174213.fb2 Limpero dei lupi - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 2

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UNO

1.

«Rosso.»

Anna Heymes si sentiva sempre più a disagio. L’esperimento non presentava alcun pericolo, ma l’idea che si potesse leggere a ogni istante nel suo cervello la turbava profondamente.

«Blu.»

Era distesa su un tavolo d’acciaio, al centro di una sala immersa nella penombra, la sua testa inserita nel foro centrale di una macchina bianca e circolare. Proprio sopra il suo viso c’era uno schermo inclinato sul quale venivano proiettati dei piccoli quadrati. Lei doveva semplicemente riconoscere i colori.

«Giallo.»

Una flebo colava lenta nel suo braccio sinistro. Il dottor Eric Ackermann le aveva brevemente spiegato che si trattava di un liquido di contrasto che permetteva di localizzare gli afflussi di sangue al cervello.

Si susseguirono altri colori. Verde. Arancio. Rosa… Poi lo schermo si spense.

Anna restò immobile, le braccia lungo il corpo, come in un sarcofago. Distingueva, a qualche metro sulla sua sinistra, il chiarore vago, acquatico, di una cabina vetrata dove c’erano Eric Ackermann e Laurent, suo marito. Immaginava i due uomini di fronte ai monitor a scrutare l’attività dei suoi neuroni. Si sentiva spiata, depredata, come violata nella sua intimità più segreta.

La voce di Ackermann risuonò nell’auricolare fissato al suo orecchio:

«Molto bene, Anna. Ora i quadrati si animeranno. Tu dovrai semplicemente descrivere i loro movimenti. Utilizzando una sola parola ogni volta: destra, sinistra, alto, basso…»

Subito le figure geometriche cominciarono a spostarsi, formando un mosaico screziato, fluido e morbido come un banco di piccoli pesci. Nel microfono collegato all’auricolare disse:

«Destra.»

I quadrati risalirono verso il bordo superiore dello schermo.

«Alto.»

L’esercizio durò diversi minuti. Lei parlava con una voce lenta, monocorde, si sentiva vinta dal torpore; il calore dello schermo accresceva quella pesantezza. Non avrebbe tardato a piombare nel sonno.

«Perfetto», disse Ackermann. Ora ti sottoporrò una storia, raccontata in diverse maniere. Ascolta attentamente ciascuna versione.

«Cosa devo dire?»

«Niente. Ascolta e basta.»

Dopo qualche secondo, una voce femminile risuonò nell’auricolare. Il discorso era pronunciato in una lingua straniera; sonorità asiatiche forse, o orientali.

Breve silenzio. La storia ricominciò, in francese. Ma la sintassi non era rispettata: verbi all’infinito, articoli senza accordo, preposizioni sbagliate…

Anna tentò di decrittare questo linguaggio sgangherato ma intanto era già cominciata un’altra versione. Adesso c’erano parole assurde che si infilavano nelle frasi… Cosa significava tutto ciò? D’un tratto il silenzio riempì i suoi timpani, sprofondandola ancor più nell’oscurità del cilindro.

Dopo un po’ il medico riprese:

«Test successivo. Per ogni nome di paese dimmi la capitale.»

Anna cercò di annuire quando il primo nome risuonò al suo orecchio:

«Svezia.»

Senza riflettere disse:

«Stoccolma.»

«Venezuela.»

«Caracas.»

«Nuova Zelanda.»

«Auckland. No, Wellington.»

«Senegal.»

«Dakar.»

Ogni capitale le veniva in mente con naturalezza. Le sue risposte erano semplici riflessi, ma lei era felice di quei risultati; dunque la sua memoria non era totalmente perduta. Cos’è che Ackermann e Laurent vedevano sui loro schermi? Quali zone si stavano attivando nel suo cervello?

«Ultimo test», avvertì il neurologo. «Appariranno dei volti. Tu identificali ad alta voce, il più rapidamente possibile.»

Aveva letto da qualche parte che un semplice segno — una parola, un gesto, un dettaglio visivo — scatenava il meccanismo della fobia; quello che gli psichiatri chiamano il segnale dell’angoscia. Segnale: il termine era perfetto. Nel suo caso, la sola parola «volto» era sufficiente a provocare il malessere. Immediatamente si sentiva soffocare, il suo stomaco diventava pesante, le sue membra si anchilosavano — e quel raschiare che le bruciava la gola…

Sullo schermo apparve un volto di donna, in bianco e nero. Riccioli biondi, labbra corrucciate, neo di bellezza sopra la bocca. Facile:

«Marilyn Monroe.»

Alla fotografia fece seguito un’incisione. Sguardo tenebroso, mascella quadrata, capelli ondulati:

«Beethoven.»

Un viso rotondo, liscio come una bomboniera, solcato da due occhi a mandorla.

«Mao Tse-Tung.»

Anna era stupita di riconoscerli così facilmente. Ne seguirono altri: Michael Jackson, la Gioconda, Albert Einstein… Aveva l’impressione di contemplare le proiezioni lucenti di una lanterna magica. Rispondeva senza esitazione. Il suo turbamento già diminuiva.

Ma all’improvviso, un ritratto la tenne in scacco; un uomo d’una quarantina d’anni, l’espressione ancora giovanile, gli occhi prominenti. Il biondo dei capelli e delle sopracciglia gli dava un’aria indecisa, da adolescente.

La paura la attraversò, come un’onda elettrica. Quei tratti risvegliavano in lei una reminiscenza che però non richiamava alcun nome, alcun ricordo preciso. La sua memoria era in un tunnel oscuro. Dove l’aveva già vista quella faccia? Un attore? Un cantante? Un lontano conoscente? L’immagine lasciò il posto a un volto allungato con due occhialini rotondi. Con la bocca secca disse:

«John Lennon.»

Apparve Che Guevara, ma Anna implorò:

«Eric, aspetta.»

Il carosello continuò. Scintillò un autoritratto di Van Gogh dai colori aciduli. Anna prese lo stelo del microfono:

«Eric, per favore!»

Le immagini continuarono a scorrere. Anna sentiva i colori e il calore riflettersi sulla sua pelle. Dopo una pausa Ackermann domandò:

«Cosa c’è?»

«Chi è quello che non ho riconosciuto?»

Nessuna risposta. Gli occhi chiari di David Bowie vibrarono sullo schermo. Lei si alzò e disse più forte:

«Eric, ti ho fatto una domanda: chi era?»

Lo schermo si spense. In un secondo i suoi occhi si abituarono all’oscurità. Vide il suo riflesso nel rettangolo obliquo del monitor: livido, ossuto. Il viso di una morta.

Alla fine, il medico rispose:

«Era Laurent, Anna. Laurent Heymes, tuo marito.»

2.

«Da quanto tempo soffri di queste amnesie?»

Anna non rispose. Era quasi mezzogiorno: era stata sottoposta a esami per tutta la mattina. Radiografie, tomografie, risonanze e, per finire, tutti quei test nella macchina circolare… Si sentiva svuotata, spossata, perduta. E quell’ufficio non aggiustava certo le cose: una stanza stretta, senza finestre, troppo illuminata, dove, negli armadi metallici e persino sul pavimento, si accatastavano disordinatamente dei dossier. Sui muri c’erano stampe che raffiguravano cervelli, crani rasati con linee di perforazione che sembravano fustellature. Proprio quello che ci voleva per lei…

Eric Ackermann ripeté:

«Da quanto tempo, Anna?»

«Più di un mese.»

«Sii precisa. Tu ti ricordi la prima volta, non è vero?»

Certo che se ne ricordava: come avrebbe potuto dimenticarlo?

