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PARTE QUARTAARIALe stelle

13.

Cocoa Beach. Florida. 1995.

Oswald Breil era appena rientrato nel suo villino in affitto. Il suo computer portatile, molto più piccolo di una ventiquattrore, era posato sul letto accanto agli altri bagagli. Non si preoccupò nemmeno di disfare le valigie. Aprì soltanto il portatile, sistemandolo sul tavolino. Quindi prese da una borsa una spina telefonica doppia con inserito un led rosso: un rivelatore per verificare che la linea non fosse sotto controllo.

La inserì nella presa del telefono, dopo avervi collegato il cavo del modem interno del computer. Un suono gracchiante uscito dall’altoparlante dello strumento gli confermò che era in linea. Per poter accedere al livello desiderato, gli archivi del Mossad, forse il più completo centro di informazioni del mondo, dovette digitare tre formule segrete di identificazione.

Abilitato alla ricerca, inserì il nome di Kevin Dimarzio, e una scritta prese quasi immediatamente a lampeggiare sullo schermo, invitandolo ad attendere. Qualche istante più tardi lo schermo si oscurò, per tornare a illuminarsi aprendo la scheda personale del colonnello della NASA. In alto a destra si vedeva una foto aggiornata del militare, di fianco e sotto, tutti i dati di cui il Mossad era in possesso.

Praticamente le stesse informazioni di cui disponeva già. Un curriculum impeccabile, esente dalla benché minima ombra. Oswald scosse la testa: l’apparente superuomo doveva pur avere qualche punto debole. Tutto era talmente perfetto da non sembrare vero: mai una rissa tra commilitoni, una qualsiasi nota di demerito, una consegna in caserma per avere disobbedito a un ordine, un goccio di alcol in più, una sbandata sentimentale, un minimo gesto men che «politicamente corretto», neanche una tastata di sedere alla chetichella. Soltanto imprese fortunate, brillanti e degne di essere ricordate.

A lui, invece, Kevin Dimarzio non piaceva fino in fondo, e capitava di rado che il suo intuito si sbagliasse. Digitò ancora sulla tastiera, finché non ebbe accesso alla linea diretta con l’Intelligence. Preferiva quel modo di comunicare a qualsiasi telefono, anche il più sicuro: era molto più difficile intercettare un computer, soprattutto se impostato per comunicare in linguaggio criptato, che non un apparecchio telefonico dotato di scrambler.

Non appena il cursore prese a lampeggiare sul video, digitò semplicemente due parole: UFFICIO FICCANASO.

In risposta, sul monitor scorsero in tempo reale le seguenti parole: sì, MAGGIORE BREIL, SONO IL SERGENTE BERNSTEIN DELL’INTELLIGENCE. A TEL AVIV C’È IL SOLE E LA LUNA SORGERÀ TRA POCHE ORE.

A JAFFA C’È L’ALTA MAREA, rispose immediatamente. E poi: QUANDO LA SMETTERETE CON QUESTE PAROLE D’ORDINE COSÌ CRETINE? NON VI HANNO INFORMATO CHE NON LE USA PIÙ NEMMENO 007?

È LA PRASSI, SIGNORE, vide scorrere sullo schermo.

VA BENE, LASCIAMO PERDERE, SERGENTE. HO BISOGNO CHE FACCIATE LE PULCI A UN COLONNELLO DELLA NASA. NOME E COGNOME: KEVIN DIMARZIO.

RISALENDO DI QUANTE GENERAZIONI, SIGNORE? Era incredibile come un computer riuscisse a trasmettere a migliaia di miglia di distanza l’impassibilità del giovane e scrupoloso sergente dei servizi israeliani.

RISALI FINO AI GENITORI, SERGENTE. SE HO BISOGNO DI ANDARE ANCORA PIÙ INDIETRO, TE LO FACCIO SAPERE.

DOVE POSSO FARLE AVERE LE INFORMAZIONI, MAGGIORE?

IN UNA DELLE MIE CASELLE DI POSTA ELETTRONICA. QUELLA ALL’INDIRIZZO DI MASSIMA SICUREZZA. NON APPENA MI SARÀ POSSIBILE, CARICHERÒ TUTTO NEL COMPUTER. SHALOM.

Key Biscayne. Miami. Florida. Novembre 1995.

Dopo tre settimane passate a esaminare documenti privi di interesse, Laura Joanson aveva deciso di trascorrere un week end di riposo a casa sua. Così, pur sapendo che il colonnello Dimarzio non avrebbe gradito — o forse proprio perché lo sapeva -, la sera del venerdì, alle sette precise, scomparve dalla circolazione. «Dolce casa!» esclamò una mezz’oretta più tardi, appena superato il ponte che conduceva all’isola a sud di Miami dove abitava. Il portiere di notte la salutò con grande cordialità, consegnandole un pacco di posta. Salì fino all’ultimo piano della Biscayne Tower, sfogliando distrattamente estratti conto, dépliant di concorsi a premi, bollette del telefono e pubblicità di supermercati.

Si diede appena il tempo di fare una rapida doccia ristoratrice. Dopo pochi minuti era sprofondata in un sonno che soltanto una cannonata avrebbe potuto interrompere.

Infatti, del tutto simile a una cannonata suonò al suo orecchio lo squillo del telefono molte ore più tardi. Si svegliò di soprassalto, scoprendosi completamente riposata e piena di energie. L’orologio digitale, sul basso tavolino da notte, indicava mezzogiorno e venti minuti di sabato 4 novembre 1995. Aveva dormito quasi sedici ore filate. Sollevò la cornetta.

«Bentornata a casa», le augurò dall’altro capo del filo una voce che la riempì di un’ondata di simpatia.

«Oswald! Dove sei?»

«In questo momento sono su un taxi diretto a casa tua e sto per invitarti a un brunch. Vietato negarsi.»

Ma sì. I pochi problemi arrivati con la posta potevano aspettare ancora un po’, si disse Laura, visto che avevano già aspettato venti giorni e quelle sedici ore. Inoltre, non avendo mangiato niente dal mezzogiorno prima, l’idea di un buon brunch non poteva che sorriderle.

«Okay», rispose di slancio. «Faccio una doccia e scendo. Questione di qualche minuto.»

Il Caffè Milano si trova al centro di Ocean Drive, nel quartiere déco della città. È un vero ristorante italiano, con proprietari italiani, camerieri italiani, cibo e vini italiani e, soprattutto, conti rigorosamente italiani. Laura aveva indossato un tailleur leggero color pastello che le stava benissimo. Alle persone che affollavano la strada, la coppia doveva sembrare molto singolare: una donna alta, elegante, di una bellezza fuori del comune, in compagnia di una specie di bambino sui quarant’anni.

«Come vanno le tue ricerche?» chiese subito Oswald, quando si trovarono seduti davanti a un aperitivo a base di Picolit friulano freschissimo.

«Niente di nuovo, stiamo caricando tutti i dati sui computer, ma mi pare che siano notizie di scarsa rilevanza, per me come per te.»

«Cerchiamo di procedere con ordine, partendo da un presupposto che è la mia filosofia operativa: non esiste niente di non interessante. Anche la più insignificante delle notizie va schedata, catalogata, analizzata e conservata. Non si sa mai. Come avremmo fatto, altrimenti, a diventare il servizio più efficiente del mondo?»

«Sto preparando una relazione per Pete. La CIA te ne farà sicuramente avere una copia.»

«Figurati!» pensò Oswald. La sua bella amica stava preparando una relazione per Pete ed era convinta che la CIA sarebbe stata così gentile da fargliela pervenire in copia. Benedetta ingenuità. In quel campo Laura aveva evidentemente bisogno di un rapido corso di aggiornamento. Lo rinviò comunque a un altro momento. Cautela e astuzia, si disse.

«Non vorrei distrarti dalle consegne che hai ricevuto», replicò, «ma noi e l’ufficio di Pete stiamo lavorando insieme a questo caso. Quindi credo che qualsiasi cosa arrivi sul suo tavolino debba arrivare in contemporanea anche a me. E direttamente da te, in questo caso.»

Laura lo guardò negli occhi.

«No, caro dottor Breil. Non andiamo bene. Mi dispiace essere scortese con te, ma voi e i vostri servizi mi avete davvero rotto le scatole. Sono giorni e giorni», replicò con voce calma ed espressione serena, come se stessero conversando del più e del meno, «che scartabello montagne di scartafacci ammuffiti su tutte le stelle dell’universo, e per di più in compagnia di un orso a cui, senza volerlo, ho occupato la grotta del letargo. Per le vostre smanie investigative sto mandando a rotoli il lavoro che mi dà da vivere. Quindi, dottor Breil, sono stufa marcia di prendere ordini, da dovunque vengano.»

«Spiace molto anche a me, Laura», ribatté Oswald, «ma, fino a quando non sarà archiviata, questa questione dev’essere trattata con la massima attenzione. La posta in gioco è la scoperta della verità sulla fine del più grande criminale del ventesimo secolo.»

«Che oggi avrebbe l’improbabile età di centosei anni», sbottò lei. Ma Oswald continuò imperturbabile, come se non l’avesse sentita:

«A me sta a cuore scoprire come si è conclusa una delle pagine più nere dell’umanità. Per quanto riguarda, poi, le smanie investigative a cui accennavi, ti dirò: magari si tratta soltanto delle supposizioni o sensazioni di due coglioni di agenti segreti, che, però, proprio grazie alla loro idiozia si dà il caso siano arrivati a occupare posizioni di tutto rispetto».

«Mi hai tolto le parole di bocca, Oswald. Perché, vedi, c’è un piccolo particolare. Io non dipendo da nessuno dei vostri servizi, né tanto meno da voi due personalmente. Sono arcistufa di prendere ordini da tutti, e per di più in malo modo. Quindi, in primo luogo, porterò a termine il lavoro per mia curiosità personale. Ma devo dirti che vi state comportando male con me. Molto male. Di conseguenza, altrettanto male mi comporterò io con voi. E adesso mi accompagni a casa, dottor Breil. Pensavo che mi avesse invitato a un brunch, non a un rapporto militare. Mi è venuto un gran mal di testa e mi è passata la fame.»

Costernato, Oswald pagò il conto degli aperitivi, lasciando vagare uno sguardo malinconico sui tavoli sontuosamente imbanditi.

Uscirono nella via affollata; le automobili dei cittadini usciti a godersi la libertà del sabato formavano una lunga coda, quasi immobile. In quell’ingorgo era molto improbabile che riuscissero a trovare un taxi. Svoltarono in Washington Avenue. La Oldsmobile bianca parcheggiata accanto al cordolo sembrò impennarsi come un cavallo imbizzarrito, facendo un balzo in avanti. Oswald sentì l’improvviso stridere delle gomme alle loro spalle e scattò. Il movimento della sua gamba destra fu immediato, mentre la mano premeva con forza sulle reni della giovane. Tutta presa dalla sua irritazione, Laura non si aspettava uno sgambetto, sicché cadde pesantemente, mentre nelle orecchie le risuonava come una pistolettata l’ordine del suo minuscolo compagno: «Giù!»

Il silenziatore spuntò dal finestrino posteriore destro dell’auto. Le ruote della Oldsmobile stavano ormai lasciandosi dietro una scia di fumo bianco. Il pop-pop-pop silenziato del mitragliatore sembrò esplodere interminabile, facendo saltare una lunga fila di schegge di intonaco dalla parte bassa della facciata alle loro spalle.

Erano ancora appiattiti sul marciapiede, proteggendosi la testa con le mani, quando una monovolume Chrysler dai vetri oscurati superò l’incrocio nei pressi del quale si trovavano. Prima ancora che l’auto si fermasse con un teatrale stridere di freni, già ne smontavano due uomini con in mano il distintivo dorato dei Servizi Federali.

«Presto, salite prima che tornino indietro», ordinò precipitosamente uno dei due, mentre l’altro teneva d’occhio la strada con l’arma spianata. Oswald e Laura, rialzatisi, obbedirono senza fare obiezioni.

«Ci perdoni per il ritardo con cui siamo intervenuti, dottoressa Joanson, ma con quel traffico non siamo riusciti a rimanervi abbastanza vicini da proteggerla come si deve. Agente Terranova della CIA», si presentò l’uomo del servizio federale.

Una volta al sicuro nella vettura, Laura cominciò a sentir montare l’adrenalina. Si accorse soltanto in quel momento della paura da cui era pervasa. Prima non ne aveva avuto il tempo.

«Siamo incaricati di proteggerla. Il dottor Dayle è convinto che lei abbia già corso abbastanza rischi. Ma, come vede, non siamo stati capaci di fare il nostro lavoro. Me ne scuso. Se non fosse stato per la prontezza del maggiore Breil…» E l’agente rivolse un cenno di ringraziamento al piccolo uomo che, seduto sul sedile posteriore, sfoderava una calma imperturbabile.

«Visto che all’attentato hanno assistito centinaia di persone, non è possibile tenere la cosa sotto silenzio», continuò l’agente. «Ma, se non le spiace, dottoressa, provvederemo noi a denunciare il fatto alla polizia locale, fornendo la versione ufficiale di un atto di delinquenza comune.»

In quello stesso istante squillò il telefono dell’auto. Rispose l’agente che era al volante. Informato rapidamente l’interlocutore dell’accaduto, passò la cornetta a Oswald Breil, dicendo: «Il dottor Dayle vuole parlare con lei, maggiore».

«Mi devi spiegare, Pete», attaccò immediatamente Oswald, «se a questo caso lavoriamo insieme o ciascuno per conto suo. Perché in questo caso ti ricordo che saranno i tuoi a rimetterci importanti informazioni che soltanto noi possiamo fornirvi.»

«Avrai modo di presentare le tue rimostranze in un altro momento, Oswald», replicò Pete dopo un attimo di silenzio. «Perché purtroppo devo darti una pessima notizia», continuò d’un fiato. «Il primo ministro Rabin è stato ucciso in un attentato dieci minuti fa. La notizia non è ancora ufficiale, ma dovrebbe diventarlo tra poco.»

«Grazie dell’informazione», fu l’unica cosa che Oswald riuscì a dire. Riconsegnò il ricevitore all’uomo al volante, con lo sguardo apparentemente perso davanti a sé. L’orologio digitale sul cruscotto indicava le 3.05 pomeridiane di sabato 4 novembre 1995, ora della Florida.

Gerusalemme.

Nelle prime file avevano preso posto i capi di stato, molti dei quali non riuscivano a nascondere la profonda commozione. La stella di David azzurra in campo bianco della bandiera che copriva la bara era l’unica nota di colore tra tutte quelle persone vestite a lutto. Le alte sfere del Mossad erano raggruppate tra la quarta e la quinta fila.

Tra di loro sedeva Oswald. Tutti sapevano che, in conseguenza dei suoi limiti fisici, non avrebbe mai superato il grado militare di tenente colonnello, eppure era riuscito a salire nei ranghi dei servizi fino a far parte dello staff dirigenziale.

Montò sul palco la nipote del primo ministro: una bella giovane dai colori ramati, con il viso sparso di efelidi e gli occhi verdi. Le sue parole seppero toccare i cuori più di quelle di tutti i capi di stato che l’avevano preceduta.

«… sarai sempre tra di noi», riuscì a concludere, prima che le lacrime avessero il sopravvento.

Oswald si accorse di averne a sua volta il viso rigato, ma non lo asciugò: erano in molti a piangere. «Sarai sempre con noi, Grande Leone», mormorò tra sé. «Sempre.»

Le critiche ai servizi interni si stavano facendo sempre più aspre. Prima la sconvolgente serie di attentati, poi gli attacchi al confine del Libano. Infine si era permesso a un attentatore solitario di sparare tre colpi alla schiena del primo ministro. Da ogni parte si reclamava un intervento, ma Oswald non poteva sapere che l’uomo chiamato ad assumere la responsabilità del servizio di controspionaggio e antiterrorismo israeliano, lo Shin Bet — lasciando quello di spionaggio, il Mossad — di lì a poco sarebbe stato lui.

Per il momento aveva una sola idea fissa: portare a termine la missione U115.

Florida.

Laura era ancora profondamente scossa. Da quando si era lasciata attirare in quell’avventura, non aveva fatto altro che rischiare la vita. Quando il lunedì mattina varcò l’ultimo posto di blocco all’interno della base, aveva ancora negli orecchi gli spari soffocati di meno di due giorni prima.

Le venne incontro Kevin Dimarzio, i cui modi si erano fatti improvvisamente molto più urbani. «Come si sente, dottoressa Joanson? Deve avere vissuto un momento molto brutto. La diffusione della delinquenza sta diventando davvero intollerabile.»

Si riferiva evidentemente alla notizia apparsa su tutti i giornali, secondo cui Laura sarebbe stata vittima di una tentata rapina. «Va tutto bene, colonnello. Vorrei soltanto portare a termine questo lavoro il più presto possibile e tornare alla mia vita normale.»

Pochi minuti più tardi avevano raggiunto la loro stanza e ripreso l’analisi degli appunti di Leonard Speitz.

Nel frattempo Oswald Breil, seduto alla scrivania nella casa di Cocoa Beach, aveva aperto il computer portatile e lo aveva collegato alla linea telefonica. Ripeté meticolosamente la procedura di identificazione. Lo schermo si oscurò, mentre il led rosso sulla spina cominciava a lampeggiare. Un segnale preciso. La linea era sotto controllo.

Trattenne a stento un moto di irritazione. Quindi disinserì lo spinotto. Era sicuramente difficile che un infiltrato riuscisse a decifrare i messaggi di un computer che trasmetteva in un linguaggio criptato con la sofisticazione raggiunta dal servizio israeliano, ma la prudenza non era mai troppa. Dal pomeriggio stesso dell’attentato, infatti, la villetta era tenuta d’occhio con discrezione da tre uomini del Mossad, e anche la CIA aveva sicuramente disposto un servizio di vigilanza.

E, tutto sommato, quello che Oswald voleva era proprio che qualcuno venisse allo scoperto, aiutandolo a superare il punto morto in cui sembrava impantanato. Proprio per questo, all’infuori di Laura, Pete Dayle e lui, nessuno era stato messo a conoscenza dell’esatta importanza ed entità del materiale recuperato. Certo, essere preso a colpi di mitra non era la sua massima aspirazione, ma il succedersi dei tentativi per metterlo a tacere per sempre gli diceva che doveva aver in qualche modo imboccato la pista giusta.

In quello stesso istante sentì suonare il campanello dell’ingresso secondario. Andato ad aprire, vide due agenti del Mossad ai fianchi di un uomo in tuta da operaio della compagnia telefonica. Il terzo israeliano gli si era piazzato alle spalle, tenendolo probabilmente sotto il tiro di un’arma nascosta in tasca.

«Questo signore non vuole dirci che cosa stava facendo nei paraggi della cabina di derivazione telefonica. Ha un cartellino di riconoscimento della AT T, ma non risulta nell’elenco dei dipendenti. Aveva addosso un impianto ricevente degno di una base missilistica. L’abbiamo disturbata soltanto per informarla che due di noi lo accompagneranno in sede a Miami, maggiore. Credo che abbia un mucchio di cose da raccontarci.»

Oswald sentì un brivido alla schiena: per niente al mondo avrebbe voluto subire un interrogatorio da parte degli uomini del Mossad.

La stessa sera, tardi, Laura era ancora impegnata a caricare sul programma di schedatura alcuni appunti dell’astronomo tedesco. Il procedimento era della massima semplicità: uno scanner leggeva il documento e lo interpretava come testo, inserendolo nella memoria elettronica. Una volta finita la catalogazione, si sarebbe potuto procedere a esaminare i testi con maggiore precisione e più in profondità, oltre che con notevole risparmio di tempo, usando tutte le possibilità di ricerca semplice e incrociata dei programmi di analisi.

La complessa equazione matematica era proprio nell’ultima pagina del quaderno. Laura fermò il programma di lettura testi e ne caricò uno di calcoli astronomici. Vi copiò con estrema cura i simboli matematici ed eseguì il comando di avvio. Sullo schermo comparvero i tre assi cartesiani, conferendo al disegno una fisionomia tridimensionale. Laura rimase qualche attimo incantata, come le capitava sempre di fronte a quelle macchine capaci di elaborare milioni di calcoli in pochi minuti e di darne una precisa rappresentazione grafica. La figura ellittica stava cominciando a prendere forma, quando l’esecuzione si interruppe e il computer segnalò un errore nella formula. Laura tentò più volte di rilanciare il programma, ma senza ottenere migliori risultati.

Mentre era intenta a provare ancora una volta, Kevin Dimarzio entrò nella stanza e le si mise di fianco, chinandosi sullo schermo. «Avevo detto che avremmo analizzato i dati in un secondo momento», disse in tono di amichevole rimprovero. I rapporti tra i due sembravano aver trovato in quelle ultime ore un punto di equilibrio, o almeno di non belligeranza.

«Era l’ultima pagina, colonnello. Non ho resistito. Però, guardi lì. Chissà perché il programma non gira.»

Dimarzio tirò una poltroncina davanti allo schermo e sedette a fianco della giovane studiosa. Forse il contatto dei loro due corpi non fu del tutto occasionale, ma entrambi sembrarono rendersi conto soltanto in quel momento di essere di sesso opposto, giovani e non proprio indifferenti l’uno all’altra.

Salutati i tre uomini del Mossad e rientrato nel suo studio, Oswald Breil aveva verificato l’eliminazione dell’interferenza sulla linea e ricollegato il computer. I tre agenti avevano evidentemente colto nel giusto. Ma era difficile che il finto operaio delle linee telefoniche potesse rivelare qualcosa di sostanziale. Manovalanza locale, assunta di volta in volta per lavoretti secondari e priva di vere informazioni. Sperava soltanto che le sue rivelazioni «spontanee» potessero dare una mano a risalire più in alto di lui.

Il collegamento venne stabilito. La foto di Kevin Dimarzio apparve nitida sullo schermo. Rispetto all’ultima consultazione della scheda, però, Oswald trovò due pagine di informazioni in più. Scorse velocemente le ultime notizie: riguardavano ancora la vita militare del colonnello della NASA, ma con l’aggiunta di diversi dati su quella del padre, anch’egli ufficiale pilota nella seconda guerra mondiale, in forza presso la Royal Air Force britannica.

Il messaggio del sergente Bernstein dell’Ufficio Ficcanaso, che prese a scorrere improvviso nella parte bassa dello schermo, lo colse di sorpresa. CONFRONTO INCROCIATO: SIR ROBERT RUSTOM.

Sentendosi montare dentro un fiotto di eccitazione che gli inaridì la bocca, comandò alla macchina di eseguire il suggerito confronto tra Kevin Dimarzio e il suo ex datore di lavoro, presidente della NPO. Lo schermo si riempì immediatamente di notizie.

Con un sincero moto di gratitudine, Oswald benedisse la pignoleria del sergente israeliano. Sullo schermo stava leggendo che George Dimarzio, maggiore dell’aeronautica USA, distaccato presso la settima brigata aerea della RAF, era il pilota del velivolo personale dell’ammiraglio Francis Rustom.

Inoltre, tra i due figli dei personaggi indicati, il presidente della compagnia petrolifera e il colonnello della NASA, le meticolose ricerche del sergente israeliano avevano scoperto un’altra coincidenza: avevano entrambi un conto personale presso una banca di Zurigo, legata all’Unione di Banche Svizzere.

Dieci ore più tardi Breil si sarebbe imbarcato su un Jumbo della Swissair che lo avrebbe portato da Miami a Zurigo.

Intanto, di ore ne erano passate quasi due da quando Laura Joanson aveva provato a far tracciare dal computer il disegno grafico risultante dall’equazione di Leonard Speitz. Ma, nonostante l’intervento di Kevin, non erano ancora arrivati a una soluzione.

Era molto tardi, ma la nuovissima sensazione di piacere fisico che la giovane provava nell’avere vicino il già quasi odioso Dimarzio non le faceva pesare il trascorrere del tempo. Quando le loro ginocchia erano venute a contatto, nessuno dei due aveva accennato a ritrarre la gamba. L’infallibile molla dell’attrazione erotica era scattata. Si erano resi conto entrambi che l’attenzione prestata allo schermo era puramente fittizia. Respiravano più in fretta.

E finalmente Laura sentì la mano ferma del bel colonnello sfiorarle l’esterno della coscia, non più tanto per caso. Era troppo incuriosita ed eccitata per accennare un qualsiasi tentativo di reazione. Fece una cosa che non ricordava di avere mai fatto, almeno non durante il lavoro: troppi i rischi di trovarsi impegolata in un’interminabile disputa ideologica su molestie e «correttezza politica». Comunque: spinse la gamba verso l’esterno per incoraggiare il «molestatore». Quasi senza saperlo, si ritrovò tra le sue braccia, travolta da un bacio appassionato.

Kevin la sollevò di peso e la depositò su una scrivania sgombra a poca distanza da loro. Chissà come, riuscì a spegnere la luce. Laura sentì le sue mani esplorarla, esperte e abili. Si trovò nuda sotto di lui, e capì definitivamente che non aveva forse mai desiderato altro. Incurante della posizione scomoda e, anzi, doppiamente eccitata, si aprì e lui la penetrò, affondando nel suo corpo con potenti colpi delle anche. Provò un piacere del tutto nuovo, una sensazione quasi animalesca di godimento e di gusto del proibito, ulteriormente accentuata dal rischio di essere scoperti. Kevin le si inarcò sopra in un ultimo spasimo e il calore del seme la invase mentre veniva scossa dall’orgasmo.

Quando tutto fu finito, ebbero un attimo di imbarazzo. Il corpo nudo e perfetto di Laura era illuminato dai raggi della luna. Kevin rimase immobile a guardarla, quasi stesse cercando di recuperare la sua solita aria distaccata da irreprensibile servitore dello stato, esente da ogni pecca. «La luna», mormorò inesplicabilmente.

Due secondi dopo, Laura lo avrebbe preso a ceffoni. Si era allontanato di scatto, precipitandosi di nuovo al computer e sedendosi. Dopo qualche istante lo sentì ripetere: «La luna! Nel grafico non c’è la posizione della luna! Ecco perché il computer segnala un errore di calcolo!»

