174213.fb2 Limpero dei lupi - читать онлайн бесплатно полную версию книги . Страница 7

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SEI

33.

La bocca impastata di incubi.

Tutta la notte, Paul Nerteaux aveva sognato un mostro di pietra, un titano malefico che percorreva in lungo e in largo il decimo arrondissement; un Moloch che terrorizzava il quartiere turco ed esigeva vittime sacrificali.

Nel suo sogno, il mostro portava una maschera mezza umana e mezza animale, d’origine greca e persiana al tempo stesso. Le sue labbra minerali erano al calor bianco, il suo sesso armato di lame. Ogni suo passo provocava un tremito che sollevava la polvere e fessurava gli edifici.

Aveva finito per svegliarsi alle tre del mattino, coperto di sudore. Tremando, nel suo piccolo appartamento di tre stanze, si era fatto un caffè e si era immerso nei nuovi documenti archeologici che i ragazzi della Brigata anticrimine gli avevano portato la sera precedente.

Fino all’alba, aveva sfogliato i cataloghi dei musei, i depliant turistici, i libri scientifici, osservando nei dettagli ogni scultura, comparandola con le foto delle autopsie e, inconsciamente, con la maschera del suo sogno. Sarcofagi di Antalia. Affreschi della Cilicia. Bassorilievi di Karatepe. Busti di Efeso…

Aveva attraversato le età, le civiltà, senza ottenere il minimo risultato.

Paul Nerteaux entrò nella brasserie Les Trois Obus, alla Porte de Saint-Cloud. Affrontò gli odori del caffè e del tabacco, sforzandosi di sigillare i propri sensi e di reprimere la nausea.

Il suo umore da cane bastonato non era dovuto solo ai suoi incubi. Era mercoledì e, come quasi ogni mercoledì, aveva dovuto chiamare Reyna di primo mattino per annunciarle che non avrebbe potuto occuparsi di Céline.

Vide Jean-Louis Schiffer, in piedi all’estremità del banco. Rasato di fresco, avvolto in un impermeabile Burberry’s, l’uomo aveva ripreso le forze. Inzuppava con sussiego un croissant nel suo caffè macchiato.

Vedendo Paul fece un gran sorriso:

«Dormito bene?»

«Splendidamente.»

Schiffer notò che sembrava uno straccio, ma si astenne da ogni commento.

«Caffè?»

Paul accettò. Immediatamente comparve sul banco un concentrato nero orlato di marrone. Il Cifra prese la tazza e indicò un tavolo vuoto, vicino alla vetrina.

«Vieni a sederti. Non sembri molto in te.»

Una volta seduto, gli porse il cestino dei croissant. Paul rifiutò. All’idea di inghiottire qualcosa, sentì dei morsi acidi risalirgli il corpo fino al petto. Ma era costretto a riconoscere che Schiffer, quel mattino, giocava il ruolo «dell’amico». A sua volta domandò:

«E lei, ha dormito bene?»

«Come un sasso.»

Paul rivide le dita tranciate, la taglierina insanguinata. Dopo il massacro, aveva riaccompagnato il Cifra fino alla Porte de Saint-Cloud, dove aveva un appartamento in rue Gudin. Da allora c’era una questione che lo rodeva:

«Se ha quell’appartamento», disse indicando di là dai vetri la piazza grigia, «che cosa ci fa a Longères?»

«Lo spirito gregario. Il gusto della sbirraglia. Da solo mi rompevo troppo.»

La spiegazione suonava un po’ falsa. Paul si ricordò che alla casa di riposo Schiffer era registrato sotto falso nome, il nome da ragazza di sua madre. La dritta gliel’aveva data un tipo dell’Ispettorato generale dei servizi. Un enigma in più. Si nascondeva, ma da chi?

«Tira fuori le schede», ordinò il Cifra.

Paul aprì il suo dossier e posò i documenti sul tavolo. Non erano gli originali. Era passato dall’ufficio, molto presto, e li aveva fotocopiati. Armato del suo dizionario di turco, aveva studiato ogni scheda. Era arrivato a capire il patronimico delle vittime e le principali informazioni che le concernevano.

La prima si chiamava Zeynep Tütengil. Lavorava in un laboratorio vicino all’hammam La Porte Bleu che apparteneva a un certo Talat Gurdilek. Ventisette anni. Sposata con Burba Tütengil. Senza figli. Domiciliata al numero 34 di rue de la Fidélité. Originaria di un villaggio dal nome impronunciabile, vicino alla città di Gaziantep, nel sud-est della Turchia. Abitava a Parigi dal settembre 2001.

La seconda si chiamava Ruya Berkes. Ventisette anni. Celibe. Lavorava a domicilio, in rue d’Enghien 58, per conto di Gozar Halman, un nome che Paul aveva visto spesso nei verbali: un negriero specializzato in pelli e pellicce. Ruya Berkes veniva da una grande città, Adana, nella Turchia del Sud. Viveva a Parigi soltanto da otto mesi.

La terza era Roukiyé Tanyol. Trent’anni. Nubile. Operaia nella fabbrica di confezioni Sürelik, con sede nel Passage de l’Industrie. Sbarcata a Parigi nell’agosto precedente. Nessun parente nella capitale. Viveva in incognito in un convitto femminile al 22 di rue des Petites-Ecuries. Come la prima vittima era nata nella provincia di Gaziantep.

Quelle informazioni non consentivano alcun controllo incrociato. Nessun punto in comune per stabilire, ad esempio, come l’assassino scovasse o avvicinasse le sue vittime. Ma soprattutto, quelle informazioni non davano alcun spessore, alcuna presenza a quelle donne. I nomi turchi non facevano altro che rafforzare il loro carattere indecifrabile. Per convincersi della loro reale esistenza, Paul aveva dovuto tornare ai ritratti fatti con la polaroid, lineamenti larghi, dai contorni lisci, che lasciavano indovinare corpi dalle rotondità generose. Aveva letto da qualche parte che i canoni di bellezza turchi corrispondevano a quelle forme, a quelle facce da luna piena…

Schiffer, con gli occhiali sul naso, aveva ripreso a studiare i dati. Paul, ancora in preda alla nausea, esitava a bere il suo caffè. Gli montavano alla testa il brusio delle voci e i tintinnii di vetro e di metallo. A rintronarlo erano soprattutto le parole degli ubriachi attaccati al banco. Non poteva sopportare quei tipi che morivano in piedi bevendo bicchiere dopo bicchiere…

Quante volte era andato a cercare i suoi genitori, insieme o separatamente, all’ombra di quei bar? Quante volte li aveva tirati su dalla schifezza di segatura e mozziconi, mentre lui stesso avrebbe voluto vomitar loro addosso?

Il Cifra si tolse gli occhiali e concluse:

«Cominciamo dal terzo laboratorio. La vittima più recente. È il modo migliore per raccogliere i ricordi più freschi. Dopo passeremo alle case, ai vicini, agli itinerari. Le avrà pur beccate da qualche parte, e nessuno è invisibile.»

Paul mandò giù il caffè in un colpo. Sentendo montare la bile, disse:

«Schiffer, glielo ripeto: al minimo casino…»

«Non rompere. Ho capito. Ma stamattina cambiamo metodo.»

Agitò le dita come se tirasse i fili di un burattino:

«Lavoriamo in maniera morbida.»

Filarono lungo la strada a grande scorrimento, il lampeggiatore in azione. Il grigio della Senna, sommato al granito del cielo e degli argini, tesseva un universo liscio e atono. A Paul piaceva quel tempo che faceva schiantare di noia e di tristezza. Un ostacolo in più da superare con la sua ferrea volontà di sbirro.