«Era il 4 febbraio scorso. Un mattino. Uscivo dal bagno. Ho incrociato Laurent nel corridoio. Era pronto per andare in ufficio. Mi ha sorriso. Mi sono spaventata: non capivo chi fosse.»

«Del tutto sconosciuto?»

«Sì, per un secondo. Poi, nella mia testa tutto si è sistemato.»

«Descrivimi esattamente quello che hai provato in quell’istante.»

Lei scosse le spalle, un gesto d’indecisione sotto lo scialle nero e oro:

«Era una sensazione strana, fugace. Come l’impressione di aver già vissuto qualche cosa. Il malessere è durato solo il tempo di un lampo», disse schioccando le dita. «Poi tutto è tornato normale.»

«Cosa hai pensato in quel momento?»

«Che fosse colpa della stanchezza.»

Ackermann annotò qualcosa sul blocco posato davanti a lui, poi riprese:

«Ne hai parlato a Laurent quel mattino?»

«No. Non mi è parso così grave.»

«Quando è sopraggiunta la seconda crisi?»

«La settimana dopo. Ce ne sono state parecchie, una dopo l’altra.»

«Sempre di fronte a Laurent?»

«Sì.»

«E tu finivi sempre per riconoscerlo?»

«Sì. Ma giorno dopo giorno, lo scatto verso la normalità mi è sembrato… Non so… Mi è sembrato sempre più lento ad arrivare.»

«È stato allora che gliene hai parlato?»

«No»

«Perché?»

Lei accavallò le gambe, posò le sue mani fragili sulla gonna di seta scura — due uccelli dalle piume pallide:

«Mi pareva che parlargliene avrebbe aggravato il problema. E poi…»

Il neurologo alzò gli occhi; i suoi capelli rossi si riflettevano nei suoi occhiali:

«E poi?»

«Non è una cosa facile da annunciare al proprio marito. Lui…»

Sentiva la presenza di Laurent, in piedi dietro di lei, appoggiato ai mobili metallici.

«Laurent diventava per me un estraneo.»

Il medico sembrò percepire il suo turbamento; preferì cambiare discorso:

«Questo problema di riconoscimento lo riscontri anche con altri visi?»

«Talvolta, esitò lei. Ma è molto raro.»

«Di fronte a chi, ad esempio?»

«Con i negozianti del quartiere. E anche sul lavoro. Non riconosco dei clienti abituali.»

«E i tuoi amici?»

Anna fece un gesto vago:

«Non ho amici.»

«La tua famiglia?»

«I miei genitori sono morti. Ho solamente qualche zio e qualche cugino nel Sud-Ovest. Non vado mai a trovarli.»

Ackermann scrisse ancora; i suoi tratti non tradivano alcuna reazione. Sembravano stampati nella resina.

Anna detestava quell’uomo: un amico di famiglia di Laurent. Veniva qualche volta a cena da loro, ma restava, in ogni circostanza, di una freddezza glaciale. Certo, a meno che non si parlasse dei suoi ambiti di ricerca: il cervello, la geografia cerebrale, il sistema cognitivo umano. Allora cambiava tutto, si lasciava trasportare, si esaltava, faceva ampi gesti con quelle sue lunghe zampe rosse.

«Dunque è il viso di Laurent che ti pone i problemi più grossi?» riprese lui.

«Sì. Ma è anche il più vicino. Quello che vedo più spesso.»

«Soffri di altri disturbi della memoria?»

Anna si morse il labbro inferiore. Ancora una volta esitò:

«No.»

«Problemi di orientamento?»

«No.»

«Disturbi nell’eloquio?»

«No.»

«Hai difficoltà a effettuare certi movimenti?»

Lei non rispose, poi abbozzò un debole sorriso:

«Pensi all’Alzheimer, vero?»

«Verifico, tutto qui.»

Era la prima malattia alla quale Anna aveva pensato. Si era informata, aveva consultato delle enciclopedie mediche: il mancato riconoscimento dei volti era uno dei sintomi del morbo di Alzheimer.

Con il tono che si usa per calmare un bambino, Ackermann aggiunse:

«Non hai assolutamente l’età. E in ogni modo l’avrei visto dai primi esami. Un cervello colpito da una malattia neurodegenerativa ha una morfologia molto particolare. Ma devo porti tutte queste domande per fare una diagnosi completa, capisci?»

Non attese la risposta e ripeté:

«Hai difficoltà a effettuare dei movimenti o no?»

«No.»

«Disturbi del sonno?»

«No.»

«Nessun torpore inspiegabile?»

«No.»

«Emicranie?»

«Nessuna.»

Il medico chiuse il suo blocco e si alzò. Ogni volta era la stessa sorpresa. Era alto quasi un metro e novanta per una sessantina di chili. Era come un palo, sul quale il camice bianco sembrava steso, più che indossato.

Era di un rosso totale, bruciante; i suoi capelli crespi, mal tagliati, erano colore del miele scuro; la pelle era disseminata di grani color ocra, persino sulle palpebre. Il viso era spigoloso e gli occhiali dalla montatura metallica, sottili come lame, lo rendevano ancora più affilato.

Questa fisionomia sembrava metterlo al riparo dal tempo. Era più vecchio di Laurent, una cinquantina d’anni circa, ma sembrava ancora un ragazzo. Le rughe si erano disegnate sul suo volto senza colpirne l’essenziale: quei tratti d’aquila, aguzzi, indecifrabili. Solo i segni dell’acne scavavano le sue guance e davano profondità alla sua pelle, al suo passato.

Fece qualche passo nello spazio minuscolo dell’ufficio, in silenzio. I secondi passavano. Non resistendo più, Anna chiese:

«Santo cielo, cos’è che ho?»

Il neurologo scosse un oggetto metallico che aveva in tasca. Delle chiavi, senza dubbio; ma fu come un campanello che diede inizio al suo discorso:

«Lascia che prima ti spieghi l’esame che abbiamo appena fatto.»

«Sarebbe ora.»

«La macchina che abbiamo utilizzato è una videocamera a positroni. È quella che noi chiamiamo “Petscan”. Questo apparecchio si basa sulla tecnologia della tomografia a emissione di positroni: la TEP. Permette di osservare in tempo reale le zone di attività del cervello, localizzandone le concentrazioni sanguigne. Ho voluto procedere con te a una sorta di revisione generale. Verificare il funzionamento di alcune grandi zone cerebrali di cui si conosce bene la localizzazione. La visione. Il linguaggio. La memoria.»

Anna pensò ai differenti test. I quadrati colorati; le storie raccontate in diverse maniere; i nomi delle capitali. Non aveva difficoltà a situare ogni esercizio in questo contesto, ma ormai Ackermann era lanciato:

«Il linguaggio, ad esempio. Tutto si svolge nel lobo frontale, in una regione a sua volta divisa in sottosistemi, destinati rispettivamente all’ascolto, al lessico, alla significazione, alla prosodia…» e parlando puntava l’indice sulla sua testa. «È l’associazione di queste zone che ci permette di comprendere e di utilizzare la parola. Grazie alle differenti versioni del mio piccolo racconto, ho sollecitato nella tua testa ciascuno di questi sistemi.»

Non la smetteva di andare avanti e indietro nella piccola stanza. Le stampe appese al muro apparivano e scomparivano a seconda dei suoi movimenti. Anna scorse uno strano disegno che rappresentava una scimmia colorata dotata di una grande bocca e di mani giganti. Malgrado il calore dei neon, sentiva i brividi lungo la schiena.

«E allora?» Chiese lei.

Ackermann aprì le mani in un movimento che voleva essere rassicurante:

«Allora va tutto bene. Linguaggio. Visione. Memoria. Ogni area si è attivata normalmente.»

«Salvo quando mi hai mostrato il ritratto di Laurent.»

