva cercar di fermare quegli uomini prima che raggiungessero la vestale. Ma come? Per non dare nell’occhio, ad Alessandria, aveva preferito non comperare armi lunghe. Disponeva soltanto di un pugnale affilato, che portava alla cintura.

Inoltre i suoi avversari erano cinque militari, sicuramente esperti, e lui era solo. Ma una forza indomabile gli vietava di rinunciare, costasse quel che costasse. Fremente, decise di aspettare che qualcuno di loro prendesse sonno, prima di passare all’azione.

Alessandria.

Clelia era stata accolta dai cugini di Aretas con la stessa gentilezza che aveva incontrato presso la famiglia dello scultore di Petra. Erano una coppia anziana, il cui unico figlio aveva preferito la vita militare a quella del fornaio. La loro vita era faticosa, e un aiuto non poteva che essere ben accetto.

Sul retro della bottega si trovava il locale del forno, dove ogni notte Silleo, il marito, insieme a due inservienti, macinava il grano, impastava la farina e cuoceva i pani da vendere il giorno dopo. Lavoro duro, faticoso, ma di buon reddito. La moglie lo raggiungeva all’alba e si occupava della vendita.

«Riposerai qualche giorno per riprenderti dalle fatiche del viaggio», disse Silleo alla giovane fuggiasca in un latino dalle musicali inflessioni greche, migliore di quello di Aretas, «e poi aiuterai mia moglie in bottega. Sono sicuro che non avrai difficoltà.»

Portato a termine il loro generoso compito, Aretas e Rabel si apprestavano a rimettersi in viaggio. Clelia li salutò commossa: avevano messo a repentaglio la vita per salvarla, niente al mondo avrebbe mai potuto cancellare l’affetto e la riconoscenza che nutriva per loro. Volessero gli dei… volesse il loro dio che un giorno potesse rivederli.

«Dio unico e misericordioso, veglia su di loro», invocò in silenzio, incurante che, in bocca a lei, quell’invocazione era un sacrilegio. «Non potrò mai ringraziarvi abbastanza per quello che avete fatto», disse con gli occhi pieni di lacrime.

«Cristo», replicò solennemente Aretas, «ci ha insegnato l’amore, la fratellanza e la pietà. Abbiamo semplicemente fatto quello che dovrebbe fare ogni essere umano onesto. Tu stessa non avresti agito diversamente. Non ci devi niente, Clelia. Il tuo breve soggiorno nella nostra casa è stato una gioia.»

«Però vi siete attirati i sospetti dei romani», disse lei tristemente. «Temo per voi, sulla via del ritorno…»

«I romani ambiscono a conquistare la nostra terra», replicò l’anziano scultore. «Ma la principale causa dell’odio che nutrono per la mia famiglia è il Dio in cui crediamo, e non certo la tua persona. Prima o poi saremo costretti a fare i conti con Viico e i suoi sicari. Il fatto che ti abbiamo salvato dalla morte poco aggiunge a quella che considerano la nostra colpa.»

Le si avvicinò anche Rabel, con due occhi buoni e pieni di amore. La bellezza e la dolcezza di Clelia non avevano potuto lasciarlo indifferente. Quanto aveva sognato che restasse per sempre nella loro casa.

«Quando tutto sarà tornato tranquillo verrò a riprenderti, Clelia», disse con voce timida. Quante volte doveva aver provato e riprovato quelle poche parole in latino, povero giovane. Le accarezzò rapidamente la mano, poi chinò la testa e seguì il padre, che si era già avviato.

Clelia rimase sulla soglia della bottega a seguirli con lo sguardo mentre si allontanavano per la strada affollata, finché non scomparvero alla sua vista.

Alture desertiche.

Britannico era seduto su un masso e gli girava le spalle. I suoi commilitoni, invece, sembravano sprofondati in un sonno pesante. A Giunio parve meglio spostarsi, anche perché il cavallo cominciava a dare segni d’insofferenza. Strisciò senza rumore, attento a non farsi vedere dal legionario.