Per strada, ascoltò i messaggi sulla segreteria del suo telefonino. Il giudice Bomarzo voleva delle notizie. La voce era tesa. Concedeva a Paul ancora due giorni prima di mettere sottosopra la Brigata criminale e scegliere nuovi investigatori. Naubrel e Matkowska continuavano le loro ricerche. Avevano passato la giornata precedente dai «tubisti», quelli che scavano nelle profondità del suolo parigino, per poi sottoporsi alla decompressione nelle camere iperbariche. Avevano interrogato senza risultati i responsabili di otto società differenti. Si erano anche recati presso il principale costruttore di quelle camere iperbariche, ad Arcueil. Secondo il proprietario, l’idea di una cabina di pressurizzazione azionata da qualcuno privo di un’idonea preparazione era un’autentica assurdità. Significava che l’assassino aveva conoscenze di quel tipo o, al contrario, che erano su una strada sbagliata? Quelli della polizia giudiziaria proseguivano le loro indagini in altri campi dell’industria.

Arrivato in place du Châtelet, Paul scorse una macchina di pattuglia che si immetteva sul boulevard de Sébastopol. La raggiunse all’altezza di rue des Lombards e fece segno all’autista di fermarsi.

«Solo un minuto», disse a Schiffer.

Prese nel portaoggetti i Kinder Sorpresa e i Twix che aveva comprato un’ora prima. Nella fretta, il sacchetto di carta si ruppe rovesciando il contenuto. Paul raccolse le merendine e uscì dalla macchina, rosso di vergogna.

I poliziotti in uniforme si erano fermati e aspettavano vicino alla loro auto, con i pollici infilati nella cintura. Paul spiegò loro in fretta ciò che dovevano fare, poi girò i tacchi. Quando si sedette dietro al volante, il Cifra aveva in mano un Twix:

«Mercoledì, il giorno dei bambini.»

Paul partì, senza rispondere.

«Anch’io utilizzavo gli agenti di pattuglia come corrieri. Per portare regali alle mie amichette…»

«Alle sue “impiegate” vorrà dire.»

«È così, ragazzo. È così…»

Schiffer scartò la barra di caramello e se la ficcò in bocca:

«Quanti figli hai?»

«Ho una figlia.»

«Quanti anni?»

«Sette.»

«Come si chiama?»

«Céline.»

«Piuttosto snob per essere la figlia di uno sbirro.»

Paul era d’accordo. Non aveva mai capito perché Reyna, marxista alla ricerca dell’assoluto, aveva dato alla loro figlia quel nome chic.

Schiffer masticava con grandi colpi di mandibole:

«E la madre?»

«Siamo divorziati.»

Paul superò con il semaforo rosso la rue Réaumur.

Il suo fallimento coniugale era l’ultimo degli argomenti che voleva affrontare con Schiffer. Scorse con sollievo l’insegna rossa e gialla del McDonald’s che segnava l’inizio del boulevard de Strasbourg.

Accelerò ancora, senza dare all’altro il tempo di fargli una nuova domanda.

Stavano entrando nel loro territorio di caccia.

34.

Alle dieci del mattino, rue du Faubourg-Saint-Denis sembrava un campo di battaglia nel pieno del fuoco. La carreggiata e i marciapiedi si confondevano in un solo, frenetico torrente di passanti che si infilavano in un labirinto di veicoli bloccati e ruggenti. Il tutto sotto un cielo senza colore, teso come un telo gonfio d’acqua e pronto a lacerarsi da un momento all’altro.

Paul preferì parcheggiare all’angolo di rue des Petites-Ecuries e seguì Schiffer che già si stava aprendo un varco tra gli scatoloni trasportati sulle schiene, i fasci di abiti e i carichi oscillanti sui carretti. Presero il passage de l’Industrie e si ritrovarono sotto una volta di pietra che dava su un vicolo.

La fabbrica Sürelik era un blocco di mattoni sostenuto da un’ossatura in ferro rivettato. Sulla facciata si vedevano archi e fregi in terracotta lavorata. L’edificio, rosso vivo, traspirava una sorta d’entusiasmo, una fede gioiosa nell’avvenire industriale, come se tra quelle mura fosse appena stato inventato il motore a scoppio.

A qualche metro dalla porta, Paul prese brutalmente Schiffer per i risvolti dell’impermeabile e lo spinse sotto un’arcata, iniziando una perquisizione in piena regola, in cerca di un’arma.

Il vecchio poliziotto espresse il proprio disappunto:

«Perdi tempo, ragazzo mio. Ho detto che lavoriamo in maniera morbida.»

Paul si rialzò, senza una parola, e si diresse verso la fabbrica.

Spinsero insieme la porta di ferro ed entrarono in un grande spazio quadrato, dai muri bianchi e dal pavimento in cemento verniciato. Ogni cosa era pulita, scintillante. Le strutture di metallo verde pallido, punteggiate di rivetti bombati, rafforzavano l’impressione di solidità dell’insieme. Grandi finestre distribuivano raggi di luce obliqui, mentre le passerelle lungo i muri ricordavano i ponti di un transatlantico.

Paul si era atteso un tugurio e invece scopriva un loft da artista. Una quarantina di operai, tutti uomini, lavoravano a una certa distanza gli uni dagli altri, dietro le loro macchine da cucire, circondati da stoffe e scatole aperte. Con i loro camici, sembravano agenti del reparto trasmissioni che inviassero piani criptati durante la guerra; un radioregistratore diffondeva musica turca, mentre su un fornello crepitava una caffettiera.

Schiffer batté il tallone a terra:

«Quello che immagini è la sotto. Nelle cantine. Centinaia di operai, stretti come sardine. Tutti clandestini. Questa è solo la vetrina.»

Guidò Paul tra i banchi, passando tra i lavoranti che si sforzavano di non guardare.

«Non sono carini? Operai modello, ragazzo mio. Obbedienti. Disciplinati.»

«Perché quel tono ironico?»

«I turchi non sono dei lavoratori, sono degli approfittatori. Non sono obbedienti, sono indifferenti. Non sono disciplinati, seguono le loro regole. Dei cazzo di vampiri, hai capito? Predatori che non si prendono neanche la briga di imparare la nostra lingua… Perché dovrebbero farlo? Sono qui per guadagnare il massimo e poi battersela il più in fretta possibile. Il loro motto è: “Prendere tutto, lasciare niente”.»

Schiffer afferrò il braccio di Paul:

«È una lebbra, figlio mio.»

Paul lo respinse violentemente:

«Non mi chiami mai più così.»

L’altro alzò le mani come se Paul lo avesse minacciato con un’arma; il suo era uno sguardo di scherno. Paul ebbe voglia di strappargli dal volto quell’espressione, ma alle loro spalle risuonò una voce:

«Cosa posso fare per voi, signori?»

Un uomo tarchiato, con un camice blu impeccabile, avanzava verso di loro; sotto i baffi un sorriso untuoso.

«Signor ispettore!» disse con un tono sorpreso. «Quanto tempo non abbiamo più il piacere di vederla?»

Schiffer scoppiò a ridere. La musica era cessata. L’attività delle macchine si era fermata. Attorno a loro regnava un silenzio di morte.

«Non mi chiami più Schiffer? Non mi dai più del tu?»

In risposta alle sue parole, il capo officina rivolse uno sguardo diffidente a Paul.

«Paul Nerteaux», riprese il poliziotto. «Capitano alla Prima divisione di polizia giudiziaria. Il mio diretto superiore, ma prima di tutto un amico.»

Con aria beffarda, diede una pacca sulla schiena di Paul.

«Parlare davanti a lui è come parlare davanti a me.»

Poi avanzò verso il turco e gli circondò le spalle con il braccio. Il balletto era regolato fin nei minimi movimenti:

«Ahmid Zoltanoï», disse rivolto a Paul, «il miglior capo officina della Piccola Turchia. Rigido come il suo camice, ma un brav’uomo quando serve. Qui lo chiamano Tanoï.»

Il turco si piegò in un inchino. Da sotto le sue sopracciglia di carbone sembrava giudicare il nuovo venuto. Amico o nemico? Tornò a Schiffer, con il suo tono viscido:

«Mi avevano detto che era andato in pensione.»