Ackermann si sporse sulla scrivania e ruotò lo schermo del suo computer. Anna vi scorse l’immagine digitalizzata di un cervello. Una sezione di profilo, verde luminescente; l’interno era assolutamente nero.

«Ecco il tuo cervello mentre osservavi la fotografia di Laurent. Nessuna reazione. Nessuna connessione. Un’immagine piatta.»

«E questo cosa vuol dire?»

Il neurologo si rialzò e sprofondò nuovamente le mani nelle tasche. Gonfiò il torace in una posa teatrale: era il grande momento del verdetto.

«Credo che tu soffra di una lesione.»

«Una lesione?»

«Che tocca specificatamente la zona di riconoscimento dei volti.»

Anna era stupefatta.

«Esiste una zona dei… volti?»

«Sì, un dispositivo neuronale specializzato in questa funzione, situato nell’emisfero destro, nella parte ventrale del temporale, nella sezione posteriore del cervello. Questo sistema è stato scoperto negli anni Cinquanta. Alcune persone che erano state vittime di un incidente vascolare in questa regione non riconoscevano più i volti. Ora, grazie al “Petscan”, noi l’abbiamo localizzata con una precisione ancora maggiore. Sappiamo ad esempio che quest’area è particolarmente sviluppata nei “fisionomisti”, nei tipi che sorvegliano l’entrata dei locali notturni o dei casinò.»

«Ma io riconosco la maggior parte delle facce», tentò di argomentare lei. «Durante il test, ho identificato tutti i ritratti…»

«Tutti tranne quello di tuo marito. E questa è una pista seria.»

Ackermann unì gli indici di entrambe le mani sulle sue labbra, in un segno di ostentata riflessione. Quando non era gelido diventava enfatico:

«Noi possediamo due tipi di memoria. C’è quello che impariamo a scuola e quello che apprendiamo nella nostra vita personale. Queste due memorie non fanno lo stesso cammino nel cervello. Io penso che tu soffra di un problema di connessione tra l’analisi istantanea dei volti e la loro comparazione con i tuoi ricordi personali. C’è una lesione che sbarra la strada a questo meccanismo. Tu puoi riconoscere Einstein, ma non Laurent, che appartiene ai tuoi archivi privati.»

«E… è curabile?»

«Certo. Noi sposteremo questa funzione in una parte sana della tua testa. È uno dei vantaggi del cervello: la sua plasticità. Per questo dovrai sottoporti a una rieducazione: una sorta di allenamento mentale, degli esercizi regolari sostenuti da farmaci adatti.»

Il tono grave del neurologo era in contrasto con la buona notizia.

«Dov’è il problema?» chiese Anna.

«Nell’origine della lesione. Qui, devo confessarlo, mi fermo. Non abbiamo alcun segno di tumore, nessuna anomalia neurologica. Non hai subito nessun trauma cranico, né incidenti vascolari che abbiano privato di irrigazione questa parte del cervello. Occorre fare delle nuove analisi, più profonde, al fine di perfezionare la diagnosi.»

«Quali analisi?»

Il medico si sedette dietro la sua scrivania. Il suo sguardo imperturbabile si fermò su di lei:

«Una biopsia. Un infinitesimo prelievo di tessuto corticale.»

Anna ci impiegò qualche secondo a comprendere, poi una vampata di terrore le montò al viso. Si volse verso Laurent, ma lo vide lanciare uno sguardo d’intesa ad Ackermann. La paura lasciò il posto alla rabbia: erano complici. Il suo destino era segnato; senza dubbio già dalla mattina.

Le parole tremarono sulle sue labbra:

«Non se ne parla neanche.»

Il neurologo sorrise per la prima volta. Un sorriso confortante, nelle intenzioni, ma che appariva completamente artificiale:

«Non devi avere nessuna apprensione. Praticheremo una biopsia stereotassica. Si tratta di una semplice sonda che…»

«Nessuno toccherà il mio cervello.»

Anna si alzò e si avvolse nello scialle; ali da corvo foderate d’oro. Laurent prese la parola:

«Non devi prenderla così. Eric mi ha assicurato che…»

«Tu sei dalla sua parte?»

«Noi siamo tutti dalla tua parte», assicurò Ackermann.

Lei arretrò, per meglio inquadrare i due ipocriti.

«Nessuno toccherà il mio cervello», ripeté con voce decisa. «Preferisco perdere completamente la memoria o crepare della mia malattia. Non rimetterò mai più piede qui.»

All’improvviso, presa dal panico, urlò:

«Mai più, avete capito?»

3.

Corse lungo il corridoio deserto, scese precipitosamente le scale, poi si fermò di colpo sulla soglia dell’edificio. Sentì il vento freddo richiamare il sangue sotto la sua pelle. Il cortile era inondato di sole. Ad Anna parve che quel chiarore estivo, senza calore e senza foglie sugli alberi, fosse stato congelato per meglio conservarlo.

Dall’altra parte del cortile, Nicolas, l’autista, la scorse e uscì dalla berlina per aprirle la portiera. Anna gli fece segno di no con la testa. Con la mano tremante, cercò nella borsa una sigaretta, l’accese, poi assaporò il gusto acre che le riempiva la gola.

L’istituto Henri-Becquerel raggruppava diversi edifici di quattro piani, che inquadravano un giardino punteggiato di alberi e di cespugli fitti. Sulle facciate smorte, grigie o rosa, erano affissi avvertimenti minacciosi: VIETATO ENTRARE SENZA AUTORIZZAZIONE; STRETTAMENTE RISERVATO AL PERSONALE MEDICO; ATTENZIONE PERICOLO.

Anche i più piccoli dettagli le sembravano ostili in quel fottuto ospedale.

Aspirò ancora una boccata di sigaretta, a pieni polmoni; il gusto del tabacco bruciato la calmò, come se in quel minuscolo braciere avesse gettato tutta la sua collera. Chiuse le palpebre, sprofondando nello stordimento del profumo.

Dei passi dietro di lei.

Laurent la oltrepassò senza degnarla di uno sguardo, attraversò il cortile poi aprì la portiera posteriore dell’auto. Si mise ad aspettarla, battendo sull’asfalto il tacco del mocassino lucidato, il viso contratto. Anna gettò la sua Marlboro e lo raggiunse. Si lasciò scivolare sul sedile in pelle. Laurent fece il giro della vettura e si sedette al suo fianco. Finita questa manovra silenziosa, l’autista partì e scese la rampa del parcheggio con una lentezza da vascello spaziale.

Davanti alla sbarra bianca e rossa dell’ingresso c’erano diversi soldati che montavano la guardia.

«Vado a recuperare il mio passaporto», disse Laurent. Anna si guardò le mani: tremavano ancora. Trasse dalla borsa un astuccio per la cipria e si osservò nello specchio ovale. Sembrava quasi che si attendesse di scoprire dei segni sulla sua pelle, come se lo sconvolgimento interiore avesse avuto la violenza di un pugno. E invece no, aveva lo stesso viso liscio e regolare di sempre, lo stesso pallore di neve, inquadrato da capelli neri tagliati alla Cleopatra; gli stessi occhi un po’ a mandorla, blu scuro, le cui palpebre si abbassavano lentamente, con la pigrizia di un gatto.