Quando Britannico si accorse della sua presenza, era troppo tardi. Le mani dell’ex gladiatore lo afferrarono in una presa ferrea alla nuca e sotto il mento. Giunio gli torse la testa con una forza moltiplicata dal furore, finché un sinistro scricchiolio non lo avvertì che l’assassino dei suoi compagni di battaglie tra i ghiacci era andato a raggiungere coloro che aveva trucidato a tradimento.

Adagiò a terra il corpo e gli sfilò la spada dal fianco. Il marchio delle fucine imperiali impresso sulla lama apparve nitido: un capitolo oscuro della sua vita aveva trovato definitiva spiegazione e riparazione.

Due soldati dormivano a poca distanza; non concesse loro il tempo di svegliarsi e di vedere la morte in faccia. La lama letale imperiale agì rapidissima e silenziosa.

Cassio e l’altro legionario si erano invece sistemati a qualche cubito di distanza, all’ombra di un cespuglio spinoso. Giunio puntò risoluto verso il comandante delle guardie di Sestilio. Ma proprio in quell’istante lo vide aprire gli occhi.

«Uomini, siamo attaccati, all’armi», gridò Cassio, immediatamente all’erta. Non pensava di sicuro che un uomo solo fosse così pazzo da assalirne cinque. Ma tre dei suoi già non potevano rispondere.

I due furono subito in piedi. Giunio si meravigliò di essere ancora così agile e veloce, dopo un così lungo periodo di inattività; schivare i colpi delle loro armi gli riusciva facile come un gioco.

Ma erano pur sempre in due, contro lui solo. Stava fronteggiando Cassio, quando si sentì afferrare alle spalle dalle braccia dell’altro. Si trovò immobilizzato dalla sua presa ferrea. Si vide puntare contro minacciosa la lama del comandante delle guardie, pronta a trafiggerlo. Con un violento colpo di reni e una torsione del busto — forza della disperazione ma anche frutto dei lunghi allenamenti e dell’esperienza fatta nel Circo — riuscì a liberarsi dalla presa e si lasciò cadere a terra. La lama passò poco sopra la sua testa, conficcandosi nel torace dell’uomo che gli stava alle spalle.

Si rimise in piedi con un balzo felino. Adesso le forze erano pari. «Siamo rimasti soli, assassino!» gridò con voce arrochita dall’affanno.

«Chi diavolo sei?» chiese l’altro, muovendosi lentamente in tondo, leggermente chino, le braccia larghe, spasmodicamente all’erta.

«Sono il prezzo che pagherai per tutto il male che hai fatto», rispose Giunio. E con un balzo furente gli fu addosso. Le lame cozzarono con violenza. Giunio tirò un primo fendente, che Cassio schivò con grande abilità, e immediatamente un secondo, che lo ferì superficialmente a un braccio. Ma lo slancio lo aveva sbilanciato, facendolo cadere.

Dall’infelice posizione in cui si trovava seguì con lo sguardo le gambe del nemico che si accostavano, il suo piede destro che si abbatteva sulla mano stretta sull’elsa. Si trovò disarmato in pochi istanti.

Il nemico gli fu addosso, vide balenare la sua lama. La destra corse precipitosamente al pugnale che teneva alla cintura, gli si serrò sopra, lo brandì. Il bersaglio apparve nitido e indifeso nel corpo proteso a vibrare il colpo. Prima che la spada del nemico si abbattesse su di lui, Giunio affondò la lama poco sotto il costato, dal basso verso l’alto.

Cassio rimase immobile qualche istante in una strana posizione, con la spada puntata al cielo e gli occhi sbarrati, poi un fiotto di sangue gli riempì la bocca e, inerme, rovinò addosso all’avversario.