«Causa di forza maggiore. Quando c’è un’urgenza chi chiamano? Lo zio Schiffer.»

«Quale urgenza, signor ispettore?»

Il Cifra spazzò dei pezzi di stoffa da un tavolo di taglio e vi posò la foto di Roukiyé Tanyol.

L’uomo si piegò, con le mani in tasca e i pollici fuori, come cani di un revolver. Pareva tenersi in equilibrio sulle pieghe inamidate del suo camice.

«Mai vista.»

Schiffer girò la polaroid. Sul bordo bianco si poteva leggere distintamente il nome della vittima e l’indirizzo dei laboratori Sürelik scritti con il pennarello indelebile.

«Marius ci è già passato. E ci passerete tutti, credimi.»

Il turco si scompose. Prese la foto controvoglia, mise gli occhiali e si concentrò:

«In effetti, mi dice qualcosa.»

«Ti dice parecchio. È qui dall’agosto 2001. Giusto?»

Tanoï posò la fotografia con precauzione.

«Sì.»

«Che lavoro faceva?»

«Operaia delle confezioni.»

«L’avevi sistemata in basso?»

Il capo officina inarcò le sopracciglia e si aggiustò gli occhiali. Dietro, gli operai avevano ripreso il lavoro. Sembravano aver capito che i poliziotti non erano lì per loro e che solo il capoccia aveva dei problemi.

«In basso?» ripeté.

«Nelle cantine», si irritò Schiffer. «Svegliati Tanoï. Altrimenti mi arrabbio veramente.»

Il turco oscillò leggermente sui talloni. Malgrado la sua età, somigliava ancora a uno scolaretto contrito:

«Sì, lavorava nelle officine inferiori.»

«Di dov’era originaria, Gaziantep?»

«Non esattamente Gaziantep, un villaggio vicino. Parlava un dialetto del Sud.»

«Il suo passaporto chi ce l’ha?»

«Niente passaporto.»

Schiffer sospirò e si rassegnò a quella nuova menzogna:

«Parlami della sua sparizione.»

«Non ho niente da dire. La ragazza ha lasciato il laboratorio giovedì mattina. Non è mai arrivata a casa.»

«Giovedì mattina?»

«Sì, alle sei. Lavorava di notte.»

I due poliziotti si lanciarono un’occhiata. Era vero che la donna stava rientrando dal lavoro quando era stata sorpresa, ma il tutto si era svolto all’alba. Avevano visto giusto, fatta eccezione per gli orari invertiti.

«Mi hai detto che non è mai arrivata a casa», riprese il Cifra. «Chi te l’ha detto?»

«Il suo fidanzato.»

«Non rientravano insieme?»

«Lui lavorava di giorno.»

«Dove possiamo trovarlo?»

«Da nessuna parte. È tornato al paese.»

Le risposte di Tanoï erano dure come le cuciture del suo camice.

«Non ha cercato di recuperare il corpo?»

«Non aveva documenti. Non parlava francese. È scappato con il suo dolore. Un destino da turco. Un destino d’esilio.»

«Niente sviolinate. Dove sono gli altri colleghi?»

«Quali colleghi?»

«Quelli che rientravano con lei. Voglio interrogarli.»

«Impossibile. Tutti partiti. Svaniti.»

«Perché?»

«Hanno paura.»

«Dell’assassino?»

«Di voi. Della polizia. Nessuno vuole trovarsi immischiato in quest’affare.»

Il Cifra si piantò di fronte al turco, le mani unite dietro la schiena.

«Io credo che tu sappia molte più cose di quanto tu non dica, amico mio. Allora scendiamo insieme nelle tue cantine. Forse questo ti ispirerà.»

L’altro non si muoveva. Le macchine da cucire crepitavano. La musica serpeggiava sotto l’ossatura d’acciaio. Esitò ancora qualche istante, poi si diresse verso una scala di ferro collocata sotto una delle passerelle.

I poliziotti lo seguirono. In fondo agli scalini sprofondarono in un corridoio oscuro, superarono una porta di metallo e poi presero un nuovo corridoio dal pavimento in terra battuta. Per continuare dovettero abbassarsi. Il loro percorso era segnato da lampadine nude, sospese tra le tubature del soffitto. Ai lati si aprivano due file di porte di assi numerate con il gesso. Dal fondo di quelle viscere saliva un brontolio.

A una svolta la loro guida si fermò e prese una barra di ferro nascosta dietro un vecchio divano con le molle in vista. Avanzando con passo prudente, si mise a colpire i tubi del soffitto ottenendone risonanze gravi.

All’improvviso apparvero i nemici invisibili. Topi; accalcati sopra un arco di ghisa, appostati sopra le loro teste. Paul si ricordò delle parole del medico legale: La seconda era diverso. Penso che abbia utilizzato qualcosa di… vivo.

Il capo officina bestemmiò in turco e diede un colpo con tutte le sue forze nella loro direzione; i roditori sparirono. Ora, il corridoio vibrava per tutta la sua lunghezza. Ogni porta tremava sui propri cardini. Infine Tanoï si fermò davanti al numero 34.

Con una spallata aprì la porta. Si presentò un’officina in miniatura. Una trentina di donne stavano sedute davanti a macchine da cucire che giravano a pieno regime, come impazzite per la loro stessa velocità. Chine sotto le lampade fluorescenti, le operaie spingevano pezzi di tessuto sotto gli aghi, senza prestare la minima attenzione ai visitatori.

La stanza non era più grande di venti metri quadri e non aveva alcuna ventilazione. Odore di tintura, particelle di stoffa, puzza di solventi: l’aria era così spessa che si poteva appena respirare. Alcune donne portavano il foulard sulla bocca. Altre tenevano sulle ginocchia dei neonati avvolti negli scialli. C’erano anche bambini che lavoravano, a gruppi, vicino a cumuli di tessuti, piegavano le pezze e le mettevano nelle scatole. Paul soffocava. Era come quei personaggi da film che si svegliano in piena notte e scoprono che il loro incubo è reale.

Schiffer assunse un tono da severo tutore della legge:

«Ecco il vero volto delle imprese Sürelik! Dalle dodici alle quindici ore di lavoro, migliaia di pezzi al giorno per ogni operaia. I tre turni in versione turca, con due squadre soltanto, quando non è una sola. E, bada ragazzo mio, in ogni cantina troviamo la stessa disposizione.»

Sembrava gioire della crudeltà dello spettacolo.

«Ma attenzione: tutto questo avviene con la benedizione dello Stato. Tutti chiudono gli occhi. L’industria dell’abbigliamento è fondato sullo schiavismo.»

Il turco si sforzava di assumere un’aria pentita, ma in fondo ai suoi occhi brillava una luce fiera. Paul osservò le operaie. Qualche sguardo si alzò, di rimando, ma le mani continuavano il loro traffico, come se niente e nessuno potesse ostacolare quel movimento.

A quei visi opachi sovrappose i lunghi tagli e le croste di sangue delle vittime. Come faceva l’assassino ad accedere a quelle donne sotterranee? Come aveva scoperto la loro somiglianza?

Gridando a squarciagola, il Cifra riprese l’interrogatorio:

«Quando le squadre cambiano è il momento in cui i corrieri caricano il lavoro fatto, giusto?»

«Esatto.»

«Se ci aggiungiamo le operaie che escono dalla fabbrica, dobbiamo ammettere che c’è parecchia gente in strada alle sei del mattino. Nessuno ha visto niente?»

«Glielo giuro.»

Il poliziotto si appoggiò al muro di pietre squadrate:

«Non giurare. Il tuo dio è meno clemente del mio. Hai parlato con i principali delle altre vittime?»

«No.»

«Menti, ma non è grave. Cosa sai a proposito di questa serie di omicidi?»

«Dicono che le donne sono state torturate e sfigurate. Non so altro.»

«Nessun poliziotto è venuto a farti visita?»

«No.»

«E le vostre milizie cosa fanno?»