Scorse Laurent che tornava, piegato nel vento, con il bavero del cappotto alzato. E a un tratto sentì il calore di un’onda. Il desiderio. Lo guardò ancora: il suoi riccioli biondi, gli occhi sporgenti, quella preoccupazione che gli corrugava la fronte… Con mano incerta si premette contro il corpo le falde del cappotto. Un gesto da bambino timoroso, cauto, che mal si conciliava con la sua potenza di alto funzionario. Come quando ordinava un cocktail e descriveva pizzico per pizzico le dosi che desiderava. O come quando, le spalle alzate, metteva le mani giunte in mezzo alle gambe per manifestare il freddo o l’imbarazzo. Era quella fragilità che l’aveva sedotta; quelle piccole incrinature, quelle debolezze che contrastavano con il suo reale potere. Ma chi amava ancora in lui? Di cosa si ricordava?

Laurent si sedette di nuovo al suo fianco. La barra si alzò. Al passaggio, egli rivolse un saluto ostentato agli uomini armati. Questo gesto rispettoso irritò nuovamente Anna. Il suo desiderio svanì e domandò con durezza:

«Perché tutti questi sbirri?»

«Militari», rettificò Laurent. «Sono dei militari.»

La macchina si immise nel traffico. Piazza Generale Leclerc, a Orsay, era minuscola e ordinata con cura. Una chiesa, un municipio, un negozio di fiori: ogni elemento si stagliava nettamente.

«Perché quei militari?» insistette lei.

Laurent rispose con un tono distratto:

«È per via dell’Ossigeno-15.»

«Di cosa?»

Lui non la guardava, le sue dita tamburellavano sul vetro.

«L’Ossigeno-15. Il tracciante che ti hanno iniettato nel sangue per l’esame. È un prodotto radioattivo.»

«Fantastico.»

Laurent si girò verso di lei; la sua espressione si sforzava di essere rassicurante, ma le sue pupille tradivano l’irritazione:

«Non è pericoloso.»

«Ed è perché non è pericoloso che ci sono tutte queste guardie?»

«Non fare la scema. In Francia tutte le operazioni che implicano l’uso di materiale nucleare sono supervisionate dal CEA, il Commissariato per l’Energia Atomica. E chi dice CEA dice militari, tutto qui. Eric è obbligato a lavorare con l’esercito.»

Anna si lasciò scappare un sogghigno. Laurent si irrigidì:

«Cosa c’è?»

«Niente. Ma dovevi proprio trovare l’unico ospedale di Francia dove ci sono più uniformi che camici bianchi.»

Lui alzò le spalle e si concentrò sul paesaggio. La vettura filava già sull’autostrada, sul fondo della valle della Bièvre. Foreste scure, brune e rosse; saliscendi a perdita d’occhio.

Le nuvole erano di ritorno; in lontananza, una luce bianca faticava ad aprirsi il cammino tra i vapori bassi del cielo. Poi, all’improvviso, un sole velato prese il sopravvento e infiammò il paesaggio.

Viaggiarono per più di un quarto d’ora prima che Laurent riprendesse:

«Devi avere fiducia in Eric.»

«Nessuno toccherà il mio cervello.»

«Eric sa quello che fa. È uno dei migliori neurologi d’Europa…»

«E un amico d’infanzia. Me lo hai ripetuto mille volte.»

«È una fortuna essere seguiti da lui. Tu…»

«Non sarò la sua cavia.»

«La sua cavia?» disse scandendo le sillabe. «La-sua-cavia? Ma di cosa parli?»

«Ackermann mi osserva. La mia malattia lo interessa, tutto qui. Quel tipo è un ricercatore, non un dottore.»

Laurent sospirò:

«Stai delirando. Veramente, tu sei…»

«Fuori di testa?» Anna fece calare come una cortina di ferro la sua risata senza gioia. «Non è certo uno scoop.»

Questo scoppio di lugubre allegria aumentò la collera del marito:

«E allora cosa vuoi fare? Vuoi aspettare a braccia conserte che il male guadagni terreno?»

«Nessuno ha detto che la malattia avanzerà.»

Lui si agitò sul sedile.

«È vero. Scusami. Dico delle fesserie.»

Il silenzio riempì nuovamente l’abitacolo.

Il paesaggio assomigliava sempre di più a un fuoco di erbe umide. Rossastro, cupo, attraversato da brume grigie. I boschi si stendevano contro l’orizzonte, prima indistinti, poi, man mano che la macchina si avvicinava, prendevano la forma di artigli insanguinati, di cesellature fini, di arabeschi neri…

Di tanto in tanto appariva un paese con il suo classico campanile di campagna. Poi un serbatoio dell’acquedotto, bianco, immacolato, vibrò nella luce fremente. Si stentava a credere di essere solo a qualche chilometro da Parigi.

«Vedremo.»

«Ti accompagnerò. Dedicherò il tempo che ci vorrà. Noi siamo con te, capisci?»

Il «noi» contrariò Anna: Laurent associava ancora Ackermann alla sua benevolenza. Ormai si sentiva più una paziente che una moglie.

All’improvviso, in cima alla collina di Meudon, Parigi apparve in un’esplosione di luce. Tutta la città, dispiegando i suoi tetti infiniti e bianchi, si mise a brillare come un lago gelato irto di cristalli, di brina, di zolle di neve, mentre gli edifici del quartiere della Défense sembravano alti iceberg. Tutta la città bruciava al contatto con il sole, sfavillante di luce.

Quell’abbagliamento la gettò in uno stupore muto; superarono il ponte di Sèvres, poi attraversarono Boulogne-Billancourt, senza una parola.

Quando furono nei pressi della Porte de Saint-Cloud, Laurent domandò:

«Ti lascio a casa?»

«No, al lavoro.»

«Mi avevi detto che avresti preso una giornata di ferie.»

La voce aveva assunto una sfumatura di rimprovero.

«Pensavo che sarei stata più stanca», mentì Anna. «E non voglio lasciare da sola Clothilde. Il sabato, il negozio è preso d’assalto.»

«Clothilde, il negozio…», ripeté lui con tono sarcastico.

«E allora?»

«Veramente questo lavoro… Non è alla tua altezza.»

«Alla tua, vorrai dire.»

Laurent non rispose. Forse non aveva neppure sentito l’ultima frase. Tendeva il collo per vedere cosa succedeva davanti a loro; sulla tangenziale il traffico era bloccato.

Con aria impaziente, ordinò all’autista di aprirsi un varco. Nicolas comprese il messaggio. Prese dal portaoggetti un lampeggiatore magnetico e lo piazzò sul tetto della macchina. Con un urlo di sirena, la Peugeot 607 si liberò del traffico e riprese velocità.

Nicolas non alzò più il piede dall’acceleratore. Le dita sprofondate nello schienale del sedile davanti, Laurent seguiva ogni colpo di volante, ogni scarto della macchina. Sembrava un bambino concentrato davanti a un videogioco. Anna rimaneva sempre stupita nel vedere che, malgrado i suoi studi e il suo incarico di direttore del Centro di studi e bilanci del Ministero degli interni, Laurent non aveva mai dimenticato l’eccitazione del lavoro sul campo, il fascino della strada. «Povero sbirro», pensò lei.

Porte Maillot, lasciarono la tangenziale e presero l’avenue des Ternes; l’autista spense finalmente la sirena. Anna entrava nel suo universo quotidiano. La rue du Faubourg-Saint-Honoré e i riflessi delle sue vetrine; la sala Pleyel e le sue ampie vetrate, al primo piano, dove si agitavano ballerine di fila, le arcate in mogano della boutique Mariage Frères, dove lei comprava i suoi tè rari.

Prima di aprire la portiera, Anna, riprendendo la conversazione là dove la sirena l’aveva interrotta, disse:

«Non è un semplice lavoro, lo sai. È il mio modo di restare in contatto con il mondo esterno. Per non rimanere sempre sepolta nel nostro appartamento.»

Uscì dall’auto e si sporse ancora verso di lui:

«È così, oppure è il manicomio, capisci.»

