174145.fb2 Le pietre della Luna - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 7

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EPILOGO

Lima. Perù. Primavera 1623.

Se fosse avvenuto soltanto alcuni mesi prima, il matrimonio di Maria Antonia Llobet sarebbe sicuramente stato celebrato con ben diverso sfarzo e sfoggio di ricchezza. I notabili della città non riuscivano a capacitarsi dell’improvviso stato di scarse disponibilità in cui sembrava essere precipitato uno degli uomini più ricchi delle Americhe.

Ma, purtroppo, per ripianare l’esposizione verso la Banca Centrale di Spagna, Llobet era stato costretto a vendere gran parte dei suoi possedimenti. Ormai era un benestante come tanti altri, lontanissimo da ciò che era stato un tempo. Ma una nuova ricchezza aveva illuminato la sua vita: quella di una serena felicità.

Vasted uscì raggiante dalla chiesa, in alta uniforme di ufficiale dell’Armada. Felice, si concesse alle congratulazioni dei presenti abbracciando la bellissima sposa. La tremenda avventura che avevano vissuto non aveva lasciato segni nelle loro giovani menti. Aveva, caso mai, arricchito e cementato i loro sentimenti. Adesso li aspettava la vita.

Francisco Llobet si asciugò le lacrime, senza fare niente per nasconderle. Era felice come non era mai stato e come non aveva mai immaginato si potesse essere. Nessun tesoro al mondo poteva valere quegli attimi di gioia profonda, nemmeno quello perduto con la Santa Esmeralda, che, per non mancare al solenne voto fatto, non avrebbe comunque mai cercato di recuperare.

Baciò la figlia e abbracciò il giovane ufficiale. E di nuovo la commozione ebbe il sopravvento. Cercò ancora una volta di tergersi gli occhi, mentre il suo sguardo offuscato si posava amorosamente sull’unico vero bene che aveva in questo mondo. L’abito bianco volteggiava vaporoso nell’aria.

Frate Pietro gli si accostò e gli batté con forza sulla spalla una mano simile a un maglio.

I due furono raggiunti dal principe azteco, emerso dalla folla dei convenuti in chiesa. Vestiva l’abito regale del suo popolo, l’agile corpo brunito era quasi nascosto dalle piume variopinte.

Il singolare terzetto rimase immobile e sorridente a osservare gli sposi al centro della Plaza de la Catedral. Nessuno di loro, per nessun motivo al mondo, avrebbe mai rivelato il segreto nascosto sul fondo del mare nel ventre della Santa Esmeralda.

«La leggenda», stava tuttavia pensando frate Pietro. «La leggenda…»

Sapeva per antica tradizione che, prima o poi, ineluttabilmente, le Pietre della Luna sarebbero tornate in possesso dei discendenti della sua famiglia. Non potevano rimanere per sempre in fondo al mare, ne era sicuro.

Poi la sua mente corse ai preziosi rotoli, quelli sì irrimediabilmente perduti. Ringraziò Dio di avere avuto la preveggenza e il tempo di tradurli e trascriverli, e soprattutto di avere messo in salvo i quattro volumi.

La memoria dei suoi avi era salva, le tradizioni della sua gente si sarebbero conservate nei secoli. Le osservazioni e cronache personali di cui aveva già costellato la trascrizione, e quelle che avrebbe ulteriormente aggiunto nell’ultima parte, ancora bianca, del quarto volume avrebbero definitivamente chiarito le vicende di Giunio e delle Pietre della Luna.

E chissà, qualcuno, leggendole, avrebbe forse potuto provvedere un giorno al recupero delle antiche statuette. Bisognava soltanto fare in modo che, quando Dio lo avesse chiamato a sé nella Sua infinita misericordia, i parenti rimasti in Europa potessero entrare in possesso dei volumi manoscritti.

Terre dei liguri. Anno 870 dalla Fondazione di Roma.

[117 d.C. (N.D.T.)]

La vegetazione davanti al porticato scendeva fino al mare. Il golfo si chiudeva davanti ai suoi occhi, a quasi quattro miglia di distanza. Poco oltre lo sperone di roccia, lo stretto separava la più grande delle due isole dalla terraferma. Sulla sommità del promontorio, a picco sul mare aperto, sorgeva il tempio dedicato a Venere. Clelia, nonostante l’età, portava i segni di un’indelebile bellezza. Non era cambiata molto da quando l’imperatore Nerva aveva voluto che fosse riabilitata con una solenne cerimonia.

Giunio era un po’ invecchiato e stanco. Lo spirito era rimasto indomito, ma il corpo non poteva non mostrare le tracce delle antiche battaglie, oltre al lungo servizio prestato per oltre un ventennio nel senato del popolo di Roma.

Aveva deciso di ritirarsi a vita privata con la fedele sposa e di trascorrere serenamente gli ultimi anni nelle terre dei suoi avi. Aveva fatto costruire quella villa già da diversi anni. E adesso, finalmente, poteva godere la fresca brezza del mare della sua primissima gioventù.