Paul trasalì… Non aveva mai sentito parlare di quella roba. Il quartiere aveva dunque una propria polizia. Tanoï gridava per coprire il rumore delle macchine:

«Non lo so. Non hanno trovato niente.»

Schiffer indicò le operaie:

«E loro che cosa ne pensano?»

«Non osano più uscire. Hanno paura. Allah non può permettere tutto questo. Il quartiere è maledetto! Azraël, l’angelo della morte, è qui!»

Il Cifra sorrise, diede una pacca amichevole all’uomo e indicò la porta:

«Alla buon’ora. Finalmente un po’ di buona vecchia umanità…»

Uscirono nel corridoio. Paul li seguì, poi richiuse gli assi sull’inferno delle macchine. Non aveva ancora terminato quel gesto che avvertì un rantolo soffocato. Schiffer stava sbattendo Tanoï contro le tubature.

«Chi uccide le ragazze?»

«Io… io non lo so.»

«Chi state coprendo, pezzi di merda?»

Paul non intervenne. Immaginava che Schiffer non sarebbe andato più in là. Solo un ultimo sfogo di rabbia, un’ultima impennata. Tanoï, con gli occhi fuori dalla testa, non rispondeva.

Il Cifra lasciò la presa, concedendogli il tempo di riprendere fiato, mentre la luce cruda della lampadina oscillava come un pendolo ossessivo; poi mormorò:

«Adesso tu chiudi a chiave la bocca su tutto questo, Tanoï. Non una parola sulla nostra visita, a nessuno.»

Il capo officina alzò gli occhi verso Schiffer. Aveva già ritrovato la sua espressione servile.

«La mia bocca è sempre chiusa a chiave, signor ispettore.»

35.

La seconda vittima, Ruya Berkes, non lavorava in un laboratorio, ma a domicilio, in rue d’Enghien al numero 58.

Cuciva a mano fodere per pellicce che poi consegnava alla pellicceria di Gozar Halman, al 77 di rue Sainte-Cécile, una via perpendicolare all’asse del Faubourg Poissonière. Avrebbero potuto cominciare dall’appartamento dell’operaia, ma Schiffer preferiva interrogare prima il principale, che sembrava essere una sua vecchia conoscenza.

Paul guidava in silenzio, gustandosi il ritorno all’aria aperta. Ma già guardava con apprensione ai nuovi scenari. Man mano che si allontanavano dalla rue du Faubourg-Saint-Denis e dalla rue du Faubourg-Saint-Martin, vedeva le vetrine che si scurivano, appesantite da roba di color bruno morbidamente piegata. In ogni negozio, gli scampoli e i tessuti lasciavano il posto alle pellicce.

Girò a destra, in rue Sainte-Cécile.

Schiffer lo fermò: erano arrivati al 77.

Questa volta, Paul si aspettava una cloaca piena di pelli appena strappate, gabbie incrostate di sangue, odore di carne morta. E invece gli si presentò un piccolo cortile, chiaro e fiorito, il cui acciottolato sembrava appena incerato dall’umidità del mattino. I due poliziotti lo attraversarono per raggiungere, al fondo, un edificio punteggiato di finestre e di inferriate, il solo la cui facciata evocasse un sito industriale.

«Ti avviso», fece Schiffer varcando la soglia, «è folle per Tansu Ciller.»

«Chi è? Un calciatore?»

Schiffer ridacchiò. Salirono una grande scala di legno grigio.

«Tansu Ciller è l’ex primo ministro turco. Studi ad Harvard, diplomazia internazionale, Ministero degli affari esteri. Poi la direzione del governo. Un modello di successo.»

Paul assunse un tono disincantato:

«Il percorso classico di un uomo politico.»

«Solo che Tansu Ciller è una donna.»

Superarono il secondo piano. Ogni pianerottolo era vasto e scuro come una cappella. Paul osservò:

«Non deve essere comune, in Turchia, che un uomo prenda una donna come modello.»

Il Cifra scoppiò a ridere:

«Se tu non esistessi, bisognerebbe inventarti. Anche Gozar è una donna! È una teyze. Una “zia”, una madrina, in senso lato. Veglia sui suoi fratelli, sui suoi nipoti, sui suoi cugini e su tutti gli operai che lavorano per lei. Si occupa di regolarizzare la loro situazione. Manda della gente a sistemare i loro tuguri. Si incarica della spedizione dei loro pacchi e dei loro soldi. All’occorrenza, unge gli sbirri perché li lascino in pace. È una negriera, ma una negriera benevola.»

Terzo piano. Il deposito della Halman consisteva in una grande sala, con i parquet verniciati di grigio e disseminati di pezzi di polistirolo e di carta velina spiegazzata. Al centro della stanza, degli assi appoggiati su cavalletti fungevano da bancone. Sopra c’erano scatole, cesti in plastica, sacchi di tessuto rosa a quadretti con il marchio TATI, custodie per abiti…

Alcuni uomini estraevano dagli imballi mantelli, giacconi, stole. Li palpavano, li lisciavano, verificavano le fodere, poi mettevano i capi su grucce sospese. Di fronte a loro, delle donne con il foulard stretto intorno al capo, la gonna lunga e il viso di corteccia scura sembravano attendere il loro verdetto con aria esausta.

Lo spazio era dominato da un soppalco vetrato e velato da una tenda bianca: un punto ideale per osservare quel piccolo mondo. Senza esitare e senza salutare nessuno, Schiffer afferrò la ringhiera e diede l’assalto ai ripidi scalini che conducevano alla piattaforma.

Giunti in alto, dovettero affrontare un muro di piante verdi, prima di entrare in uno stanzone mansardato, grande quasi quanto la sala inferiore. Le finestre, incorniciate dalle tende, si aprivano su un paesaggio di ardesia e di zinco: i tetti di Parigi.

Il luogo era arredato in modo così pesante che, malgrado le sue dimensioni, ricordava un boudoir dei primi del Novecento. Paul avanzò e colse i primi dettagli. Vide le tovagliette ricamate che ricoprivano il computer, lo stereo e la televisione e che mettevano in risalto le cornici con le foto, i soprammobili in vetro e le grandi bambole annegate nei merletti. I muri erano ricoperti di poster turistici che mostravano le bellezze di Istanbul. Appesi nei vani delle porte, come fossero tapparelle, c’erano dei kilim dai colori vivaci. Le bandiere turche in carta, appese un po’ ovunque, facevano il paio con le cartoline fissate a grappolo con le puntine sulle colonne in legno che sostenevano il tetto.

La parte destra della stanza era occupata da una scrivania in quercia massiccia, mentre nella zona centrale un divano di velluto verde troneggiava su un grande tappeto. Nessuno.

Schiffer si diresse verso un vano nascosto da una tenda di perle e tubò:

«Mia principessa, sono io, Schiffer. Non stare a rifarti il trucco.»

Gli rispose il silenzio. Paul fece qualche passo e osservò da vicino alcune fotografie. In ognuna di esse, una rossa dai capelli corti, piuttosto graziosa, sorrideva al fianco di illustri presidenti: Bill Clinton, Boris Eltsin, François Mitterrand. Senza dubbio era la famosa Tansu Ciller…

Un ticchettio lo fece voltare. La tenda di perle si aprì davanti alla donna delle fotografie, in carne e ossa, solo in versione più massiccia.

Gozar Halman aveva accentuato la propria rassomiglianza con il primo ministro per avere ancora più autorità. I suoi vestiti, tunica e pantaloni neri, appena ravvivati da qualche gioiello, erano un inno alla sobrietà. I suoi gesti e il suo contegno tradivano un distacco altezzoso da donna d’affari.

Il suo aspetto sembrava tracciare intorno a lei una linea invisibile. Il messaggio era chiaro: evitare ogni tentativo di seduzione.

Tuttavia, il viso indicava un atteggiamento diverso, quasi opposto. Era una grande faccia bianca, da luna piena, incorniciata da capelli vermigli, dove gli occhi, truccati con ombretto arancione e brillantini, scintillavano violentemente.