Giunio si scosse di dosso il corpo esanime, che non degnò di uno sguardo. Il petto gli ansava fino a dolere. Ma senza fermarsi un solo istante corse a recuperare il cavallo, nel timore che potesse essersi liberato e fosse scappato. Doveva assolutamente arrivare in tempo per mettere in salvo Clelia, prima che Sestilio si rendesse conto che i suoi sicari non sarebbero mai più tornati.

Alessandria.

I primi due giorni di lavoro furono un vero piacere per Clelia. Benché non conoscesse la lingua, riusciva a farsi intendere dai clienti esprimendosi con gesti e sorrisi. I pani erano perfettamente allineati sul banco di marmo, non doveva far altro che tagliarli in corrispondenza delle tacche che Silleo aveva inciso prima della cottura, riscuotere il danaro ed essere gentile.

«Se i nostri avventori», le disse sorridendo il fornaio al termine della seconda giornata, «sapessero che vengono serviti da una delle massime autorità religiose dell’impero di Roma, non so proprio come reagirebbero.»

«È un ruolo che faremo meglio a dimenticare, per la nostra tranquillità», rispose prontamente lei. «Visto anche che non potrò certo tornare a Roma finché l’impero sarà governato da persone che mi vogliono morta.»

«Potrai fermarti con noi finché vorrai, Clelia», intervenne la donna. «Qui sei al sicuro. Chi potrebbe venire a cercarti in questo umile forno?»

«Siete veramente buoni, come lo sono stati Aretas e tutta la sua famiglia. Ma mi riempie di angoscia la scia di morte e di problemi che, mio malgrado, mi trascino dietro. Che cosa ho mai fatto per provocarla? E come potrò sfuggirle?» Mai Clelia avrebbe potuto dimenticare gli uomini del suo seguito, trucidati dai finti briganti, e tutti gli altri spettacoli di dolore cui aveva dovuto assistere impotente e incolpevole. Il suo cuore, inoltre, era oppresso dal pensiero del pericolo a cui, per lei, erano esposti Aretas e la sua famiglia.

«Non preoccuparti», intervenne pacatamente Silleo. «Le minacce dei romani non fanno certo paura a due vecchi che vivono da sempre del proprio lavoro.»

Nelle stesse ore Giunio stava percorrendo a ritroso la via che si era appena lasciato alle spalle, senza dare riposo al suo povero cavallo, che peraltro sembrava felice di correre su quella sabbia sottile. In soli due giorni giunse in vista della città, sebbene anche questa volta avesse preferito tenersi il più possibile ai margini della via principale.

Aveva nascosto nella grotta i corpi dei cinque scherani del governatore, liberato i loro cavalli e cancellato con la massima cura le tracce del combattimento, ma doveva ugualmente fare presto: di lì a poco, Sestilio, non vedendoli tornare, avrebbe mandato a cercare i suoi uomini.

Il terzo mattino, Clelia aveva finito di servire alcune clienti e la bottega era deserta. La figura dell’uomo si stagliò possente contro la luce dell’esterno. Lo riconobbe quasi subito, malgrado la barba.

«Giunio!» gridò. «Oh, Giunio!» mentre si puliva istintivamente in un panno le mani bianche di farina. Abbandonò il banco di vendita e gli si precipitò incontro. Si lasciò abbracciare e lo strinse a sé, come avrebbe voluto fare in tante interminabili notti insonni. Gli fece scorrere le dita tra i capelli, accarezzò il viso segnato dalle lotte e dalla fatica.

Giunio aveva gli occhi chiusi, perso nel piacere dell’abbraccio. Da quanto tempo lo sognava? Quando finalmente li riaprì, vide l’anziano fornaio e i due inservienti che, abbandonando il lavoro, si erano precipitati nella stanza brandendo le pale del forno. Erano stati richiamati dal grido di Clelia.

Ma, trovando i due abbracciati, prima esitarono incerti e poi, viste le loro espressioni rapite, tirarono un respiro di sollievo e posarono le armi improvvisate.