In un attimo si infilò alla meglio i vestiti, allacciò qualche bottone del camice e lo raggiunse.

Seguì con attenzione spasmodica i movimenti con cui Kevin stava apportando alcune correzioni alla formula originaria. Come per incanto, il disegno si delineò finalmente completo. Kevin si voltò a guardarla con un’espressione preoccupata.

«L’ellisse sembrerebbe la traiettoria di un corpo celeste», spiegò. «Molto probabilmente un asteroide di grandi dimensioni che Speitz aveva individuato. Vedi, Laura, questa serie di tracciati corrisponde alle orbite che il corpo celeste ha percorso nel nostro secolo. In alcuni casi si avvicinano alla Terra fino a pochi milioni di chilometri.»

Poi Kevin Dimarzio seguì una delle ellissi con un dito, proseguendo: «È nel corso di questa che Speitz deve aver individuato l’asteroide: le date corrispondono a quelle degli studi dello scienziato tedesco. A impedire alla macchina di sviluppare il programma era l’ultima delle orbite. Qualcosa di sbagliato o mancante: i calcoli manuali dell’astronomo del Reich non hanno tenuto conto della forza di attrazione lunare. Forse non ha fatto in tempo a inserire i dati, visto che la formula compare in fondo ai suoi appunti. In ogni caso», continuò, tornando a studiare attentamente il disegno computerizzato, «di qualsiasi cosa si tratti, la sua traiettoria verrà inevitabilmente deviata quando passerà vicino alla luna, e la velocità subirà una notevole accelerazione. Dovrò fare i calcoli fino ai minimi dettagli. Ma da quelli approssimativi che sono riuscito a fare mentalmente in questi pochi minuti, ci sono moltissime possibilità che questa massa celeste precipiti sulla Terra con una velocità devastante».

«Ero convinta che lo spazio fosse tenuto sotto costante monitoraggio», osservò Laura, sentendosi le gambe molli per un’eccitazione di natura completamente diversa da quella da cui era stata travolta poco prima. «Se non altro quello più vicino a noi, voglio dire.»

«Certo», rispose Kevin. «I pianeti sono oggetto di costante studio, ma è praticamente impossibile seguire il movimento di asteroidi e piccole comete lontane, a meno che non vengano scoperti per caso e tenuti sotto continua osservazione.»

Zurigo. Dicembre 1995

Non ricordava di avere mai visto la città così grigia. Ma attribuì la sensazione al naturale termine di confronto che aveva in mente: qualunque metropoli sarebbe apparsa grigia a uno che arrivava direttamente dalle spiagge della Florida.

Arrivò in perfetto orario all’appuntamento con il presidente della banca, ma fu Ceorsky a farlo aspettare venti minuti prima di riceverlo nel suo ufficio.

«Il dottor Breil?» chiese quando fu finalmente arrivato al suo cospetto, non facendo niente per dissimulare un’espressione perplessa di fronte alla statura del visitatore. Si aspettava evidentemente ben altro.

«Sì, sono precisamente Oswald Breil, dottor Ceorsky.» E gli tese la mano minuta sorridendo compunto e accomodandosi con decisione, senza aspettare l’invito, in una delle due poltroncine sistemate davanti alla scrivania in noce.

«In che cosa posso esserle utile, dottore? Il consolato israeliano, quando ha fissato l’appuntamento, non ha voluto fornire nessuna spiegazione circa il motivo della visita.»

«Sono un dirigente del Mossad, direttore, ed è in questa veste che ho bisogno del suo aiuto», tagliò corto Breil.

Ceorsky non poté dissimulare un trasalimento, ma recuperò immediatamente il suo aplomb, riprendendo in tono grave: «Qualsiasi cosa possa esserle utile, nel rispetto delle qualità di riservatezza che hanno reso famoso il sistema bancario di questo paese…»

«Credo proprio che ciò che sto per chiederle dovrà invece aggirare un po’ la rinomata ermeticità degli istituti di credito svizzeri. Sono qui precisamente per raccogliere informazioni su alcuni conti correnti personali.»

Il direttore si irrigidì: «Lei sa che sono previste alcune procedure. Rogatorie internazionali, esame dei documenti e conseguente benestare della procura cantonale…»

«Non dispongo di niente del genere, né credo di avere tempo per seguire la prassi burocratica», ribatté Oswald con estrema fermezza.

L’altro mantenne il suo atteggiamento di distaccata cortesia, ma cercò comunque di dribblarlo, se non addirittura di metterlo alla porta su due piedi. «Non metto in dubbio il valore del suo tempo, dottor Breil, ma la prego di considerare altrettanto limitato il mio. Sono cinquantatré anni che lavoro in questo istituto, salendo i gradini della carriera a uno a uno, da impiegato semplice fino a presidente. Crede che oggi, a settantasei anni, potrei venire meno a uno dei miei principi fondamentali?»

Oswald, come sempre con le gambe penzoloni dalla sedia, sembrò improvvisamente un bambino intento a recitare la poesia di Natale.

«Misha Ceorsky», attaccò, «immigrato in Svizzera presso una zia paterna all’età di dodici anni. I genitori e un fratello maggiore rimangono invece a Varsavia, dove gestiscono una botteguccia di alimentari nel quartiere ebraico. In via Leszno, per la precisione. Mi corregga se sbaglio.»

Quindi, dopo uno stupefatto cenno di assenso dell’altro, riprese: «La famiglia è vittima di un rastrellamento nel 1942 e viene internata nel campo di Auschwitz. I suoi sfortunati parenti vengono messi a lavorare presso una delle fabbriche belliche situate nelle vicinanze del lager. Ma verso la fine dell’anno spariscono. I loro compagni di sventura, i pochi sopravvissuti, li credono morti. Inspiegabilmente, invece, a guerra finita, la famiglia Ceorsky ricompare in scena, sana e salva, proprio qui a Zurigo, dove ha da tempo raggiunto il figlio e fratello Misha, ormai lanciato verso un’importante carriera bancaria».

Seguì un lungo istante di silenzio assoluto, prima che Oswald ricominciasse, ormai sicuro di stringere il coltello dalla parte del manico: «Tutti sanno come, durante la guerra, la Confederazione Elvetica sia diventata il forziere del mondo. Anche le enormi fortune dei gerarchi nazisti hanno dovuto transitare per i vostri conti cifrati. Non c’è motivo di scandalizzarsi se, approfittando dei contatti dovuti al suo impiego, un bravo impiegato di banca ebreo ha cercato di salvare i genitori e un fratello dalla camera a gas. Dio ne scampi. Era un suo preciso dovere umano.

«Il grave sarebbe se oggi, a cinquant’anni di distanza, ci venissero precluse informazioni di cruciale importanza per fare luce sui crimini della storia. Il mio aereo parte domani pomeriggio, signor Ceorsky. Ha qualche ora di tempo per pensarci. Se ha bisogno di me, mi trova all’Hotel Baur au Lac.»

E, così detto, Oswald posò sulla scrivania un foglietto su cui erano scritti i numeri dei conti di Robert Rustom e Kevin Dimarzio. Quindi, fatto dietrofront e senza più dire una parola, lasciò a passo spedito l’ufficio del presidente della banca.

14.

Porto di Ostia. Anno 838 dalla Fondazione di Roma.

[85 d.C. (N.D.T.)]

La luce del sole, dopo venti giorni passati in una stiva buia, era così accecante da provocargli una sensazione di dolore. Benché riuscisse a malapena a distinguerne le immagini, Giunio riconobbe immediatamente i moli della città di Ostia. Attraversò la banchina con le catene ai polsi e alle caviglie, scortato da un manipolo di guardie. Le espressioni della gente che incontrava, quella stessa gente che fino a non molto tempo prima plaudiva al suo modo di operare nel mondo del commercio, erano cariche di disprezzo.

Gli sguardi che sfuggivano il suo e le parole ostili lo riempirono di vergogna e disperazione. Avrebbe voluto gridare a tutti la sua innocenza, ma era talmente confuso da non poter profferire parola. Fu fatto montare, assieme a quattro soldati, su un carro di cui ogni apertura era bloccata da pesanti sbarre. Gli animali si avviarono, e il convoglio, composto dal carro e da una forte scorta di cavalieri, si mosse verso Roma.

Non aveva più saputo niente di Clelia da quando lo avevano tradotto sulla nave ad Alessandria. Sapeva che avrebbe dovuto compiere il viaggio di ritorno sul suo stesso vascello e che, come lui, una volta a Roma sarebbe andata incontro a un destino terribile.

Non avrebbe mai potuto togliersi dalla mente il suo profumo, il suo corpo così vicino, la sua indescrivibile dolcezza, la determinazione con cui aveva preteso di rispettare i voti.

Rivedeva la scia di morte che si era lasciato dietro, tutte le persone innocenti che avevano pagato con la vita per le terribili congiure di Menenio e dei suoi accoliti. Implorò gli dei di averlo ucciso davvero con quel fendente.

Ripensò con angoscia ai suoi genitori: chissà se erano stati liberati, chissà dove si trovavano in quel momento. Si guardò cautamente attorno: fuggire era impossibile. Sentiva che la sua naturale sicurezza lo stava abbandonando definitivamente: doveva reagire, non doveva arrendersi di fronte a niente, nemmeno davanti a una condanna a morte.

Clelia, invece, aveva trascorso la maggior parte del viaggio chiusa nell’alloggio di un ufficiale. Sapere che sotto le tavole della coperta era imprigionato l’uomo che amava, la riempiva di una doppia disperazione.

Una volta a Roma non avrebbe avuto scampo, le celle segrete del Campo Scellerato l’avrebbero quasi sicuramente accolta e sepolta viva per sempre. Aveva una sola speranza: non si era macchiata della colpa per cui era prevista la pena di morte. E nessuno avrebbe mai potuto incolparla di aver mancato ai voti.

«Mancato ai voti…» ripeté tra sé un’ennesima volta, mentre i pretoriani la scortavano verso Roma. Il pensiero si fece intollerabile: Giunio sdraiato accanto a lei, la notte piena di stelle… Sarebbe forse stato meglio cedere. Lo avrebbe certamente fatto, se avesse saputo che cosa l’aspettava.

Roma imperiale.

Oltrepassò ancora una volta il portale della caserma dei pretoriani trascinato dalle guardie che reggevano le catene. Venne portato in una stanza spoglia. Riconobbe immediatamente Sestilio, mentre l’altro uomo gli dava le spalle. Ma la menomazione sul volto di Menenio divenne sempre più evidente man mano che il senatore si voltava. Erano trascorsi soltanto pochi mesi, la carne della cicatrice era rosea e fragile. Dalla tempia fino al mento, la parte destra del volto del suo persecutore non esisteva quasi più. La lama della spada aveva inciso le ossa della mascella, frantumandole, con la conseguenza che adesso, potendo usare soltanto la parte sinistra della bocca, il senatore parlava biascicando.

Giunio non aveva mai visto uno sguardo così carico d’odio, nemmeno negli occhi di un nemico morente. «Questa volta pagherai per i tuoi delitti», disse Menenio, come schizzasse veleno. «A Roma si è fatto un gran parlare delle accuse che pesano su di te. Soltanto per questo non ti uccido adesso con le mie mani: è meglio che la tua morte sia decretata da un processo regolare», e così dicendo la sua voce salì in un crescendo d’ira. «Sta’ sicuro: questa volta non ci saranno miracoli, sulla tua strada di condannato non appariranno vestali. Anzi, forse una la incontrerai, sì, ma sconsacrata, e farete insieme il viaggio verso il giudizio estremo.»

Giunio vide che Sestilio stava sorridendo. Prima che le guardie lo trascinassero fuori, riuscì a urlare, disperato: «Mio padre, mia madre! Dove sono i miei genitori, maledetti vigliacchi? Sapete prevalere soltanto sequestrando vecchi indifesi o attentando alla vita di giovani sacerdotesse inermi. Vi maledico, assassini!»

In tutt’altra zona di Roma, dovettero trascorrere alcune ore prima che Clelia sentisse che qualcuno stava aprendo la porta. Le apparve, persino più arcigno del solito, il viso della Vestale Massima, lividamente illuminato dal basso dalla lucerna che teneva in mano. Le tre donne che l’accompagnavano erano di corporatura tozza e robusta. Troppo tardi la giovane si accorse dei legacci: prima che potesse ribellarsi, si trovò saldamente legata al letto.

Le vesti le furono strappate di dosso, vide la fiamma che scendeva a illuminarle il sesso. Osservò impotente Cornelia chinarsi per avere conferma alle sue accuse dal ripugnante esame, poi, con sollievo, la vide scuotere la testa con evidente disappunto.

«Clelia», mormorò la terribile virago, fissandola negli occhi, «sembra che tu non abbia perso la verginità.»

«Non ho mai mancato ai sacri voti», ribatté lei, animata da un nuovo coraggio.

Il lampo di odio nello sguardo della Vestale Massima la raggelò. La vide chinarsi verso una delle donne che la tenevano ferma e sussurrarle qualcosa all’orecchio. La donna uscì dalla stanza, rientrandovi poco dopo.

Non capì subito che cosa avessero intenzione di farle, finché non sentì di nuovo le mani aprirle il sesso e un oggetto fare una pressione terribile, lacerante. Provò a dibattersi, a sottrarsi all’infame violazione, ma fu inutile. Il dolore le annebbiò la vista. Provò distinta la sensazione che qualche cosa di lei, dentro di lei, si fosse spezzato. Sentì il sangue colarle sull’interno delle cosce.

Cornelia era ai piedi del letto e reggeva alto il grosso fallo di legno sottratto a una statua di Priapo.

«Adesso», esclamò con un sorriso carico di perfidia, «il tuo sacrilegio sarà evidente a tutti.»

La porta della stanza venne chiusa a chiave dall’esterno, mentre Clelia precipitava in un deliquio di dolore e disperazione.

Altrettanto buia era la cella dov’era stato rinchiuso Giunio, e fetida. Gli dolevano le ossa, gli occhi sembravano volergli schizzare dalle orbite. Prima di gettarlo nelle segrete del carcere, i soldati avevano provveduto a placare i suoi spiriti a furia di bastonate e frustate. Dal buio sentì arrivare un fruscio.

«Chi sei?» chiese una voce vecchia e fragile.

«Giunio della città di Luna. E tu?» rispose lui, massaggiandosi la testa dolorante.

«Mi chiamo Valeriano, la mia accusa è di credere in Dio.»

«Io invece sono ingiustamente incolpato di avere ucciso l’uomo che amavo e tuttora amo come un padre», replicò Giunio, mentre a poco a poco gli occhi si abituavano al buio, consentendogli di cominciare a distinguere i contorni dell’interlocutore. «Come mai non sei ancora stato buttato in pasto ai leoni, cristiano?»

«Chi può conoscere il volere di Dio? Sembra che i romani mi abbiano dimenticato qui. Anche se, a conti fatti, è una ben dura prova, quella che mi è stata imposta. In certi momenti preferirei addirittura aver condiviso la sorte dei miei fratelli, piuttosto che dovermi cibare di topi e di insetti in questa cella.»

«Sia il volere del tuo dio, di quelli di Roma o del destino, la vita è veramente strana, vecchio. Anche la mia vicenda è incredibile. I miei persecutori erano già riusciti una volta a condannarmi, ma una sacra apparizione è stata capace di evitarmi la morte», disse Giunio, scuotendo sconsolatamente la testa. «E l’unico modo che ho trovato per sdebitarmi è stato mettere in pericolo di vita anche la sacerdotessa che mi aveva salvato: Clelia.»

«Hai detto Clelia?» esclamò il vecchio in tono incredulo e concitato, sforzandosi di alzarsi e di avvicinarsi.

«Sì», rispose Giunio. «E a ogni istante che passa mi rendo sempre più conto di quanto sia importante per me la sacra giovane. Ma perché tanta emozione, Valeriano? Conosci Clelia?»

«Se la conosco…» rispose il vecchio, in tono sognante. Parlarono a lungo, uno accanto all’altro nel fetido antro, raccontandosi l’un l’altro le loro vicissitudini.

Nato in un remoto villaggio dell’Illyricum, Valeriano era stato portato a Roma poco più che bambino, e schiavo. Era entrato al servizio di una famiglia patrizia e presso di essa aveva trascorso gran parte della vita, prima come giovane servitore del primogenito dei suoi padroni e poi come suo uomo di fiducia. Ne aveva visto nascere uno dopo l’altro i figli, cui si sentiva legato come uno zio. Quando, in segno di gratitudine, il più giovane di questi, da cui era stato ereditato, aveva fatto di lui un liberto invitandolo a crearsi una casa e una famiglia a Roma, sulle prime era quasi rimasto sgomento. Dove andare, nella metropoli, che fare? Già da tempo aveva stretto legami con i cristiani, si era rivolto a loro, aveva ricevuto tutto l’affettuoso aiuto che poteva aspettarsi. Ma uscire dalla famiglia aveva significato per lui abbandonare una bambina a cui si era affezionato come un nonno.

La prima nata del suo padrone. Una piccola di nome Clelia, che sapeva ancora parlare a stento ma che con le sue esili gambine già accorreva a lui ogni volta che lo vedeva, appunto come da un buon nonno.

Ma non poteva rinunciare alla libertà così generosamente offertagli. Gli avrebbe consentito di lavorare con ancor maggiore devozione per la religione che aveva abbracciato in segreto. Aveva lasciato la casa del suo buon padrone portando chiusa in petto l’immagine della piccola.

«E non puoi immaginare la mia commozione», concluse il vecchio con un sospiro, «il giorno che riconobbi quella bambina, cresciuta, in una sacra vestale che incontrai mentre mi conducevano in carcere. La mia piccola Clelia! Non potevo certamente rivelarmi a lei, che senso avrebbe avuto? Le avrei soltanto dato pena. E probabilmente non ricorda nemmeno la mia esistenza. Ma non avrei mai distolto lo sguardo dal suo viso. È dunque stata lei a salvarti? È davvero il destino che ha voluto farci incontrare qui.»

«Hai notato di quanto sei sceso sotto terra, prima di entrare nelle segrete?» chiese qualche ora più tardi Valeriano. E, senza aspettare la risposta di Giunio, riprese subito in un mormorio appena udibile: «Siamo appena sotto il livello del Tevere. Capisci che cosa significa, tu che mi hai raccontato di avere combattuto con la pendenza per far affluire le acque a Roma?»

«Che sopra le nostre teste, da qualche parte, dovrebbe esserci una condotta di scolo», rispose d’impulso Giunio.

«Precisamente. Ora, vedi, la mia occupazione da uomo libero era l’agrimensore. Il mio lavoro consisteva nel pianificare e costruire l’enorme reticolato di fognature che corre sotto la città. Conosco meglio le gallerie sotterranee che non le strade in superficie» riprese il vecchio, stringendo la mano scarna, con una forza imprevedibile, intorno al braccio dell’interlocutore. «Lassù», continuò poi, indicando con l’altra mano la volta della cella, nel buio quasi totale, «scorre non una semplice condotta di scolo, ma addirittura la Cloaca Massima.»

La fogna di Roma! Mai avrebbe creduto di poterla assimilare a un’idea di libertà. Eppure, per quanto improbabile e folle potesse apparire la prospettiva, le cose avrebbero proprio potuto stare così. Attraverso le fogne sarebbero potuti scappare. Quella speranza di liberazione, sebbene così vaga, fece dimenticare a Giunio il dolore fisico.

«Ma come si può fare?» esclamò, improvvisamene riportato alla realtà dei fatti. «Come possiamo riuscire ad aprire un varco, nelle poche ore che mi restano da vivere?»

La voce del vecchio si fece improvvisamente quasi allegra: «Che cosa credi che abbia fatto, negli anni che ho trascorso chiuso qui dentro?» E strinse con ancora maggior forza la mano sul braccio del compagno.

Desolata nel buio della sua camera di contenzione, Clelia piangeva, benché il dolore fossa ormai poca cosa. Era trascorso diverso tempo da quando avevano ignobilmente abusato di lei. La porta della sua stanza si aprì ancora una volta, ma non certamente per portarle soccorso o sollievo.

L’esame del medico e dei due sacerdoti fu estremamente superficiale, e a niente valsero le sue proteste e accuse: i tre turpi individui, morbosamente compresi nell’accertamento del sacrilegio, sembravano sordi alle sue suppliche. Dopo uno scorrere di istanti che le parve interminabile, rimase nuovamente sola con la sua disperazione.

Aveva trovato un po’ di sollievo alla vergogna e allo sfinimento in un breve sonno, quando una mano affettuosa le accarezzò la schiena. Si voltò di scatto. Vide il volto amico di Gaia.

«Come hai fatto a entrare?» mormorò.

«Hanno sbarrato la finestra con assi, sicché non l’hai riconosciuta, ma questa è la nostra stanza di un tempo, Clelia. E io ne ho conservato una chiave.» Le tese le braccia, a cui Clelia si abbandonò in uno slancio di affetto.

«Se ti scoprono, ti troverai in un brutto guaio», mormorò.

«Temo molto di più per quelli in cui sei andata a cacciarti tu, mia povera amica», rispose Gaia, stringendola a sé come per proteggerla. «Che cosa hai fatto? Come hai potuto venir meno al voto? Lo sai che cosa ti aspetta adesso?»

«Io non ho fatto niente di male, Gaia, non ho mancato a nessun voto, te lo giuro su quello che ho di più caro» riuscì a balbettare l’infelice, sentendosi strozzare da un nodo in gola. Nessuno avrebbe dunque mai creduto alla sua innocenza?

Gaia annuì malinconicamente. «Sì, credo di capire. No, non dire niente, Clelia, non occorre. Quelle persone terribili non si fermano neanche davanti alle più ignobili menzogne. Ma il processo è imminente, non puoi sfuggirgli. E non c’è dubbio: sarai condannata a essere sepolta viva.»

Le lacrime sgorgarono libere e disperate, mentre il ricordo della violenza subita tornava a riempirla di dolore e angoscia: «No, lasciami parlare, Gaia. I medici non mentono. È vero che il mio corpo è stato violato. Ma con la forza, non per amore. È stata Cornelia», si levò alta la sua voce tra i singhiozzi, «ad abusare di me in un modo infame, togliendomi la verginità! Aiutami, Gaia. Sono innocente. Non voglio morire».

La mano di Valeriano era ancora stretta sull’avambraccio di Giunio. Con movimenti lenti, senza alzarsi ma procedendo carponi, lo condusse vicino alla parete sulla loro destra. E lì arrivato cominciò subito a rimuovere il sottile strato di sabbia che ricopriva gli interstizi tra i blocchi di tufo. Giunio si rese immediatamente conto che quattro di essi si potevano asportare, lasciando un varco abbastanza ampio da far passare un uomo. Seguì il vecchio che s’infilava con imprevedibile agilità nel passaggio. Il buio era assoluto, ma si rese conto che stavano salendo verso la faccia esterna della volta della cella. A mano a mano che avanzavano lo spazio aumentava, finché non andò a sbattere contro Valeriano, che si era fermato senza avvertirlo.

La sua voce gli giunse amplificata dal vuoto: «Dio mi ha aiutato. Mi ha fatto incontrare questa vecchia cisterna per l’acqua proprio sopra il soffitto della nostra cella. Appoggia l’orecchio qui». E si sentì guidare la testa dalle mani del vecchio. Udì distintamente lo scroscio, come se al di là del muro scorresse un fiume.

Posati sul fondo del cunicolo riconobbe al tatto gli oggetti che il cristiano aveva usato per scavare: due tiranti in ferro, di quelli che i muratori inseriscono all’estremità di un muro per renderlo più solido. Diede di piglio al più vicino e, nel buio, prese a picchiare con forza sul diaframma che li separava dalla libertà.

Valeriano lo fermò immediatamente, avvertendolo: «La Cloaca Massima è un fiume sotterraneo che scorre nelle viscere di Roma. Sono convinto che questo muro che vorresti demolire si trovi sotto il livello delle acque; se lo sfondassi, l’acqua si riverserebbe in questa intercapedine con una violenza tremenda. Non avremmo il tempo di aprire un varco abbastanza grande da consentirci di passare al di là. E poi, anche se riuscissimo a vincere la pressione, la nostra fuga verrebbe scoperta nel giro di poco tempo, non appena qualcuno notasse l’allagamento, anche se le guardie scendono di rado nelle segrete del carcere».

«Preferisco di gran lunga il rischio di morire annegato al supplizio della pena capitale», esclamò Giunio.

Il vecchio scosse la testa. «Hai ragione», replicò. «Ma dobbiamo procedere con cautela.»

Decisero di separare di nuovo la cella dal cunicolo in cui si trovavano, rimettendo a posto i blocchi di tufo dall’esterno e incastrandoli nel muro. Avrebbero comunque opposto una certa resistenza alla pressione dell’acqua, ritardando l’allagamento. Finita questa operazione, Giunio attaccò la prima barriera di mattoni della cisterna.

Quando l’acqua cominciò a zampillare da una breccia, era ormai passato diverso tempo. Trasse Valeriano vicino a sé, a ridosso del muro, e colpì con raddoppiata forza. Alcuni mattoni vennero letteralmente fatti schizzare al centro della cavità, mentre un fiotto di acqua maleodorante cominciava a invaderla.

Senza perdere un istante, Giunio riprese a martellare il muro con il ferro: doveva aprire un varco abbastanza ampio perché potessero passare di là prima che l’acqua avesse allagato completamente l’angusto spazio in cui erano chiusi. Quando ritenne di esserci riuscito, la pressione iniziale era diminuita, ma l’acqua era ormai alta e lasciava soltanto un sottile strato d’aria, appena sotto il soffitto.

Fece cenno a Valeriano di respirare profondamente, quindi lo strinse per un braccio e lo trascinò sott’acqua. Arrivato all’altezza della breccia che aveva aperto, lo spinse dentro con forza. Quindi tornò in superficie e si riempì i polmoni che sentiva bruciare, ormai con la bocca a ridosso del soffitto della cisterna, quasi completamente invasa.