Clelia gli si accostò. «A che cosa pensi, senatore?» chiese amorevole.

«A niente, moglie. Dopo tanti anni di pensieri a volte persino angosciati ma sempre tumultuosi, mi sto accorgendo con mio stesso stupore che non penso a niente.»

«Stai diventando vecchio, Giunio, e io con te.»

«Ti dispiace, dolcissima amica?»

«Penso che sia una delle sensazioni più belle che si possano provare. Quella di poterti stare accanto mentre il tempo ci porta con sé, a volte leggero, a volte grave e ineluttabile.»

Giunio la strinse a sé, entrambi con lo sguardo perduto sul mare. A riscuoterli vennero le grida di gioia di uno degli schiavi. Il maggiore dei loro figli, il tribuno Marzio, era tornato senza preavviso dal fronte orientale dell’impero.

Irruppe nel loggiato indossando fieramente l’uniforme che il padre conosceva fin troppo bene.

«Padre, madre! Quanto tempo è passato!» esclamò con occhi gonfi di felicità.

Come imponeva la tradizione, il padre scese a prendere dalla cantina un’anfora di vino dolce, consapevole che stava ritualmente ripetendo, a uno a uno, i gesti che compiva suo padre tanti anni prima, ogni volta che lui stesso rientrava da una missione militare. Sorrise tra sé nella protettiva penombra del sotterraneo.

«Marzio», esortò pochi istanti dopo, porgendo al figlio una coppa colma del liquido ambrato. «Che notizie porti dai confini dell’impero?»

Acceso in viso, Marzio si diffuse per ore sulle sue imprese e su quelle dei compagni di tante battaglie, finché sua madre non decise che era tempo di andarsi a coricare e li lasciò, baciandoli entrambi lievemente sulla fronte.

Rimasto solo con il primogenito, Giunio prese dallo stipo segreto i venti rotoli e il cofanetto delle Pietre.

«Sono vecchio, figlio mio. Il tempo non si arresta. Credo sia venuto il momento di consegnarti ciò che la nostra famiglia si tramanda di padre in figlio.»

E, così detto, osservò attentamente la reazione del giovane, l’orgoglio e la felicità di cui si riempirono i suoi occhi alla vista delle Pietre della Luna. Le statuette d’oro gli erano entrate immediatamente nel cuore, così come era stato per suo padre, per il padre di suo padre e per tanti loro avi, di generazione in generazione. Ebbe la certezza che quei sacri oggetti non avrebbero potuto trovare custode migliore.

Infine Giunio indicò i rotoli.

«In questi scritti», concluse, «ho voluto riassumere le vicende della mia vita e di quella di tua madre. Te li affido con orgoglio. Nei momenti di solitudine e di malinconia, quando ti coglierà il timore di avere smarrito la rotta tra le asperità della vita, leggili con attenzione. La storia non ha fine, figlio mio.

«Non ha fine perché si rivolge su se stessa, ripetendosi all’infinito.»

Roma odierna. Giugno 1996.

Sara Terracini si abbandonò sul sedile ergonomico. Gli occhi le dolevano per effetto delle lunghe ore passate anche quel giorno davanti allo schermo. Rovesciò la testa sullo schienale, lasciando che i capelli lo coprissero soffici e sciolti. La macchina davanti a lei aveva appena spedito il suo ultimo messaggio criptato all’amico Oswald. Lo immaginò lontanissimo, perduto negli immediati pressi dell’Isola Che Non C’è, intento però comunque a scorrere quelle pagine, catturato dallo stesso senso di profonda emozione che aveva rapito anche lei.

Che stesse addirittura rimpiangendo la sorta di piacevole prigionia cui l’aveva costretta il diabolico nano? Come in un inarrestabile caleidoscopio continuavano a lampeggiarle nella mente le immagini della vicenda che, più che trascrivere, aveva letteralmente vissuto: gli antichi templi, le battaglie, i protagonisti di quella storia vecchia di quasi due millenni e, probabilmente, prima di lei, non letta da altro sguardo umano per diversi secoli.

La bandierina prese a lampeggiare soltanto pochi istanti dopo che la spedizione elettronica era stata ultimata. Si trovò in linea con Oswald, che sembrava fosse rimasto appostato nell’ombra ad aspettare il gran finale.

È TUTTO? lesse sulla parte bassa dello schermo. Si affrettò a rispondere: SÌ, È TUTTO, COMANDANTE, AGLI ORDINI, OCCORRE ALTRO? NON SO, FORMA DI PARMIGIANO FRESCO, PROSCIUTTO DI SAN DANIELE, OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA, BRUNELLO DI MONTALCINO? Ma abbandonò subito il tono scherzoso, mentre le dita, sulla tastiera, sembravano interpretare il suo stato psicofisico. SONO STANCA, OSWALD, riprese a digitare. QUESTO VIAGGIO NELLA MACCHINA DEL TEMPO MI HA VERAMENTE STRONCATO.