Si scambiarono un ultimo sguardo e, in un batter d’occhio, furono di nuovo alleati. Mai lei avrebbe usato la parola «amore» per indicare la loro relazione. Era una complicità, una condivisione che andava al di là del desiderio, della passione, delle fluttuazioni imposte dai giorni e dall’umore. Delle acque calme, sotterranee, che si mescolavano in profondità. Allora si comprendevano, senza bisogno di parole…

Di colpo lei ritrovò la speranza. Laurent l’avrebbe aiutata, l’avrebbe amata, l’avrebbe sostenuta. L’ombra sarebbe diventata ambra. Lui chiese:

«Passo a prenderti questa sera?»

Lei fece sì con la testa mentre lui le mandava un bacio, poi si diresse verso la Maison du Chocolat.

4.

Il campanello della porta tintinnò come se lei fosse stata una normale cliente. Bastò quella nota familiare per riconfortarla. Si era presentata per quel lavoro il mese precedente, dopo aver visto l’annuncio nella vetrina: allora lei cercava solo di distrarsi dalle sue ossessioni, ma qui aveva trovato qualcosa di meglio.

Un rifugio.

Un cerchio che confinava le sue angosce.

Le due del pomeriggio; il negozio era deserto. Clothilde doveva aver approfittato del momento di calma per recarsi nel magazzino.

Anna attraversò la sala. Il negozio assomigliava a una scatola di cioccolatini oscillante tra il bruno e l’oro. Al centro, il banco principale troneggiava come un’orchestra, con i suoi classici fondenti e al latte: cremini, baci, tris… A sinistra, il blocco di marmo della cassa ospitava gli «extra», i piccoli capricci che ci si concedeva all’ultimo istante, al momento di pagare. A destra le gelatine di frutta, le caramelle, i torroni: tante variazioni sul medesimo tema. Sopra, sugli scaffali, c’erano ancora altre dolcezze che brillavano, avviluppate nei sacchetti di carta trasparente i cui riflessi cangianti accendevano la golosità.

Anna notò che Clothilde aveva preparato la vetrina di Pasqua. Cestini intrecciati con dentro uova e galline di ogni misura; case di cioccolato dal tetto in caramello sorvegliate da maialini in pasta di mandorle; pulcini che andavano in altalena, in un cielo di narcisi di carta.

«Sei qui? Fantastico. Sono appena arrivate le scorte.»

Clothilde spuntò dal montacarichi, in fondo alla sala, azionato da una ruota e da un argano all’antica, che permetteva di tirar su le casse dal parcheggio di square du Roule. Saltò giù dalla piattaforma, scavalcò le scatole impilate e si piazzò davanti ad Anna, radiosa e affannata.

Nel giro di qualche settimana, Clothilde era diventata uno dei suoi punti di riferimento. Ventotto anni, nasino rosa, ciocche biondo-castano che scendevano a tendina davanti agli occhi. Aveva due figli, un marito che lavorava in banca, una casa col mutuo e un destino tracciato con riga e squadra. Viveva dentro una certezza di felicità che sconcertava Anna. Stare vicino a quella giovane donna era al tempo stesso rassicurante e irritante. Lei non poteva credere neppure un secondo a quel quadretto senza crepe e senza sorprese. In quel credo c’era una sorta di ostinazione, di menzogna accettata. E comunque, un tale miraggio era per lei inaccessibile: a trentun anni, Anna non aveva figli e aveva sempre vissuto nel disagio, nell’incertezza e nella paura del futuro.

«Oggi è infernale. Non ci si ferma un attimo.»

Clothilde prese un cartone e si diresse verso il retro del negozio. Anna si gettò lo scialle sulla spalla e la imitò. Il sabato l’affluenza era tale che dovevano approfittare delle minime pause per preparare nuovi vassoi.

Entrarono nel retro, un stanza cieca di dieci metri quadri. Lo spazio era già ostruito da mucchi di imballi e da fogli di carta a bolle.

Clothilde posò la scatola e spostò i capelli con un soffio, portando avanti il labbro inferiore:

«Non ti ho neppure chiesto: com’è andata?»

«Mi hanno fatto esami tutta la mattina. Il dottore ha parlato di una lesione.»

«Una lesione?»

«Una zona morta del mio cervello. La zona dove si riconoscono i volti.»

«Pazzesco. Si cura?»

Anna posò ciò che aveva in mano e ripeté meccanicamente le parole di Ackermann:

«Sì, dovrò seguire una cura. Esercizi di memoria e farmaci per spostare questa funzione in un’altra parte del mio cervello. Una parte sana.»

«Fantastico!»

Clothilde sfoggiava un sorriso smagliante, come se avesse appena ricevuto la notizia della completa guarigione di Anna. Raramente le sue espressioni erano adatte alle situazioni e tradivano spesso una profonda indifferenza. In realtà, Clothilde era impermeabile alle disgrazie altrui. La tristezza, l’angoscia, l’incertezza scivolavano su di lei come gocce d’olio su una tela cerata. Tuttavia, in quel momento, parve accorgersi della gaffe appena fatta.

Il campanello della porta le venne in soccorso.

«Vado io», disse girando i tacchi. «Siediti, torno subito.»

Anna spostò alcuni cartoni e si sedette su uno sgabello. Cominciò a disporre su di un vassoio dei Romeo, cioccolatini quadrati al caffè fresco. La stanza era satura degli effluvi stordenti del cioccolato. Alla fine della giornata, i loro vestiti, il loro stesso sudore esalavano quell’odore e la loro saliva era carica di zucchero. Si raccontava che i camerieri dei bar si ubriacassero solo respirando i vapori degli alcolici. Chissà, forse le commesse delle cioccolaterie ingrassavano per la sola vicinanza con i dolciumi.

Anna non aveva preso un grammo. In realtà, lei non prendeva mai un grammo. Mangiava come se stesse prendendo la purga e il cibo stesso sembrava diffidare di lei. I glucidi, i lipidi e le altre fibre le passavano accanto…

Mentre allineava i cioccolatini, le tornavano alla mente le parole di Ackermann. Una lesione. Una malattia. Una biopsia. No: non si sarebbe mai lasciata macellare. E soprattutto non da quel tipo, con i suoi gesti freddi e il suo sguardo da insetto.

D’altra parte, lei non credeva alla sua diagnosi.

Non poteva crederci.

Per la semplice ragione che lei gli aveva detto solo una minima parte della verità.

A partire dal mese di febbraio, le sue crisi erano state molto più frequenti di quanto non avesse confessato. Ora, le sue amnesie la coglievano in ogni momento, in qualsiasi contesto. A cena con gli amici; dal parrucchiere, nei negozi durante le compere. All’improvviso, negli ambienti più familiari, Anna si trovava circondata da sconosciuti, da visi senza nome.

La stessa natura di queste alterazioni era cambiata.

Non si trattava più solo di vuoti di memoria, di zone opache, ma anche di allucinazioni terrificanti. I volti si intorbidivano, tremavano, si deformavano sotto i suoi occhi. Le espressioni, gli sguardi si mettevano a oscillare, a fluttuare, come in fondo all’acqua.

Certe volte le erano sembrate figure di cera bollente: fondevano e sprofondavano in loro stesse, facendo smorfie demoniache. In altri casi, i lineamenti vibravano, trepidavano, fino a sovrapporsi in diverse espressioni simultanee. Un grido. Una risata. Un bacio. Tutto ciò era rinchiuso in una stessa fisionomia. Un incubo.

Per la strada, Anna camminava con gli occhi bassi. Nelle serate mondane parlava senza guardare il suo interlocutore. Diventava un essere fuggitivo, tremante, impaurito. Gli «altri» le rimandavano soltanto l’immagine della sua propria follia. Uno specchio di terrore.