L’abitazione di Silleo si trovava nello stesso gruppo di case in cui era la bottega. L’uomo fu lieto di condurvi anche Giunio, che in quanto amico di Clelia poteva soltanto essere anche amico loro.

Clelia fu informata rapidamente di quanto avevano detto le guardie di Sestilio, anche se Giunio evitò con cura di addentrarsi nei particolari dello scontro.

«Rimanendo qui corri un grave pericolo», concluse. «E lo fai correre anche a questa brava gente. Non ci vorrà molto perché arrivino altri soldati a cercarti. Devi venire via con me, dobbiamo trovare un posto veramente sicuro.»

«Giunio ha ragione», intervenne Silleo con il suo dolce, cantilenante latino. «A due poveri vecchi come noi importa poco dei pericoli, non ci rimane ormai molto da vivere. Ma tu sei giovane. Rimanendo qui verrai catturata dagli uomini del governatore di Giudea, che non avranno pietà. Sulle alture desertiche dell’Hhóreb vive una comunità di cristiani che vi si sono rifugiati per sfuggire alle persecuzioni. Il loro capo è un nabateo, mio amico fin dall’infanzia. Sapranno sicuramente darvi ospitalità e aiuto. Noi non possiamo metterci in viaggio con voi, la nostra età non lo consente. Rimarremo qui e, quando arriveranno i soldati, cercheremo in ogni modo di ritardarli e depistarli. Vi consegnerò comunque uno scritto con cui vi presenterete alla comunità.»

«Non posso passare la vita a fuggire», ribatté animosamente Clelia, «compromettendo tutti coloro che cercano di aiutarmi. È meglio che affronti il mio destino da sola, consegnandomi ai soldati romani qui in Egitto e raccontando tutto quello che è stato tramato contro di me.»

«E pensi che ti crederanno?» la interruppe Giunio. «Pensi che non avvertiranno subito Sestilio, consegnandoti a lui? Secondo me, all’infuori delle poche persone che lo hanno fatto con tanto coraggio in questi giorni, non esiste nessuno disposto ad aiutarti, né così potente da far arrivare la sua voce fino all’imperatore.

«Ormai soltanto un intervento di Domiziano potrebbe salvarti la vita, e non so quanto l’Augusto abbia voglia di contrariare i servi da cui è accerchiato. È poi, Clelia», concluse, fissandola negli occhi, «adesso che ti ho ritrovato, niente potrebbe costringermi a perderti un’altra volta.»

Deserto dei Monti Neri.

Il cavallo da tiro del fornaio era di taglia robusta e tozza. Silleo lo offerse in prestito, ricevendo in cambio la promessa che, una volta giunti a destinazione, Giunio e Clelia lo avrebbero affidato a una delle carovane che venivano in città, con la richiesta di riconsegnarlo al proprietario. E fu di nuovo il deserto, la fuga, braccati da uomini che avevano l’ordine di catturarli, se non addirittura di ucciderli senza lasciare tracce di loro.

Il viaggio verso le alture desertiche dell’Hhóreb si presentava meno irto di difficoltà di quello che Giunio aveva appena compiuto, ma la presenza della donna amata lo teneva in ansia, anche se Clelia si era subito rivelata un’ottima compagna di viaggio e un’infaticabile cavallerizza. Viaggiavano nelle ore più fresche, all’alba e al calar della sera, fermandosi durante la notte, che rendeva troppo difficile orientarsi, e prima che il sole fosse alto e accecante. Nel corso delle pause forzate, si raccontavano gli sciagurati eventi che li avevano portati in quella situazione. Era la prima volta che potevano stare insieme a lungo, ma pareva che si conoscessero e amassero da sempre.

Le indicazioni di Silleo erano state precise ed esaurienti. Dopo alcuni giorni di viaggio, la punta dei Monti Neri detta Hhóreb si stagliò davanti a loro illuminata dai colori del tramonto. Giunio decise che avrebbero passato la notte lì, e che il mattino seguente avrebbero affrontato i sentieri della montagna.