PERÒ INTANTO MI HAI FATTO VENIRE L’ACQUOLINA IN BOCCA, vide scorrere sullo schermo. COME SI CHIAMA QUEL RISTORANTE A TRASTEVERE? ANTICA RESA? PRENOTA PER DUE A NOME MIO, ANCHE SE DOVRAI RIMANERE SUL VAGO CIRCA LA DATA. A PROPOSITO, DALLE TUE PARTI DOVREBBERO ESSERE LE UNDICI E UN QUARTO DI SERA. TEMO CHE TU NON ABBIA ANCORA CENATO. BEVI UN BICCHIERE DI QUEL BRUNELLO ALLA MIA SALUTE, PER FAVORE. SEI STATA IMPAGABILE E NON HO MODO DI RINGRAZIARTI. MA VEDRÒ DI FARLO. TI VOGLIO BENE. OSWALD.

Sara scosse la testa, le sue labbra carnose si schiusero in un sorriso. Tornò a chinarsi sulla tastiera: ANTICA *PESA*, DOTTOR BREIL. HAI IN MENTE UNA «PESA»? ADESSO IMMAGINALA ANTICA, INTENTA A PESARE ASSI DI GRANO, O STATUE D’ORO. ANTICA COME QUEI MILLENNI DI APPASSIONANTE STORIA. HAI IN MENTE ROMA? UN PO’ A NORD DI GERUSALEMME. PATRIA DI GIUNIO DELLA LUNA E SIGNORA. MA NON CREDERE DI CAVARTELA CON UN IMPROBABILE INVITO A CENA A LUME DI CANDELA, CON CONTORNO DI QUALCHE AVANCE GALANTE. SAPREI BENE COME RESISTERTI. MI ASPETTO SE NON ALTRO UN RESOCONTO DETTAGLIATO ANCHE DA PARTE TUA. CHE COSA DIAVOLO STAI COMBINANDO, DA QUELLE PARTI? VABBÈ: TI VOGLIO BENE ANCH’IO, MALEDIZIONE. BUONE FERIE SULLA TUA ISOLA SPERDUTA. SHALOM.

E, digitate queste ultime parole, picchiò con decisione sui tasti CTRL e Q, accompagnando il gesto con un sonoro: «Buonanotte!»

Quindi sollevò la cornetta e compose un numero interno. Dall’altra parte del filo, Toni rispose quasi istantaneamente. Chissà se aveva una casa, se gli capitava mai di andare a dormire. Macché: era ancora lì a riordinare le sue bacinelle di acidi e pulire gli strumenti. Finiti i quattro volumi del frate, si era immediatamente precipitato su altre cartacce incartapecorite come se fossero la più squisita delle leccornie. Però sembrava stremato anche lui.

«Chiudiamo bottega, Marradesi?» gli chiese. «Qui si sta facendo notte, tanto per cambiare. Che cosa ne diresti di una pizza? Paghi tu.»

Il suo vecchio compagno di tante battaglie accettò di buon grado.

Sara premette il pulsante di spegnimento generale. Un fruscio annunciò il meritato riposo delle macchine. Si alzò dalla sedia, sgranchendosi ostentatamente le gambe.

Fuori faceva caldo, un vero caldo da estate romana, ma moderato dal soffio di un delizioso ponentino. Magnifico. Prese Toni Marradesi sotto braccio e aprì il volto in un sorriso.

«Piccolo uomo… grande Diavolo… l’Isola Che Non C’è…» stava pensando con un sentimento indefinibile, a metà tra l’ammirazione cieca e il risentimento verso l’amato soldo di cacio da cui si era lasciata schiavizzare. Le tornarono in mente le indicazioni di Peter Pan per raggiungere l’Isola: «Prima stella a destra, poi diritti fino al mattino…»

Baciò Toni Marradesi sulla guancia, d’impulso, senza preavviso e senza curarsi della sua espressione allibita. Soltanto per ringraziarlo di esistere.

Non poteva immaginare quanto fosse arrivata vicino al vero con la cantilena di Peter Pan, né quanto qualcosa di molto simile a una stella del primissimo mattino avesse appena finito di angustiare il suo amico Breil. Anzi: tutt’altro che finito.

Strinse il braccio al collega e, canticchiando l’allegro ritornello dell’Isola Che Non C’è, scomparve con lui nella calda notte romana.

Miami. Florida. 14 giugno 1996.

Oswald Breil posò l’ultimo foglio del grosso pacco su cui aveva stampato il file ricevuto per posta elettronica dalla formidabile Sara Terracini. La sua mente fervida stava correndo vertiginosamente. Che bella storia era emersa dal marcescente e impastato blocco di carta su cui l’antenato di Kevin Dimarzio aveva fissato una cronaca di famiglia che risaliva a poco meno di due millenni. Millenovecento anni!