Anche a proposito di Laurent lei non aveva descritto esattamente le sue sensazioni. In verità, il suo malessere non era mai completamente concluso, mai totalmente risolto dopo una crisi. Ne rimaneva sempre una traccia, una scia di paura. Come se lei non riconoscesse del tutto suo marito; come se una voce le mormorasse: «È lui, ma non è lui.»

La sua impressione profonda era che i tratti di Laurent fossero cambiati, che fossero stati modificati con un’operazione di chirurgia estetica.

Assurdo.

Questo delirio trovava un contrappunto ancora più assurdo. Se suo marito le appariva come un estraneo, un cliente del negozio risvegliava invece in lei una reminiscenza familiare, lancinante. Era certa di averlo già visto da qualche parte… Non avrebbe saputo dire né dove né quando, ma la sua memoria si accendeva alla sua presenza: un vero fremito elettrostatico. Ciononostante, la scintilla non aveva mai dato seguito a un ricordo preciso.

L’uomo veniva una o due volte la settimana e comprava sempre gli stessi cioccolatini: dei jikola, cubetti ripieni di pasta di mandorle, molto simili ai dolci orientali. D’altro canto, si esprimeva con un accento che poteva essere arabo. Aveva una quarantina d’anni ed era sempre vestito allo stesso modo: jeans e giacca di velluto consumata, abbottonata fino al collo, come un eterno studente. Anna e Clothilde l’avevano soprannominato «Signor Velluto».

Ogni giorno aspettavano la sua visita. Era la suspense e l’enigma che animava lo scorrere delle ore al negozio. Spesso si perdevano in ipotesi. L’uomo era un amico d’infanzia di Anna, o un vecchio flirt; o, al contrario, un corteggiatore furtivo che aveva scambiato con lei qualche sguardo durante un cocktail…

Anna ora sapeva che la realtà era più semplice. Quella reminiscenza non era altro che una delle allucinazioni provocate dalla sua lesione. Non doveva più soffermarsi su ciò che vedeva, su ciò che provava di fronte ai volti, perché non possedeva più un sistema coerente di riferimenti.

La porta del retro si aprì. Anna sussultò e si accorse che i cioccolatini stavano fondendosi tra le sue dita. Nell’inquadratura della porta apparve Clothilde, che da sotto le sue ciocche sussurrò: «È qui.»

Il Signor Velluto era già vicino ai jikola.

«Buongiorno», si affrettò a salutarlo Anna. «Cosa desidera?»

«Due etti, come al solito.»

Lei scivolò dietro al banco centrale, prese una pinza, un sacchetto di carta trasparente e cominciò a mettervi dentro i cioccolatini. Contemporaneamente, attraverso le ciglia abbassate, fece scorrere uno sguardo sull’uomo. Come prima cosa vide le sue scarpe, in pelle rovesciata, poi i jeans troppo lunghi, che si pieghettavano a fisarmonica, e infine la giacca di velluto, color zafferano, sulla quale l’usura disegnava vaste aree prive di coste d’un arancio lucido.

Infine si arrischiò a scrutare il suo volto.

Era una faccia rude, quadrata, incorniciata da capelli irti e castani. Era piuttosto un volto da contadino che un viso fine da studente. Le sue sopracciglia erano aggrottate in un’espressione di contrarietà o persino di collera repressa.

Tuttavia, Anna l’aveva già notato, quando le sue palpebre si aprivano, rivelavano lunghe ciglia femminili e occhi color malva dai contorni d’un nero dorato, come il dorso di un calabrone che sorvola un campo di viole scure. Dov’è che aveva già visto quello sguardo?

Posò il sacchetto sulla bilancia.

«Fa undici euro.»

L’uomo pagò, prese i cioccolatini e si girò. Un secondo dopo era già fuori.

Suo malgrado, Anna lo seguì fino alla soglia; Clothilde la raggiunse. Guardarono la sua sagoma attraversare rue du Faubourg-Saint-Honoré poi dileguarsi in una limousine nera, dai vetri scuri, con targa straniera.

Loro restarono piantate là, sullo scalino, come due statue, nella luce del sole.

«Allora?» chiese infine Clothilde. «Chi è? Continui a non saperlo?»

L’auto sparì nel traffico. A mo’ di risposta Anna mormorò:

«Hai una sigaretta?»

Clothilde tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto stropicciato di Marlboro Light. Anna inalò la sua prima boccata, ritrovando la calma del mattino, nel cortile dell’ospedale. Con un tono scettico Clothilde dichiarò:

«C’è qualcosa che non quadra nella tua storia.»

Anna si girò, il gomito in aria, la sigaretta alzata come un’arma:

«Cosa?»

«Ammettiamo che tu abbia conosciuto quel tipo e che lui sia cambiato. Okay.»

«E allora?»

Clothilde fece schioccare le labbra producendo un suono di lattina stappata:

«Perché lui non ti riconosce?»

Anna guardò le macchine sfilare sotto il cielo smorto, con le chiazze di luce che zebravano le carrozzerie. Al di là vide la facciata in legno di Mariage Frères, le vetrate fredde del ristorante La Marée e il placido guardamacchine che non smetteva di osservarla.

Le sue parole si confusero nel fumo azzurrognolo:

«Pazza. Sto diventando pazza.»

5.

Una volta la settimana Laurent cenava con i «camerati» di sempre.

Era un rituale infallibile, una sorta di cerimoniale. Quegli uomini non erano amici d’infanzia, né membri di un particolare circolo. Non condividevano alcuna passione comune. Semplicemente appartenevano alla stessa corporazione: erano sbirri. Si erano conosciuti a livelli diversi e adesso erano giunti, ciascuno nel proprio campo, in cima alla piramide.

Anna, come le altre mogli, era rigorosamente esclusa dai loro incontri; e quando la cena si svolgeva nel loro appartamento dell’avenue Hoche, lei era pregata di andare al cinema.

Tuttavia, tre settimane prima, Laurent le aveva proposto di partecipare alla riunione successiva. Dapprima lei aveva rifiutato, tanto più che suo marito aveva aggiunto, col suo tono da infermiere: «Vedrai che questo ti distrarrà.» Poi aveva cambiato idea; in fondo era curiosa di incontrare i colleghi di Laurent, di osservare altri profili di funzionali. Dopo tutto, non ne conosceva che un solo modello: il suo.

Non aveva rimpianto la decisione. Nel corso di quella serata aveva scoperto uomini duri ma appassionanti, che parlavano tra loro senza tabù né riserve. In quel gruppo si era sentita come una regina, sola donna a bordo, davanti alla quale quei poliziotti rivaleggiavano nel raccontare aneddoti, scontri a fuoco e segreti.

Dopo quella prima sera, aveva partecipato a ogni cena e aveva imparato a conoscerli meglio. A cogliere i loro tic, i loro punti di forza — e anche le loro ossessioni. Quelle cene offrivano una vera fotografia del mondo della polizia. Un mondo in bianco e nero, un universo di violenza e di certezze, al tempo stesso caricaturale e affascinante.

I partecipanti, salvo qualche eccezione, erano sempre gli stessi. Nella maggior parte dei casi, era Alain Lacroux che guidava la conversazione. Alto, magro, verticale, sulla cinquantina abbondante, sottolineava la fine di ogni frase dando un colpo con la forchetta o scuotendo il capo. Persino il suo accento meridionale contribuiva a quest’arte della finzione, del cesello. In lui, tutto cantava, ondeggiava, sorrideva — nessuno avrebbe immaginato le sue reali responsabilità: dirigeva la sottosezione degli Affari criminali di Parigi.