Rituffatosi, raggiunse il passaggio della salvezza e infilò la testa nella breccia. Le spalle passarono a fatica, ma ce la fecero. Il torace, invece, forse a causa della pressione dell’acqua che continuava a scorrere in senso contrario, rimase incastrato nel varco, ancora troppo stretto per la sua corporatura. Provò a divincolarsi, a fare forza aggrappandosi con le mani ai bordi taglienti dei mattoni demoliti. L’aria nei suoi polmoni stava per finire, quando riacquistò un attimo di lucidità. L’aria non serviva più a niente. Meglio provare a espellerla. Svuotò i polmoni soffiando con forza, riuscendo a ridurre di un po’ lo spessore della cassa toracica.

Nel suo petto sembrava essere scoppiato un incendio, ma in un lampo di rinnovata speranza sentì la morsa allentarsi. Fece ricorso alle ultime energie, divincolandosi e mulinando con forza le braccia per raggiungere la superficie.

Sentì cinque dita intrecciarsi a quelle della mano tesa più in alto, nocche fare forza sulle nocche. La mano del vecchio cristiano lo tirò verso l’aria, verso la salvezza, verso una luce che, per quanto scarsissima e lurida di esalazioni venefiche, era quella della vita. Il sorriso di Valeriano fu la prima cosa che intravide. Si sentì tirare verso una specie di camminamento lastricato, che si allontanava dal corso del fetido fiume sotterraneo.

Gli occhi gli bruciavano, il corpo doleva di cento piccole ferite, aveva il petto squassato dalla tosse, ma era libero. Ancora una volta, quale che potesse essere la divinità che lo aveva voluto, quale che potesse essere la nuova missione che gli era affidata. Anche se la conosceva già, mossa per mossa. Non poteva averne un’altra.

Cercò a tentoni il corpo del vecchio e lo strinse a sé in uno slancio di affetto e riconoscenza. Rimasero immobili in silenzio a lungo, cercando di recuperare le forze, finché non fu lo stesso Valeriano a incamminarsi, dimostrando di conoscere quel labirinto sotterraneo in ogni suo segreto. Di quando in quando si fermava, preso da un attimo d’incertezza davanti a una delle infinite diramazioni del dedalo, ma ogni volta imboccava risoluto una direzione, riprendendo ad avanzare con le mani protese davanti a sé. Senza di lui, Giunio sapeva che sarebbe rimasto là sotto chissà quanto tempo, e magari avrebbe finito con il riemergere proprio al centro di una piazza d’armi.

Di punto in bianco, tenue e lontano, comparve un filo di luce che ai loro occhi dolenti sembrò un faro. Pareva voler indicare loro la strada, sempre più preciso a mano a mano che avanzavano. Svoltarono ancora una volta, e finalmente il cunicolo cominciò ad allargarsi. L’ansa in cui si trovavano era illuminata da un paio di torce; una grata metallica sbarrava un passaggio.

Valeriano spostò uno dei cardini, e la griglia si mosse con un cigolio. Giunio capì che stavano per entrare in uno dei cunicoli sotterranei nei quali si mormorava che si riunissero i cristiani. Ne aveva sentito parlare spesso, ma non aveva mai prestato particolare fede alle voci.

Dopo pochi istanti dovette ricredersi. Non avrebbe mai immaginato che il sottosuolo della città potesse essere così popolato. Vide tempietti illuminati, effigi sacre, persone raccolte in piccoli crocchi nei punti dove le dimensioni delle gallerie lo consentivano. Dovevano avere un aspetto ben singolare, Valeriano reduce da anni e anni di segrete, lui ancora sanguinante per le percosse ricevute, e comunque dopo avere nuotato entrambi nelle fogne di Roma. Un giovane dai capelli castani si fece loro incontro, in guardia, scrutandoli con apprensione.

Improvvisamente il suo viso si aprì in un largo sorriso. «Ma io ti conosco», esclamò, rivolto al vecchio. «Sei Valeriano, cugino di mio padre. Tutta la famiglia ti credeva morto. Chi porti con te, cugino?»

«È Giunio della città di Luna, un mio compagno di sventura. Gli devo la vita e il successo della nostra evasione.»

«Sia fatta la volontà di Dio. Chiunque conosca la carità è nostro fratello», concluse pacatamente il giovane, indicando loro una polla di acqua fresca per dissetarsi e lavarsi.

Con quale ineffabile piacere sentirono quei rivoli gelidi e puliti sul corpo. Non avrebbero più smesso, bevendo l’acqua come se fosse un nettare, gustandone il sapore, riconoscendola per quella fonte di vita che è, gettandosela sugli occhi, inspirandola nel naso, usandola come linimento per le ferite.

Vennero rivestiti di abiti poveri ma puliti, e il giovane si offrì di fare loro strada. Quando giunsero in vista di un secondo tempietto cristiano, una visione fece trasalire Giunio: davanti a tre uomini vedeva una giovane vestale che parlava animatamente, accompagnando le parole con gesti ansiosi. Gli dava le spalle, e per un attimo ebbe l’illusione di avere ritrovato Clelia.

Gaia girò la testa proprio mentre il terzetto si stava avvicinando. Le ci volle qualche istante per mettere a fuoco le tre figure, ma poi, nonostante la scarsa luce e le ferite sul volto, in una di esse riconobbe Giunio della città di Luna, il gladiatore che era stato capace di infiammare l’animo di tutto il Circo e — come ormai sapeva fin troppo bene — anche il cuore della sfortunata Clelia.

«È il destino che ti manda, Giunio», esclamò con voce strozzata, senza preamboli. «Presto, presto! Clelia è in grave pericolo.»

«Calmati, vestale», replicò Giunio, incredulo, «riprendi fiato.» Poteva davvero essere che la sorte lo rimettesse così presto sulle tracce della donna della sua vita? Quali dei volevano… Quale dio…

«Sono Gaia, l’unica amica di Clelia da quando eravamo poco più che bambine», riprese la vestale con voce angosciata. «Abbiamo ricevuto i voti insieme. In questo posto sto rischiando la vita. Come tutti voi, del resto. Qualcuno potrebbe avere già riferito alla Vestale Massima che stavo cercando di mettermi in contatto con i cristiani. Ma siete la mia ultima speranza, gli unici che possono aiutarmi a salvare Clelia dall’essere sepolta viva.»

Uno degli uomini che la circondavano scosse la testa. «Noi non siamo un esercito in armi, non abbiamo dimestichezza con la lotta, non potremmo mai…»

«Dov’è», la interruppe Giunio, come impazzito. «Dov’è Clelia?»

«In questo momento si trova ancora nell’Atrium Vestae, sorvegliata a vista da un manipolo di guardie», rispose la sacerdotessa. «Ma domani mattina presto sarà portata sotto scorta al Campo Scellerato, perché venga eseguita la condanna.»

«Avete armi o spade in questi sotterranei?» chiese ancora Giunio, girando sui presenti uno sguardo carico di furore ma soprattutto di speranza.

«Calmati, Giunio», lo interruppe il vecchio Valeriano in tono pacato. «Usa il ragionamento. Non sarà certo con le armi che potremo sottrarre Clelia ai suoi carcerieri.»

15.

Zurigo. Dicembre 1995.

Oswald scostò la tenda e guardò fuori: il traffico ordinato di Zurigo scorreva sotto il cielo plumbeo di dicembre. Stava quasi sicuramente per mettersi a nevicare. Stipò le sue cose nel borsone da viaggio e chiuse la lampo. In quello stesso istante squillò il telefono.

«Stavo per lasciare la stanza, dottor Ceorsky», disse, non appena ebbe sollevato la cornetta. «Pensavo di fare un giro in città prima di recarmi all’aeroporto. Il mio volo per la Florida parte nel pomeriggio.»

«Può concedermi un’oretta, prima di partire?» chiese il presidente del Banco Cantonale con voce chiaramente agitata. «Dovrei dirle alcune cose in merito alla questione di suo interesse.»

Si accordarono per pranzare insieme in un ristorante del centro.

Key Biscayne. Miami. Florida. Museo dei Reperti Sommersi.

Kevin Dimarzio non conosceva sicuramente il fremito che prova ogni collezionista davanti a un’opera d’arte, altrimenti lo avrebbe immediatamente individuato nel sentimento da cui si sentiva prendere ogni volta che osservava le tre statuette d’oro. Per le Pietre della Luna provava un’attrazione irresistibile. Le sentiva familiari, amiche, riconosceva in loro l’arcana importanza che…

Nella sala del museo entrò Laura, interrompendo le sue riflessioni. «Pochi minuti e sono pronta, Kevin», disse.

«Non preoccuparti, Laura, sono talmente preso nell’ammirazione per questi oggetti che il tempo sembra non esistere.»

«Mi sono informata sulle Pietre della Luna, o almeno sulla loro storia recente. Furono regalate a Hitler nel 1928 da un amico: Siegfried Sachs, erede dell’impero tedesco dell’acciaio. Sembra che il Führer fosse molto affezionato a quelle statuette, che compaiono tra l’altro in diverse foto del dittatore ripreso nel suo studio. Sachs, invece, nonostante l’amicizia con quello che sarebbe diventato l’uomo più potente e spietato del suo secolo, nel 1942 fu chiuso in un campo di concentramento, dove letteralmente scomparve. Le sue aziende vennero nazionalizzate e completamente asservite alle esigenze di una Germania impegnata nello scontro bellico con il mondo intero.

«Il caso Sachs viene ricordato spesso dai biografi per sottolineare il cinismo del Führer. È provato che il gruppo Sachs è stato uno dei più importanti finanziatori del partito nazionalsocialista, ma il presidente dell’impero dell’acciaio ne ha ricevuto in cambio soltanto deportazione e morte. E stupisce l’accanimento con cui è stato perseguitato Siegfried Sachs. Era ospite del Führer nella residenza della Foresta Nera, e soltanto una settimana dopo è stato prelevato nel suo ufficio da un maggiore delle SS per essere internato la notte stessa in un campo di concentramento.»

«Può darsi che la fama di conquistatore di Sachs avesse fatto breccia nel cuore di Eva Braun», replicò Kevin scherzosamente. «Vedo comunque che la raccolta di informazioni sta facendo passi da gigante.»

«Sono ormai otto mesi che mi trovo coinvolta in questa storia, Kevin, e un certo contributo penso di averlo dato anch’io, nonostante i miei limiti di donna», ribatté la giovane, scoccandogli uno sguardo carico d’ironia. Quindi, mentre il colonnello le rispondeva con un sorriso franco che metteva in risalto il candore dei denti nel viso abbronzato, continuò:

«Quello a cui proprio non riesco a risalire, però, è il vero segreto di quelle statuette d’oro. Che cosa sono? Qual è la loro origine? Dove sono state, nei secoli precedenti il momento in cui Sachs le ha regalate a Adolf Hitler? Penso che prima o poi dovrò fare un viaggio nella bella Italia dei tuoi avi, Kevin».

«Sarò felice di accompagnarti, Laura», replicò lui galante, abbozzando un inchino.

«Sono pronta», annunciò lei dopo qualche minuto, rientrando nella sala del museo dove aveva lasciato il colonnello.

Kevin Dimarzio non poté trattenere un moto di ammirazione, vedendola così sicura, slanciata ed elegante nel suo tailleur di lana.

«Hai fatto bene a coprirti», commentò, incapace di trovare altri argomenti. «Sembra che a New York la temperatura sia un bel po’ sotto lo zero.»

Zurigo.

Seduto in un salottino riservato del lussuoso ristorante che gli era stato indicato, Oswald Breil era al secondo Martini: un ritardo di mezz’ora non sembrava il comportamento tipico del presidente di una banca, per di più svizzera.

I due agenti della polizia elvetica improvvisamente comparsi sulla soglia presentarono il tesserino prima di esprimersi con parole.

«Il dottor Ceorsky ha avuto un grave incidente», lo informò senza preamboli uno dei due. «Ha detto che ha assolutamente bisogno di parlare con lei, dottor Breil. La preghiamo di seguirci. Dobbiamo fare presto, temiamo che le ferite riportate non gli lascino molto tempo.»

Oswald balzò in piedi con la solita insospettabile agilità e li seguì con i suoi passettini veloci. Lungo il tragitto, che l’auto percorse a forte velocità con le sirene spiegate, fu informato che un pirata della strada, riuscito a dileguarsi, aveva investito Misha Ceorsky negli immediati pressi della banca, provocandogli gravi lesioni interne.

Nella lussuosa clinica nascosta tra i pini, dove il presidente della banca aveva chiesto di essere ricoverato, furono immediatamente introdotti nello studio del primario. La sua espressione lasciava poche speranze. «Lei è un parente?» chiese a Breil, alzandosi prontamente dalla scrivania e andandogli incontro. Una frase chiaramente di rito, pronunciata con un’espressione di circostanza.

«Il dottor Breil è la persona che il ferito ha chiesto di incontrare», spiegò uno degli agenti.

Il primario annuì. «Certo, certo, capisco, sono stato personalmente informato dal dottor Ceorsky, che tuttavia mi ha pregato di prendere qualche comprensibile precauzione. È in condizioni veramente disperate. Non può essere disturbato, né visto da nessuno. Ma mi ha chiesto di fare questa eccezione. Si accomodi, prego, signor Breil, la accompagno. Agisca tuttavia con grande delicatezza: temo che siano gli ultimi momenti di lucidità del poveretto.»

Il presidente della banca zurighese giaceva nel lettino di una camera, isolata nel cuore dell’elegante struttura medica e protetta da una triplice serie di pesanti porte di acciaio con serratura di sicurezza a combinazione digitale, che il primario fece scattare personalmente con pochi tocchi esperti delle dita.

Precauzioni eccezionali che non stupirono Breil. Andando a cercare Ceorsky nella sua banca, sapeva che rischiava di esporlo a un grave pericolo. In realtà non pensava di poter ottenere da lui la minima informazione. E, successivamente, si era caso mai meravigliato della leggerezza con cui l’alto dirigente bancario sembrava avere preso la questione, la tranquillità con cui aveva usato il telefono per invitarlo in un locale pubblico. Il suo apparecchio era con ogni probabilità protetto da uno scrambler contro le intrusioni indesiderate, ma non di sicuro il centralino dell’albergo.

L’unico rumore nell’ambiente asettico in cui entrò era il sommesso ronzio delle apparecchiature elettroniche di rianimazione. Sul viso tumefatto del banchiere erano ormai chiaramente dipinti i segni della morte.

Ceorsky aprì gli occhi, tentando faticosamente di alzare la testa dal cuscino. Con altrettanta fatica fece cenno ai presenti di allontanarsi, chiedendo con un filo di voce di essere lasciato solo con il visitatore.

Breil gli si accostò, pronto a raccogliere le sue rivelazioni, quasi sicuramente le ultime parole che avrebbe potuto pronunciare prima di morire.

South Miami. Sweetwater Military Airport.

Sull’aeroporto militare poco fuori Miami spirava una leggera brezza calda da sud. Il Grumman della NASA, fermo sulla pista di rullaggio, spiccava per il suo biancore in mezzo allo spartano monocromatismo militare degli apparecchi dell’Air Force. Salita a bordo, Laura si stupì nel constatare che non c’era equipaggio.

«Ti puoi accomodare nel salotto per i passeggeri, Laura», le disse Kevin, scorrendo rapidamente il piano di volo. Avrebbe evidentemente pilotato lui stesso l’aereo. «Oppure, se preferisci, puoi rimanere qui con me in cabina di pilotaggio. Scegli tu.»

Con un rapido cenno di ringraziamento, Laura passò nel salotto che le era stato indicato, dove sedette nervosamente su uno dei comodissimi sedili di cuoio. Ci mise alcuni minuti a vincere la naturale diffidenza che provava sempre nei confronti di qualsiasi oggetto capace di sollevarsi da terra, compresi gli ascensori dei grattacieli. Ma la curiosità finì per prevalere, mista a un vago senso di eccitazione che provava già da qualche minuto. Sistemati i suoi effetti personali nel comodo armadietto sopra la poltrona, puntò con espressione risoluta verso la porta che separava la cabina di pilotaggio dall’alloggio passeggeri. Il jet bianco con la striscia blu si stava già muovendo sulla pista.

Cercando di rendere ancora più risoluta la sua espressione, prese posto nella seggiola del copilota, trovò la cintura di sicurezza, la chiuse con uno scatto secco e sbirciò di sottecchi, alla sua sinistra, Kevin Dimarzio che stava comunicando via radio con la torre di controllo. Vide le sue mani forti ma affusolate premere sulle manette, e, evitando di guardare davanti a sé, avvertì che l’aereo si lanciava nella sua corsa verso il cielo. Il muso si sollevò da terra, mentre i tre reattori di coda scaricavano tutta la loro potenza. Sentì il rumore metallico del carrello che rientrava e quello dei flap che assumevano la posizione di volo.

Una volta in rotta, si accorse che i suoi movimenti agitati nell’angusto spazio di pilotaggio le avevano fatto risalire la gonna fin sopra il bordo delle calze nere che aveva indossato quel mattino. Con intenzione? si chiese. Nel senso delle calze nere. Chissà. Non aveva voglia di pensarci. Comunque non sistemò la gonna.

Finse anzi intrepidamente di non essersi accorta della vasta esposizione di seta nera, nemmeno quando vide gli occhi di Kevin Dimarzio fissarsi sul confine tra la seta e la carne, con un’espressione indecifrabile. L’altezza aveva acuito lo strano senso di eccitazione da cui era stata presa già nel momento in cui era salita sull’aereo, quando aveva scoperto che erano a bordo da soli.

Non aveva nessuna voglia di trattenersi. Qualsiasi diversivo contro la paura di volare, mentì spudoratamente a se stessa, era ben accetto. Con un lento movimento della gamba cercò di esibire ancora di più, tenendo lo sguardo ostinatamente fisso sul parabrezza, quasi che tutto il suo interesse fosse rivolto agli sfilacci di vapore che l’aereo perforava.

Non abbassò gli occhi nemmeno quando sentì una mano febbrile sul famoso confine tra seta e pelle, verso l’interno della coscia. Il suo sguardo aveva già individuato la leva per fare indietreggiare il sedile. La manovrò di scatto, senza una parola, lasciandosi andare languidamente sullo schienale, e guardò finalmente Kevin che, affidato il jet al pilota automatico, le si chinava sopra.

Inarcandosi, gli consentì di rialzarle la gonna fin sopra la vita, quindi seguì con lo sguardo i movimenti sempre più febbrili delle mani che le accarezzavano le cosce, infilandosi sotto gli elastici del reggicalze.

Scese con la destra a slacciargli la cintura e a sbottonargli i pantaloni dal primo all’ultimo bottone.

Non riuscì a trattenere un sospiro roco. Con la sinistra spostò di lato le mutandine di raso, di quel tanto che bastava perché niente più si frapponesse al contatto. Lo guidò con la mano, se lo sentì penetrare in corpo con l’impeto che ormai conosceva e che, aveva notato con qualche preoccupazione, stava minacciando di diventare una presenza fissa nei suoi pensieri.

L’aereo andava da solo. Per il momento, ogni paura di volare era vinta.

Zurigo. Clinica Conrad von Gesner.

«Sono stati loro», erano state le prime parole che Misha Ceorsky aveva mormorato, «i miei fratelli della Lobby di Trafalgar…»

Dopo venticinque minuti di faticoso monologo, interrotto soltanto da qualche rapida domanda di Oswald, l’alto dirigente bancario aveva perso definitivamente conoscenza, sprofondando nel coma irreversibile. Breil aveva chiamato immediatamente il primario, ma si era già reso conto che non c’era più niente da fare. Dieci minuti più tardi Misha Ceorsky fu dichiarato clinicamente morto. Oswald ne osservò a lungo il viso contratto, i lineamenti deformati dall’ultimo sforzo: quello per restare in vita il tempo necessario a confessare la sua colpa e aiutare a fare luce su un cupo mistero.

Quasi senza accorgersene si ritrovò disorientato sul viale alberato che attraversava il parco della clinica. L’auto della polizia era lì ad aspettarlo. Vi montò immerso in profondi pensieri. Dopo pochi minuti di riflessione decise che il suo programma avrebbe subito un cambiamento. Doveva andare in Israele e conferire con il primo ministro. Un argomento così scottante non poteva avere come unico custode e arbitro la sua persona.

Consultò febbrilmente il precisissimo orario mondiale delle aviolinee, di cui il servizio israeliano muniva ciascuno dei suoi affiliati ogni quindici giorni. Il primo aereo per Tel Aviv sarebbe ormai partito da Zurigo soltanto il mattino seguente. Troppo tardi. La Lobby di Trafalgar non sarebbe di sicuro rimasta a guardare. Ma da Francoforte, in serata…

Si fece lasciare in pieno centro, nella via più affollata che vide. Tagliò quasi di corsa per una traversa pedonale e poi per una seconda e una terza, a zig zag, sentendo strisciare rovinosamente sulla pavimentazione il pesante borsone, fino a sbucare in un’altra via su cui scorreva un tranquillo traffico di auto.

«Taxi», chiamò freneticamente. «Taxi!»

Rannicchiatosi in un angolo del sedile posteriore, per le cinque ore di viaggio non distolse un solo istante lo sguardo dallo specchietto retrovisore. Non erano seguiti. Ce l’aveva fatta.

New York. Palazzo delle Nazioni Unite.

Laura si spogliò, lasciando scivolare sulla moquette gli indumenti, e si infilò nella cabina della doccia, all’interno della toilette del jet, verso la coda del velivolo. Forse sarebbe arrivata al Palazzo di Vetro con i capelli ancora umidi, ma indubbiamente più fresca e rilassata.

«Vi trattate bene alla NASA, mi sembra giusto che il Congresso voglia tagliarvi i fondi», scherzò, rientrando nella cabina di pilotaggio ancora avvolta in un accappatoio pulito.

«Questo è l’aereo che utilizzano le alte cariche per i loro spostamenti», rispose Kevin, che si era rimesso ai comandi del velivolo. «Credo che me lo abbiano assegnato per non sfigurare, quando dovremo portare indietro con noi il presidente della commissione delle Nazioni Unite.»

«Il viaggio di ritorno sarà di sicuro molto meno appassionante di quello di andata», scherzò di nuovo lei, mentre si rivestiva.

La presenza della Grande Mela era segnalata nel cielo freddo e terso da una nuvola scura che ricopriva come un manto la città. Laura cominciava a distinguere le forme dei grattacieli in lontananza, quando l’ufficiale gracchiò, simulando un tono nasale: «Il comandante informa che tra dodici minuti atterreremo all’aeroporto La Guardia di New York. La NASA si augura di ospitarvi nuovamente a bordo dei propri aerei. Vi raccomandiamo di non dimenticare il bagaglio a mano e gli oggetti personali».

Un’ora e quaranta minuti più tardi, l’auto di servizio della NASA si fermava davanti all’ingresso principale del palazzo delle Nazioni Unite. Laura scese prima che il suo cavaliere fosse arrivato ad aprirle lo sportello. Sarebbero potuti sembrare due attori occupati nelle riprese di un film, piuttosto che due tecnici diretti a riferire a una commissione scientifica permanente.

Di lì a poco, seduta al tavolo circolare, Laura Joanson si sentiva davvero un pesce fuor d’acqua o, meglio, un’esperta di ricerche sottomarine in un simposio di astrofisici, come in realtà era.

Ognuno dei cinque uomini seduti attorno al tavolo aveva davanti a sé un dossier di trenta pagine, scrupolosamente redatto dal colonnello Kevin Dimarzio e poi tradotto con precisione impeccabile nella lingua madre di ciascuno dei presenti, massime autorità mondiali nella conoscenza del cosmo.

«La nostra commissione», esordì uno di loro, «ha esaminato con molto interesse la documentazione proposta, ma, pur condividendo alcune delle sue supposizioni, colonnello Dimarzio, siamo giunti a una conclusione molto diversa e più confortante. Non esistono possibilità che l’asteroide, ribattezzato con il nome di Leonard Speitz, possa entrare in rotta di collisione con l’orbita terrestre. Secondo i calcoli da noi elaborati, il corpo celeste dovrebbe transitare a oltre novecentomila chilometri dal nostro pianeta. Molto vicino, certo, ma non tanto da poter rappresentare una fonte di pericolo.»

«Signori», ribatté Kevin Dimarzio con voce ferma e sicura, «se fossero suffragate da certezze, le vostre teorie non farebbero altro che sollevarmi da un peso. Ma come è possibile formulare ipotesi senza un margine di dubbio? Chi può escludere l’intervento di eventuali fattori esterni, allo stato attuale ancora sconosciuti? L’asteroide Speitz-42 viaggia a circa duecentomila chilometri all’ora, e in questo momento dovrebbe trovarsi a metà strada tra l’orbita di Saturno e quella di Giove, a oltre novecento milioni di chilometri dalla Terra. I sei mesi che ci separano da un eventuale impatto sono a malapena sufficienti per organizzare un piano di difesa, mettere a punto una spedizione spaziale dotata di mezzi idonei per tentare di modificare la rotta del corpo celeste. Vi rendete conto di quel che potrebbe succedere se una sciagura di centosessanta chilometri di diametro si abbattesse sulla terra a quella velocità? Secondo il modello computerizzato che abbiamo sviluppato in laboratorio, oltre due terzi della popolazione terrestre non sopravvivrebbero all’impatto.»

Stranamente, il presidente della commissione, Gregory Bender, pioniere della messa a punto della bomba H e progettista e sostenitore dello scudo di difesa stellare, si teneva quasi in disparte. Dopo avere introdotto i due relatori ed espletato i convenevoli, aveva lasciato la parola al suo vice, un giapponese i cui toni supponenti stavano mettendo a dura prova la pazienza del colonnello Dimarzio.

«Ci renderemmo di sicuro conto del pericolo se ci fosse qualche possibilità che si verificasse», aveva intanto ripreso il giapponese, nel tono carico di albagia del depositario di una verità assoluta, che comunque non gli impediva di inciampare su tutte le «erre» e le «elle» della lingua inglese. «Ma, sono costretto a ripetermi, abbiamo trascorso giorni e notti a seguire l’asteroide, pervenendo alla conclusione che ho appena espresso: non esistono possibilità di contatto. Né margini di dubbio. Né possibilità di intervento di fattori esterni.»