Certo, la storia del popolo di Israele era ben più antica, il suo calendario indicava il 5756, ma lui, personalmente, di quanto sarebbe potuto risalire all’indietro nell’albero genealogico? Non poco, lo sapeva benissimo, le cronache della sua famiglia erano state tramandate con meticolosa cura dalla notte dei tempi come quelle dei Giunio, Marzio, Dimarzio. Ma millenovecento anni!

Chi l’avrebbe mai potuto pensare, guardando Kevin Dimarzio, con la sua aria efficiente e pragmatica di uomo del nostro tempo, tutto proiettato verso il 2000 e l’inarrestabile progredire dell’evoluzione tecnico-scientifica? Era ben strano che, con i mezzi di cui poteva disporre alla NASA e presso gli altri enti statali nordamericani, non avesse mai provato a far decifrare quei documenti, non avesse cercato di risalire al proprio passato remoto. Adesso, purtroppo, non avrebbe più potuto farlo.

Ma, chissà, probabilmente glielo aveva impedito un timore personalissimo, la gravosa coscienza della macchia che, attraverso suo padre, doveva pesargli addosso come un macigno. Perché colpe sue personali non sembravano esistere.

Che sollievo aveva provato nel leggere la sua lettera, che per fortuna Laura gli aveva mostrato nonostante l’esplicito divieto. Mentre aveva sentito un’orribile sensazione di gelo quando, frugando con puntigliosa cura negli archivi elettronici del suo servizio e facendo tutti i controlli incrociati possibili con i dati fornitigli dal povero Ceorsky, aveva scoperto un codice indissolubilmente legato al cognome Dimarzio.

Ma era vero: di quell’imponente cifra, grondante dolore e sangue, Kevin non aveva mai fatto uso. Non aveva mai prelevato un solo centesimo. Evidentemente suscitava in lui un orrore che gli vietava di servirsene. Le informazioni erano precise e non lasciavano dubbi. Kevin Dimarzio si era trovato iscritto a forza, per eredità, tra le file della Lobby di Trafalgar ma, come non aveva mai toccato l’enorme ricchezza lasciatagli dal padre, allo stesso modo non sembrava coinvolto in nessuna delle oscure attività dell’associazione. Era veramente e assolutamente una persona perbene.

Ma quando avrebbero potuto dargliene atto? Kevin era scomparso per sempre, probabilmente ridotto in cenere o altre impalpabili sostanze spaziali dal suo generoso e fortunato tentativo di salvare il pianeta Terra e il genere umano.

E le Pietre della Luna? Perdute, anch’esse. Che straordinario e tenace filo legava quegli antichi liguri allo spazio infinito, all’universo eterno. Si poteva sperare che la leggenda avesse ancora una volta ragione delle avversità, che le Pietre della Luna ricomparissero insieme all’ultimo loro destinatario? No, era una speranza che andava troppo al di là della dura realtà dei fatti.

Doveva parlarne con Laura, farle leggere la sbarazzina ma brillante trascrizione/riduzione dell’antico testo fatta dalla brava Sara Terracini. Ma quanta delicatezza ci sarebbe voluta. Quanta affettuosa cautela.

Con un profondo sospiro, Oswald riordinò il pacco di fogli e lo chiuse in una grossa busta gialla. Non aveva ancora capito se quella lettura gli avesse dato più piacere o amarezza.

Laura cominciava soltanto allora, dopo oltre un mese, a rendersi conto che Kevin non sarebbe mai più tornato. L’intensità del loro breve amore era stata profonda e indimenticabile. Se non avesse avuto coscienza della creatura che le cresceva in grembo, avrebbe forse abbandonato la sua maschera di donna forte cedendo alla disperazione.

Per fortuna era riuscita a trovare un grande aiuto nel lavoro, in cui si era gettata con impeto, consegnando all’editore il nuovo romanzo, che a quanto le prenotazioni e le anticipazioni di stampa lasciavano prevedere sarebbe subito balzato in testa alle classifiche di vendita. C’era poi stata l’analisi, forzatamente ritardata, dei dati sull’effettuabilità e convenienza delle perforazioni petrolifere. E il museo, che aveva bisogno di cure quotidiane.

In quel momento se ne stava appunto occupando. Rimase immobile qualche istante a osservare la teca vuota che un tempo conteneva le Pietre della Luna. Aveva deciso che sarebbe rimasta così, senza nessun reperto in esposizione. Forse per rispetto nei confronti dell’uomo che amava, o forse perché sapeva che le avrebbero richiamato alla mente troppi ricordi. Immaginava le magiche statue lassù, in volo chissà dove nello spazio infinito. Affidate all’eternità. Si accarezzò con dolcezza il ventre che cominciava a mostrare i segni della gravidanza.