Pierre Carcilli era il suo opposto. Piccolo, grassoccio, oscuro, borbottava in continuazione, con una voce lenta che aveva virtù quasi ipnotiche. Era quella voce che aveva sopito le diffidenze e aveva strappato confessioni ai criminali più duri. Carcilli era corso. Occupava un posto importante alla DST, la Direzione della sorveglianza del territorio.

Jean-François Gaudemer non era né verticale né orizzontale: era una roccia compatta, massiccio, testardo. All’ombra di una fronte alta e ariosa, i suoi occhi erano d’un nero dal quale sembrava potessero nascere tempeste. Quando parlava lui, Anna tendeva sempre le orecchie. I suoi intenti erano cinici, le sue storie sconvolgenti, ma di fronte a lui si provava una sorta di riconoscenza; la sensazione ambigua che un velo si levasse scoprendo la trama nascosta del mondo. Era il capo dell’OCTRIS, l’Ufficio centrale per la repressione del traffico illecito di stupefacenti. L’uomo della droga in Francia.

Ma il preferito di Anna era Philippe Charlier. Un colosso di un metro e novanta, strizzato nei suoi vestiti firmati. Soprannominato dai colleghi «il Gigante Verde», aveva una faccia da pugile, larga come una pietra, bordata da baffi e da capelli sale e pepe. Parlava troppo forte, rideva come un motore a scoppio e, prendendolo per la spalla, costringeva il suo interlocutore ad ascoltare le sue barzellette.

Per capirlo serviva un vero repertorio di metafore salaci. Diceva «un osso nelle mutande» al posto di «erezione», parlava dei suoi capelli crespi chiamandoli «peli dei coglioni» e quando raccontava le sue vacanze a Bangkok sintetizzava: «Portarsi la moglie in Thailandia è come portarsi la birra da casa per andare a Monaco.»

Anna lo trovava volgare, inquietante, ma irresistibile. Emanava una potenza bestiale, qualcosa di intensamente «sbirro». Era difficile immaginarlo in un posto diverso da un ufficio mal illuminato a strappare confessioni ai sospetti. O sul campo, a dirigere uomini armati di fucili d’assalto.

Laurent le aveva rivelato che, nel corso della sua carriera, Charlier aveva ammazzato a sangue freddo almeno cinque uomini. Il suo terreno di manovra era il terrorismo. DST, DGSE, DNAT: indipendentemente dalla sigla sotto la quale si era battuto, egli aveva sempre condotto la stessa guerra. Venticinque anni di operazioni clandestine, di atti di forza. Quando Anna chiedeva maggiori dettagli, Laurent respingeva la domanda con un gesto: «Sarebbe soltanto la punta dell’iceberg.»

Quella sera, la cena si svolgeva proprio da lui, in avenue de Breteuil. Un appartamento haussmaniano, dai parquet lucidati, pieno di oggetti coloniali. Per curiosità, Anna aveva sbirciato nelle stanze accessibili: nessuna traccia d’una presenza femminile; Charlier era uno scapolo convinto.

Erano le ventitré. I commensali erano allungati in una posizione rilassata da fine pasto, nell’alone di fumo dei sigari.

In quel marzo 2002, qualche settimana prima delle elezioni presidenziali, ognuno avanzava previsioni e ipotesi, immaginando i cambiamenti che sarebbero intervenuti in seno al Ministero degli interni a seconda del candidato eletto. Sembravano tutti pronti per una battaglia più grande, senza essere certi di parteciparvi.

Philippe Charlier, seduto vicino ad Anna, le disse sottovoce:

«Quanto rompono con le loro storie da sbirri! La sai quella dello svizzero?»

Anna sorrise:

«Me l’hai raccontata sabato scorso.»

«E quella delle tre ragazze che si confessano?»

«No.»

«Ci sono tre ragazze che vanno a confessarsi. La prima dice al prete: “Padre, ho peccato, ho visto il sesso del mio fidanzato.” “Vai all’acquasantiera e lavati gli occhi con l’acqua santa”, le dice il prete. Entra nel confessionale la seconda e dice: “Padre, ho peccato, ho toccato il sesso del mio fidanzato.” “Vai all’acquasantiera e lavati le mani con l’acqua santa.” Mentre le prime due sono lì che fanno le sacre abluzioni, la terza inizia a confessarsi, ma dopo un attimo la vedono arrivare di corsa vicino all’acquasantiera: “Largo, largo ragazze, devo fare i gargarismi!”»

Ci impiegò un attimo a capirla, poi scoppiò a ridere. Le barzellette del poliziotto non superavano mai l’altezza delle mutande, ma avevano il merito di essere inedite. Rideva ancora quando il viso di Charlier si confuse. Di colpo i suoi tratti persero definizione; la sua faccia ondeggiò letteralmente.

Anna distolse gli occhi e li posò sugli altri invitati. Anche i loro tratti tremavano, si storcevano, formavano un’onda di espressioni contraddittorie, mostruose, mescolando le carni, le risate, le urla…

Fu scossa da uno spasmo. Si mise a respirare a bocca aperta.

«Qualcosa non va?» si preoccupò Charlier.

«Ho… Ho caldo. Vado a rinfrescarmi.»

«Vuoi che ti indichi?…»

Lei posò la mano sulla sua spalla e si alzò:

«No, grazie, faccio da sola. Ora va meglio.»

Camminò rasente il muro, appoggiandosi sullo spigolo del camino, urtando un carrello e provocando un’onda di tintinnii…

Passata la soglia, lanciò uno sguardo dietro di sé: il mare di maschere era ancora là. Una sarabanda di grida, di rughe in fusione, di carni tormentate che spuntavano dalla massa per inseguirla. Superò la porta trattenendo un urlo.

L’ingresso non era illuminato. I cappotti appesi disegnavano forme inquietanti, le porte socchiuse rivelavano raggi d’oscurità. Anna si fermò davanti a uno specchio incorniciato d’oro antico. Contemplò la sua immagine: un pallore da carta velina, una fosforescenza da spettro. Si afferrò le spalle che tremavano sotto la maglia di lana nera.

All’improvviso, nello specchio apparve un uomo dietro di lei.

Non lo conosce; non era alla cena. Si gira per vederlo in faccia. Chi è? Da dove è arrivato? Il suo aspetto è minaccioso; qualcosa di distorto, di sfigurato si posa sul suo viso. Le sue mani brillano nell’ombra come due armi bianche…

Anna indietreggia. Sprofonda in mezzo ai cappotti appesi. L’uomo avanza. Lei sente gli altri che parlano nella stanza vicina; vorrebbe gridare, ma la sua gola è come tappezzata di cotone in fiamme. Il viso è ormai a qualche centimetro da lei. Un’immagine nello specchio le attraversa gli occhi, un segnale d’oro offusca le sue pupille…

«Vuoi che ce ne andiamo?»

Anna soffocò un gemito: era la voce di Laurent. Immediatamente, il viso ritrovò il suo aspetto familiare. Sentì due mani che la sostenevano e capì che era svenuta.

«Santo cielo», chiese Laurent, «cos’hai?»

«Il mio cappotto. Dammi il mio cappotto», ordinò lei liberandosi dalle sue braccia.

Il malessere non svaniva. Non riusciva a riconoscere del tutto suo marito. Era ancora convinta di una cosa: sì, quei tratti erano trasformati, era un viso modificato, che celava un segreto, una zona opaca…

Laurent le porse il suo montgomery. Tremava. Certo, aveva paura per lei, ma anche per sé. Temeva che i suoi compagni afferrassero la situazione: uno dei più alti responsabili del Ministero degli interni aveva una moglie matta.

Lei si infilò nel cappotto e assaporò il contatto con la fodera. Avrebbe voluto fuggire, sparire per sempre…

Nel salone risuonavano scoppi di risa.