«Nessuno, fino a non molto prima che la cometa Shoemaker-Levy devastasse il pianeta Giove, nel 1994, poteva nemmeno immaginare che cosa sarebbe successo», ribatté di nuovo Kevin, rischiando di perdere la sua calma glaciale di fronte all’ostinazione dei soloni delle stelle.

«E, alla stessa stregua, nessuno potrà dirci che cosa succederà alla Terra se non pochi giorni prima di rischiare di essere cancellati dal sistema solare. Insisto perché lo sforzo di organizzare una missione abbia il sostegno delle Nazioni Unite, in modo da trovarci pronti a prevenire il pericolo qualora dovesse presentarsi.»

Fu ancora una volta lo scienziato giapponese a prendere la parola. «Colonnello Dimarzio, lei è personalmente responsabile di un ambizioso progetto della NASA che si occupa, tra l’altro, del monitoraggio dello spazio proprio al fine di prevenire che qualche macigno ci cada in testa. Devo essere io a invitarla a continuare a farlo, seguendo anche questo caso?»

«Lei può sicuramente immaginare la risposta che riceverei dell’economato della NASA: il budget è impegnato per i prossimi cinque anni, anzi è già stato speso. Professor Deng, per il mio progetto dispongo della sensazionale cifra di centocinquantamila dollari l’anno. Dove crede che potrei andare a trovare le centinaia di milioni che sarebbero necessari anche soltanto per predisporci all’evenienza? La sua testardaggine», continuò il colonnello, rinunciando a ogni ipocrisia e passando a un tono schietto, come imponeva l’atteggiamento altezzoso e scostante del suo interlocutore, «non mi stupisce più di tanto. È fin troppo nota, nei nostri ambienti. A preoccuparmi, e molto, è l’idea che da queste sue ostinate convinzioni possa dipendere il destino della Terra. Fino a oggi, il solo compito della vostra commissione è stato quello di procedere alla sistematica lottizzazione dello spazio tra le grandi potenze. Il solo problema che vi ponete è il modo di disciplinare il futuro sfruttamento minerario di Marte o di Saturno.

«Ma non siete riusciti a fare nemmeno quello, pressati come siete dai potentati economici internazionali e dai politici di mezzo mondo. E oggi, di fronte a una vera situazione d’emergenza, siete capaci soltanto di sciorinare come un oracolo un rapporto stilato da uno qualsiasi dei vostri solerti assistenti.»

Così detto, acceso in viso, Kevin riordinò le carte che aveva davanti. «Ma non sarò certamente complice della vostra superficialità e continuerò con ogni mezzo, per quanto limitato, a cercare di salvare il genere umano», concluse. Stava per alzarsi, quando la placida voce del presidente Bender lo fece rimanere dov’era.

«A questo punto credo che s’imponga un mio intervento», disse soave l’eminente premio Nobel. Il suo parere, anche se la carica di presidente era più che altro onoraria, aveva sempre un grande potere di persuasione sui membri della commissione.

«Ritengo che al colonnello Dimarzio debba quanto meno essere riconosciuto il credito che il suo lavoro e la sua figura meritano. Quindi, anche se il parere espresso dalla nostra commissione non è a favore di un approfondimento del fenomeno, penso che l’asteroide Speitz-42 debba essere posto sotto attenta e costante osservazione, e suggerisco che vengano predisposti fin d’ora piani dettagliati per prevenire un’eventuale situazione di crisi.

«Io stesso, visto che sono stato incaricato di verificare personalmente le teorie del colonnello Dimarzio, mi farò garante della correttezza dell’operazione e riferirò periodicamente a questa commissione che presiedo. E adesso, dottoressa Joanson, colonnello Dimarzio, consentitemi di accompagnarvi all’aeroporto. L’autista ci sta aspettando.»

Mentre l’anziano scienziato parlava, Laura aveva avuto l’inesplicabile ma netta sensazione che le sue folte sopracciglia le stessero facendo dei cenni ammiccanti. Doveva avere visto male. Comunque fosse, il risultato conseguito era molto lontano da quello che lei e Kevin speravano, ma costituiva una soluzione intermedia da non trascurare.

Congedatisi dalla commissione, scesero nel garage sotterraneo del Palazzo di Vetro, dove li aspettava la limousine a disposizione di Bender. Durante il tragitto fino all’aeroporto, Kevin rimase incupito nei suoi pensieri, che sia la giovane sia il presidente della commissione preferirono non disturbare. Mentre smontavano dall’auto, tuttavia, l’anziano e cortese signore gli posò una mano su un braccio con gesto amichevole, dicendogli: «Teniamo duro, colonnello, teniamo duro. Vedrà che troveremo una soluzione».

Raggiunto l’aereo della NASA, Laura rimase un attimo interdetta. Ai piedi della scaletta li aspettava il secondo pilota. Prese imperiosamente Kevin per un braccio e lo costrinse a fermarsi, chiedendo: «Come mai questa volta c’è il copilota?»

Il sorriso di Kevin, dopo più di tre ore a nervi tesi, le fece capire che le parole del premio Nobel avevano rasserenato l’atmosfera. «Per questo tipo di velivolo è necessaria o comunque prevista dalla legge la presenza di almeno due piloti.»

«E perché, allora, nel volo di andata non c’era?» incalzò lei, che credeva comunque di avere intuito la risposta.

«Ho chiesto al capitano di prendere un volo di linea per raggiungere New York, dato che come copilota avrei avuto te. E che però non sapevo se saresti tornata indietro con me e il professor Bender.»

«Ma io non sono capace di pilotare neanche un aeroplanino di carta. Dove avevi la testa?» finse di protestare lei.

«Oh, quante storie», replicò Kevin in tono di scoperta complicità. «Lo sai come sono distratto. Mi sono confuso tra le tue abilitazioni a guidare batiscafi e quelle necessarie per governare un trireattore.» Quindi, lasciandole il passo davanti alla scaletta: «Spero non ti sia dispiaciuto», concluse sottovoce, strizzandole l’occhio.

Gerusalemme.

Oswald Breil aveva un’opinione del tutto personale sugli edifici pubblici israeliani. Più che sembrargli un palazzo funzionale della fine del secondo millennio, la sede della Knesset, il parlamento di Israele, gli ricordava un mausoleo assiro babilonese. Le consultazioni si erano concluse da poco, e la sostituzione del primo ministro era stata ratificata dalla quasi unanimità dei presenti. Il suo paese stava sicuramente attraversando un momento di gravissime difficoltà proprio quando la pace sembrava a un passo.

Il dirigente del Mossad e il primo ministro si conoscevano da molto tempo, e tra di loro c’era sicuramente un profondo senso di reciproca ammirazione e fiducia, anche se Oswald era stato più legato allo sfortunato predecessore. L’espressione del premier era tesa: la votazione parlamentare di pochi istanti prima doveva aver richiesto non poche energie e generato molta apprensione.

«Prima che lei mi riferisca il motivo che l’ha portata qui con tanta urgenza, Breil», tagliò corto il primo ministro una volta conclusi gli spicci convenevoli, «desidero informarla che i problemi del nostro servizio di controspionaggio e antiterrorismo mi inducono a sollecitare il suo passaggio almeno temporaneo dal Mossad allo Shin Bet, di cui assumerà la direzione. Fino a oggi, tra integralismi, falchi e colombe, una sola istituzione era stata raramente messa in discussione: proprio questo servizio. Adesso, però, e non posso dare torto a nessuno, si vuole ridiscutere tutto: leggi, metodi, uomini. L’assassinio del mio sfortunato predecessore è stato la molla che ha fatto scattare in tutto il mondo una serie di critiche alle nostre strutture. E, come logico, le opposizioni si sono fatte sentire immediatamente. Per ottenere i risultati che ci aspettiamo e di cui abbiamo un bisogno vitale, ci occorre la piena disponibilità di uomini come lei. La invito ad accettare. Anzi, glielo ordino.»

«Sono agli ordini, signor primo ministro. Come sempre», rispose Breil, mettendosi quasi sull’attenti. «Ma», continuò, «credo che, quando avrà ascoltato quanto ho da dirle, dovrà convenire con me che sarà bene che lo Shin Bet aspetti ancora un po’.»

Roma odierna. Laboratorio di Sara Terracini.

Primi di giugno 1996.

«Dove diavolo sarà finito Oswald Breil?» si chiese per l’ennesima volta Sara. Sembrava scomparso dalla sua vita e da quella dei personaggi evocati dal testo del frate italo-spagnolo.

Cominciava a convincersi che i suoi sospetti sull’inafferrabile gnomo non fossero soltanto una creazione della sua fantasia giocosa ma un’interessante realtà romanzesca.

Che Oswald fosse davvero una diabolica spia, non una creatura reale ma una proiezione dei romanzi di John Le Carré o di Laura Joanson?… Ah, Laura Joanson. Avesse potuto conoscerla, un giorno, esprimerle tutta la sua ammirazione. Sgridarla, anche, un po’, per la mania che aveva sempre di mettere in difficoltà i suoi personaggi più simpatici, se non addirittura di farli morire nel più straziante dei modi.

Patricia, per esempio! C’era bisogno di ammazzarla? E di far piangere lacrime di fuoco alla lettrice Sara Terracini? Oh, se le fosse mai capitato di conoscere Laura Joanson, gliele avrebbe cantate chiare e tonde. Senza virgolette né punti di sospensione.

Intanto, però, non ne poteva più di aspettare che si decidesse ad arrivare anche nelle librerie romane il suo nuovo romanzo, che aveva visto annunciare dai giornali con titoli cubitali e aggettivi iperbolici. Ah, imparare a scrivere come lei, mirabile giocoliera del suspense, a raccontare come sapeva fare lei. Un giorno o l’altro avrebbe provato. Eh, sì. Riraccontando, magari, e romanzando, le vicende di Giunio di Luna e del suo discendente frate Pietro. Perché no? Alla faccia dello spione Oswald Breil.

Il teatrale sospiro di autocommiserazione che stava per esplodere fu bloccato sul nascere dallo scampanare del computer e dallo sbandierare dell’avviso MESSAGE! MESSAGE! MESSAGE!

A CHE PUNTO SIAMO? vide scorrere sullo schermo. L’ometto diabolico, evocato dalle sue capacità telepatiche, era ricomparso senza il minimo preavviso dallo spionistico nulla in cui era sparito.

ABBASTANZA BUONO, digitò d’impulso, dopo avere premuto i tasti CTRL e R. SI VA AVANTI.

CORRI DI PIÙ, PER FAVORE, fu l’immediata risposta. RIASSUMI DI PIÙ. PERDONAMI, MA ABBIAMO UNA GRAN FRETTA DI SAPERE COME VA A FINIRE QUESTA STORIA. CIAO. E la comunicazione fu bruscamente tagliata, lasciando la giovane con le mani sospese sopra la tastiera.

«Maledizione!» sbottò la giovane romana, scoppiando a ridere.

«Abbiamo una gran fretta»? Chi? Vai a saperlo. E, lei, Sara Terracini, che cosa ci guadagnava, a parte il prestigio derivante dalla trascrizione e dal fatto che gli antichi volumi sarebbero rimasti di proprietà dell’ente che le pagava lo stipendio?

Stipendio? Un salario da fame, da veri e propri lavori forzati.

Sorte crudele. E, adesso, le toccava anche «correre di più, riassumere di più», dannato Oswald Breil. Le dita tornarono a posarsi sui tasti, mettendosi a galoppare.

Roma imperiale. Anno 838 dalla Fondazione.

[85 d.C. (N.D.T.)]

Una leggera bruma velava le luci dell’alba. Clelia guardò il sole che sorgeva oltre i bastioni della grande Roma. Non aveva pau ra, soltanto il rammarico di dover morire in un modo così atroce senza avere mai veramente vissuto. Remissiva e a capo chino si lasciò condurre verso la porta che avrebbe rappresentato la fine della sua vita. Prima di precipitare nelle tenebre perenni, si girò un istante per guardare un’ultimissima volta il sole ormai alto in tutto il suo splendore. Accolse nelle mani, quasi senza rendersene conto, la lanterna e il pane che rappresentavano tutto il bagaglio con cui doveva affrontare l’ultimo viaggio.

Entrata nella cella e giratasi, al di là del muro che veniva rapidamente innalzato vide il volto delle altre vestali. Ma scoppiò a piangere soltanto quando si accorse che Gaia non riusciva a frenare le lacrime. Sgomenta, guardò gli ultimi mattoni che venivano collocati a sigillare l’ingresso. Si trovò completamente sola, in un silenzio che ai suoi occhi suonava come il preannunzio della morte.

Alzò la lanterna per guardarsi attorno. Il tufo trasudava in diversi punti, e la cella sotterranea in cui era stata sepolta viva era pervasa da un disgustoso odore di umidità. Sedette in un angolo, accingendosi ad affrontare con coraggio e rassegnazione la sua terribile sorte.

«Non ci riusciremo mai!» stava intanto inveendo Giunio, mentre scuoteva la testa studiando il disegno che Valeriano aveva tracciato sul terreno con un bastone.

«Quanto tempo abbiamo a disposizione? Due giorni, forse tre, sempre ammesso che l’aria in quella stanza del Campo Scellerato sia sufficiente per mantenerla in vita. In soli due giorni dovremmo scavare una galleria di oltre duecento passi. È al di fuori di ogni possibilità umana.»

«Possiamo contare», lo interruppe pacatamente Valeriano, «su dieci squadre, ciascuna di tre uomini, che si alterneranno giorno e notte nel lavoro. Sono gli stessi giovani che hanno scavato questa città sotterranea nelle viscere di Roma, e la loro esperienza non è sicuramente da sottovalutare.»

Parole che ebbero il potere di rinnovare istantaneamente le speranze di Giunio. «Il vostro dio ci assista, cristiani», esclamò. «Presto, cominciamo subito a lavorare. Abbiamo le ore contate.»

Clelia guardò disperata la fiamma della lanterna tremolare negli ultimi bagliori prima di spegnersi. Il buio assoluto e il fetore di umidità fecero sembrare l’aria ancor più soffocante. Non aveva il coraggio di togliersi la vita, né del resto avrebbe saputo come farlo, altrimenti si sarebbe forse abbandonata a un gesto fatale. Quanti giorni, quante ore la separavano dal perdere conoscenza? Come sarebbe arrivata la morte? In silenzio, nel sonno, o fra atroci terrori e tormenti provocati da sete e fame?

Giunse le mani davanti al petto e pregò Dio — l’unico Dio in cui ormai credeva — di alleviare il suo supplizio, quindi tornò a rivolgersi a Lui e alla Sua misericordia affinché avesse cura delle persone che le erano care. Quante ne erano rimaste? Ben poche, fu costretta a pensare con una terribile stretta al cuore.

Ricordò ciò che le aveva sussurrato la spietata Cornelia poco prima di farla condurre al supplizio: «Sappi che il tuo bel gladiatore sarà processato e condannato domani mattina. Rallegrati. Nell’Averno starete in buona compagnia».

Non aveva strumenti con cui contare il tempo, ma dal livello dell’olio nella lucerna valutò che doveva essere trascorso più o meno un giorno intero da quando l’avevano sepolta. Quindi, con ogni probabilità, in quello stesso istante Giunio stava esalando l’ultimo respiro.

Il pensiero le tolse ogni forza residua. Cadde a terra esanime.

A non molta distanza da lei, i turni di lavoro procedevano con un ritmo massacrante. In particolare per Giunio, che sembrava incapace di riposare e rimaneva sempre nella galleria a seguire i progressi fatti. Gli era stato spiegato che le catacombe non distavano di molto dal luogo dove Clelia era stata sepolta viva. Ma il dislivello tra la loro posizione iniziale e le celle ermetiche del Campo Scellerato era di diverse braccia. Traguardare l’obiettivo dovendo scavare in salita presentava quindi un’ulteriore difficoltà, nonostante i calcoli precisi che Valeriano non si stancava mai di aggiornare.

Ma di punto in bianco vide il vecchio illuminarsi in viso, nonostante la polvere di tufo che lo ricopriva.

«Abbiamo raggiunto una cavità», esclamò concitato. «Ancora poco e il diaframma dovrebbe cadere.»

Giunio si sentì invadere dalla gioia, dal petto gli si levò spontanea la preghiera che gli scavi avessero proceduto nella giusta direzione. Si sentiva animato da una forza sovrumana. Andò a prendere una torcia e uno stoppino e tornò indietro strisciando per gli oltre duecento passi di scavo, largo a malapena quanto bastava per far passare un uomo.

Gli uomini addetti al mantice che assicurava la circolazione dell’aria nel cunicolo lavoravano di lena per compensare l’assoluta mancanza di aria all’interno della stanza nella quale lui stava per penetrare.

Lo spettacolo che gli si presentò, quando la paratia finalmente cadde, era tale da sconvolgere qualsiasi mente. Le vesti della sacerdotessa avevano mantenuto il loro splendore originario, la mancanza di aria aveva impedito il processo di decomposizione del corpo. Il cadavere della donna, lì sepolta senza dubbio da molti anni, era accasciato vicino al muro, con le mani scarnificate fino all’osso dall’estremo, vano tentativo di riacquistare la libertà.

Giunio rabbrividì al pensiero che lo stesso destino poteva forse essere già toccato a Clelia. Ma la ragione gli disse che, sebbene il primo tentativo fosse andato a vuoto, adesso avevano la sicurezza di essere penetrati nel Campo Scellerato. E il corpo mummificato dell’infelice che avevano scoperto non poteva certo essere quello di colei che stavano cercando.

Brandendo davanti a sé la torcia identificò immediatamente il muro eretto per seppellire viva la sventurata. Vi si precipitò e, aiutato dai bravi cristiani che lo avevano raggiunto, fece crollare anche quello, incurante di qualsiasi appello alla prudenza.

In superficie si aggiravano almeno una cinquantina di guardie a presidiare quel luogo di morte. Ma niente avrebbe potuto fermarlo.

Al di là del passaggio vide un lungo corridoio segnato da diversi altri passaggi, alcuni murati e altri aperti su cubicoli di anguste dimensioni, identici a quello in cui aveva trovato la sacerdotessa mummificata.

Facendo scorrere la mano lungo la parete scabra, su una delle aperture murate incontrò la calce ancora umida. Senza parole, chiese gli attrezzi con lo sguardo. Si avventò sul muro che era sicuramente ormai l’unico ostacolo che lo separava dalla donna amata.

Clelia aveva ormai perduto ogni nozione del tempo. La debolezza non le consentiva nemmeno di tirarsi a sedere. L’aria respirabile stava per esaurirsi. Si sentì risuonare in testa i colpi delle mazze, lontani come un miraggio. O come un sogno di definitiva liberazione celeste.

Aretas le aveva parlato molte volte del canto argentino degli angeli, e forse erano proprio loro che venivano a prendere la sua anima. Si rannicchiò su se stessa e rasserenata attese la morte.

Che cosa poteva essere, se non il delirio degli ultimi istanti, a farle vedere il muro che crollava, la luce di una torcia che esplorava la sua prigione? Chiuse gli occhi beata. Era davvero la fine. La pace. Perse conoscenza.

Non sentì le forti braccia di Giunio che la sollevavano da terra per condurla verso la salvezza terrena.

Menenio camminava avanti e indietro a grandi passi nel sudicio locale del corpo di guardia come una fiera in gabbia. Nella rabbia dimenticava di esporre soltanto il suo profilo migliore, nascondendo la deformità che era stata imposta al suo viso, come in altre circostanze aveva sempre estrema cura di fare. Ogni volta che percorreva la stanza da sinistra verso destra, la tremenda ferita infertagli da Giunio appariva evidentissima in tutto il suo orrore.

L’ufficiale responsabile del carcere era immobile davanti a lui in una rigida posizione marziale che non serviva in alcun modo a nascondere lo stato di imbarazzo, di vero e proprio terrore in cui si trovava.

«Che cosa significa ‘è fuggito’?» tuonò la voce del senatore, sebbene la menomazione la rendesse querula e biascicata. «È dunque così facile scappare dalle carceri di Roma e sottrarsi alla vostra guardia? Che cosa stavate facendo? Giocavate alla tavola dei dodici numeri? Dormivate? Vi trastullavate in compagnia dei vostri uomini più gagliardi? Parlate, per gli dei!»

«Insieme al compagno di cella, un cristiano di nome Valeriano, è riuscito a raggiungere il condotto fognario attraverso un cunicolo che l’altro stava evidentemente scavando da tempo. Non dormivamo di sicuro, illustre senatore. Quando hanno imprudentemente rimosso i massi di tufo che i fuggitivi avevano posto ad arginare l’acqua, tre dei miei uomini sono morti annegati», rispose l’ufficiale con voce non meno querula.

«Siete degli autentici imbecilli. Degli inetti. L’uomo più pericoloso dell’impero romano viene chiuso in cella con un compagno, anch’esso pericoloso per il semplice fatto di essere un irriducibile, scaltro cristiano, e lasciato lì senza essere guardato a vista», urlò letteralmente il senatore torto in un’orribile smorfia di furore.

«Da quelle segrete nessuno è mai riuscito a uscire, onorevole Menenio, se non avvolto nel telo funebre. Ripeto: quel cristiano aveva evidentemente già scavato il cunicolo nel corso degli anni della sua prigionia», balbettò il militare, sempre più terrorizzato.

«Avrò modo di ricompensarvi in seguito per la vostra idiozia», ribatté lividamente Menenio. «Imparerete a conoscere meglio quelle segrete. Adesso però voglio che Roma venga passata al setaccio, senza tralasciare nessun luogo, e prima di tutto i sotterranei dove gli odiosi cristiani tengono le loro riunioni e i loro riti sacrileghi. Correte, rompetevi il collo, andate agli inferi, ma riportatemi quell’uomo. O la sua vita, o la vostra. Fuori di qui.»

«I soldati romani vi stanno cercando ovunque», annunciò dopo qualche ora il giovane cristiano che Giunio vide arrivare di corsa nel suo rifugio, senza fiato, sconvolto. «Sono già penetrati in alcune catacombe, dove hanno seminato la morte tra i nostri fratelli, infierendo su donne e bambini. Amico mio, Valeriano, dovete andare via, nascondervi meglio. E anche la donna.»

Giunio si voltò disperato a guardare Clelia, adagiata su un giaciglio a poca distanza da loro. Non era in pericolo di vita, poche energiche cure erano bastate a farla riavere, ma sarebbero stati necessari diversi giorni perché potesse rimettersi in forze.

Ancora una volta si fece sentire la voce saggia di Valeriano. «Io posso dissimularmi tra i miei fratelli, Giunio. Nessuno di quei carcerieri ricorda di sicuro la mia faccia. In realtà non l’hanno mai nemmeno vista, nascosta com’era sotto una barba di anni. Tu, invece, sei fin troppo conosciuto. Rimanendo qui verresti sicuramente catturato, perché non c’è dubbio che prima o poi gli sgherri riusciranno ad arrivare fino a noi.»

E, così detto, il vecchio fece una breve pausa, meditabondo, giocherellando distrattamente con il bastone su cui si appoggiava ormai con regolarità. Ma d’improvviso s’illuminò in volto, lasciando capire che forse aveva trovato una soluzione.

«Ma certo!» esclamò. «Un posto dove nessun soldato entrerebbe mai, e dove le vostre probabilità di sopravvivere sono senza dubbio maggiori, esiste. Come non averci pensato prima? Andiamo, presto», concluse, alzandosi con l’agilità datagli dal rinnovato entusiasmo e avviandosi nella galleria.

Emersi con mille cautele dalla catacomba, scegliendo con attenzione l’uscita — che doveva essere al sicuro da sguardi indiscreti ma al tempo stesso ben collocata -, non dovettero camminare molto.

La sentinella posta a guardia dell’ingresso al campo dei lebbrosi stava sonnecchiando. I pochissimi infelici che, impazziti, tentavano di allontanarsi da quella bolgia di disperazione passando di lì venivano abbattuti senza pietà, ma non aveva senso controllare chi varcava la soglia in entrata. Chi avrebbe mai potuto andare a seppellirsi in quella cloaca di corpi marcescenti, se non vi era costretto dalla più terribile delle sorti?

I due uomini coperti di cenci e la donna che reggevano non distolsero l’uomo di guardia dall’accidiosa pigrizia in cui era affondato. Alzò straccamente un dito per fare cenno al terzetto di togliersi di mezzo il più in fretta possibile e, seguitolo brevemente con lo sguardo lungo il sentiero che conduceva alla grotta dell’infamia, tornò al suo abisso di noia.

Il suo cuore di soldato non ebbe un solo moto di compassione. A quella grotta non si era mai avvicinato, e non si era mai spinto a immaginare le condizioni dei lebbrosi che vi erano reclusi, le mutilazioni sanguinanti, la morte orribile. Erano gli stessi malati ancora in forze che provvedevano a caricare i cadaveri sui malandati carri che di tanto in tanto venivano alla porta per portarli via. Dove finissero dopo, gli interessava persino meno.

I panni che gli coprivano la testa, limitando il suo campo visivo, cominciavano a dare fastidio a Giunio. Continuò tuttavia ad avanzare simulando un passo esausto e sorreggendo Clelia, che invece aveva veramente bisogno del suo aiuto e di quello del vecchio.

Aveva cercato a lungo di dissuadere Valeriano dall’idea di seguirli nella pericolosa avventura. Ma non era stato possibile.

«Sono vecchio, Giunio», aveva replicato con fermezza. «E rimango ricercato esattamente come te per l’evasione dal carcere. Restando tra i miei fratelli, ne metterei soltanto a repentaglio la vita. Inoltre, con Clelia in questo stato, avrai sicuramente bisogno d’aiuto. Senza contare, poi, che molti dei lebbrosi sono nostri fratelli in Cristo. Molti di loro non sono nemmeno malati, ma si sono segregati volontariamente in quel luogo di orrore al fine di predicare a quegli sventurati la buona novella, in vista della nuova vita che li aspetta. Conoscono il lebbrosario in ogni recesso. Entrare, come vedrai, è facile. Non altrettanto uscire. Ma loro sanno come fare. E, al momento opportuno, potranno sicuramente aiutarci nella fuga.»