Pete Dayle aveva insistito a lungo perché quella sera si incontrassero con Oswald. Per fare il punto della situazione, aveva detto. E alla fine lei aveva accettato, soprattutto in considerazione del fatto che anche Breil le aveva chiesto di parlarle.

Desiderava molto incontrarlo, prima di tutto per il piacere che le dava sempre lo stare con lui, e poi perché era animata da una profonda curiosità. Non lo vedeva da quando si era lasciata convincere a mostrargli la lettera di Kevin e a consegnargli il muffoso blocco di carta incartapecorita. Breil le aveva assicurato di poterlo far restaurare e decifrare da un’amica, di cui non aveva però voluto dirle niente.

Dayle, invece, non lo vedeva da prima dell’incidente, sebbene gli avesse spesso parlato al telefono. Li vide arrivare insieme, poco dopo l’orario di chiusura del museo.

«Sei sempre bellissima, Laura», la salutò Oswald, chinandosi con la solita spontanea gentilezza a sfiorarle la mano con le labbra.

Appena si furono accomodati nel suo studio privato, fu Pete a prendere la parola. «Adesso credo che il caso U115 sia veramente concluso», esordì. «Ma, prima di procedere alla definitiva archiviazione, la mia posizione nell’Agency mi impone di chiedervi se siete entrati in possesso di ulteriori informazioni e, nel caso, se le avete trasmesse a qualcuno.»

Laura non aveva nessuna intenzione di rivelargli il contenuto della lettera di Kevin; non lo avrebbe mai fatto. A che scopo? L’aveva mostrata solamente a Breil, in un momento di sconforto. Ma per fortuna fu lo stesso Oswald a prendere subito la parola per rispondere.

Parlò a lungo, riassumendo e spiegando il quadro storico messo pazientemente insieme tassello per tassello come un mosaico. Lo fece in piena sincerità, non nascondendo niente ai compagni d’indagine.

«Purtroppo, però», concluse, «non esistono documenti che dimostrino gli appoggi locali di cui Hitler ha goduto nel corso del suo soggiorno americano. Anche se deve per forza esserci stato un basista che si è preoccupato di sistemarlo qui, ormai libero e persino più ricco di prima. Un giorno o l’altro mi metterò magari a cercarlo per mia soddisfazione personale.»

Così detto, lasciò intendere di non aver altro da aggiungere e si dichiarò favorevole all’archiviazione del caso. Nelle alte sfere, di sicuro nessuno si sarebbe mai preso la responsabilità di raccontare al mondo che il Führer era sopravvissuto. E a quel punto s’interruppe un istante.

«Però, Pete, dovrei chiederti di spiegarmi una cosa…» riprese poi in tono casuale.

Il dirigente della CIA impallidì visibilmente. Un sorriso gli si dipinse sulle labbra, mentre nella sua mano destra compariva come per incanto una Beretta bifilare.

«Sarò felice di rispondere a qualsiasi tua domanda, Oswald. Anche perché il vostro destino è segnato», replicò, mentre Laura lo guardava allibita.

«Comunque, fino a questo punto è tutto esatto, professore nano, tranne un piccolo particolare: ovvero, che adesso il capo incontrastato della Lobby di Trafalgar sono io.»

Oswald rimase imperturbabile, anche se dentro di sé era in tumulto. Non avrebbe mai immaginato che la sorte potesse essergli così favorevole, che Dayle perdesse la testa e cedesse di schianto in quel modo sconsiderato, autodenunciandosi.

«Gran bella soddisfazione, Pete», replicò senza battere ciglio. «Essere il capo indiscusso di un esercito senza nemmeno un soldato. Congratulazioni.»

«Sai quanti soldati si possono comperare con un miliardo circa di dollari in oro e pietre preziose? Quel cretino di Rustom stava veramente perdendo il controllo della situazione», ribatté Dayle con un’espressione di follia nello sguardo. «Caro nanerottolo, non sei affatto bravo come credi. E di errori ne hai fatti almeno altri due. Evidentemente credi alle favole. Come hai potuto lasciarti convincere che Rustom si fosse veramente suicidato? Pensi che un simile rottame umano sarebbe mai riuscito a strappare di mano un mitragliatore a una delle mie guardie? Mi fai pena. Inoltre, nella tua ricostruzione da primo della classe ti sei scordato del terzo testimone a bordo dello yacht di Sachs!»

«No, Pete, non me ne sono affatto dimenticate», replicò Oswald, compunto proprio come un primo della classe sicuro di aver imparato la lezione a memoria e quindi di non poter essere colto in castagna. «L’avventuriera bionda, che non eravamo riusciti a identificare, la basista del Führer sul suolo americano, si chiamava…»

Il colpo di pistola gli tagliò le parole in bocca. Il proiettile gli si conficcò nel ginocchio sinistro, facendolo cadere a terra con una smorfia di dolore.

«Questo per insegnarti ad avere più rispetto per mia madre!» urlò Dayle.