«Schiffer», disse lei con voce rauca, «io so perché sei qui.»

«Finalmente una persona perspicace!»

Gozar sistemò qualche foglio sulla sua scrivania, con noncuranza:

«Immaginavo che prima o poi ti avrebbero tirato fuori dalla naftalina.»

Non aveva un vero accento, solo una leggera oscillazione nel tono che veniva a scuotere il finale di ogni frase e che lei sembrava coltivare con civetteria.

Schiffer fece le presentazioni, abbandonando per l’occasione il suo tono beffardo. Paul sentì che lui e la donna combattevano ad armi pari.

«Che cosa sai?» Chiese lui senza preamboli.

«Niente. Meno di niente.»

Lei si chinò ancora per qualche istante sulla scrivania, poi andò a sedersi sul divano, accavallando piano le gambe.

«Il quartiere ha paura», disse. «Si dicono tante cose.»

«Sarebbe?»

«Voci. Ipotesi contraddittorie. Ho persino sentito dire che l’assassino sarebbe uno dei vostri.»

«Dei nostri?»

«Sì, un poliziotto.»

Schiffer spazzò via quell’idea con il dorso della mano.

«Parlami di Ruya Berkes.»

Gozar accarezzò il centrino che copriva i bracciolo del divano:

«Consegnava i suoi pezzi ogni due giorni. È venuta il 6 gennaio 2002, non l’8. È tutto quello che posso dire.»

Schiffer tirò fuori dalla tasca un quadernetto e sembrò leggervi qualcosa. Paul capì che lo faceva solo per darsi un contegno. La teyze gli stava davvero tenendo testa.

«Ruya è la seconda vittima dell’assassino», continuò lui con gli occhi bassi sulle pagine. «Il corpo che abbiamo ritrovato il 10 gennaio.»

«Che Dio accolga la sua anima», rispose, continuando a giocherellare con le dita intorno al pizzo. «Ma questo non mi riguarda.»

«Vi riguarda tutti. E io ho bisogno di informazioni.»

Il tono saliva, ma Paul sentiva una strana complicità in quel dialogo. Una complicità tra il fuoco e il ghiaccio, che non aveva niente a che vedere con l’inchiesta.

«Non ho niente da dire», ripeté. «Su questa storia il quartiere si chiuderà. Come sulle altre.»

Le parole, la voce, il tono indussero Paul a osservare meglio la donna. Col suo sguardo nero sotto l’oro rosso, fissava il Cifra. Gli fece pensare a delle lamelle di cioccolato ripiene di scorza d’arancia. Ma soprattutto, in quel momento comprese una realtà implicita: Gozar Halman era la donna turca che Schiffer era stato sul punto di sposare. Che cos’era successo? Perché la storia era finita male?

La commerciante di pellicce accese una sigaretta. Lunghe boccate di stanchezza azzurrognola.

«Che cosa vuoi sapere?»

«Quand’è che consegnava i suoi capi?»

«A fine giornata.»

«Da sola?»

«Da sola. Sempre.»

«Sai che strada faceva?»

«Rue du Faubourg-Poissonnière. A quell’ora è piena di gente, se è quello che vuoi dire.»

Schiffer passò ai dati personali:

«Quand’è che Ruya Berkes è arrivata a Parigi?»

«Nel maggio 2001. Non hai parlato con Marius?»

Lui ignorò la domanda.

«Una campagnola, ma aveva conosciuto anche la città.»

«Adana?»

«Prima Gaziantep, poi Adana.»

Schiffer si sporse e sembrò interessarsi a quel dettaglio:

«Era originaria di Gaziantep?»

«Credo di sì.»

Lui prese a camminare per la stanza, sfiorando i soprammobili:

«Alfabetizzata?»

«No, ma moderna. Una che non era schiava delle tradizioni.»

«Girava per Parigi? Usciva? Andava nei locali?»

«Ho detto moderna, non scapestrata. Era musulmana. Tu sai quanto me che cosa significhi questo. In ogni caso, non parlava una parola di francese.»

«Come si vestiva?»

«All’occidentale.»

Poi la sua voce salì d’un tono:

«Schiffer: che cosa stai cercando?»

«Cerco di capire come l’assassino può averla sorpresa. Una ragazza che non esce di casa, che non parla a nessuno, che non ha distrazioni non è facile da avvicinare.»

L’interrogatorio girava a vuoto. Le stesse domande di un’ora prima, le stesse, prevedibili risposte. Paul si avvicinò alla vetrata, dalla parte del laboratorio, e scostò la tenda. I turchi continuavano i loro traffici; il denaro cambiava di mano passando sopra le pellicce acciambellate come animali assopiti.

Alle sue spalle, la voce di Schiffer continuava:

«Qual era lo stato d’animo di Ruya?»

«Come le altre. “Il mio corpo è qui, la mia testa laggiù.” Pensava solo a rientrare al paese, sposarsi, avere dei bambini. Qui viveva in transito. La quotidianità di una formica, piegata sulla sua macchina da cucire, che divideva un appartamento di due stanze con altre due donne.»

«Voglio incontrare le sue coinquiline…»

Paul non ascoltava più. Osservava l’andirivieni al piano inferiore. Quelle manovre apparivano come una sorta di baratto scandito come un rito ancestrale. Le parole del Cifra tornarono a penetrare la sua mente:

«E tu che cosa pensi a proposito dell’assassino?»

Ci fu un silenzio. Abbastanza prolungato per far sì che Paul si girasse di nuovo verso la stanza.

Gozar si era alzata e scrutava i tetti attraverso i vetri.

Senza muoversi, mormorò:

«Penso che sia più… politico.»

Schiffer le si avvicinò:

«Che cosa vuoi dire?»

Lei cambiò tono:

«Dico che l’affare potrebbe andare al di là degli interessi di un solo assassino.»

«Gozar, santo cielo, spiegati!»

«Non ho niente da spiegare. Il quartiere ha paura e io non faccio eccezione. Non troverai nessuno che ti aiuti.»

Paul rabbrividì. Il Moloch del suo incubo, che teneva in pugno il quartiere, gli parve più reale che mai. Un dio di pietra che veniva a cercare le sue prede nelle cantine e nei tuguri della Piccola Turchia.

La teyze concluse:

«L’incontro è terminato, Schiffer.»

Il poliziotto rimise in tasca il suo quadernetto e indietreggiò, senza insistere. Paul gettò un’ultima occhiata alle negoziazioni che si svolgevano in basso.

Fu in quel momento che lo vide.

Un corriere, baffi neri e giubbotto blu Adidas, era appena entrato nello stanzone, tra le braccia una grossa scatola. Il suo sguardo si alzò meccanicamente verso il soppalco. Vedendo Paul, la sua espressione divenne di pietra.

Posò il suo carico, disse qualche parola a un operaio che stava vicino agli appendiabiti, poi indietreggiò fino alla porta. La sua ultima occhiata verso la piattaforma confermò l’intuizione di Paul: la paura.

I due poliziotti raggiunsero la sala in basso. Schiffer si lasciò sfuggire:

«Quanto rompe, quella cretina, con le sue fini allusioni. Turchi del cazzo. Tutti contorti, fuori di testa, tutti…»

Paul accelerò il passo e arrivò sulla soglia. Gettò lo sguardo verso la tromba delle scale: la mano scura filava lungo la ringhiera. L’uomo scappava più in fretta che poteva.

«Venga. Presto», mormorò a Schiffer, che stava arrivando sul pianerottolo.

36.

Paul corse fino alla macchina. Con un solo movimento si sedette al volante e girò la chiave d’avviamento. Schiffer ebbe giusto il tempo di salire a bordo.

«Che cosa succede?» borbottò.

Paul partì senza rispondere. La sagoma aveva appena svoltato a destra, al fondo della rue Sainte-Cécile. Accelerò e girò in rue du Faubourg-Poissonnière, affrontando di nuovo il traffico e la coda.