Al loro passaggio i malati si stringevano negli stracci logori che li coprivano, quasi volessero nascondere la vergogna delle mutilazioni ai nuovi venuti. Ombre spettrali che cedevano il passo ai nuovi condannati a quell’Averno in terra.

La grotta era interminabile, qua e là si vedeva brillare nella penombra un fuoco. Attorno ai bagliori arancioni delle fiamme proseguiva incredibilmente la vita: intere famiglie di malati si radunavano, consumavano i loro magrissimi pasti, si stringevano in preghiera, in attesa che il morbo inesorabile li liberasse da ogni pena.

Giunio adagiò Clelia in una zona della grotta dove non si trovava nessuno. Alle sue spalle, a breve distanza, sentiva gli ansiti strazianti di un vecchio morente. Passò le mani tra i capelli della giovane amata. Si vedeva un certo miglioramento, ma il suo volto, imperlato di sudore, era duramente segnato dalla stanchezza.

«Come stai?» le chiese, accarezzandoglielo.

«Molto meglio», rispose lei con un filo di voce. Ma l’angoscia del suo sguardo era fin troppo eloquente.

La voce del vecchio moribondo, alle sue spalle, si levò flebile e improvvisa quanto impensabilmente ferma: «Riconoscerei la tua voce anche in una piazza affollata, figlio!»

Come avrebbe potuto, anche lui, non riconoscere la voce che, in anni lontani ma non dimenticabili, lo aveva avviato alla vita?

Giunio si sentì pervadere da un irrefrenabile fiotto di gioia, subito smorzato, tuttavia, da un penoso senso di impotenza e disperazione. Il vecchio aveva sollevato la testa dal giaciglio. I suoi sentimenti trovavano espressione anche al di là del buio degli occhi.

«Padre! Padre!» esclamò Giunio. Nessuno e niente avrebbe potuto frenare lo slancio con cui corse ad abbracciare il vecchio corpo martoriato.

«Piano, fai piano, Giunio! Il male mi ha quasi completamente distrutto il corpo. Stavo aspettando il silenzio eterno della morte, e ho sentito la tua voce.»

«Mia madre, dov’è mia madre?» chiese lui, dardeggiando lo sguardo nella penombra.

«Se n’è andata pochi giorni fa, figliolo, lasciandomi solo a portare avanti questa pena. Ma la raggiungerò presto tra i buoni.»

«L’infame Menenio pagherà per tutte le sue colpe, padre mio. E con lui i suoi spregevoli complici. Te lo giuro.»

«Non ho mai creduto a quello che sentivo dire, figlio mio. Non ho mai creduto che potessi essere un traditore e un assassino. Ci hanno messo in prigione, tua madre e me, e poi, quando mi sono ammalato, ci hanno rinchiusi in questa anticamera dell’Averno.»

«È prima di tutto colpa mia, padre, della mia sconsiderata fuga dalla nostra città. Non sai quanto mi pesi. Ah! Non potrò mai trovare pace, né chiedere perdono.»

«Perché parli di colpa, figlio mio? Quale? Quella di esserti sempre battuto per la giustizia e per Roma? Il mio destino era comunque segnato. Il morbo è soltanto il mezzo che mi permetterà di raggiungere tua madre nel regno dei buoni.»

Giunio non si era accorto che Clelia si era avvicinata. La mano dell’amata scivolò tra le sue, scendendo a sorreggere la nuca del morente.

«Di chi sono queste mani morbide e caritatevoli?» chiese il vecchio, avendone riconosciuto la diversità al tatto, girando la testa verso Clelia.

«Della donna che amo, padre», rispose Giunio senza esitazione, fissando Clelia negli occhi. «Molte cose sono successe da quando ci siamo incontrati l’ultima volta…» Ma il tremito di morte da cui sentì pervadere il corpo del padre gli impedì di proseguire.

«Ricordati di tua madre», riprese il vecchio con un filo di voce. «Lo sai, viveva soltanto nell’attesa che tu le regalassi qualche nipote a cui fare da nonna. E adesso sa che li avrà. Anche se non potrà accudirli come sognava. Ma, chissà. Come sarà il mondo dei buoni, dopo la morte? In questo luogo di desolazione ho sentito parole di speranza su una vita al di là di quella che viviamo in questa terra. Fra non molto la vedrò, perché dove sto per andare troverà luce anche il mio buio, nel quale peraltro so vedere e percepire molte cose. Ricordati di me, figlio mio, e dell’unico dono che ti ho fatto, oltre ad averti dato la vita. Le Pietre della Luna, che adesso si trovano nelle mani di chi ti vuole morto…»

«Torneranno della nostra famiglia, padre, te lo giuro.»

Ma non c’era più niente da fare. Nella disperazione dell’impotenza, vide la testa del vecchio reclinarsi per l’ultima volta. Non fece niente per frenare i singhiozzi che gli scuotevano il petto.

In un altro sotterraneo, la Vestale Massima, impettita e imperiosa come un capo militare, stava ordinando a un soldato di abbattere il muro di accesso al Campo Scellerato. Gli occhi le brillavano di una macabra soddisfazione. Era sicura di trovare Clelia ormai priva di vita nella sua cella murata, al di là del terzo sigillo.

Ma già mentre percorreva il corridoio sotterraneo, il suo perfido sorriso si spense, alla vista dei detriti disseminati ovunque. Raggiunta la prigione di Clelia e abbattuto l’ultimo muro, il presagio divenne certezza.

Menenio non aveva osato accedere al luogo sacro ed era rimasto in attesa della notizia appena fuori del Campo. Era certo che, appena libero, Giunio avrebbe cercato con ogni mezzo di salvare la sua compagna. Ma, lo sapeva benissimo, era un’impresa impossibile, e godeva all’idea che, dal disperato tentativo, il suo odiato nemico non avrebbe potuto che trarre ulteriore pena. Ah, avesse potuto vederlo scavare con le mani e con i denti, senza risultato!

Il dubbio, tuttavia, il dubbio! Non lo lasciava dormire, non gli dava pace. Troppe volte quell’uomo dalle mille vite aveva saputo sfuggire al destino cui sembrava definitivamente condannato.

Per questo, dopo un’altra notte insonne, si era deciso a chiedere a Cornelia di verificare che il corpo della giovane fosse chiuso là dentro, senza vita.

No, non potevano esserci dubbi! Non dovevano!

Vedendo l’espressione torva della sacerdotessa che riemergeva dal labirinto sotterraneo, si sentì prendere da un fremito di terrore.

Giunio lasciò il lebbrosario con Clelia e Valeriano sette notti dopo la sepoltura del padre. I cristiani furono di molto aiuto, guidandoli per un lungo e tortuoso cunicolo che forse lui non sarebbe mai riuscito a percorrere, pur avendo dovuto forzatamente imparare e perfezionare più volte le arti dell’evasione.

Quando trovò la forza di voltarsi a guardare l’imbocco segreto della grotta, erano ormai lontani. Non lo vide più. E forse non sarebbe mai più riuscito a individuarlo. La sola idea che gli eventi potessero costringerlo a cercarlo ancora una volta gli diede un brivido.

«Nel Fretum Taphros, il tempestoso braccio d’acqua che separa la Sardegna dalla terra dei còrsi», gli spiegò Valeriano mentre camminavano insieme, «ci sono alcune isole battute dal mare e dal vento, e trascurate dagli uomini. Ho avuto occasione di visitarle da giovane, e più di recente me ne hanno dato notizia alcuni marinai conquistati alla nostra fede. Sono ancora come un tempo, disabitate ma ricche di animali selvatici e di vegetazione.

«È il luogo ideale per creare una colonia dove i cristiani possano finalmente vivere al riparo dalle persecuzioni. Per questo siamo partiti oggi. Prima dell’alba, una nave governata da nostri fratelli salperà da una insenatura rocciosa quasi inaccessibile, a sud di Roma, e ci condurrà laggiù, assieme a una cinquantina tra uomini e donne che desiderano soltanto vivere in pace e fratellanza.»

«No», ribatté Giunio con fermezza. «Non posso partire così. Non potrò mai avere pace finché non avrò compiuto la mia vendetta. La reclamano troppi morti innocenti.»

«Ragiona, Giunio», replicò Valeriano con altrettanta fermezza, ma nel suo solito tono pacato. «Vendetta è una parola che non voglio sentir pronunciare. La punizione spetta unicamente a Dio. Quello che conta è che tu possa ottenere la riabilitazione dalle gravi accuse e magari recuperare, un giorno, le Pietre che sono il simbolo della tua famiglia. Ma potrai farlo soltanto da uomo libero, non vivendo alla macchia, braccato dai sicari di Menenio.

«Ti scongiuro, vieni con noi nelle isole. Abbiamo bisogno di te e dell’esperienza di cui ti sei arricchito facendo rifiorire i campi di Marzio e dirigendo i suoi commerci. Non sprecare tanta ricchezza, mettila al nostro servizio. La mia gente ha un bisogno disperato della tua guida e Clelia ha bisogno di averti vicino.»

La strada era ancora lunga. Giunio la percorse in silenzio, immerso in profondi pensieri.

«Va bene», esclamò improvvisamente. «Rimarrò con voi fino a quando ce ne sarà bisogno. Ma quegli uomini infami non possono rimanere senza punizione. E un giorno l’avranno.»

Trovarono i cristiani radunati sull’angusta spiaggia sassosa, da dove una barca faceva la spola per caricare provviste e uomini sulla nave. Salparono nel cuore della notte, frementi dello spirito di avventura che fa battere il cuore di ogni pioniere.

16.

Florida. Dicembre 1995.

Gregory Bender si era lasciato sprofondare nel divanetto del jet. Con il fare più naturale di questo mondo, l’anziano Premio Nobel si era tolto le scarpe, aveva allungato le gambe e dato di piglio al comando del televisore, inserito nel mobiletto bar. Già aveva chiesto ai due compagni di viaggio di chiamarlo Greg come facevano tutti gli amici. Laura lo osservava divertita: era stupefacente che una personalità di livello mondiale sapesse comportarsi in maniera così informale alla rispettabile età di sessantanove anni. Una volta a suo agio, il presidente della commissione spaziale dell’ONU sembrò ricordarsi finalmente della sua presenza.

«Il nostro amico ha fatto bene a cantargliele a quel… a quel brutto muso giallo», disse di punto in bianco.

«Non sono affatto convinto delle conclusioni a cui sono giunti quei sapientoni. Ho studiato a fondo le teorie di Leonard Speitz. Non fosse che per il rispetto dovutogli per la sua statura di grande scienziato, penso che seguire e studiare nei minimi dettagli un oggetto spaziale da lui scoperto, e che porta il suo nome, rappresenti un autentico dovere. Oltre che, non si sa mai, una giusta precauzione.»

E, imprevedibile come sempre, assunse un buffo tono di complicità, piegandosi di lato, accostandosi all’orecchio di Laura e dicendole sottovoce: «Qui lo dico e qui lo nego, ma le rivelerò che le mie conclusioni personali collimano quasi perfettamente con quelle del colonnello Dimarzio. Se non riusciamo a deviarne la rotta, ci sono molte probabilità che l’asteroide Speitz-42 finisca con il caderci sulla testa, provocando un disastro tale non soltanto da cancellare la maggior parte delle specie viventi ma da innescare anche una serie di ripercussioni del tutto imprevedibili sul moto degli astri».

«E perché non lo ha fatto presente alle mummie della commissione?» non riuscì a trattenersi Laura.

«Sa, le strane leggi di fair play che governano il nostro simposio vogliono che il presidente non abbia diritto di voto. Io sono una figura puramente simbolica. Di prestigio? Non so. Certo, è una sorta di riconoscimento per il Nobel che ho ricevuto. Ma si tratta di roba ormai vecchia. Diciamo un fiore all’occhiello. E non sa quante animosità può creare l’assegnazione persino di una medaglietta. Si figuri il Nobel.

«Crede che un settantenne un po’ suonato, che fa una fatica terribile a usare una calcolatrice elettronica, per non parlare di un computer, possa essere preso in considerazione da questi eminenti studiosi impegnati nella conquista dello spazio, ciascuno nella fetta più grossa possibile per il suo paese?»

Ultimate le operazioni di decollo, Kevin aveva lasciato il secondo nella cabina di pilotaggio e li aveva raggiunti proprio durante l’agrodolce sfogo dello scienziato.

«Non preoccupatevi comunque», continuò Bender indicandosi la fronte. «Questa testa sarà anche un po’ scoppiata, ma continua a funzionare benissimo e contiene un grosso bagaglio di informazioni riservate, che ci saranno di immensa utilità per il nostro lavoro.»

Atterrarono sulla pista 7 del Kennedy Space Center, in Florida, circa due ore più tardi. Appena arrivati in sede, Kevin chiese e ottenne un appuntamento immediato con il generale Steps, responsabile della gestione equipaggi per le missioni spaziali.

Ferdinand Steps era il classico militare da ufficio. Ma forse proprio per questa sua abilità nel passare le carte e fare lo slalom nei meandri della burocrazia aveva raggiunto il grado di generale prima di Kevin, sebbene fossero compagni di corso. Di colore, aveva combattuto contro le preclusioni di natura razziale fino dai tempi dell’accademia, avendo come quasi unico alleato il giovane collega Kevin Dimarzio.

«A che cosa devo la visita dell’eroe dei due mondi?» chiese con aria allegra, indicando a Kevin un divanetto e aprendogli sotto il naso una scatola di fragranti sigari cubani.

«Voglio tornare a volare, Ferd», tagliò corto Dimarzio.

«Non ti sembra di essere un po’ stagionato per infilarti nella cabina di un F16 in missione nei cieli di Bosnia?» ridacchiò il generale, avvolto in una nuvola di fumo.

«Vorrei essere subito inserito nella rosa degli equipaggi dell’STS 74», replicò Kevin, andando dritto al cuore del problema e spegnendo immediatamente la risata del suo interlocutore.

«Sei sempre stato un guascone, Kevin Dimarzio, fin da quando mi lasciavi le soluzioni dei test scritti nel cesso della scuola di volo, perché le copiassi. Ma non temi di avere qualche problema? Non offenderti, ma, voglio dire… sei sulla soglia dei quarantacinque, se non li hai passati. Il climaterio… L’appannarsi dei riflessi… Che cosa ti succede? Nostalgia della gioventù rosata? Hai provato a sentire un analista?»

Il tono di Ferd era rimasto cordiale e scherzoso, consentendo a Kevin di continuare, senza irritarsi: «È inutile che ti spieghi tutto adesso. D’altra parte non potrei nemmeno farlo. Ti dico soltanto che, secondo qualche mio calcolo, la sopravvivenza dell’umanità potrebbe essere in serio pericolo. L’unico modo che abbiamo per garantire l’esistenza dei nostri figli è che io possa tornare nello spazio per predisporre una difesa adeguata».

Qualsiasi discorso sui figli faceva sempre colpo su Ferd, che ne aveva cinque, senza contare l’ascendente che Kevin Dimarzio aveva sempre avuto su di lui. Annuì pensosamente.

«Non puoi dirmi di più, eh? Be’, che militare sarei se non sapessi rispettare la consegna del silenzio? D’accordo. Domani mattina stessa comincerai il training con gli altri astronauti. A parte qualche non indifferente problemino di ruggine fisica, che nel caso ti prego — anzi, ti ordino — di riferire immediatamente, non credo che farai moltissima fatica. Non sono cambiate molte cose dal Columbia che hai pilotato diverse volte all’Atlantis su cui si passeggia oggi per lo spazio. Saranno sufficienti alcune ore di simulatore di volo e un bel bagaglio di aggiornamenti tecnici. Sempre ammesso che il tuo vecchio cuore regga allo sforzo fisico…»

E il simpatico ufficiale gli tese la mano, strizzando l’occhio.

«Reggerà, reggerà, non preoccuparti, vecchio mio», ribatté Kevin.

Isola del Cavallo. Sud della Corsica.

Anno 844 dalla Fondazione di Roma.

[91 d.C. (N.D.T.)]

Verso nord si ergevano maestose le bianche scogliere della terra dei còrsi. L’isola era costantemente spazzata da un vento teso che portava con sé i profumi della terraferma e della libertà.

L’epidemia colpì improvvisamente gli animali quando Marzio, il primogenito di Giunio, aveva appena compiuto due anni. Fino a quel momento la vita della comunità si era svolta nel modo più pacifico e nella più grande armonia. Pur non avendone abbracciato la religione, a differenza di Clelia, Giunio rispettava le usanze dei cristiani. Era un uomo forgiato dalle battaglie. Per qualche tempo si era quasi sentito scelto dagli dei per una missione. Ma erano tempi ormai lontani. E quali dei, comunque? In ogni caso, il rispetto delle abitudini altrui apparteneva all’educazione che gli era stata impartita da bambino e che aveva affinato sotto la guida del suo generale.

«Gli animali sono decimati da un male incurabile, Giunio», fu il responso di Luca, un fervente cristiano che, prima delle persecuzioni, era famoso nelle campagne attorno a Roma come uno dei migliori veterinari dell’impero.

«Ci sono pericoli per la gente?» chiese Giunio, preoccupato al pensiero delle ormai oltre settanta persone che popolavano l’isola.

«No, non sembra contagioso per gli uomini», fu la risposta.

Secondo Giunio, l’unico motivo per cui avevano potuto vivere in tranquillità fino allora era la totale autonomia dell’isola. Ogni bene necessario al loro sostentamento veniva prodotto localmente, senza bisogno di alcun contatto con il mondo esterno. Certo, addomesticare gli animali che prima del loro arrivo vivevano allo stato brado non era stato facile, ma alla fine aveva dato i suoi frutti. Adesso, però, di fronte alla moria del bestiame, si trovavano a dover affrontare un improvviso quanto imprevedibile stato di incertezza: se avessero cominciato a intrattenere relazioni commerciali con gli abitanti delle grandi isole vicine, in breve tempo anche Roma avrebbe inevitabilmente scoperto la loro esistenza.

Clelia lo raggiunse mentre passeggiava accigliato sulla spiaggia di sabbia bianca. Si mise al suo fianco in silenzio, rispettando la sua concentrazione.

«Non possiamo arrenderci adesso», rifletté Giunio ad alta voce. «Non possiamo… Ma sta di fatto che, se ci troveremo senza cibo e senza latte per i nostri figli, dovremo per forza abbandonare l’isola. A meno che non intraprendiamo qualche commercio. Ma che cosa può offrirci questa terra, così aspra, più del poco che ci basta per vivere? Tanto più se si pensa che da domani potrebbe non garantire nemmeno il nostro sostentamento.»

Vide trotterellare il piccolo Marzio sulla battigia, per fermarsi con aria incantata davanti a un masso di granito dalle stranissime forme scolpite dal mare e dal vento.

Di punto in bianco gli tornarono alla mente le cave dei marmi di Luna, le pietre pazientemente tagliate dagli uomini, i grossi blocchi caricati sulle navi alla fonda e la prosperità della sua città natale grazie a quell’unico commercio.

Preso in braccio il bambino, con la mano libera accarezzò la roccia rossa e levigata, meditabondo. Ma a poco a poco il volto gli si aprì in un largo sorriso. Certo! Il colore della pietra gli aveva fatto affacciare alla mente la prospettiva di un destino più roseo per tutta la comunità isolana.

Gerusalemme. Sede della Knesset. Dicembre 1995.

Il primo ministro israeliano sollevò la cornetta del telefono interno: «Per un’ora non voglio essere disturbato per nessunissimo motivo», ordinò alla segretaria personale. Quindi congiunse le punte delle dita e si mise più comodo nella poltrona.

«Sono tutto per lei, maggiore Breil», disse, fissando Oswald negli occhi.

L’omino non tradì la minima emozione, mettendo immediatamente in moto il suo meticoloso ordine mentale per riferire al capo di stato le scoperte fatte.

«Procederò per sommi capi», cominciò tranquillo il suo minuscolo interlocutore, «scendendo nei particolari a mano a mano che andremo avanti. Se qualcosa non dovesse esserle chiaro, la prego di interrompermi, signor primo ministro.

«Credo lei sappia che per qualche tempo, con la qualifica di direttore di una piattaforma petrolifera, mi sono occupato di ricerche sottomarine. In realtà avevo cercato quell’incarico per portare avanti una mia vecchia idea: l’individuazione e l’eventuale recupero dell’U115, l’ultimo sommergibile nazista partito dalla Germania, che secondo me — e anche secondo altri, come vedremo — custodiva i segreti personali del Führer.

«Purtroppo però, come sappiamo, il sommergibile si è spezzato a pochi metri dalla superficie, consentendo il recupero di una minima parte del suo carico.

«Dietro a questo e ad altri incidenti, che hanno provocato molte vittime e messo a repentaglio la mia e altre vite, si è scoperto che c’era sempre Sir Robert Rustom, il presidente della North Pole Oil, la compagnia petrolifera presso cui avevo cercato lavoro in base a una serie di ragionamenti e sospetti. E anche questo ci è noto.»

Così detto, Oswald si concesse una breve pausa, quasi volesse verificare se l’interlocutore lo seguiva con la giusta attenzione. Quindi riprese: «Non potendo sopportare l’onta del carcere per il suo tradimento, Rustom si è suicidato. Sempre che non sia stato suicidato… Non so… Comunque, la sua famiglia si era ammantata di una fama di eroismo nella recente storia del Regno Unito, nel cui corso suo padre era consigliere militare di Winston Churchill.

«Ma veniamo al dunque. Gli oggetti trovati nella parte recuperata dell’U115, purtroppo, sono di scarso interesse per documentare l’idea personale a cui ho accennato».

«E quale sarebbe, Oswald?» lo interruppe il primo ministro.

«Non ho mai creduto che Hitler sia morto suicida nel bunker di Berlino, né che il corpo rinvenuto dai russi e poi inspiegabilmente scomparso fosse quello del Führer. Ma se mi permette, signore, proseguirei per gradi.

«A quel punto, pur nella scarsità d’informazioni documentali, ero arrivato a scoprire che il passato dei Rustom è pieno di lati interessanti, per non dire inquietanti, certamente oscuri, centrati sulla creazione di un’associazione segreta, il cui comando e ogni altra carica vengono tramandati di padre in figlio. Come il diritto a un trono. In secondo luogo, la ricchezza della famiglia appariva sospetta: c’era un salto di qualità troppo forte tra il normale benessere di un ammiraglio e la possibilità di acquistare la più potente compagnia petrolifera britannica del dopoguerra, come ha fatto suo figlio.

«Terzo, la vita dell’ammiraglio Rustom presentava due vuoti assoluti in due momenti precisi. Il primo nel cuore della seconda guerra mondiale e l’altro pochi giorni prima della caduta di Berlino.

«A questo punto è indispensabile fare un passo indietro nel tempo. Anni ’40, nell’isola apparentemente felice rappresentata dalla Svizzera nell’Europa devastata dalla guerra. Un giovane impiegato di banca di origini ebraiche svolge il suo lavoro in un istituto bancario di Zurigo. Si occupa della gestione del caveau, tiene aggiornato il registro cifrato dei conti e accompagna i clienti nelle grandi stanze blindate. Naturalmente, soltanto dopo aver proceduto alla loro identificazione tramite le cifre segrete del conto. Il cliente deve anche essere in possesso di una chiave, che costituisce l’unica possibilità di accedere a quanto nascosto nelle celle se usata contemporaneamente alla chiave universale custodita dalla banca e affidata all’impiegato.

«Nel 1942, Misha Ceorsky, così si chiamava il giovane bancario, viene avvicinato da un sedicente uomo di affari tedesco, che in realtà è un alto ufficiale del Reich, responsabile della Deutsche Erde und Steinwerke. Insomma, il braccio finanziario delle ss.

«Altra piccola parentesi, e altro passo indietro. Siegfried Sachs, unico erede dell’impero metallurgico tedesco, è un ricchissimo perdigiorno che si diletta di cercare relitti nei mari a sud della Florida. Per puro caso, un pomeriggio del 1927 si imbatte nel più grosso tesoro mai recuperato: un galeone sommerso il cui carico è composto quasi esclusivamente di lingotti d’oro, barre d’argento e pietre preziose. A bordo del suo panfilo ci sono, oltre all’equipaggio — poi misteriosamente scomparso con l’imbarcazione durante il viaggio di ritorno in Europa -, un alto ufficiale britannico e una non meglio precisata amichetta americana del momento.

«Torniamo all’incontro di Zurigo nel ’42. L’ignoto uomo di affari tedesco notifica a Ceorsky che i beni personali della famiglia Sachs sono stati confiscati e che identico destino devono subire le loro proprietà all’estero, compreso il forziere dove Siegfried Sachs ha messo al sicuro un tesoro valutabile oggi in circa mille milioni di dollari. A sostegno della sua pretesa, il funzionario nazista esibisce la chiave del caveau. Ma non può non ammettere che né lui né i suoi mandanti conoscono il codice segreto del conto.

«Ligio al dovere, Ceorsky si rammarica con lui, sebbene questi badi bene a sottolineare più volte che il Führer in persona saprebbe come ricompensarlo. ‘La legge non mi consente di concederle l’accesso alla stanza blindata di chicchessia’, ribatte adamantino il giovane bancario, suggerendo al nazista di chiedere al suo governo di intraprendere le pratiche burocratiche internazionali necessarie per rivendicare il diritto all’accesso. Al che i toni gentili del tedesco cambiano di colpo.

«’Sappia che i suoi genitori hanno raggiunto il campo di Auschwitz proprio ieri’, spiega senza mezzi termini allo sgomento giovane. ‘E voglio immaginare che la loro vita le stia molto più a cuore di una piccola infrazione alla legge bancaria svizzera. Ci pensi su, signor Ceorsky, non abbiamo fretta.’»

Arrivato a questo punto, Oswald si concesse un’altra pausa per versarsi un bicchiere d’acqua e schiarirsi la voce, ma, stimolato dallo sguardo intento del primo ministro, proseguì subito: «Che cosa era successo, nel frattempo? Siamo sempre nel ’42, ma poco prima dell’incontro di Zurigo. L’Inghilterra e gli alleati sono in difficoltà. Londra è sotto la minaccia della Luftwaffe, ma resiste. L’ammiraglio Rustom prende spunto da un discorso in cui Churchill aveva detto: ‘Se avessi questo Hitler qui davanti a me, prima di accompagnarlo al patibolo mi piacerebbe dirgliene quattro’.