Oswald cercò di mantenere i nervi saldi e di vincere il dolore. L’unico modo per tentare di salvare se stesso e l’incolpevole Laura era prendere tempo e cercare di far saltare definitivamente i nervi a Dayle.

«Non le manco di rispetto, Pete. La realtà è quella. Faceva l’unico mestiere che sapeva fare. La puttana di lusso. Ecco quindi definitivamente spiegati i sabotaggi alle cariche, il presunto suicidio di Rustom e…»

Dayle lo interruppe con una risata sgangherata, gli occhi stravolti da una definitiva luce di follia.

«Bravo, nano, bravo. Meriteresti la lode. Purtroppo, però, i miei uomini non sono riusciti a eliminare le persone in grado di svelare i segreti della Lobby di Trafalgar. Quindi devo pensarci io», urlò. «Pace all’anima tua, Oswald!»

Come Breil sperava, gli erano completamente saltati i nervi. Gli tremava visibilmente la mano.

Il proiettile si perse nell’imbottitura di un divano alle sue spalle.

Atterrita, Laura vide Dayle stringere istericamente l’arma con entrambe le mani, prendere la mira e apprestarsi a esplodere una raffica mortale di colpi.

Toccava a lei. La forza della disperazione diede impeto al suo repentino balzo in avanti, le sue unghie si conficcarono nella carne del braccio teso di Pete. Lo tirò verso di sé con tutta la forza che si era sentita nascere in corpo, e per un attimo l’uomo sembrò perdere l’equilibrio, ma si ricompose quasi immediatamente. Laura si ritrovò a terra dolorante, con la canna della pistola piantata in mezzo agli occhi.

«Addio, splendida Laura», sentì dire dalla voce impazzita dell’uomo che un tempo aveva saputo smascherare come infiltrato della CIA nei gruppi di studenti contestatori, ma che mai avrebbe sospettato nel ruolo di un mortale nemico in quell’operazione. Aveva già chiuso gli occhi. Sentì lo sparo echeggiare contro le pareti della stanza.

Attese la morte a occhi chiusi, ma non la sentì venire. Dopo qualche istante si rese conto di non provare alcun dolore. Aprì gli occhi. Incredula, vide davanti a sé Dayle che barcollava: da un foro rosso, esattamente al centro della fronte, usciva un fiotto di sangue scarlatto. Le cadde quasi addosso, rovinosamente. Riuscì a scansarlo con un balzo laterale di cui non si sarebbe mai ritenuta capace.

Seduto sul pavimento macchiato del sangue che gli usciva abbondante dal ginocchio, Oswald stringeva ancora nella destra l’automatica Uzi. Ebbe la forza di strizzarle un occhio, ma poi li chiuse tutti e due, con una nuova smorfia di dolore. Buffa, questa volta, sebbene autentica.

Laura corse a inginocchiarsi al suo fianco.

Miami. Florida. Jackson Memorial Hospital. 15 giugno 1996.

Il Ryder Trauma Center è il reparto più all’avanguardia del Jackson Memorial Hospital di Miami. Laura indossò con trepidazione gli indumenti sterilizzati. Quindi dovette fare una breve sosta nella camera di decontaminazione, abbagliata dalle lampade ultraviolette. Infine poté entrare nella stanza.

Il suo piccolo amico era steso sul letto, sopra cui pendevano inerti i pesi della trazione ortopedica. Oswald si voltò a guardarla, e il suo viso si aprì in un sorriso da monello, mentre la gola di Laura si strozzava in un singhiozzo.

«Grazie, maggiore Breil», riuscì finalmente a dire di slancio. «Grazie per tutte le vite che devo al tuo coraggio. Ormai ho perso il conto.»

«Chiamami Bond», replicò lui, allargando ancora di più il sorriso. «Ma, ripensando a ieri, devo considerare che siamo pari. Quindi, grazie a te.»

Così dicendo, Oswald non riuscì a mascherare una smorfia. La brutta ferita, che aveva fratturato diversi ossicini del ginocchio, gli faceva sicuramente male, ma niente al mondo avrebbe potuto distoglierlo dalla perenne abitudine a cercare di sdrammatizzare qualsiasi situazione. Salvare vite faceva parte della sua missione, era il suo lavoro. Essere salvato, rientrava nei fringe benefit del servizio. Essere salvato dalla donna a cui voleva più bene a questo mondo, poi…

Ma aveva alcune cose da dire, che aspettavano ormai da diverse ore.

«Apri quella borsa, Laura», disse, indicandole la cartella posata sul tavolino accanto alla finestra. «C’è dentro una cosa che avrei voluto darti ieri sera, se avessi potuto. È molto interessante.»

«Che cos’è», chiese lei, incerta.

«Un semplice pacco di fogli di stampante, Laura, ma…»

Non poté proseguire, interrotto dalla porta che si apriva di schianto, in un modo assai poco consono a un ospedale. Sulla soglia videro comparire un Ferd Steps quasi irriconoscibile, non soltanto per il modo in cui era bardato, con la cuffia, i guanti e il camice sterilizzati, ma soprattutto per l’espressione agitata del suo viso.