«Vado a salutarli anche per te.»

Sentì dei toni di rimprovero, poi nuove risate. Anna lanciò un’ultima occhiata allo specchio. Un giorno, ben presto, di fronte a quell’immagine si sarebbe domandata: «Chi è?»

Laurent riapparve. Lei mormorò:

«Portami via. Voglio rientrare. Voglio dormire.»

6.

Ma il male la inseguiva anche nel sonno.

Da quando erano cominciate le crisi, Anna faceva sempre lo stesso sogno. Immagini in bianco e nero che sfilavano a un ritmo incerto, come in un film muto.

Ogni volta era la stessa scena: dei contadini dall’aria affamata attendevano, di notte, sul marciapiede di una stazione; arrivava un treno merci, in una nuvola di vapore. Si apriva una paratia. Appariva un uomo, pettinato a caschetto, e si sporgeva per prendere una bandiera che qualcuno gli porgeva; lo stendardo recava un segno strano: quattro lune disposte in forma di rosa dei venti.

L’uomo si raddrizzava, alzando le sopracciglia nerissime. Arringava la folla, faceva sventolare la banderuola nell’aria, ma le sue parole non si sentivano. Al loro posto si levava una sorta di trama sonora: un mormorio atroce, composto di sospiri e di singhiozzi di bambini.

Il mormorio di Anna si mescolava allora a quel coro di lamenti strazianti. Rivolgendosi a quelle giovani voci, chiedeva: «Dove siete?», «Perché piangete?»

Come risposta, il vento spazzava il marciapiede della stazione. Le quattro lune, sulla bandiera, si mettevano a splendere come fosforo. La scena piombava nell’incubo più assoluto. Il mantello dell’uomo si dischiudeva, rivelando una cassa toracica nuda, aperta, svuotata; poi una burrasca sbriciolava il suo volto. La pelle si sgretolava, come cenere, a partire dalle orecchie, scoprendo muscoli neri e sporgenti…

Anna si svegliò di soprassalto.

Gli occhi aperti nell’oscurità, non riconobbe niente. Né la camera. Né il letto. Né il corpo che dormiva al suo fianco. Le ci volle qualche secondo per familiarizzarsi con quelle forme estranee. Appoggiò la schiena al muro e s’asciugò il viso, coperto di sudore.

Perché quel sogno tornava ancora? Che rapporto aveva con la sua malattia? Era certa che si trattasse di un’altra faccia del male; un’eco misteriosa, un contrappunto inspiegabile alla sua degenerazione mentale. Nel buio chiamò:

«Laurent?»

La schiena girata, suo marito non si mosse. Anna lo prese per la spalla:

«Laurent, dormi?»

«Non più, adesso.»

«Posso… posso farti una domanda?»

Lui si sollevò a metà e sprofondò la testa nel cuscino:

«Ti ascolto.»

Anna abbassò la voce, i singhiozzi del sogno le risuonavano ancora in mente:

«Perché…» esitò, «perché non abbiamo figli?»

Per un attimo non si mosse niente. Poi Laurent scostò le lenzuola e si sedette sul bordo del letto, voltandole di nuovo la schiena. Di colpo il silenzio sembrava carico di tensione, di ostilità.

Si sfregò la faccia e poi disse:

«Dobbiamo tornare da Ackermann.»

«Cosa?»

«Gli telefonerò. Prenderemo un appuntamento all’ospedale.»

«Perché dici così?»

Da sopra la spalla buttò là:

«Hai mentito. Ci hai raccontato che non soffrivi di disturbi della memoria. Che c’era solo quel problema con i volti.»

Anna capì di aver fatto una gaffe. Di Laurent vedeva soltanto la nuca, i suoi vaghi riccioli, la sua schiena stretta, ma indovinava il suo abbattimento e anche la sua collera.

«Cosa ho detto?» arrischiò lei.

Laurent ruotò di qualche grado:

«Tu non hai mai voluto figli. Era la condizione che hai posto per sposarmi.» Alzò la voce, levando la mano sinistra. «La sera stessa del nostro matrimonio mi hai fatto giurare che non ti avrei mai chiesto quello. Sei fuori di testa, Anna. Bisogna reagire. Bisogna fare quegli esami. Capire cosa sta succedendo. Dobbiamo fermare tutto questo! Merda!»

Anna si raggomitolò all’altro capo del letto:

«Dammi ancora qualche giorno. Ci deve essere un’altra soluzione.»

«Quale soluzione?»

«Non so. Qualche giorno. Per favore.»

Lui si allungò di nuovo e ficcò la testa sotto le lenzuola:

«Chiamerò Ackermann mercoledì prossimo.»

Inutile ringraziarlo: Anna non sapeva neppure perché gli aveva chiesto un rinvio. A cosa serviva negare l’evidenza? Il male si stava impossessando, neurone dopo neurone, di ogni regione del suo cervello.

Scivolò sotto le coperte, ma a una buona distanza da Laurent, e rifletté su quell’enigma dei figli. Perché aveva chiesto un tale giuramento? Quali erano le sue motivazioni all’epoca? Non aveva nessuna risposta. La sua stessa personalità le stava diventando estranea.

Risalì fino al suo matrimonio. Era stato otto anni prima. Allora lei aveva ventitré anni. Di che cosa si ricordava veramente?

Un castello a Saint-Paul-de-Vence, delle palme, delle distese d’erba ingiallite dal sole, delle risate di bambini. Chiuse gli occhi, cercando di ritrovare le sensazioni. Un girotondo si allungava come un’ombra cinese sulla superficie di un prato. Insieme vedeva delle trecce di fiori, delle mani bianche…

All’improvviso, una sciarpa di tulle ondeggiò nella sua memoria; il tessuto svolazzò davanti ai suoi occhi, disturbando il girotondo, smorzando il verde dell’erba, intercettando la luce con i suoi movimenti bizzarri.

La stoffa si avvicinò, al punto che poteva sentirne la trama sul viso, poi si arrotolò intorno alle sue labbra. Anna aprì la bocca in una risata, ma le maglie le sprofondarono in gola. Respirò, e il velo le si incollò violentemente al palato. Non era più tulle: era garza.

Garza chirurgica, che la asfissiava.

Urlò nella notte; il suo grido non produsse alcun suono. Aprì gli occhi: si era addormentata. La sua bocca era schiacciata contro il cuscino.

Quando sarebbe finito tutto ciò? Si tirò su e sentì ancora il sudore sulla pelle. Era quello il velo vischioso che aveva provocato la sensazione di soffocamento.

Sì alzò dal letto e si diresse verso il bagno adiacente alla stanza. A tastoni trovò la maniglia e richiuse la porta prima di accendere la luce. Premette l’interruttore poi si girò verso lo specchio sopra il lavabo.

La sua faccia era coperta di sangue.

Strisce rosse sulle fronte; croste nascoste sotto gli occhi, vicino alle narici, intorno alle labbra. All’inizio credette di essersi ferita. Poi si avvicinò allo specchio: era solo sangue dal naso. Cercando di asciugarsi nel buio si era impiastricciata col suo stesso sangue. La sua maglietta ne era intrisa.

Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e tese la mano, inondando il lavandino con un turbine rosastro. Fu posseduta da un’idea: quel sangue rappresentava una verità che tentava di strapparsi dalle sue carni. Un segreto che la sua coscienza rifiutava di riconoscere, di formalizzare, e che fuggiva dal suo corpo in forma di fluidi organici.

Ficcò la faccia sotto quel getto di freschezza, mescolando singhiozzi e trecce traslucide. Nello scrosciare dell’acqua non cessava di mormorare:

«Ma cos’è che ho? Cosa?»