«Rustom vede la sconfitta alle porte. Non si perde tuttavia d’animo e con la velocità del fulmine organizza una missione segreta nel nord della Francia. Dispongo di diversi documenti che provano come il 16 marzo 1942, lunedì mattina, l’ammiraglio Rustom si sia incontrato a tu per tu con Adolf Hitler, trattando direttamente con lui una sua personalissima versione della resa alleata. Che evidentemente non viene accettata.

«Ma il bravo ammiraglio fa un’altra mossa, sicuramente per assicurarsi un salvacondotto per il futuro, non si sa mai. Rivela a Hitler la scoperta di cui è stato testimone alcuni anni prima nel mar della Florida a bordo dello yacht di Siegfried Sachs. Detto fatto. Di punto in bianco Sachs cade in disgrazia, viene spogliato di ogni suo avere e internato in un campo di concentramento. Le SS confiscano le sue proprietà in Germania e avanzano i loro diritti su quelle depositate all’estero. È in questo contesto che avviene l’incontro tra Ceorsky e l’inviato nazista. Il giovane impiegato non cede subito, cerca di tergiversare, ma sta di fatto che, qualche giorno dopo l’incontro, i suoi genitori vengono liberati da Auschwitz e tradotti segretamente in Svizzera. Di fronte alla vita dei suoi cari, anche la sua rettitudine aveva vacillato, ma nessuno di noi vorrà criticarlo. Io, no di sicuro.

«Lo scenario cambia di nuovo, siamo agli ultimi giorni di guerra. Hitler si sente braccato, vede i fronti delle sue truppe cedere sotto le avanzate alleate. I russi sono quasi a Berlino. Si ricorda dell’alto ufficiale inglese, riesce a contattarlo tramite la sua rete di spionaggio e lo ricatta, minacciando, se non gli dà una mano, di rivelare a tutto il mondo i contenuti dell’incontro segreto di alcuni anni prima. Hitler vuole tagliare la corda, sfangarsela, nascondersi sotto falso nome in un posto tranquillo, da dove cercare eventualmente di riorganizzare le sue forze. In cambio del disturbo è disposto a offrire il tesoro di Sachs.

«Ancora una volta, il nostro giovane impiegato di banca è testimone involontario di una pagina segreta della storia. Pochi giorni prima della caduta di Berlino, Ceorsky viene contattato dal medesimo inviato tedesco, che gli ingiunge di modificare una seconda volta il nome dell’intestatario del conto cifrato, ma soltanto quando avrà espressamente ricevuto un ordine, che gli trasmetterà lui stesso de visu, in assenza di orecchi e occhi indiscreti.

«L’ordine di trasferire la disponibilità del caveau all’ammiraglio Rustom viene impartito a Ceorsky la mattina del 30 aprile 1945. Quello stesso giorno i russi prendono Berlino, e Hitler, a bordo dell’aereo personale della massima autorità militare britannica, raggiunge sano e salvo il suolo americano. Adolf Hitler, nascosto sotto l’identità del proprietario terriero Deumir Magruder, è morto in Texas nel 1964 per ictus cerebrale, circondato e pianto dalle vacche del suo ranch e da una schiera di anziani e meno anziani fedelissimi.

«Ecco le foto e i risultati della perizia necroscopica sul corpo di Magruder, che ho fatto riesumare ieri con richiesta di urgenza tramite i nostri responsabili di zona. Una velocissima telefonata in codice dall’aeroporto di Francoforte. Mi sono arrivati un paio d’ore fa, sempre in codice. Li abbiamo decodificati e stampati».

E Oswald posò sulla scrivania del premier un plico di fogli, continuando: «È inutile che le dica che ho già controllato personalmente negli archivi elettronici: Hitler e Magruder sono senza ombra di dubbio la stessa persona».

Quindi, atteso con una pausa di silenzio assoluto che la notizia fosse colta in tutta la sua drammatica importanza, Breil riprese: «Ma tra le mani dell’ammiraglio britannico, vincitore della seconda guerra mondiale e diventato improvvisamente ricchissimo, era rimasta una bruttissima gatta da pelare. Una fuga di notizie da parte del Führer o dei suoi era del tutto improbabile, ma che fare con l’altra trentina di persone al corrente dell’operazione? Tutti, dal falsario che aveva preparato i documenti di Hitler, all’impiegato di banca che conosceva le origini del conto, al pilota dell’aereo personale di Rustom, erano stati gratificati con fortissime cifre. E di sicuro, aggiungo io, con una convincente promessa di morte violenta in qualsiasi caso di distrazione.

«Ma erano comunque troppi: a) per potere stare tranquilli, b) per poterli far scomparire senza che le tracce riconducessero a lui. Doveva legarli ancora di più a sé, minacciandoli di rendere pubblica l’azione indegna di cui erano stati complici. Morirà Sansone, deve aver più o meno detto, ma con lui moriranno tutti i filistei. E quelli hanno abbozzato, accettando la sua proposta. Quale?

«Rustom padre, una mente evidentemente fervida, si è inventato un’associazione segreta — forse l’aveva già creata, su questo punto non si può avere nessuna certezza — e li ha iscritti tutti quanti di forza, vincolandoli al silenzio e alla solidarietà reciproca, ma, di fatto, mettendoli uno contro l’altro. Dopo di che, sempre fervido, ha iniettato nelle casse dell’associazione diversi milioni di dollari presi dal tesoro ex Sachs, assicurando a tutti carriera, ricchezza e silenzio.

«Ma non soltanto per loro, visto che anche i figli primogeniti sono vincolati a far parte della Lobby e continuano a godere dei privilegi dei padri, oltre che a tenersi d’occhio a vicenda. E ad assicurare il reciproco silenzio. Morto Rustom, l’associazione segreta è quindi sopravvissuta, anche se rimane tuttora da scoprire chi ne sia il nuovo capo. Ci arriveremo, spero. Per adesso sono riuscito a identificare la maggior parte dei soci originari e dei loro discendenti. Ma, arrivato a questo punto, ho cominciato a sentire forte il peso della responsabilità di conservare questo segreto tutto per me».

Il premier israeliano posò gli occhiali sul tavolo e si strinse la testa fra le mani: «Vada avanti con le indagini, Oswald. Intanto io valuterò se sia il caso di rendere note queste informazioni al mondo. Devo quanto meno consultarmi con il presidente degli Stati Uniti e con il capo del governo britannico».

Dopo un vigoroso cenno di assenso, Oswald fece per alzarsi. Era sicuro fin dall’inizio che avrebbe ricevuto quella risposta, ma si sentiva profondamente sollevato per essersi potuto scaricare dalle spalle la responsabilità di un segreto così grave.

Isola del Cavallo. Anno 849 dalla Fondazione di Roma.

[96 d.C. (N.D.T.)]

Il secondo figlio di Giunio nacque quando il primogenito, Marzio, aveva cinque anni. Mentre la levatrice aiutava Clelia a metterlo al mondo, Giunio era nei pressi della cava, preso nelle operazioni di varo della loro prima oneraria. Il commercio delle lastre di granito era cominciato su piccola scala, con sporadiche offerte ai villaggi delle coste vicine che provvedevano al trasporto con mezzi loro, ma era andato via via crescendo. Avevano volutamente scelto di sfruttare una cava piuttosto lontana dal loro villaggio, in modo che gli equipaggi delle navi che venivano a caricare non andassero a curiosare tra le case, spesso decorate con immagini od oggetti di culto cristiano.

Erano ormai sull’isola da circa sei anni: la popolazione era quasi raddoppiata e i bambini scorrazzavano felici. Clelia era una compagna insostituibile e una madre dolcissima, sempre presente e premurosa.

Giunio però non aveva mai dimenticato l’impegno preso con suo padre. E anche sua moglie accennava di quando in quando alla solenne promessa pronunciata mentre il padre gli moriva tra le braccia, nella speranza che il tempo avesse sanato le ferite.

«Intendi sempre prestare fede al tuo voto?» gli chiese senza preamboli una sera.

«Ho un debito verso Menenio — gli devo la morte di tante persone — e un credito nei confronti del tesoro dei romani, sicché prima o poi sarò costretto a far fede al debito e a reclamare il credito. Me lo impone la coscienza. Ma stai tranquilla, abbiamo ancora tempo, non ho fretta di compiere la mia vendetta e non lo farò di sicuro prima che i nostri figli siano diventati grandi.»

«Ho paura, Giunio. Ogni giorno mi sveglio con il terrore di vederti partire. Ti scongiuro, marito, rinuncia. Accontentiamoci di questa esistenza tranquilla, che abbiamo fatto tanta fatica a conquistare», replicò Clelia con voce velata dall’ansia.

Fu forse la prima volta che Giunio perse la calma con lei. «Proprio tu mi parli di mancare a un voto?» sbottò. «Pensi dunque che debbano rimanere impuniti i responsabili della morte di tante persone care, gli artefici delle odiose trame che ci hanno disonorato e costretto alla clandestinità, i ladri dei sacri lasciti dei miei avi?»

«E noi?» ribatté lei animosamente, stringendosi al petto i figli. «Noi non ti siamo cari? Non sei legato a noi da un vincolo quasi ugualmente sacro? Abbandonarci non significherebbe niente?»

Le parole gli arrivarono diritte al cuore, con un profondo senso di malinconia. Guardò il volto spaurito di Marzio e il fresco sorriso che scavava due tenere fossette nelle guance del piccolo in braccio a Clelia. Non trovando risposta migliore, cercò una scusa per troncare la discussione: «Andiamo a casa, Clelia. Domani mattina devo raggiungere il molo di buon’ora, per dirigere le operazioni di carico di una nave arrivata questa sera».

Quel pomeriggio aveva lasciato presto la cava, e non aveva ancora visto l’oneraria che aveva dato fondo in rada.

Il mattino seguente Valeriano si presentò a casa sua poco dopo il sorgere del sole. Si occupava con successo degli aspetti tecnici di questa loro nuova attività. «Il mercante romano proprietario della nave ha espresso il desiderio di conoscere il capo della nostra comunità», gli disse. «Credo che abbia intenzione di organizzare una serie di collegamenti periodici per trasportare il nostro granito in tutto l’impero. È meglio che parli personalmente con lui, Giunio.»

Il piccolo Marzio lo raggiunse sulla soglia e, strattonandolo per la tunica, non lo lasciò finché non accondiscese a condurlo con sé al molo.

Lungo la strada Giunio alternò i giochi con il bambino ai discorsi di lavoro con Valeriano. Ma non appena ebbe aggirato lo sperone di roccia che precludeva la visuale sulla baia, provò un tuffo al cuore, fatto di angoscia e presentimento. All’àncora, nell’acqua cristallina della loro isola, dondolava pacificamente una nave che lui stesso aveva progettato, l’ammiraglia della flotta appartenuta un tempo a Marzio. Anche da quella distanza riconobbe immediatamente Dario, in piedi sulla banchina, ed ebbe la netta sensazione di essere stato a sua volta visto, prima che fosse riuscito a nascondersi dietro la roccia.

È incredibile come i profondi e sacri istinti siano in grado di modificare qualsiasi indole: in un altro momento avrebbe messo mano alla spada senza esitare un attimo a battersi contro colui che riteneva l’esecutore materiale dell’omicidio di Marzio. In quel momento, invece, le sue mani strinsero il figlio nel cui nome aveva voluto perpetuare il ricordo del suo signore assassinato.

Il saggio Valeriano capì subito e gli si accostò. «Credo che quell’uomo ti abbia visto», disse. «Non ha più distolto lo sguardo dal punto in cui eravamo. Chi è?»

«Dario, uno schiavo che ho salvato da una miserabile morte in miniera e che invece, una volta conquistata la mia fiducia e quella del nostro signore, sospetto si sia macchiato del più orribile dei tradimenti.»

«Torna a casa con tuo figlio, Giunio. Con quell’uomo posso parlare io. Inventerò una scusa, dirò che hai avuto un malessere e non sei potuto venire a riceverlo.»

La faretra con i giavellotti era posata in un angolo della stanza, accanto alla spada. Dal momento in cui era sbarcato sull’isola, Giunio aveva fatto ricorso alle armi soltanto per andare a caccia di animali selvatici. Clelia lo guardò afferrarle angosciata, senza parlare.

«Devo andare, amore mio, è inevitabile. Devo farlo per il bene di noi tutti», le spiegò. «Temo che quell’uomo mi abbia riconosciuto e, se è così, tra pochi giorni arriveranno i soldati. A centinaia. Per distruggere tutto ciò che abbiamo creato. La nostra piccola nave è più agile e veloce. Ho già detto a Valeriano di ritardare le operazioni di carico il più possibile. Quando Dario arriverà a Ostia, incontrerà la mia lama prima di potermi denunciare.»

Clelia gli appoggiò il capo sulla spalla. Gli passò la mano morbida tra i capelli e accostò le labbra alle sue: «Dio ti protegga, marito. Sarò qui con i nostri figli ad aspettare il tuo ritorno».

Lui la strinse appassionatamente a sé, fino a quando non furono le piccole mani di Marzio a separarli. «Dove vai, padre?» chiese nella sua innocenza.

Giunio rispose la prima cosa che gli venne in mente: «Devo uscire a pesca, sarò di ritorno tra pochi giorni».

«Portami con te, ti prego», implorò il bambino.

«Non posso, piccolo», rispose lui. «È una pesca pericolosa, adatta soltanto agli uomini grandi.»

«Ma io sono grande», replicò prontamente Marzio, indicando la spada di legno che portava al fianco. Ma per fortuna si lasciò convincere di buon grado a rinunciare.

La piccola nave si allontanò dal lato dell’isola opposto a quello dov’era ormeggiata l’oneraria. Arrivati abbastanza lontani da essere sicuri di non essere visti, virarono verso Ostia.

Cape Canaveral. Florida. Kennedy Space Center.

Gennaio 1996.

Greg Bender amava recitare — e recitava bene — il personaggio dell’insegnante affabile. E Laura e Kevin non si stancavano mai delle sue battute e della semplicità degli esempi con cui sapeva illustrare qualsiasi concetto, anche il più complesso.

«Sapete che cosa ho risposto a un giornalista che mi chiedeva come pensavo si potesse scongiurare una catastrofe cosmica sul tipo di quella che ci preoccupa?» chiese l’anziano scienziato, calamitando ancora una volta la loro attenzione.

«Bastano cento milioni di dollari», gli ho detto. «Il necessario per realizzare un ordigno nucleare ottocento volte più potente di quello di Hiroshima, in grado di disintegrare i corpi celesti più piccoli o di deviare la rotta di quelli più grossi.»

«Domanda!» interloquì Laura, alzando scherzosamente una mano come una scolaretta. «Come facciamo a realizzare un ordigno di quella potenza in così poco tempo, dovendo per di più tenere a bada lo scetticismo del mondo scientifico e avendo a disposizione fondi pressoché inesistenti?»

«Chi ha detto che dobbiamo realizzarlo?» replicò Bender con un sorriso malizioso. «Basta accontentarsi di quello che c’è già… nello spazio.»

Laura e Kevin gli piantarono in viso sguardi ancora più perplessi.

«Come tutti sanno, la massima aspirazione del presidente Ronald Reagan era probabilmente quella di passare alla storia come il realizzatore di un piano di difesa stellare degli Stati Uniti d’America. A quei tempi io fui chiamato a dirigere il coordinamento del progetto Scudo Spaziale, un disegno veramente efficace per difendere il territorio da un attacco nucleare.

«Semplificando, il sistema di difesa avrebbe dovuto funzionare così: diverse batterie di missili a testata nucleare avrebbero dovuto ruotare attorno alla terra come normali satelliti. Alcuni dei vettori dovevano essere intercettori, capaci di far esplodere in volo le testate dirette contro le nostre città, altri invece dovevano avere il compito di cancellare ogni forma di vita nel territorio nemico.

«Prima che il congresso ci tagliasse i fondi e che il comunismo, autoestinguendosi, cancellasse persino il concetto di pura emulazione militare della guerra fredda, il mio staff e io siamo riusciti a mettere in orbita quasi sessanta missili, con un potere detonante pari a quattrocento chilogrammi di esplosivo nucleare: circa seicento volte l’ordigno di Hiroshima.»

L’anziano scienziato lasciò cadere una breve pausa per osservare l’effetto delle sue parole sugli interlocutori, quindi riprese: «È inutile che mi guardi con quell’espressione severa, dottoressa Joanson. I suoi begli occhi non ci guadagnano. Ero e sono convinto che una bomba atomica sia molto meno pericolosa in volo attorno all’orbita terrestre che sepolta in questa o quella base segreta sotto il salotto buono di casa nostra».

«Crede che i suoi missili possano bastare per scongiurare il pericolo dell’asteroide Speitz?» tagliò corto Kevin.

«Calma, colonnello. Non so ancora se possano bastare al nostro scopo, sempre ammesso che se ne verifichi la necessità, però conosco molto bene le difficoltà connesse con l’operazione. Prima di tutto, bisogna infatti trovare un veicolo idoneo e mettersi a girare per lo spazio in cerca delle batterie di missili. Mi sembra comunque che l’Atlantis possa fare al caso nostro.

«Una volta raggiunte le stazioni di puntamento, occorre poi che una persona di ottima dimestichezza con quegli ordigni faccia una passeggiata nello spazio per disinnescare le testate e smontarle dall’affusto dei missili. Dopo di che, le ogive nucleari possono essere ricoverate nella stiva del mezzo spaziale con l’ausilio del braccio meccanico dello Shuttle.

«A questo punto, però, viene veramente il difficile. Con quale vettore verranno portate sull’obiettivo le testate nucleari?»

E Bender fece una nuova breve pausa, con aria meditabonda, riprendendo: «Forse si potrebbe legarle a grappolo attorno a un razzo e lanciarle direttamente dalla stiva contro la presunta minaccia spaziale. Sempre che, ripeto, questa minaccia si verifichi davvero. Chissà».

«Non sarebbe più semplice lanciare da terra una navicella già equipaggiata con le armi nucleari?» chiese Laura.

«Giusta osservazione», annuì Bender. «Ma c’è un grosso ‘ma’. Lei era presente quando i massimi responsabili dello spazio ci hanno manifestato il loro scetticismo circa il presunto pericolo. E ci scontreremmo di sicuro con lo stesso atteggiamento delle grandi potenze se chiedessimo adesso di poter attingere agli arsenali nucleari. Se la minaccia dovesse diventare una certezza, non avremmo sicuramente problemi. In quel momento tutti farebbero a gara per aiutarci. Basterebbe un ordine del presidente degli Stati Uniti. Ma potrebbe essere tardi. Anzi, sarà sicuramente tardi.

«Inoltre», proseguì pensosamente Bender, «esiste una seconda remora di enorme importanza per l’opinione pubblica, e di conseguenza per i politici. Si immagina uno Shuttle imbottito di megatoni che parte dalla Terra? Un qualsiasi incidente al momento del decollo, o poco dopo, potrebbe avere conseguenze terribili, persino più catastrofiche della presunta minaccia dell’asteroide. No, allo stato attuale nessuno autorizzerebbe una simile procedura. Dobbiamo prepararci da soli.»

Porto di Ostia. Anno 849 dalla Fondazione di Roma.

[96 d.C. (N.D.T.)]

Giunio scese a terra con il favore del buio notturno, coprendosi con una tunica e un turbante scuri, alla maniera di molti marinai africani, per evitare il rischio di essere riconosciuto da qualche concittadino.

La nave oneraria carica di granito arrivò in porto la sera dopo. Dal suo nascondiglio sotto una barca da pesca tirata in secco, Giunio seguì con attenzione la manovra di ormeggio. Vide distintamente Dario sulla prora. Notò che i suoi modi tradivano una grande agitazione.

Scese a terra prima ancora che le gomene venissero fissate alle bitte. Poco mancava che corresse: la taglia che pendeva sulla testa del fuggiasco accusato di omicidio continuava evidentemente a fare presa sul suo spirito avido.

Giunio gli si parò davanti all’improvviso, uscendo dal nascondiglio con la spada brandita. Nonostante l’oscurità, vide con chiarezza il suo viso torcersi in una smorfia di terrore. Ma, passato il primo attimo di panico, Dario riuscì a ricomporsi e ad abbozzare un sorriso: «Giunio», esclamò, «mio salvatore! Il mio cuore si gonfia di gioia nel vederti!»

«Basta con le commedie, Dario», ribatté lui, stringendo la mano sull’elsa. «Sono tornato per farti pagare le tue colpe.»

«Aspetta, fratello, che cosa fai? Io non ho mai creduto alla menzogna con cui hanno infangato il tuo nome», replicò l’altro, spostandosi leggermente di lato.

Giunio aveva stampato indelebile nella mente il ricordo di quei momenti terribili. Rivide Marzio esanime a terra, i rotoli della contabilità sparsi a poca distanza dal suo corpo. E Dario! Dario, la prima persona che gli si era fatta incontro quando era uscito dalla stanza dell’assassinato.

«L’hai ucciso tu», continuò puntandogli alla gola la punta della spada. «L’hai fatto, congiurando con i suoi odiosi nemici, soltanto per la tua disgustosa avidità. Come premio, hai avuto le proprietà dell’onesto uomo che hai trucidato. E adesso devi morire.»

«Aspetta, Giunio, fermati. Sono un uomo ricco e potente, ormai. Posso offrirti benessere e impunità», invocò Dario con uno sguardo fattosi supplichevole. «Pensa alla mia famiglia, ai miei figli.»

Famiglia! Figli! Ancora una volta l’astuto fenicio aveva saputo toccare un nervo sensibile. Giunio ebbe un attimo di esitazione, che bastò a Dario per impugnare un pugnale nascosto tra le vesti e balzargli addosso menando un terribile fendente.

Ma ancora una volta l’esperienza del Circo soccorse Giunio, che scansò il colpo con un’abile torsione del corpo. Non trovando il bersaglio, Dario si sbilanciò in avanti oltrepassandolo di slancio, piegato in due. Preso da una gelida risoluzione, Giunio alzò il braccio destro e vibrò un fendente letale.

«Muori, traditore!» esclamò, mentre la lama colpiva il suo avversario alla base della nuca, troncandogli il collo e uccidendolo sul colpo. La vendetta, attesa da anni, era in parte compiuta. Ne assaporò con gusto il sapore aspro.

Miami. Florida. Febbraio 1996.

Oswald Breil ascoltò attentamente quanto diceva Pete Dayle, che lo aveva convocato con Laura a una riunione ristretta. Passati rapidamente in rassegna gli avvenimenti, il dirigente della CIA concluse: «Il nostro compito si esaurisce qui. Puoi tornare alle tue normali attività, Laura. La tua partecipazione all’impresa è stata preziosa, ma il possibile pericolo rappresentato dall’asteroide Speitz-42 non è di pertinenza dei servizi segreti. Ci penserà chi dispone delle conoscenze e dei mezzi adeguati. Per quanto concerne noi tre, considero il caso U115 chiuso e propongo di archiviarlo.»

Proposta perlomeno prematura, considerò Oswald, anche al di là delle sconvolgenti informazioni di cui, dei tre, soltanto lui era in possesso. No, non poteva perdere la preziosa fonte di informazioni dall’interno della NASA rappresentata da Laura. Ma per fortuna fu la stessa Laura a replicare bellicosamente, evitandogli di intervenire.

«Dopo che ho dovuto piantare in asso tutti i miei impegni per quasi un anno, e con una massa di roccia che sembra avere tutte le intenzioni di caderci sulla testa, per non tacere il fatto che sono scampata per miracolo a diversi attentati, tu, Pete, vieni a dirmi che il caso è archiviato? No, per quanto mi riguarda, sono una donna libera, quindi non abbandonerò questo caso fino a quando non troverà una vera conclusione, quale che possa essere, egregio signor Dayle!»

«Be’, che sei una donna ce ne siamo accorti tutti», ribatté seccamente Pete. «Compreso, a quanto pare, il gagliardo colonnello della NASA…»

«I miei affari privati non ti riguardano, Pete!» scattò Laura, sul punto di perdere la pazienza.

Oswald si rese conto che la discussione stava per degenerare e che questo poteva avere effetti disastrosi per i suoi fini reconditi. Aveva praticamente già ottenuto ciò che desiderava: che Laura continuasse a collaborare con la NASA. Lo aveva deciso lei stessa, e nessuno sarebbe riuscito a farle cambiare idea. Ma, soprattutto, lui aveva bisogno di guadagnare tempo per sistemare i pochi tasselli sparsi che ancora rimanevano da scovare.

«Calma, ragazzi, calma», disse pacatamente. «Niente ci vieta di considerare esaurito il primo filone delle indagini, quello riguardante Adolf Hitler e il passato. In effetti», continuò, mentendo con la freddezza di un giocatore di poker, «il poco che siamo riusciti a recuperare dall’U115 non ci è stato di nessun aiuto per fare luce sul destino del Führer e dei suoi fedelissimi. Ma, a mio modo di vedere», concluse in tono conciliante, rivolto a Pete, «Laura può benissimo continuare a lavorare alla NASA e sviluppare fino in fondo le ipotesi emerse in quella sede. Oltre a tutto, mi sembra di capire che il colonnello Dimarzio ne avrebbe molto piacere.»

Roma imperiale. Anno 849 dalla Fondazione.

[96 d.C. (N.D.T.)]

Il palazzo delle terme dava su una via di intenso traffico nel cuore di Roma. Sempre avviluppato nei suoi panni, Giunio attese la sera in una taverna poco distante, conversando con un occasionale compagno di tavolo, che si spinse fino a rivelargli come tra la popolazione e le milizie serpeggiasse un forte malcontento, motivo di ben più di un moto di ribellione. Popolano abituato a rincorrere tutte le voci, era convinto di riferire cose già note anche al presunto marinaio africano.