«Generale Steps!» esclamò Laura, stupita. «Che cosa…»

«Signorina Joanson, dottor Breil, vogliate scusarmi, ma non potevo… Dovevo dirvi subito…»

Così detto, il generale cercò di ricomporsi e, quasi si fosse ricordato soltanto in quel momento le regole della buona educazione, tese la mano a stringere quella della donna e poi a fare un cenno di saluto a Oswald.

«Quanto sto per dirvi», esordì finalmente, «si basa semplicemente su un sospetto labile, poco meno di una sensazione epidermica. Con Kevin Dimarzio ho passato alcuni momenti tra i più belli della mia vita, l’ho visto con questi occhi superare situazioni veramente molto difficili, cavarsela in missioni al limite dell’impossibile. È quindi forse per l’ammirazione che provo per lui, per una sorta di fiducia cieca, se non sono mai riuscito a credere alla sua morte. No, non ci ho mai creduto e… e ancora meno ci credo adesso. Ma cercherò di venire al dunque. Non appena l’inchiesta ufficiale si è conclusa, ho chiesto che mi venissero consegnate le registrazioni dei colloqui intercorsi tra l’Atlantis e la base di Houston.»

Laura lo fissò con uno sguardo bruciante, sentendo che il cuore cominciava ad accelerare i battiti. «Continui, generale, la prego», esclamò.

Ferdinand Steps annuì, quindi infilò la mano destra nel camice che aveva dovuto indossare ed estrasse un disegno schematico della navicella spaziale Atlantis, riprendendo:

«Devo fare un passo indietro. Il 28 gennaio 1986 il Challenger 61-L, comandato da Dick Scobee, esplose a pochi minuti dal decollo sotto gli occhi di milioni di telespettatori. La tragedia innescò una lunga serie di polemiche sulla sicurezza delle missioni dello Shutde e soprattutto sull’assenza di una qualsiasi via di salvezza in caso di incidente.

«Come ricorderete, i voli spaziali sono stati sospesi per più di due anni, nel cui corso i nostri gruppi di ricerca hanno fatto l’impossibile per cercare di mettere a punto un sistema che consentisse all’equipaggio l’abbandono del vettore in difficoltà. Ci sono riusciti, sembra, anche se il collaudo definitivo…

«Insomma: l’Atlantis STS-74, la navicella su cui Kevin e Bender potrebbero — ripeto: potrebbero - essere morti nell’esplosione nucleare, era la prima a montare la capsula sperimentale di eiezione. Un congegno simile al sedile dei piloti di jet, con la differenza che l’intera zona alloggi viene espulsa verso il basso e lateralmente».

Ammutolito, Oswald si aggrappò alla maniglia per tirarsi faticosamente a sedere, mentre Ferd spiegava il foglio sul letto, per chiarire la sua esposizione indicando i diversi particolari a mano a mano che li accennava: «Questa è la cabina di pilotaggio. E qui, immediatamente sotto, si trovano gli alloggi e le riserve di aria. Alcune cariche detonanti guidate, che agiscono contemporaneamente a un sistema idraulico, sono in grado di espellere l’intera zona alloggi indipendentemente dalla velocità a cui sta viaggiando la navicella.

«Se la procedura avviene nell’atmosfera, la ricaduta a terra dell’equipaggio è frenata dai paracadute automatici. Nello spazio, invece, in assenza di gravità, la velocità di espulsione può portare la capsula di sopravvivenza a diverse decine di miglia dalla nave madre, forse quanto potrebbe bastare per consentire all’equipaggio di sopravvivere anche a un’esplosione nucleare come quella che ha deviato la rotta dell’asteroide».

Laura sentì che le tremavano le mani. Non riusciva più a prestare attenzione. Né a trattenere la domanda che le bruciava in gola dall’inizio. «Significa che Kevin è vivo, generale?» chiese con un soffio di voce.

L’ufficiale assunse un’espressione indecifrabile.

«Preferirei forse poterle rispondere di no con assoluta certezza, dottoressa Joanson», rispose. «Mi creda, è probabilmente meglio essere uccisi da un’esplosione nucleare che sentire le proprie forze spegnersi a poco a poco, abbandonati nel silenzio degli spazi infiniti. Ho ascoltato per giorni le registrazioni degli ultimi momenti del volo, individuando a uno a uno i comandi che ha eseguito Kevin. Ha sicuramente attivato la procedura di emergenza per l’espulsione. Ne sono assolutamente certo. Ma i primi bip del May Day non hanno mai raggiunto la Terra. Questo aveva fatto pensare a tutti, me compreso, che la capsula non si fosse staccata abbastanza dalla navicella, venendo distrutta anch’essa. Ma…»

«Ma?» incalzarono all’unisono Laura e Oswald.