Quando lei si girò su un fianco, accostandosi, Giunio non sapeva se Clelia stesse dormendo. Sentì il profumo della sua pelle, percepì con un’eccitazione mai provata il contatto dei loro corpi. La baciò con trasporto. Le braccia della giovane lo strinsero appassionatamente: «Ti amo, Giunio di Luna, ti amo da sempre. Non ho mai smesso di pensarti neanche per un istante, nemmeno nei momenti più difficili. Anzi, più mi sentivo sola e perduta, più pregavo di averti vicino».

Lui la baciò ancora, stringendola forte.

«Ho un voto solenne da rispettare, ricordalo», lo ammonì lei, fattasi improvvisamente seria. «Anche se ormai non so più a che cosa possa servire. Comunque, no, non posso violarlo.»

Non era facile, ma Giunio s’impose di rispettarla nello stesso modo in cui avrebbe mantenuto un giuramento. Si addormentò accanto al corpo della donna che amava e che avrebbe amato per sempre.

Quando i primi raggi di sole lo costrinsero ad aprire gli occhi, vide Sestilio in piedi davanti a loro. La destra corse istintivamente a cercare la spada, ma non la trovò. Qualsiasi resistenza sarebbe comunque stata inutile: erano circondati da almeno venti soldati in armi. Anche Clelia si era svegliata e fissava con uno sguardo terrorizzato il governatore della Giudea.

«Sono proprio contento di rivederti, tribuno Giunio», gracchiò Sestilio con la sua voce nasale. «Anche se forse sarebbe più opportuno chiamarti Giunio l’assassino. E guarda in che piacevole compagnia ti troviamo: nientemeno che tra le braccia di questa sacra fanciulla, sicuramente non più vergine. Incatenateli!»

Giunio provò a ribellarsi, ma era del tutto inutile, come aveva capito fin dal primo momento.

«Non immaginavo davvero di ritrovarti in queste terre sventurate», continuò il governatore della Giudea. «Potevi anche venire a far visita al tuo vecchio compagno d’armi, invece di costringermi a far torturare intere famiglie di nabatei per poterti rintracciare con la tua ganza.

«Sai, non mi fidavo più di questi uomini, che già una volta avevano disobbedito ai miei ordini, sicché mi sono messo personalmente sulle tracce di Cassio e dei suoi, pochi giorni dopo che erano partiti. Come vedi, non ho sbagliato. Soltanto che adesso i miei piani dovranno cambiare. Non c’è modo di evitarlo.

«A Roma ti aspettano con ansia, Giunio di Luna, e sto seriamente pensando di farti arrivare nella città in buona compagnia», continuò, dardeggiando lo sguardo perfido su Clelia. «Sapranno loro come punire una vestale che ha infangato il suo voto. E per di più con uno spregevole assassino, poco meno che un parricida.»

Sestilio era davanti al suo nemico giurato, faccia a faccia. Incapace di trattenersi, Giunio sputò con violenza sul volto del traditore, per poi venire messo in ginocchio dai violenti colpi dei soldati incaricati di trattenerlo.

Il governatore si pulì il viso con calma e abbassò gli occhi a guardarlo con commiserazione. «È così che cerchi di consolarti, Giunio di Luna? Pagherai caro anche questo. Voglio essere presente quando sarai giustiziato, e quella sì sarà una soddisfazione straordinaria. Quanto a te, Clelia, sai bene il destino che ti è riservato. Una morte ben peggiore di quella che abbiamo appena inflitto ai miserabili cristiani che hanno voluto aiutarti.»

La mente della sacerdotessa corse al ricordo indelebile di Aretas, di Rabel, di Silleo e sua moglie e di tutte le persone che l’avevano aiutata senza chiedere niente. La disperazione cedette alla rabbia: «Tu sia maledetto per sempre, Sestilio!» gridò, gli occhi blu ridotti a due fessure stillanti odio.