Era ormai buio quando Giunio si avventurò su gambe che fingeva malferme all’interno dell’impianto termale. Le ordinate spalliere di lauro gli offrirono un ottimo nascondiglio fino alla chiusura. Quando la tranquillità fu totale, ne emerse ed entrò nel complesso di edifici, puntando senza esitazioni sulla vastissima sala del sudatorio, dove nascose le armi sotto una panca in legno. Quindi cercò un riparo sicuro, dove aspettare il giorno e il momento in cui la struttura pubblica si sarebbe riempita dei notabili della città, tra cui era sicuro che ci sarebbe stato anche Menenio. Era lì, infatti, celato tra i fumi del vapore, che aveva l’inveterata abitudine di gettare i suoi ami e avviare le sue trame.

Nascostosi in un cubicolo dei lavaggi, Giunio dormì alla meglio, svegliandosi alla primissima luce e rimanendo in attesa dell’apertura delle terme. Dal suo nascondiglio poteva tenere perfettamente d’occhio l’ingresso e riconoscere ogni nuovo venuto. Attese e attese, ma, con il passare del tempo, la sua impresa andava sempre più assumendo i toni del fallimento. A pomeriggio inoltrato, Menenio non era ancora comparso sull’ingresso.

Tenendo a freno l’agitazione, Giunio cercò di elaborare un piano alternativo, anche se trovare un altro posto per portare a compimento la sua vendetta gli appariva molto difficile. I tempi erano malsicuri, aveva detto l’uomo della taverna, e i senatori si facevano sempre accompagnare da una nutrita scorta armata.

Fu proprio la scorta a metterlo all’erta. Stava elaborando un’ennesima serie di congetture e ipotesi, quando, poco prima della chiusura, un drappello di soldati si arrestò appena oltre l’ingresso del complesso termale. Dalle loro schiere emerse Menenio, ancora in laticlavio. Al suo fianco, Sestilio stava parlando animatamente. Sentì distintamente il senatore anziano ordinare agli inservienti di sgomberare il salone, invitandoli ad aspettare all’esterno che avesse finito di servirsi dell’impianto. Fu obbedito senza fiatare, dagli inservienti come dagli ultimi frequentatori rimasti nel sudatorio.

Giunio seguì attentamente con lo sguardo i due biechi individui che, rimasti finalmente soli, si dirigevano verso lo spogliatoio. Non li avrebbe persi di vista un istante, in attesa del momento propizio per pareggiare un conto troppo pesante e aperto da troppo tempo.

Cape Canaveral. Florida. Kennedy Space Center.

Aprile 1996.

Il fattore imprevisto, temuto da Kevin Dimarzio e con tanta albagia escluso dagli scienziati della commissione ONU, si era purtroppo verificato. Oltre la scia della cometa Yakutake, completamente nascosto dal suo accecante chiarore, era improvvisamente comparso l’asteroide Speitz-42 su un’orbita completamente diversa da quella calcolata. Come non era riuscito a tenere conto della forza di attrazione della luna, ancor meno Leonard Speitz aveva potuto prevedere la comparsa dell’immensa cometa, con il subbuglio che essa avrebbe potuto provocare nelle traiettorie dei corpi celesti. Né la potevano prevedere gli scienziati, così testardamente ancorati alle loro certezze e decisi a escludere qualsiasi imprevisto. Inutile recriminare. L’asteroide era indubitabilmente, inesorabilmente puntato verso la Terra.

E troppo tardi i presuntuosi sapienti dello spazio avevano preso atto di quello che stava per succedere al loro pianeta. Ovvero, troppo tardi sarebbe stato se Laura Joanson, Kevin Dimarzio e l’anziano professor Bender non avessero portato avanti con puntiglio il loro lavoro tra tante ostilità ottuse e colpevoli. Certo, alla luce delle certezze scientifiche, il piano da loro elaborato presentava più di un aspetto di preoccupante sommarietà, ma i tre erano fermamente sicuri del suo successo. In ogni caso, era l’unica carta da giocare, l’unico tentativo in grado — forse — di salvare l’umanità dal disastro.

«Dio sa quanto avrei voluto che i nostri timori venissero smentiti», disse Greg Bender, mentre Laura e Kevin pendevano letteralmente dalle sue labbra. Davanti a loro il tavolo era coperto di mappe e tabulati di computer.

«D’altra parte, gridare ai quattro venti che avevamo ragione non servirebbe a niente. Dobbiamo assolutamente passare all’azione e attuare il piano che abbiamo studiato a tavolino. I calcoli sono di una precisione assoluta. Ormai mancano soltanto ventisei giorni all’impatto.»

Così detto, Bender prese una foto dell’asteroide Speitz-42, ricostruita grazie alle immagini del radiotelescopio di monte Palomar, e, indicando una zona più scura sulla crosta della gigantesca sfera di rocce spaziali, continuò:

«Questo è un cratere che penetra nelle viscere dell’asteroide. Se si riuscisse a piazzare in questo punto una carica di seicento chili di esplosivo nucleare, quasi sicuramente le pareti di roccia si trasformerebbero in un cono propulsore e, sotto la spinta dell’esplosione atomica, l’asteroide devierebbe di diversi gradi dall’orbita attuale, scongiurando il pericolo che si abbatta sulla Terra».

«Ma come facciamo a trovare tutta questa potenza?» chiese Kevin. «Ha detto lei stesso che nello spazio ruotano testate nucleari complessivamente pari a circa seicento volte la bomba di Hiroshima, sicché, per raggiungere il nostro scopo, siamo in debito di quasi duecento chilogrammi di esplosivo nucleare, che non mi sembrano davvero pochi. Inoltre, quand’anche fossimo sicuri di disporre del potere detonante necessario, come faremmo a guidarlo con precisione nel cratere?»

«I sovietici, tanto per non essere da meno, hanno messo a loro volta in orbita subito dopo di noi due stazioni missilistiche, che adesso, per mancanza di fondi e in conseguenza del vuoto di potere sopravvenuto, sono abbandonate nello spazio. Basterebbe raggiungerle e servirsi…» rispose Bender, meditabondo. «Per correttezza», continuò, «ho comunque informato il premier russo dell’emergenza, e Eltsin ha assicurato la sua massima disponibilità. Un esperto di testate nucleari si sta già allenando nella base spaziale di Gorny. Farà parte del suo equipaggio, colonnello. Mi scusi se non l’ho informata prima, ma la massima segretezza era di rigore. Veniamo quindi al vettore.»

Bender estrasse diverse foto da una cartellina e riprese: «Non mi sono limitato a contattare i russi. E per fortuna, una volta tanto, di fronte alla catastrofe è scattata una vasta solidarietà tra le potenze. Questo è Long March 4, un razzo vettore usato negli esperimenti della repubblica popolare cinese. Pesa a vuoto novemila libbre, e le dimensioni ne consentono il trasporto nella stiva dello Shuttle. Il muso è capiente quanto basta per accogliere tutte le nostre testate. È sufficiente che una sola di queste sia innescata per provocare un’esplosione a catena di tutte le altre.

«Il governo di Pechino ne ha messo a disposizione un esemplare, che è già in viaggio verso il Kennedy Space Center, dove verrà adattato al trasporto. Per quanto concerne la mira, però, è vero: la faccenda si complica parecchio. La velocità dell’asteroide, una volta definitivamente scaricato dall’orbita lunare, si attesterà attorno ai duecentotrentamila chilometri orari. Nessun razzo e nessun sistema di puntamento elettronico, anche in assenza di gravità, potrebbe mai seguire una meteora che viaggia nello spazio a quella velocità. La finestra di tiro durerà soltanto pochi secondi, non appena l’asteroide spunterà da dietro la luna per dirigersi verso la Terra.»

Roma imperiale. Anno 849 dalla Fondazione.

[96 d.C. (N.D.T.)]

Il vapore diffuso nell’aria limitava la visibilità. Tra i fumi, Giunio scorse Menenio e Sestilio che andavano a sistemarsi sulla gradinata in marmo, a non molta distanza da dove aveva nascosto le armi, mettendosi a chiacchierare animatamente, finché, di punto in bianco, il primo non tornò a scendere i gradini, raggiungendo la porta e chiudendola dall’interno con il paletto. Un ennesimo scrupolo a garanzia della sua sicurezza personale, evidentemente. Giunio non poté non sorridere al pensiero che, così facendo, il senatore aveva probabilmente firmato la propria condanna.

La cupola del sudatorio rifletteva il calore, riempiendo il vasto ambiente di una fitta foschia. Fu con la sua protezione che Giunio andò furtivamente a mettersi alle spalle dei suoi due mortali nemici, aggirandoli e piazzandosi tra loro e la porta chiusa. I due non si accorsero di lui e continuarono la loro animata discussione.

«Non credo che sia stato un rapinatore a uccidere Dario», stava dicendo Sestilio.

«Il colpo di spada gli ha troncato la testa quasi di netto», convenne Menenio. «Dario è sempre stato uno dei miei uomini più scaltri e capaci, non era uno sprovveduto e sapeva difendersi. L’omicida deve essere per forza un uomo molto abile con le armi.»

I due si scambiarono uno sguardo preoccupato, quasi avessero timore a pronunziare il nome che avevano entrambi sulla punta della lingua.

«Dopo tanto tempo?» mormorò Sestilio. «Giunio?»

Il senatore lo guardò per un istante, annuendo, ma non riuscì a pronunciare parola.

«Sì», esclamò una voce alle loro spalle, «sono stato io a punire quel traditore, e la stessa sorte è riservata a voi, infami!»

E, così detto, Giunio estrasse le armi dal loro nascondiglio, godendosi l’espressione di terrore dipinta sui loro volti.

«Non intenderai uccidere due uomini disarmati?» chiese Sestilio, tremebondo.

«Non farei altro che mettermi al vostro livello», replicò lui, «con la differenza che non sarei mai capace di accanirmi contro donne inermi come fate voi, vigliacchi. Ma non voglio uccidervi a sangue freddo, non ne sarei mai capace. Faticavo a farlo anche in quel Circo a cui mi avete condannato con le vostre indegne trame.»

E, così detto, lanciò la spada e un giavellotto nella loro direzione, tenendo nelle mani il più leggero dei suoi dardi.

Menenio si precipitò sulla spada. Il suo corpo nudo, imperlato di sudore, si erse impugnandola. Il viso già deforme era torto in una malvagia espressione mista di terrore e odio.

Accecato com’era dal desiderio di vendetta, Giunio puntò immediatamente su di lui, senza curarsi delle mosse di Sestilio. Il giavellotto scagliatogli contro dal suo ex collega tribuno apparve improvviso tra le nubi di vapore. Soltanto grazie alla sua prontezza di riflessi riuscì a evitare che la punta acuminata gli si conficcasse in pieno petto. Fu colpito di striscio.

Valutò con un’occhiata rapida la gravità della ferita alla spalla sinistra: non era preoccupante, ma l’indolenzimento gli aveva fatto perdere quasi completamente l’uso del braccio. Menenio intanto si stava facendo avanti, mulinando la spada. Doveva prendere tempo e non ingaggiare il duello prima di avere recuperato l’uso del braccio. Aggirò destramente l’aggressore, fino a quando il suo corpo non si frappose tra lui e Sestilio. In quel preciso istante caricò il braccio destro con tutta la rabbia che aveva in corpo.

Il dardo partì scagliato dalla forza stessa del furore. Vide la punta di ferro centrare in pieno petto Menenio, che strabuzzò gli occhi, piegandosi sui ginocchi. Sestilio era esattamente alle sue spalle, quasi volesse farsi scudo dell’uomo che gli aveva impartito tanti infami ordini. I loro corpi nudi erano quasi a contatto. La punta del giavellotto uscì tra le scapole del senatore e concluse la sua corsa nel costato di Sestilio.

I due uomini che avevano cercato di distruggere la sua vita giacevano riversi in un lago di sangue, quasi avvinghiati in un indecente atto di sodomia, così come erano stati uniti nell’ordire tante macchinazioni.

Nelle lunghe ore trascorse in solitudine nelle terme, Giunio aveva studiato con la massima attenzione la disposizione degli ambienti. Recuperati e gettatisi addosso la lunga tunica africana e il turbante, si era già dileguato per un’uscita secondaria.

La sua vendetta era compiuta. Giustizia era fatta.

Cape Canaveral. Florida. Kennedy Space Center.

2 maggio 1996.

La navicella spaziale era in posizione verticale a ridosso della grigia rampa di lancio. Il serbatoio di idrogeno liquido da trecentottantamila galloni svettava di molto sopra la prua dello Shuttle. Il conto alla rovescia era cominciato già da due giorni. Le condizioni meteorologiche erano ideali per il lancio.

Kevin Dimarzio era ospitato nella residenza riservata al comandante della missione, una villetta poco distante dagli alloggi del centro spaziale. Laura, che non era riuscita a chiudere occhio tutta notte, aspettava che uscisse dallo spogliatoio annesso al bagno. Se lo vide venire incontro già pronto, nella tuta verde con gli stemmi della NASA che brillavano dei loro colori vivaci. Non aveva bisogno di porsi domande, sapeva di trepidare per lui, di amarlo. Gli andò incontro a sua volta, nascondendosi il cofanetto dietro la schiena.

«Ho deciso di consegnarti questi oggetti prima che tu parta, Kevin. Ho visto come li guardavi, ogni volta che sei venuto al museo. Sembrava quasi che fra voi si fosse stabilito un rapporto segreto. Sono convinta che ti faranno compagnia nel corso del viaggio. Ma, soprattutto, te li consegno come augurio che me li riporterai.»

Il colonnello aprì lentamente il coperchio del cofanetto. Le Pietre della Luna comparvero sfavillanti nei loro riflessi dorati. Kevin sapeva quanto fossero importanti quelle statuette per la sua compagna. Ma sapeva tante altre cose, che non aveva mai rivelato a nessuno.

Ringraziò con un sorriso pieno di gratitudine la donna che anche lui aveva scoperto di amare, chiuse coperchio e fermaglio e infilò il cofanetto nella borsa di tela che avrebbe portato con sé.

«Non temere, Laura», rispose. «Te li riporterò.»

«Non temo soltanto per te», replicò lei, appoggiandogli la testa sul petto e parlando d’un fiato, «ma anche per il figlio che mi sta crescendo in grembo.»

Pronunciate queste parole, si sentì sollevare da un terribile peso. Aveva dibattuto a lungo tra sé sull’opportunità di rivelargli la sua gravidanza, ma alla fine aveva deciso di farlo. Sperava che la notizia gli fosse di stimolo e lo aiutasse a tornare sulla Terra per vedere l’erede, amarlo ed educarlo.

Kevin la strinse in un abbraccio appassionato, quindi le diede un tenero bacio sulla bocca e mormorò: «Ti amo, Laura Joanson. E ti ringrazio. Mi hai dato la notizia più bella della mia vita. Nostro figlio sarà meraviglioso come lo è il nostro amore. Riporterò sulla Terra i tre portafortuna per te e per lui».

Uscì dalla villetta che era ancora buio. Raggiunse la saletta ai piedi della rampa circa un’ora più tardi, dopo aver indossato la tuta bianca di volo. I membri del suo equipaggio erano già lì seduti nelle poltroncine, impegnati negli ultimi controlli medici. Salutò il copilota, il tecnico di bordo e i due tecnici di testate nucleari. La tensione era fortissima, quasi fisicamente avvertibile.

Dopo qualche istante, come prevedeva la prassi, furono raggiunti dal generale Steps, responsabile degli equipaggi. Ma Kevin rimase allibito. Alle sue spalle aveva visto fare capolino Gregory Bender. Anche lui in tuta di volo. Il suo dubbio divenne certezza non appena sentì l’anziano premio Nobel dire, con un sorriso da monello: «Non fare quella faccia, Kevin. È tanto tempo che mi addestro a tua insaputa, per abituarmi all’assenza di gravità e alla forza di accelerazione. Te lo leggo negli occhi: vorresti obiettare che ho quasi settant’anni, vero? Be’, l’esperienza spaziale manca al mio curriculum, e non voglio perdere questa occasione unica per farla».

«Non è il momento di scherzare, Greg», ribatté Kevin in tono profondamente irritato, scoccando uno sguardo di ghiaccio in direzione del generale Steps. «Non so chi sia il responsabile di questa buffonata, ma so di sicuro che non posso accettarla come membro di un equipaggio che lavora in assoluta sintonia da mesi.»

«Ho sovrinteso personalmente alla costruzione delle stazioni missilistiche spaziali», replicò Bender in un tono fattosi improvvisamente serio e determinato. «Conosco quegli arnesi componente per componente, circuito per circuito, vite per vite. Credo che lassù ti sarò molto più utile di quanto tu possa immaginarti, Kevin Dimarzio. D’altra parte, ti ho sentito ripetere più volte a Laura che ormai un viaggio spaziale a bordo dello Shuttle assomiglia sempre più a un tranquillo volo intercontinentale. Vuoi smentirti proprio adesso?»

Ferdinand Steps porse un foglio al comandante della missione: «È un messaggio del presidente degli Stati Uniti, che ti prega caldamente di accettare a bordo il professor Bender, Dimarzio. Un eufemismo burocratico per dirti che te lo ordina», tagliò corto.

Kevin scosse la testa e, senza aggiungere altro, puntò risoluto con tutto l’equipaggio verso l’ascensore che li avrebbe portati al portello d’imbarco.

Roma imperiale. Anno 849 dalla Fondazione.

[96 d.C. (N.D.T.)]

La notizia della morte di Menenio percorse tutta la città in un baleno. Quasi fosse il segnale della rivolta, il popolo scese nelle piazze armato di tutto ciò che aveva a disposizione, immediatamente spalleggiato da molti militari in congedo e in servizio. Si ribellarono anche le legioni ai confini nord-orientali, che puntarono su Roma a tappe forzate. Domiziano cadde vittima di una congiura, ucciso dalla stessa arte in cui si era dimostrato tanto abile da esasperare ogni cittadino romano.

Giunio combatté a fianco dei rivoltosi per diversi giorni, nella ferma convinzione che fosse l’unico modo per riabilitare il suo nome dall’infamia da cui era stato macchiato.

Cocceio Nerva, il magistrato imparentato con Marzio che anni prima si era onestamente interessato al suo caso, fu acclamato principe della romanità. Giunio era tra gli uomini della sua cerchia più intima quando pronunziò il primo discorso nella piazza del Foro, gremita di popolo festante.

«Assumo il comando dell’impero in vostro nome e per vostra volontà», dichiarò Cocceio. «Giuro davanti agli dei che assolverò a questo divino ufficio secondo gli stessi principi di equità e giustizia che hanno ispirato la mia carriera di magistrato. Sono molte le stirpi nobili che, in questi anni di malsano dominio, la gens Flavia ha voluto ferire, se non addirittura annientare.

«Unici protagonisti della vita politica di Roma sembravano diventati i tradimenti e le congiure. Troppo spesso abbiamo visto calpestati dalla crudeltà di Domiziano i nostri ideali. Il compito che mi accingo a intraprendere non sarà facile, ma vi assicuro, cittadini di Roma, che a dare luce al mio cammino sarà unicamente la Giustizia.»

Dalla folla si levò un’acclamazione. Gli ultimi anni dell’impero di Domiziano erano stati veramente penosi per chiunque non fosse nelle grazie dell’imperatore o dei suoi scherani. Tutti gli altri cittadini di Roma, dal più nobile dei cavalieri all’ultimo degli uomini liberi, erano trattati alla stregua di schiavi, e la loro vita non voleva più di pochi assi.

«Temo», continuò Nerva, «che non riuscirò a rendere giustizia a tutte le vittime del mio predecessore. Non basterebbero dieci vite per porre rimedio alle sole malefatte di Domiziano. Voglio però riabilitare pubblicamente e definitivamente agli occhi dei romani la figura di un eroe dell’impero che, in venti anni di spietate e ingiuste persecuzioni da parte dei Flavii e dei loro sgherri, ha visto morire i genitori e le persone che gli erano più care.

«Non soltanto: anche la figura di Publio Marzio, integerrimo comandante delle legioni e senatore, è stata più volte infangata da accuse infamanti. E soltanto la rettitudine dell’uomo di cui vi parlavo ha tentato di opporsi alle trame dei suoi nemici.

«Quest’uomo è presente tra voi e lo conoscete tutti. In anni non ancora lontani, lo avete gratificato della più appassionata ammirazione. Vi chiedo di rinnovarla. Il suo nome, sebbene io dubiti sia necessario ricordarvelo, è Giunio di Luna.

«Ebbene, al cospetto del popolo di Roma chiedo che vengano rispettate le volontà testamentarie di mio cugino Publio Marzio. Vieni avanti, Giunio. Ti nomino erede unico di quello che è stato il tuo grande protettore e al tempo stesso il tuo protetto. In nome di Roma ti attribuisco il suo nome e ti reintegro nel grado di alto ufficiale. Il tuo coraggio ha saputo innescare il meccanismo, troppo a lungo represso, della giusta rivolta contro i tiranni. La tua valentia e il tuo coraggio ci hanno liberato dal più indegno dei potenti.»

Ancora una volta l’urlo della folla si levò alto a scandire il suo nome. Giunio si avvicinò al nuovo imperatore nello stesso momento in cui l’Augusto si voltava verso uno schiavo che reggeva sulle braccia tese un drappo di porpora.

«So», riprese Nerva, «che queste statue appartengono a te e alla tua famiglia, tribuno Giunio. È giusto che ti vengano rese.»

Giunio afferrò letteralmente le Pietre della Luna dalle sue mani, sentendosi invadere da un irrefrenabile tremito di emozione. L’oro rosso rifletteva i raggi del sole. Alzò le stele al cielo in segno di ringraziamento agli dei per avere posto termine al suo incubo.

«C’è bisogno di te, Giunio Marzio», concluse l’imperatore. «La tua presenza non potrà che essere d’esempio al senato di Roma.»

Cape Canaveral. Florida. Kennedy Space Center.

2 maggio 1996.

Kevin Dimarzio era ai comandi nella cabina di pilotaggio. La voce gli giungeva forte e chiara nella cuffia del casco: «Meno tre. Due. Uno. Lancio!» Si sentì comprimere dalla pressione contro il sedile, mentre lo Shuttle si alzava da terra in una nuvola di fumo. Dopo qualche istante disse nel microfono: «Capcom a Controllo Missione di Houston, qui tutto bene, chiedo conferma dei seguenti dati: peso al decollo 4,5 milioni di libbre; potenza di spinta al momento del decollo 6,5 milioni di libbre; consumo dei combustibili al minuto sessantaquattromila galloni».

«Qui Houston», arrivò immediata la risposta. «Dati corretti. Siete pronti per lo sgancio degli SRB?» Dopo qualche altro istante i due razzi a combustibile solido, ormai inutili, si sganciarono dai fianchi della navicella.

«Capcom a Houston. Controllo della velocità. Stiamo viaggiando a seimilacinquecento piedi al secondo?» chiese ancora Kevin dopo poco più di tre minuti. «Chiedo conferma.»

«Affermativo, Capcom. Vi siete liberati del peso dei razzi ausiliari e sentite sempre meno la gravità. Siete a 51 miglia nautiche di altitudine, a una velocità quasi sei volte superiore a quella del suono.»

Laura Joanson, nel soggiorno della villetta, aveva acceso il televisore con molto anticipo sull’inizio della diretta. Come un’infinità di altre persone in tutto il mondo, aveva assistito al decollo dello Shutde davanti al video. Ma tra lei e l’anonima folla dei telespettatori c’era una differenza fondamentale. Conosceva il vero scopo di quella missione, che al resto del mondo era invece stato tenuto nascosto, nel timore che potessero esplodere ingovernabili manifestazioni di panico.

Il campanello della porta d’ingresso squillò nello stesso istante in cui le telecamere non riuscirono più a seguire la navicella spaziale.

Aprendo, Laura si vide davanti sull’attenti un capitano della Air Force, che, senza mai abbandonare la rigida posizione marziale, le porse una lettera, dicendo: «Il colonnello Dimarzio mi ha ordinato di consegnarle questo, dottoressa Joanson, immediatamente dopo il decollo».

Non disse altro. Battuti rumorosamente i tacchi e fatto il saluto militare, scomparve.

La voce di Kevin continuava a raggiungere regolarmente la base di controllo: «Capcom a Houston. Orbita raggiunta. Motore principale spento. Vi stiamo girando attorno a quasi diciassettemila miglia all’ora.

«Da qui sembrate fermi», continuò il comandante in tono scherzoso.

«Tra diciotto minuti cominciamo i Bus Stop.»

«Bene, Capcom, ricevuto», fu la risposta che arrivò da terra.

La scherzosa espressione «Bus Stop» era stata coniata dal professor Bender in uno dei suoi frequenti momenti di humour adolescente, per indicare le diverse soste che lo Shuttle avrebbe dovuto compiere per il prelevamento delle testate nucleari dalle stazioni missilistiche in orbita.

La manovra di avvicinamento alla prima non fu complessa. Non appena la navicella si fu messa su un’orbita parallela a quella della stazione missilistica, Kevin azionò i comandi per aprire la stiva. Intanto gli uomini stavano indossando le tute pressurizzate. La fusoliera della navicella si aprì esattamente al centro. Il tecnico di bordo fu il primo a uscire nello spazio, mettendosi ai comandi esterni del braccio retrattile di oltre quindici metri.

Agganciata la stazione orbitante con la lunga proboscide, fu poi il turno dei tecnici di testate nucleari. Nella cabina di pilotaggio e dagli oblò laterali, Kevin, Bender e il copilota seguivano con spasmodica attenzione le operazioni. La rampa delle testate nucleari sembrava un tronco cilindrico del diametro di diciotto metri. Al suo interno erano disposti i missili, protetti da una schermatura in grado di resistere a pressioni altissime e calori insopportabili.

Con profondo sollievo, mentre dal suo posto seguiva l’andirivieni degli uomini nello spazio, Kevin dovette riconoscere che, nonostante la specifica preparazione dei tecnici, i consigli di Greg Bender erano davvero preziosi. Dopo undici ore di lavoro ininterrotto, le ogive erano stivate nella fusoliera dello Shuttle. Soltanto in un secondo momento i tecnici avrebbero provveduto a disporre le testate all’interno del razzo vettore cinese, anch’esso disposto longitudinalmente nella stiva.