«Come vi ho detto», riprese Step, «non potevo credere che Kevin fosse morto. Ho continuato a pensarci e a riflettere. E finalmente, consultando uno studio sugli effetti dell’esplosione nucleare di Hiroshima, ho avuto quella che mi auguro sia un’illuminazione. A seguito di quella reazione atomica, ogni comunicazione radio, ogni trasmissione elettromagnetica si interruppero.

«E lo stesso fenomeno si è verificato nello spazio, per la durata di oltre sessantotto ore. Così i tecnici della NASA non hanno potuto registrare il segnale di May Day, che invece veniva emesso regolarmente dalla capsula. L’ho scoperto io stesso, poco prima di correre qui, procedendo all’ascolto a oltranza di tutte le registrazione delle molteplici onde radio che hanno attraversato lo spazio nei tre giorni successivi all’incidente. E in questo momento mi sento di affermare con quasi assoluta certezza che la capsula di sopravvivenza dello Shuttle non è stata distrutta dall’esplosione.

«Non è però possibile affermare con altrettanta sicurezza che Kevin e il professor Bender siano sopravvissuti.»

«Che autonomia hanno, e dove pensa possano trovarsi adesso?» chiese concitatamente Oswald.

«A bordo della capsula ci sono viveri, acqua e aria sufficienti a coprire il fabbisogno di un equipaggio di sette uomini per quindici giorni: il tempo medio per consentire di organizzare una missione di soccorso e procedere al recupero dei naufraghi spaziali», rispose Steps. «Quindi, calcolando che sullo Shuttle sono rimasti in due, Kevin e Bender dovrebbero disporre di una cinquantina di giorni di autonomia.»

Oswald non avrebbe voluto dirlo, proprio nel momento in cui aveva visto accendersi un lampo di speranza nello sguardo di Laura, ma non riuscì a trattenere l’amara conclusione.

«Visto che l’incidente è avvenuto ai primi di maggio, questo significa che mancherebbe poco tempo alla fine delle riserve. Circa una settimana.»

«Potrebbe anche essere un po’ di più, perché calcoli e rifornimenti vengono sempre fatti in modo da garantire un discreto margine di sicurezza. Ma, in assenza di comunicazioni, non è possibile saperlo.»

«Perché non organizzate una spedizione di soccorso e non cercate di recuperarli?» intervenne Laura in tono concitato.

Ferd Steps scosse malinconicamente la testa. «La mia scoperta è arrivata troppo tardi, e non potrò mai perdonarmelo. Una nuova navicella non potrebbe essere pronta al lancio prima di quattordici giorni, e non sappiamo quale possa essere la posizione della capsula. I segnali radio che ho captato sembravano provenire da un’orbita prossima alla Luna, ma è un dato del tutto insufficiente.»

«È mai possibile che non riusciate a individuare dove si trovano in questo momento?» esplose Laura in un tono che rendeva ancora più evidente la fatica che faceva per mantenere la calma.

«Non è possibile, dottoressa Joanson», rispose cupamente Steps. «Attorno alla Terra ruotano almeno centomila relitti spaziali. E almeno trentamila attorno al nostro satellite. Anche se riuscissimo a individuare con buona approssimazione la loro posizione, sarebbe impossibile individuarli con certezza.»

La minuscola mano di Oswald si strinse con forza su quella di Laura. Ma la giovane non riuscì a trattenere i singhiozzi. Si avvicinò con passo incerto alla finestra e alzò lo sguardo alla luna. Sembrava mormorare qualcosa, ma dalla sua bocca non usciva nessun suono. Rimase così qualche istante, in un silenzio assoluto. Fu riscossa da un frettoloso picchiettare sulla porta, che si aprì una seconda volta. Giratasi di scatto, vide sulla soglia un giovane ufficiale della NASA sull’attenti.

«Messaggio per il generale Steps dal suo ufficio comunicazioni», annunciò. «Signore!» E battendo i tacchi tese all’alto ufficiale una busta sigillata. Steps la prese e la lacerò in un baleno, estraendone un foglio. Lo lesse per un istante, con un’espressione impenetrabile, mentre Laura, come calamitata, si spostava quasi al rallentatore verso di lui. Si incontrarono all’altezza del letto di Oswald Breil. Il foglio passò dalle mani dell’alto ufficiale a quelle tremanti della donna.

Le bastò un attimo per leggerlo. Diceva semplicemente: «Messaggio ripetuto dallo spazio. Indecifrabile. Impossibile capire provenienza. Ottimizziamo sintonizzazione. Una sola sicurezza. Inequivocabili espressioni ‘vivi’ e ‘Kevin’».

Il generale Steps era già scomparso dalla stanza. Cerea come la morte, Laura si lasciò cadere sul letto dell’amico ferito. Oswald la strinse teneramente a sé, sentendo le sue roventi lacrime di liberazione sulla pelle attraverso il tessuto della maglietta.