L’uomo camminava con passo veloce, si infilava tra i corrieri, i passanti, in mezzo al fumo dei venditori di crèpe e di pita, gettando rapide occhiate dietro di sé. Stava risalendo la via in direzione del boulevard Bonne-Nouvelle. Con aria contrariata, Schiffer fece:

«Mi spieghi, sì o no?»

Innestando la terza, Paul mormorò:

«Un uomo, da Gozar. Quando ci ha visto è scappato.»

«E allora?»

«Ha sentito puzza di sbirro. Ha paura di essere interrogato. Può darsi che sappia qualcosa del nostro affare.»

Il «cliente» voltò a sinistra, in rue d’Enghien. Colpo di fortuna: camminava nella direzione delle vetture.

«O forse gli manca solo il permesso di soggiorno», lo sfotté Schiffer.

«Da Gozar? C’è forse qualcuno che ce l’ha? Quello lì ha una ragione speciale per avere paura. Me lo sento.»

Il Cifra appoggiò le ginocchia alla plancia e, con voce sgradevole, chiese:

«Dov’è?»

«Marciapiede di sinistra. Il giubbotto Adidas.»

Il turco continuava a risalire la via. Paul si sforzava di procedere con discrezione. Un semaforo rosso. La macchia blu cangiante si allontanò. Paul immaginava lo sguardo di Schiffer che lo seguiva come il suo. Il silenzio nell’abitacolo assunse uno spessore particolare: si erano capiti, ora condividevano la stessa calma, la stessa attenzione, concentrati sullo stesso obiettivo.

Verde.

Paul partì, lavorando con calma sui pedali, sentendo un calore intenso corrergli su per le gambe. Accelerò, appena in tempo per vedere il turco infilarsi a destra, in rue du Faubourg-Saint-Denis, sempre nel senso della circolazione.

Paul seguì il movimento, ma la strada era bloccata. Chiusa, asfissiata dalla moltitudine che lanciava nell’aria grigiastra il suo rumore di urla e di clacson.

Protese il collo e strizzò gli occhi. Al di sopra delle carrozzerie e delle teste, si sovrapponevano le insegne: ingrosso, ingrosso e minuto, vendita al dettaglio… Il giubbotto Adidas era sparito. Guardò più in là. Le facciate delle case si fondevano nella nebbia dei gas di scarico. In lontananza, l’arco della porta Saint-Denis galleggiava nella luce colma di fumo.

«Non lo vedo più.»

Schiffer aprì il finestrino. L’abitacolo fu invaso dal baccano. Si sporse di fuori con tutte le spalle.

«Più in su», avvertì, «a destra.»

Il traffico si mosse. Il punto blu si staccò da un gruppo di pedoni. Nuova fermata. Paul si convinse che l’ingorgo faceva il loro gioco: procedere a passo d’uomo per seguire qualcuno che cammina…

Il turco scomparve di nuovo, poi si materializzò tra due camioncini che stavano consegnando merce, proprio davanti al caffè Le Sully. Non la smetteva di guardarsi alle spalle. Li aveva notati?

«Se la sta facendo addosso», commentò Paul. «Sa qualche cosa.»

«Non vuol dire nulla. C’è una possibilità su mille che…»

«Mi dia fiducia. Almeno una volta.»

Paul mise la prima. La sua nuca bruciava, il collo del suo parka era umido di sudore. Prese velocità e si ritrovò all’altezza del turco, proprio alla fine di rue du Faubourg-Saint-Denis.

All’improvviso, ai piedi dell’arco, l’uomo attraversò la strada e passò sotto il loro naso senza scorgerli. Accelerando l’andatura, prese il boulevard Saint-Denis.

«Cazzo!» imprecò Paul. «È un senso unico.»

Schiffer si drizzò:

«Parcheggia. Continuiamo a… Merda. Prende il metrò!»

Il fuggitivo aveva attraversato il viale, scomparendo nell’entrata del metrò Strasbourg-Saint-Denis. Paul sterzò bruscamente e fermò la macchina davanti al bar L’Arcade, nella curva che girava intorno all’arco di trionfo.

Schiffer era già fuori.

Paul abbassò l’aletta parasole, sulla quale era impressa la scritta POLICE, poi uscì dalla Golf.

L’impermeabile del Cifra sventolava tra le auto come un orifiamma. Paul avvertì una vampata di febbre. In un attimo captò ogni cosa: il fremere dell’aria, la rapidità di Schiffer, la determinazione che ora li univa.

Zigzagò a sua volta in mezzo al traffico del viale e raggiunse il suo compagno nel momento in cui questi stava scendendo le scale.

I due poliziotti si gettarono nell’atrio della stazione. Sotto la volta arancione si agitava una folla accalcata. Paul fece una panoramica: a sinistra, le cabine vetrate della società della metropolitana, a destra, i pannelli con le linee del metrò, davanti i cancelli automatici.

Il turco non si vedeva.

Schiffer si immerse nella massa dei viaggiatori, facendo uno slalom in direzione delle porte pneumatiche. Paul si alzò in punta di piedi e intravide il loro uomo che girava a destra.

«Linea quattro!» urlò al compagno, invisibile nella calca.

In fondo al corridoio di ceramica risuonava già il sospiro di apertura del metrò. Un’onda di agitazione attraversò la folla. Cosa stava succedendo? Chi era che gridava? Chi spingeva? Tutt’a un tratto, il baccano fu lacerato da un ruggito.

«Le porte, cazzo!»

Era la voce di Schiffer.

Paul si precipitò verso gli sportelli informazioni, alla sua sinistra. Vicinissimo al vetro, ansimò:

«Aprite i cancelli!»

L’addetto della metropolitana si irrigidì:

«Cosa?»

Lontano, la sirena segnalava la partenza del convoglio. Paul stampò il tesserino della polizia sul vetro:

«Porco dio: vuoi aprire le porte sì o no?»

Le barriere si aprirono.

A forza di gomitate e spintoni, Paul riuscì a passare dall’altra parte. Schiffer correva sotto il soffitto rosso che ora gli sembrava palpitare come una gola.

Lo raggiunse sulle scale. Il poliziotto scendeva gli scalini à quattro a quattro. Non erano neanche a metà strada, quando udirono il rumore della chiusura delle porte.

Schiffer urlò senza fermarsi. Stava per raggiungere il binario, quando Paul lo prese per il collo, obbligandolo a fermarsi. Il Cifra restò muto per lo stupore. Le luci delle vetture sfilarono riflettendosi sulle sue rughe. Aveva l’aria di un pazzo.

«Non deve vederci!» gli urlò in faccia Paul.

Schiffer lo fisso di nuovo, sbalordito, incapace di riprendere fiato. Poi, mentre il sibilo del metrò si allontanava, Paul, con tono più sommesso, gli disse:

«Abbiamo quaranta secondi per raggiungere la prossima stazione. Lo becchiamo a Château-d’Eau.»

Si capirono con uno sguardo. Risalirono le scale, attraversarono correndo il viale e si gettarono nella loro auto.

Venti secondi se n’erano andati.

Paul girò intorno all’arco di trionfo, sterzò a destra e, contemporaneamente, abbassò il finestrino. Attaccò il lampeggiatore magnetico sul tetto e, azionando la sirena, si gettò in boulevard de Strasbourg.

Percorsero i cinquecento metri in sette secondi. Giunti all’incrocio con rue du Château-d’Eau, Schiffer fece per uscire. Paul lo trattenne nuovamente:

«Lo aspettiamo qui sopra. Ci sono solo due uscite. Lato pari e lato dispari del viale.»

«Chi ti dice che scenderà qui?»

«Lasciamo passare venti secondi. Se è ancora nel metrò, avremo venti secondi per bloccarlo alla Gare de l’Est.»

«E se non scende alla prossima?»

«Non uscirà dal quartiere turco: sia che voglia nascondersi, sia che voglia avvertire qualcuno. Tutto si svolgerà qui, nel nostro territorio. Dobbiamo seguirlo fino a destinazione. Dobbiamo vedere dove va.»