Lontana miglia e miglia di vuoto, Laura Joanson stava leggendo e rileggendo la lettera di Kevin. L’aveva aperta immediatamente. A mano a mano che scorreva i fogli scritti di suo pugno da Kevin Dimarzio, aveva sentito il bisogno di sedersi e concentrarsi nella lettura.

Cape Canaveral, 1° maggio 1996

Mia carissima,

non so, visto il lavoro che hai svolto a contatto con i servizi di informazione, quanto tu abbia avuto occasione di venir a sapere sulla mia persona e sul mio passato. Quando leggerai queste righe, sarò in viaggio nella notte dello spazio. Esattamente quello che desidero per le cose personalissime che devo dirti. Consentimi però, anzitutto, la premessa che, all’età di quarantacinque anni, mi sono innamorato per la prima volta in vita mia. Ho sempre voluto imputare la mia vita di scapolo a una sorta di ribellione nei confronti di qualsiasi legame, ma sapevo benissimo che in realtà era dovuta al mio carattere aspro e chiuso.

Ogni volta che mi sentivo troppo legato a una donna, facevo i bagagli e scappavo. Un brutto carattere, certo, ma determinato da che cosa?

Sta di fatto che, se appaio così chiuso e scostante, è perché non ho mai avuto il coraggio di confessare una sorta di peccato originale, che mi pesa addosso con la forza di una fatalità.

Quanto sto per dirti non l’ho mai confessato a nessuno e ti prego di non rivelarlo, a tua volta, ad anima viva. Mi fido di te. Come non potrei, amore mio?

Intanto, nello spazio, i risultati del lavoro miglioravano a mano a mano che Kevin e i suoi uomini procedevano nell’affiancamento delle stazioni americane, al punto che dall’ultima stazione orbitante riuscirono a estrarre tutte le trenta testate nucleari in meno di sei ore e quaranta minuti, compresi gli indispensabili intervalli. Una volta richiusa la stiva e ripressurizzata la cabina, il compito dei tecnici continuava con l’inserimento delle ogive nell’ampio scomparto ricavato nella testata del missile. Per affrontare la parte veramente operativa della missione, mancavano ormai soltanto le due «fermate di autobus» presso le stazioni ex sovietiche.

Erano ormai nello spazio da otto giorni, e si erano concessi veramente poche pause. La stanchezza cominciava a farsi sentire per tutti. Tranne, apparentemente, per l’anziano scienziato, che riusciva a non perdere mai il buon umore ed era sempre pronto alla battuta scherzosa, se non addirittura goliardica, e alla parola di conforto, accompagnandole alla profondità di un’esperienza che si stava rivelando sempre più preziosa.

Finalmente, il computer di bordo guidò la navicella accanto alla prima rampa sovietica. Sebbene il concetto ispiratore della struttura fosse il medesimo, l’aspetto della batteria spaziale era molto diverso da quello dei «Post-Boost» americani.

Gregory Bender rivolse un paterno sorriso di incoraggiamento al giovane russo: «Adesso siamo nelle tue mani, Yuri», disse. «Senza di te, non sapremmo assolutamente che cosa fare. Buon lavoro!»

Aveva appena finito di parlare che già il tecnico si esibiva in una perfetta capriola in assenza di gravità, dopo di che volò letteralmente fino al locale di vestizione, calandosi dentro l’unico indumento in grado di farlo sopravvivere all’esterno della navicella.

Era trascorsa una mezz’ora circa, quando la voce di Yuri gracchiò nel microfono con il suo inconfondibile accento russo: «C’è un problema, comandante Dimarzio».

«Che cosa succede, Yuri?» chiese Kevin, inquieto.

«Forse dipende dalla scarsa manutenzione del reattore nucleare che assicura la propulsione della stazione orbitale con a bordo le testate atomiche.»

«Scusa, Kevin», si inserì in linea la voce di Bender. «Hai misurato la radioattività, Yuri? Controllala di nuovo con la massima attenzione.»

Gli attimi di silenzio che seguirono riempirono Bender e Kevin di profonda ansia. Spinto dall’entusiasmo, il giovane russo aveva forse trascurato di tenere sotto controllo il contatore Geiger inserito nella tuta. Il timore fu purtroppo confermato dalla voce di Yuri, che tornò finalmente a farsi sentire dicendo:

«Cristo! Qui dentro sembra di essere nel centro di Nagasaki il giorno dopo lo scoppio!»

«Via, Yuri, via subito! Lascia stare tutto e allontanati da lì», ordinò immediatamente Bender. «E, rientrando, passa per il locale di decontaminazione, mi raccomando.»

L’operazione complessiva avrebbe richiesto alcune ore, prima che il giovane russo potesse tornare nella zona comune pressurizzata. Kevin e Bender le trascorsero in preda a una profonda ansia.

«Le tute in dotazione riescono a schermare una modesta contaminazione radioattiva. Il ragazzo potrebbe cavarsela», disse il comandante della missione, aggrappandosi a un filo di speranza.

«Yuri ha lavorato troppo tempo in presenza di una radioattività molto elevata», replicò lo scienziato scuotendo la testa. «Temo che ci siano poche speranze. Prepariamoci al peggio.»

La previsione, purtroppo, si rivelò tragicamente giusta. Yuri rientrò nella stanza comune con la polo blu che faceva parte della loro divisa nei momenti di pausa. Sembrava un turista dalla carnagione lattea che si fosse steso per un’intera giornata al sole dei tropici. Cominciò presto ad accusare un forte malessere, mentre le chiazze rosse si gonfiavano come vesciche.

Bender gli somministrò un po’ di iodio e una fiala di morfina, le uniche sostanze presenti nell’infermeria di bordo che potessero essere di qualche utilità in quella situazione imprevedibile, quindi si ritirò al tavolo del carteggio, dove s’immerse in calcoli, dovendo per giunta contrastare la difficoltà di tenere ferme penne e matite, che continuavano a librarsi nell’aria.

Circa un’ora più tardi raggiunse Kevin. «Ho riformulato tutti i calcoli», disse, «azzerando ogni tolleranza in eccesso. Penso che potremmo farcela anche senza quelle testate, ma ci occorrono assolutamente le ogive dell’altra stazione sovietica.»

«Abbiamo osservato Yuri da lontano, mentre operava per smontare i missili», interloquì il tecnico di testate americano. «Forse ho capito qualcosa, anche se non garantisco la riuscita.»

«Posso uscire anch’io a dare una mano. Tu, Kevin, sei perfettamente in grado di tenere in rotta questo aggeggio anche senza il mio aiuto», intervenne immediatamente il copilota.

Mezz’ora più tardi affiancavano l’ultima delle stazioni orbitali.

A terra, Laura leggeva e rileggeva la lettera di Kevin con la stessa emozione della prima volta.

Vedi, Laura, ci sono cose troppo gravi, di fronte alle quali anche il coraggio e l’amore per la verità possono vacillare. Spesso è il danaro a convincere gli uomini a compiere azioni aberranti, altre volte è il potere a farli cadere in trappole fatali. Questa mia scorza fredda e scostante, credimi, dipende dal fatto che soffro da anni e anni per mantenere il segreto su un crimine della storia o, meglio, sul contributo che mio padre ha dato per salvare il più grande assassino di massa del nostro secolo.

Io appartengo per discendenza a un’associazione segreta a numero chiuso, costituita tra tutti coloro che hanno partecipato a una sciagurata missione.

Il giorno prima che i russi prendessero Berlino, in una località nei pressi della costa tedesca Adolf Hitler salì su un aereo pilotato da mio padre. La mattina seguente il Führer sbarcava sano e salvo negli Stati Uniti d’America. Tutto questo non per un’adesione ideologica o politica, ma semplicemente per danaro, una quantità enorme, con cui la mente organizzatrice dell’operazione ha saputo tappare la bocca ai suoi complici.

Tutti noi, primogeniti dei responsabili dell’operazione, divenuti a nostra volta automaticamente membri dell’associazione, siamo vincolati al silenzio da un patto mortale. Ma non è per questo che ho taciuto in tutti questi anni. Se l’ho fatto, è stato soltanto per non vedere il mio nome macchiato, nonostante la rettitudine a cui ho sempre voluto improntare la mia vita.

Ma ormai, credimi, non ce la faccio davvero più. Non ho mai avuto ambizioni di ricchezza: quanto guadagno onestamente con il mio lavoro è sempre stato sufficiente per i miei bisogni. Prova ne sia che non ho mai attinto un solo centesimo dal conto a me intestato presso una banca svizzera. Ma sono stanco, amore mio, e non sai quanto sollievo io trovi semplicemente nello svelarti questo segreto.

Greg Bender era salito nella cabina di pilotaggio e aveva preso posto nel sedile sulla destra di Kevin. Le tre statuette emanavano raggi rosso dorati dal cruscotto, sul cui piano erano assicurate con alcuni elastici che impedivano loro di librarsi nell’aria. Lo scienziato non ci fece caso; le aveva già viste, ma riteneva si trattasse di amuleti che il colonnello amava portare con sé a fini scaramantici.

Dimarzio manovrava manualmente i razzi laterali per tenere in assetto il velivolo. Il braccio meccanico si mosse dall’interno della stiva e riuscì ad agganciare la rampa sovietica al primo tentativo. Erano capovolti rispetto alla Terra e viaggiavano a una velocità superiore ai ventottomila chilometri orari. Dopo il tempo necessario per rimuovere gli schermi protettivi, l’artificiere annunciò nel microfono: «Qui le cose vanno bene. Nessun segnale del contatore né durante l’avvicinamento né nelle immediate prossimità. Tutto è in ottime condizioni e non si riscontrano tracce di radioattività neanche all’interno della struttura».

Era toccato a Bender il compito di collegare i centri vitali di Yuri al sistema di monitoraggio in contatto con la base a Terra. Lo sfortunato giovane russo era in coma da diverse ore.

«Houston a Capcom, Houston a Capcom. Allarme. Allarme. Problemi per il ferito. Le apparecchiature segnalano una crisi cardiocircolatoria», si sentì annunciare concitatamente dal sistema di comunicazione interno.

Kevin lasciò i comandi e si tuffò di slancio nel passaggio che portava al piano inferiore. Trovò Yuri in preda a nausea e vomito, con il corpo ridotto a un’unica ustione. Poi lo vide inspirare più a lungo del solito, e infine reclinare la testa, paralizzato. Era morto, mentre il suo comandante, impacciato per l’assenza di gravità, cercava inutilmente di praticargli un massaggio cardiaco. Il fisico di Yuri, già debilitato, cedette molto prima di quanto normalmente avvenga in analoghe circostanze.

Kevin lo guardava immobile, con un’amara espressione di sconforto, quando si sentì prendere per un braccio. «Vieni via», gli disse Greg Bender. «Non c’è più niente da fare, pensiamo agli altri là fuori.»

Quando rientrarono nella cabina di pilotaggio, il carico di testate nucleari era stato quasi completato. Kevin diede una rapida occhiata agli strumenti e, quando scorse le tracce sul radar, ebbe un sussulto.

«Meteoriti in avvicinamento. Ripeto: meteoriti in avvicinamento. Rientro immediato! Presto, mio Dio, rientrate!» ordinò concitatamente nel microfono.

Era troppo tardi. Il primo oggetto, poco più grosso di una pallina da golf, colpì il tecnico in volo verso la stazione missilistica alla velocità di circa ottantamila chilometri orari. Il corpo dello sventurato venne scagliato con incredibile violenza a oltre un miglio di distanza. La tuta si lacerò in più punti, e, dopo pochi istanti, dell’uomo non esisteva più traccia.

Una sola procedura poteva salvare la navicella e la vita dei suoi occupanti: chiudere la stiva e abbandonare nello spazio chi era fuori. La responsabilità del comando gli avrebbe imposto di agire così, ma Kevin non se la sentì di compiere quel gesto, che avrebbe significato la sua salvezza ma anche la morte sicura del copilota e del tecnico di volo.

La navicella cominciò a scuotersi furiosamente, finché una vera e propria grandinata di piccoli sassi non si abbatté sugli scudi protettivi di prora con una violenza inaudita. Quando la pioggia cosmica cessò, dei due astronauti rimasti nello spazio non c’era più traccia.

Kevin e Greg si guardarono in silenzio. Sapevano entrambi che non avrebbero potuto fare niente per salvare la vita dei loro compagni. Ma, se si fossero accorti in tempo della minaccia che si stava abbattendo su di loro…

«Capcom a Houston. Capcom a Houston.»

«Avanti, Atlantis. Vi sentiamo forte e chiaro.»

«Siamo stati investiti da una tempesta di meteoriti. Passo.»

«Conseguenze, Capcom? Interrogativo. Passo.»

«Abbiamo perso tre uomini e il russo è morto pochi istanti fa. Siamo rimasti soltanto il professor Bender e io.»

La notizia fu seguita da un lungo silenzio, poi la voce dalla base riprese:

«Siete riusciti a portare a termine il caricamento delle ogive? Interrogativo. Avete danni a bordo? Interrogativo. Passo».

«Al momento della disgrazia il caricamento era quasi ultimato. Non so se lo scomparto di carico abbia riportato danni. Mentre i meteoriti ci piovevano addosso, le ali della stiva sono rimaste aperte. Passo.»

«Previsioni circa l’esito della missione? Interrogativo. Passo.»

«Io non ho neanche la più vaga idea di come si faccia a caricare le bombe atomiche nel razzo, né sono a conoscenza dell’efficienza dello Shuttle. Verifico i check up elettronici e vi contatto tra pochi istanti.»

Bender, che non aveva ancora aperto bocca, lo stava fissando con aria decisa: «Ti rendi conto che non portare a termine la missione significherebbe la fine del nostro pianeta, Kevin?» chiese. «Ci è stato affidato un compito d’importanza cosmica, che non consente di arrendersi di fronte a niente, nemmeno davanti all’impossibile.»

«Ma come facciamo a innescare gli ordigni e a caricare le ultime testate nel razzo? Che cosa possiamo usare, una miccia a combustione lenta e una fionda di elastico, per attaccare l’asteroide?» ribatté Kevin, esasperato, mentre una serie di spie si mettevano a lampeggiare sul pannello di controllo.

«Io sono capacissimo di innescare una testata, Kevin. Non dimenticare che sono creature mie. Il problema più grosso è inserire le ultime ogive in Long March 4, ma posso provarci», rispose il professore con la sua solita calma.

«Guarda qui», ribatté Kevin, indicando una spia rossa, «il sistema di chiusura della stiva è danneggiato. Ci vorranno diverse ore perché io riesca a ripararlo, mentre», e guardò l’orologio digitale a lato del complicato cruscotto, «mancano soltanto sedici ore alla finestra aperta sull’asteroide. Non ce la facciamo, Greg, non abbiamo tempo.»

«Posso uscire dalla navicella e compiere le mie operazioni all’esterno. Non vedo problemi, se la stiva rimane aperta», rispose ancora lo scienziato in tono di assoluta sicurezza.

«Sei pazzo, un vecchio pazzo rimbambito», sbottò Kevin. Ma la sua espressione era cambiata di colpo, illuminata da un filo di speranza. «E io sono più pazzo di te, visto che ti do retta. Capcom a Houston. Capcom a Houston», continuò in tono concitato.

«Vi sentiamo forte e chiaro. Avanti, Capcom.» «Adesso facciamo una passeggiata all’aperto e vediamo di rimettere in sesto i petardi. Domani ci aspetta una giornata dura. Chiudo.»

Sulla saletta di comando, a Houston, calò un silenzio di gelo. Le parole del comandante erano scherzose, ma il tono disperato. La missione appariva legata al più esile dei fili, se non condannata. E con essa la Terra.

La lettera continuava:

Penso, Laura, che, costi quello che costi, sarò presto costretto a rivelare al mondo ciò che ho sempre tenuto per me, ma temo che a quel punto possa prevalere un sentimento vecchio come il mondo: l’istinto di sopravvivenza. Diciamo pure la paura, Laura.

Sì, ho proprio detto «paura», amore mio. Non temo la morte, le battaglie aeree, il vuoto degli spazi infiniti, ma mi atterrisce il solo pensiero di dover denunciare il crimine di mio padre, del quale, volente o nolente, con il mio silenzio sono diventato complice. A tutti gli effetti.

Ci penso praticamente da sempre, ma soprattutto da quando hanno attentato alla tua vita. Mi sono sentito riempire di rimorsi, anche se al tempo stesso ho capito quanto eri importante per me.

Tornerò, amore, tornerò per stare con te, per vivere al tuo fianco, ma sappi che mi sentirò Ubero soltanto quando mi sarò sollevato da questo peso che non posso più sopportare. Se però, per qualsiasi motivo, non dovessimo più rivederci, bada bene a quanto ti dico ancora. Guardati dalle persone che hai attorno: anche alcune di loro nascondono segreti terribili. Perdonami se non posso dirti di più.

E ricorda sempre che ti amo.

Kevin

Il testo era concluso da un ultimo foglio, evidentemente aggiunto in tutta fretta subito prima dell’imbarco sullo Shuttle.

p.s. Questa mattina, Laura, mi hai dato la gioia più grande e intensa della mia vita. Abbi cura di nostro figlio durante la mia assenza.

Nel ripiano più alto della libreria nel soggiorno di casa mia troverai un pacco di antichi fogli ingialliti, incrostati tra loro e completamente illeggibili. Dovrebbero essere quattro volumi, ma sono ridotti a un unico blocco, che non ho mai potuto affidare a un centro specializzato di restauro e analisi.

Se, per qualsiasi motivo, non dovessi tornare, abbine cura e, un giorno, consegnali a nostro figlio. Avrei voluto parlartene al mio ritorno, ma la notizia inattesa che mi hai dato questa mattina non consente più un simile ritardo. Rischierei di non parlartene mai. Mentre quegli antichi scritti sono di straordinaria importanza per me e lo saranno anche per nostro figlio. Non so di preciso che cosa contengano; te lo ripeto, non ho mai avuto modo di farli restaurare e interpretare, ma secondo le nostre tradizioni di famiglia vi sarebbe narrata la storia delle nostre origini e, con essa, di tutto ciò che ancora non sai sul passato delle Pietre della Luna.

Sì, Laura, le Pietre della Luna. Ho sempre saputo che cosa fossero, fin dal primo momento che le ho viste. Per questo le guardavo sempre con tanto interesse. E, credimi, parte del gelo che ostentavo nei tuoi confronti era proprio dovuta alla consapevolezza che il fatto che tu ne fossi diventata la depositaria ci univa indissolubilmente e inesorabilmente.

Non ho tempo di spiegarmi meglio, Laura, ma, sempre secondo le nostre tradizioni di famiglia, quel vecchio documento sfatto dovrebbe essere la trascrizione di alcuni rotoli risalenti all’età romana, fatta nel Seicento da un nostro antenato frate. Pare che, tra l’altro, spieghino appunto che cosa sono in realtà le Pietre della Luna, da dove provengono e come sia destino che tornino sempre in nostro possesso, quali che siano le loro vicissitudini. In nostro possesso, Laura. In possesso della mia famiglia. Quindi, mio e tuo. E dei nostri figli, un giorno.

Ancora una volta: ti amo per la vita.

Laura piegò i fogli, asciugandosi le lacrime. Quindi abbassò lo sguardo sul tavolino davanti al divano dov’era seduta, nella residenza abituale di Kevin. Il pacco di antichi fogli, ridotto a un unico grosso grumo di impasti apparentemente inestricabili, era lì. Ce lo aveva posato lei ormai da diversi giorni.

D’impulso, sollevò la cornetta del telefono e digitò il numero di Oswald Breil. Era l’unica persona a cui, in quel momento, si sentiva di chiedere conforto e aiuto.

Kevin aiutò l’anziano scienziato a indossare la tuta spaziale e a mettersi in spalla il voluminoso zaino contenente la riserva d’aria e i razzi direzionali. Per fortuna si trovavano in assenza di gravità: sulla Terra, quel fardello sarebbe pesato più di ottanta chili.

Il portello della cabina pressurizzata si aprì. I due astronauti furono investiti dalla pressione, e dopo qualche istante si trovarono sospesi nello spazio infinito. Greg stava cercando di prendere dimestichezza con i due booster necessari per muoversi nello spazio. Si esibì in una mezza capriola, quindi sbandò una prima volta sulla sinistra e poi a destra, finché, con qualche sforzo, non riuscì a riprendere il controllo.

«Alla fine di quest’avventura», commentò rompendo il silenzio radio, «se sulla Terra sarà rimasto qualcuno in grado di stampare il Guinness dei primati, prenoto fin da adesso una pagina intera.»

Per tutta risposta Kevin scosse la testa protetta dal casco spaziale, portandosi faticosamente l’indice alla tempia e ruotandolo un paio di volte.

Le diciotto testate russe erano allineate in un angolo della stiva, assicurate al pavimento con cinghie e reti d’acciaio. Erano di una lega metallica lucida, su cui risaltava il simbolo giallo e nero, d’identificazione del materiale radioattivo.

Kevin si stupì che oggetti così piccoli potessero racchiudere una simile potenzialità distruttiva. Greg, che li conosceva perfettamente, si mise al lavoro senza indugi. Un solo minuto perso avrebbe potuto significare la catastrofe.

Aperta la testa del razzo vettore, Dimarzio rimase interdetto di fronte al groviglio di fili elettrici che vide dipanarsi tra le ogive già collocate al loro posto. Con estrema cautela e pazienza, le mani dello scienziato, protette dai guanti, stavano già seguendo lentamente a uno a uno i contatti, dal punto in cui il filo usciva da una testata fino a quello in cui rientrava nel sistema elettronico d’innesco di un’altra.

Improvvisamente alzò la testa. Se il vetro del casco non fosse stato a specchio per resistere ai raggi cosmici, Kevin avrebbe potuto vedere la soddisfazione che gli brillava negli occhi.

«Hanno fatto davvero un ottimo lavoro, quei poveretti», lo informò via radio Greg Bender. «Ci resta soltanto il compito di portarlo a termine.»

Quattro ore più tardi videro la Terra, che da quella quota sembrava una grossa palla variopinta da spiaggia. Le perturbazioni coprivano interi continenti con un manto ovattato. Gli oceani sembravano laghi di un colore blu intenso.

«Credo non sia ancora giunta la tua ultima ora, vecchia mia!» esclamò Bender, risigillando la testata del razzo vettore.

«Capcom a Houston. Capcom a Houston», chiamò il comandante, chino ancora una volta sul microfono, appena furono rientrati a bordo.

«Qui Houston. Avanti, colonnello.»

«Abbiamo seri problemi e una capacità detonante molto ridotta, ma pensiamo di farcela. Il sistema idraulico di chiusura dei portelloni della stiva è danneggiato. Non abbiamo tempo per un tentativo di riparazione. Dirigiamo verso l’incontro.»

E, data l’informazione, Kevin accese i razzi principali onde avere una spinta maggiore per allontanarsi ulteriormente dall’orbita terrestre. Manovrare la navetta in quelle condizioni creava qualche difficoltà, ma l’assenza di atmosfera facilitava i problemi aerodinamici della navicella spaziale.

Vista da quella distanza, la luna perdeva gran parte del suo fascino argenteo. Era una distesa brulla e grigiastra, disseminata di crateri che rompevano qua e là la monotonia delle pianure sconfinate.

«Dieci minuti alla finestra», annunciò Greg, scandendo il tempo.

«Otto minuti alla finestra», continuò dopo un po’. «Processo di innesco elettronico attivato.»

L’asteroide Speitz-42 spuntò finalmente da dietro il satellite. Illuminato dai raggi del sole, il suo colore rosso acceso risultava ancora più vivo. In pochissimo tempo attraversò completamente l’orizzonte lunare.

«Fuori il razzo vettore!» disse Kevin, ripetendo a voce alta i comandi che stava eseguendo, mentre Greg continuava a scandire il tempo.

«Sei minuti alla finestra.»

«Cristo, Greg, il braccio meccanico non si muove. Non riesco a sbalzare il vettore fuori della stiva.»

«Prova ancora, Kevin! Prova! Quattro minuti alla finestra…»

«Non vuole saperne, Greg, è bloccato!»

«Tre minuti alla finestra», continuò imperturbabile Bender.

La lenta rotazione dell’asteroide stava per mostrare loro il grande cratere in cui avrebbero dovuto far arrivare il razzo. Kevin tentò un’ultima volta di azionare il meccanismo indispensabile per il lancio.

«Non c’è niente da fare, Greg. I meteoriti l’hanno danneggiato. Non c’è niente da fare», ripeté in tono sconsolato.

«Due minuti alla finestra.»

Ormai il cratere era davanti a loro.

Kevin cominciò a ripetere le procedure d’emergenza ad alta voce, mentre le sue mani si muovevano esperte tra i comandi.

«Procedura di eiezione capsula iniziata. Contatti inseriti, sicure rimosse…»

Bender seguì con espressione impassibile i movimenti rapidi e precisi delle dita di Kevin sui comandi. Capì che le procedure di espulsione della capsula erano terminate quando vide il colonnello togliere le tre antiche statuette d’oro dal cruscotto e infilarle nella piccola borsa che si era già agganciato alla vita.

Pochi attimi più tardi il cono di roccia sembrò inghiottire la navicella imbottita di cinquecentotrenta chilogrammi di esplosivo nucleare. Tutto avvenne nella frazione di pochi secondi. Un immenso bagliore illuminò i silenzi dello spazio.

Alla base di Houston un liberatorio urlo di gioia salutò la deviazione dell’asteroide. Presi da un’emozione irrefrenabile, i tecnici si abbandonarono a scomposte manifestazioni di entusiasmo, del tutto estranee alle loro abitudini di compassata imperturbabilità. Chi si abbracciava, chi rideva istericamente, chi batteva le mani, chi gettava in aria il berretto di ordinanza.

Per qualche istante tutti trascurarono il fatto che dallo spazio non arrivava più nessun segnale umano.

Dopo i pochi attimi di follia collettiva, recuperata la calma in un silenzio di tomba, i presenti presero atto con espressioni di cupo imbarazzo che la salvezza della Terra era costata il sacrificio di altri due eroi.

Gli strumenti, intanto, continuavano implacabili a ticchettare e lampeggiare le loro informazioni.