Il Cifra guardò l’orologio.

«Vai!»

Paul fece un ultimo giro di pista, destra-sinistra, pari-dispari, poi ripartì veloce. Poteva sentire nelle proprie vene le vibrazioni del metrò che correva sotto le sue ruote.

Diciassette secondi dopo si fermava davanti ai cancelli della Gare de l’Est e spegneva la sirena e il lampeggiatore. Di nuovo Schiffer cercò di scendere. Di nuovo Paul ordinò:

«Restiamo qui. Abbiamo sott’occhio quasi tutte le uscite. Quella centrale, sullo spiazzo. A destra quella di rue du Faubourg-Saint-Martin. A sinistra quella di rue du 8-Mai-1945. Tre possibilità su cinque.»

«Le altre due dove sono?»

«Ai lati della stazione. In rue du Faubourg-Saint-Martin e in rue d’Alsace.»

«E se sceglie una di quelle due?»

«Sono le più lontane dalla linea. Gli ci vorrà più di un minuto per raggiungerle. Aspettiamo qui trenta secondi. Se non compare, io la lascio in rue d’Alsace e mi prendo Saint-Martin. Restiamo in contatto con i cellulari. Non può scapparci.»

Schiffer rimase in silenzio. La sua fronte era solcata da rughe di riflessione:

«Come fai a conoscere tutte le uscite?»

Sul volto febbricitante di Paul si aprì un sorriso:

«Le ho imparate a memoria. Per gli inseguimenti.»

Il viso di scaglie grigie gli restituì il sorriso:

«Se il tipo non compare, ti spacco la testa.»

Dieci, dodici, quindici secondi.

I più lunghi della sua vita. Paul squadrava le sagome che, battute dal vento, spuntavano da ogni ingresso del metrò: nessun giubbotto Adidas.

Venti, ventidue secondi.

Nei suoi occhi, il flusso dei passeggeri si spezzava, sobbalzando al ritmo delle sue pulsazioni cardiache.

Trenta secondi.

Innestò la prima e disse:

«La lascio in rue d’Alsace.»

Sgommò, prese rue du 8-Mai a sinistra e sbarcò il Cifra all’inizio di rue d’Alsace, senza lasciargli il tempo di dire nulla. Fece inversione poi, a tavoletta, raggiunse rue du Faubourg-Saint-Martin.

Se n’erano andati altri dieci secondi.

A quell’altezza, rue du Faubourg-Saint-Martin era ben diversa da come si presentava nella sua parte inferiore, lato turco: qui offriva marciapiedi deserti, magazzini ed edifici amministrativi. Una via d’uscita ideale.

Paul osservò la lancetta dei secondi: ogni scatto gli scorticava la pelle. La folla anonima si spezzettava, si perdeva in quella strada troppo vasta. Gettò un’occhiata verso l’interno della stazione. Scorse la grande vetrata che gli fece pensare a una serra botanica piena di germi velenosi e di piante carnivore.

Dieci secondi.

Le possibilità di veder comparire il giubbotto Adidas si riducevano quasi a zero. Pensò ai convogli del metrò che correvano sottoterra, alle partenze delle linee principali e dei treni diretti alle periferie che si disperdevano all’aperto; pensò alle migliaia di volti e di menti che si accalcavano sotto le arcate grigie.

Non poteva essersi sbagliato: era semplicemente impossibile.

Trenta secondi.

Sempre niente.

Il suo cellulare squillò. Sentì la voce gutturale di Schiffer:

«Razza di coglione.»

Paul lo raggiunse ai piedi della scala che taglia a metà la rue d’Alsace per elevarsi al di sopra dell’immensa fossa dei binari. Il poliziotto saltò nella macchina ripetendo:

«Coglione.»

«Tentiamo alla Gare du Nord. Non si sa mai…»

«Fottiti. È andato. L’abbiamo perso.»

Paul accelerò e si diresse comunque verso nord.

«Non avrei mai dovuto darti retta», riprese Schiffer. «Tu non hai nessuna esperienza. Non sai niente di niente. Tu…»

«È là.»

A destra, in fondo a rue de Deux-Gares, Paul aveva visto il giubbotto Adidas. L’uomo camminava spedito lungo la parte superiore di rue d’Alsace, proprio sopra le rotaie.

«Quell’inculato», fece il Cifra. «Ha usato la scala esterna delle ferrovie. È uscito attraverso i binari.»

Tese l’indice:

«Vai diritto. Nessuna sirena. Nessuna accelerazione. Lo becchiamo alla prossima via. Con discrezione.»

Paul scalò in seconda e si mantenne a una velocità di venti chilometri all’ora, con le mani che tremavano. Stavano attraversando rue La Fayette quando il turco spuntò un centinaio di metri avanti a loro. Si guardò intorno e restò pietrificato.

«Merda!» gridò Paul ricordandosi all’improvviso di non aver tolto il lampeggiatore dal tetto.

L’uomo si mise a correre come se l’asfalto avesse preso fuoco. Paul schiacciò l’acceleratore. Il ponte monumentale che si apriva davanti a loro gli apparve come un simbolo. Un gigante di pietra che apriva le sue crociere nere sul cielo in tempesta.

Accelerò ancora e superò il turco a metà della passerella. Schiffer saltò giù che la macchina si muoveva ancora. Paul frenò e nel retrovisore vide Schiffer che placcava il turco come fosse stato un mediano di mischia.

Bestemmiò, spense il motore, uscì dalla Golf. Il poliziotto aveva già afferrato il fuggiasco per i capelli e lo stava sbattendo contro la balaustra del ponte. Paul rivide in un flash la mano di Marius sotto la taglierina. Mai più una cosa del genere.

Estrasse la sua Glock dalla fondina e corse verso i due uomini:

«Fermo!»

Schiffer stava ora spingendo la sua vittima al di sopra della balaustra. La sua forza e la sua rapidità erano stupefacenti. L’uomo col giubbotto batteva mollemente le gambe, bloccato tra due sbarre di metallo.

Paul era certo che lo avrebbe buttato giù. Il fuggitivo urlava, mentre il suo torturatore gli riversava addosso un miscuglio di colpi e di frasi in turco.

Stava per raggiungerli, quando si bloccò.

«BOZKURT! BOZKURT! BOZKURT!»

Le grida del turco risuonavano nell’aria umida. Dapprima pensò a una richiesta di soccorso, ma poi vide Schiffer lasciare la sua vittima e spingerla su un lato del marciapiede, come se avesse ottenuto ciò che voleva.

Il tempo che Paul prendesse le manette e l’uomo se l’era già filata zoppicando.

«Lascialo andare.»

«Co-cosa?»

Schiffer si lasciò cadere sull’asfalto. Si raggomitolò sul fianco sinistro, fece una smorfia, poi si tirò su in ginocchio.

«Ha detto quello che aveva da dire», buttò lì, tra due colpi di tosse.

«Cosa? Cos’è che ha detto?»

Si rialzò in piedi. Era senza fiato e si premeva l’inguine. Il suo viso era violaceo e punteggiato di bianco.

«Abita nella stessa casa di Ruya. Ha visto che prelevavano la ragazza sulle scale. L’8 gennaio, alle 20.»

«Visto chi?»

«I Bozkurt.»

Paul non capiva niente. Si concentrò sullo sguardo blu cromato di Schiffer e pensò all’altro suo soprannome: il Fer.

«I Lupi grigi.»

«I che?»

«I Lupi grigi. Un gruppo di estrema destra. I killer della mafia turca. Abbiamo sbagliato fin dall’inizio. Sono loro che ammazzano le donne.»

37.

I binari si allungavano a perdita d’occhio, senza lasciare pace allo sguardo. Era un groviglio rigido e duro, che imprigionava lo spirito e i sensi. Segni d’acciaio che si incidevano nelle pupille come fili spinati. Scambi che indicavano nuove direzioni senza mai liberarsi dei loro rivetti o dei loro ferri: vie di fuga che si perdevano all’orizzonte, ma che evocavano sempre la stessa sensazione d’ineluttabile radicamento. E i ponti, in pietra grigia o in ferro nero, con le loro scale e le loro balaustre, avviluppavano tutto l’insieme.

Schiffer aveva preso una scala vietata al pubblico ed era arrivato ai binari. Paul l’aveva raggiunto, storcendosi le caviglie sulle traversine.

«Chi sono i Lupi grigi?»

Schiffer camminava senza rispondere, respirando lente boccate d’aria. Sotto i loro piedi rotolavano le pietre nere.

«Sarebbe troppo lungo da spiegare», disse alla fine. «È roba che appartiene alla storia della Turchia.»

«Santo cielo, parli! Lei mi deve delle spiegazioni.»

Il Cifra continuò ad avanzare, con la mano sull’inguine, poi, con voce stanca, cominciò:

«Negli anni Settanta in Turchia c’era la stessa atmosfera surriscaldata che si respirava nel resto dell’Europa. Le idee di sinistra incontravano il consenso di tutti. Si stava preparando una sorta di maggio ’68… Ma là, è sempre la tradizione la più forte. Si creò un gruppo di reazione. Gente di estrema destra, comandata da un uomo che si chiamava Alpaslan Türkes, un vero nazi. Dapprima hanno formato dei piccoli clan nelle università, poi hanno arruolato giovani contadini nelle campagne. Queste reclute si sono fatte chiamare “Lupi grigi”: “Bozkurt”. O anche “Giovani idealisti”: “Ülkü Ocaklari”. Fin da subito, il loro strumento principale è stata la violenza.»

Malgrado il calore del suo corpo, Paul batteva i denti.

«Alla fine degli anni Settanta», proseguì Schiffer, «l’estrema destra e l’estrema sinistra hanno preso le armi. Attentati, saccheggi, omicidi: in quel periodo, si contavano una trentina di morti al giorno. Una vera guerra civile. I Lupi grigi venivano addestrati in appositi campi. Venivano presi sempre più giovani. Li indottrinavano. Li trasformavano in macchine per uccidere.»

Schiffer continuava a procedere a grandi passi lungo i binari. La sua respirazione stava diventando più regolare. Teneva gli occhi fissi su quelle linee lucenti, come se esse indicassero la direzione dei suoi pensieri:

«Alla fine, nel 1980, l’esercito turco ha preso il potere. È tornato l’ordine. Sono stati arrestati i combattenti dell’una e dell’altra parte. Ma i Lupi grigi sono stati rilasciati subito: le loro posizioni erano uguali a quelle dei militari. Solo che adesso erano disoccupati. E quei ragazzi cresciuti nei campi di addestramento sapevano fare una sola cosa: uccidere. Così, logicamente, sono stati assoldati da chi aveva bisogno di killer. In primo luogo dal governo, sempre lieto di trovare qualcuno per eliminare discretamente i leader armeni o i terroristi curdi. Poi la mafia turca, che si stava imponendo nel traffico dell’oppio della Mezzaluna d’Oro. Per i mafiosi, i Lupi grigi erano una manna. Una forza viva, armata, esperta e, soprattutto, alleata con il potere. Da allora i Lupi grigi lavorano a contratto. Alì Agça, l’uomo che ha sparato al papa nel 1981, era un Bozkurt. I più hanno ormai appeso al chiodo le idee politiche e sono diventati mercenari. Ma i più pericolosi sono rimasti dei fanatici, dei terroristi capaci delle cose peggiori. Degli eletti che credono alla supremazia della razza turca e al ritorno del grande impero delle genti di lingua turca.»

Paul ascoltava, stordito. Non coglieva alcun legame tra quelle storie lontane e la sua inchiesta. Finì per buttare lì:

«E sarebbero quei tipi che hanno ammazzato le donne?»

«Quello con il giubbotto Adidas li ha visti che rapivano Ruya Berkes.»

«Li ha visti in faccia?»

«Avevano il passamontagna, erano in tenuta da commando.»

«In tenuta da commando?»

Il Cifra ribatté:

«Sono dei guerrieri, ragazzo mio. Dei soldati. Sono scappati con una berlina nera. Il turco non ricorda né la targa né la marca. Non vuole ricordarsene.»

«Come mai è così sicuro che si tratti dei Lupi grigi?»

«Hanno urlato degli slogan. E poi, hanno dei segni distintivi. Non c’è alcun dubbio in proposito. D’altra parte, combacia con il resto. Il silenzio della comunità. Le riflessioni di Gozar circa un “affare politico”. I Lupi grigi sono a Parigi. E il quartiere muore di paura.»

Paul non riusciva ad accettare un orientamento così diverso, così inatteso, in completa rottura con la sua interpretazione dei fatti. Aveva lavorato troppo a lungo sulla pista dell’unico assassino. Insistette:

«Ma perché una violenza così?»

Schiffer continuava a seguire i binari che brillavano lucidi d’umidità.

«Vengono da terre lontane. Da pianure, da deserti, da montagne dove quel genere di torture è la regola. Tu sei partito da un’ipotesi: quella dell’assassino seriale. Con Scarbon avete creduto di riconoscere nelle ferite inferte alle vittime una ricerca della sofferenza, le tracce di un trauma o chissà che cosa… Ma avete tralasciato la soluzione più semplice: a torturare quelle donne sono stati dei professionisti. Degli esperti formati nei campi dell’Anatolia.»

«E le mutilazioni post mortem? Le lacerazioni sui volti?»

Il Cifra fece un gesto da persona esperta, rotta a ogni crudeltà:

«Uno dei tipi può essere più fuori di testa degli altri. O forse vogliono solo che le vittime non siano identificabili, che non sia riconoscibile il viso che cercano.»

«Che cercano?»

Il poliziotto si fermò e si girò verso Paul:

«Ragazzo mio, tu non hai capito che cosa sta succedendo: i Lupi grigi hanno un contratto. Cercano una donna.»

Frugò nel suo impermeabile macchiato di sangue e gli porse le polaroid:

«Una donna che ha questo viso e che corrisponde a questa segnalazione: rossa, sarta, clandestina, originaria di Gaziantep.»

Paul osservava in silenzio le foto nella mano rugosa.

Ogni cosa prendeva corpo. Ogni cosa prendeva fuoco.

«Una donna che sa qualche cosa e dalla quale devono ottenere una confessione. Già per tre volte hanno creduto di averla tra le mani. E per tre volte si sono sbagliati.»

«Perché questa certezza? Come possiamo essere sicuri che non l’abbiano trovata?»

«Perché se una di queste fosse stata quella buona, avrebbe parlato, credimi. E loro sarebbero spariti.»

«Lei… lei pensa che la caccia continui?»

«Puoi dirlo forte.»

Sotto le palpebre basse, gli occhi di Schiffer brillavano. Paul pensava alle pallottole d’argento, le sole che potevano uccidere un lupo marinaro.

«Hai sbagliato inchiesta, piccolo. Tu cercavi un assassino. Tu piangevi su dei morti. Ma è una donna viva che devi trovare. Decisamente viva. La donna inseguita dai Lupi grigi.»

Fece un ampio gesto verso gli edifici ai lati delle rotaie:

«Lei è là, da qualche parte, in questo quartiere. Nelle cantine. Nelle soffitte. In qualche casa occupata o in qualche centro per immigrati. È inseguita dai peggiori assassini che si possano immaginare e tu sei il solo che può salvarla. Ma devi correre veloce. Molto, molto veloce. Perché quei bastardi sono allenati e nel quartiere fanno il bello e il cattivo tempo.»

Il Cifra prese Paul per le spalle e lo guardò intensamente:

«E visto che le sciagure non arrivano mai sole, c’è un’altra tegola che t’è caduta sulla testa: io sono la tua sola possibilità di riuscita.»